RINNOVO DEL CONTRATTO DEI METALMECCANICI

I sindacati tricolore si “riunificano” nella misera richiesta salariale, ma rispondono innanzitutto alle esigenze del mercato e dei padroni

(«il comunista»; N° 95; Maggio 2005)

 

 

RIUNIFiCAZIONE BASTARDA

 

La piattaforma concordata tra Fim, Fiom e Uilm sulla richiesta salariale del rinnovo contrattuale per il biennio 2005/2006 (scaduto il 31.12.2004) prevede 105 euro lordi di aumento, riparametrati al 5° livello retributivo, più 25 euro nei casi in cui non esistesse la contrattazione aziendale da almeno 8 anni. Questi 25 euro in più sono richiesti come elemento di «solidarietà» per i lavoratori presenti in aziende scarsamente sindacalizzate; ma, appunto per questo, come si farà ad ottenere che i padroni elargiscano in più questi soldi ai loro dipendenti?

La maggior parte dei lavoratori non è inquadrata al 5° livello, bensì al 4° e al 3° e sempre più al 2° (una volta quasi scomparso, ma oggi è il livello in cui prevalentemente vengono inquadrati i giovani con contratto a termine); ciò significa che, tolte le tasse, dei 105 euro ne rimangono, se va bene, rispettivamente 70, 67 e 56, da dividere nell’arco di 24 mesi: una miseria!.

Che queste richieste siano assolutamente lontane dalle reali esigenze dei lavoratori, lo sanno perfettamente gli stessi bonzi sindacali che hanno avuto la spudoratezza di dichiarare - il 15 febbraio scorso davanti a 5000 delegati a Milano - che : «gli operai italiani lavorano in media 160 ore in più all’anno e prendono il 30% in meno di salario rispetto al resto d’Europa…». A conti fatti – se il salario mensile medio di un metalmeccanico è di 1.000 euro circa – nella piattaforma dei Metalmeccanici dovevano richiedere almeno 300 euro di aumento; non solo, ma avrebbero dovuto chiedere anche una forte riduzione dell’orario di lavoro. Quando mai!

 Va denunciato senza mezzi termini il ruolo antioperaio della Fiom-Cgil: questa fa marcia indietro rispetto al precedente contratto che avanzava obbiettivi più rispondenti alle esigenze operaie (i famosi 135 euro uguali per tutti, in opposizione ai 90 euro riparametrati al 5° livello richiesti da Cisl e Uil). Nei fatti, però, li tradiva apertamente al momento di prendere e mantenere le iniziative di lotta per ottenerli e per i quali si era impegnata di fronte ai lavoratori, confermando così la sua natura collaborazionista “particolare” nell’ingannare i proletari.

Ora, Fiom-Cgil si “riunifica” nella presentazione della piattaforma sindacale a Cisl e Uil, dopo due stagioni di contrattazione separata in cui aveva rifiutato di sottoscrivere accordi perché li considerava penalizzanti per gli operai; i numerosi scioperi fatti «a sostegno» di quelle rivendicazioni non strappavano un euro in più di quelli che i padroni avevano già concordato con Cisl e Uil. Quindi la Fiom-Cgil che, nello scorso contratto aveva avanzato un forte aumento del recupero salariale rispetto a Cisl e Uil, non ha fatto ottenere ai suoi iscritti e, in generale, a tutti gli altri nulla. Avendo però trascinato per quasi un anno i lavoratori in scioperi disorganizzati e attuati in maniera impotente a colpire seriamente gli interessi dei padroni, ha ottenuto in realtà un risultato a favore di questi ultimi: demoralizzare ulteriormente gli operai e piegarli alle esigenze padronali, mentre le ore di sciopero fatte si riducevano esclusivamente ad una pura decurtazione salariale.

Come mai la Fiom-Cgil ha abbassato le richieste salariali degli operai, e ridotta la conflittualità?

Per recuperare il rapporto con le altre forze del collaborazionismo sindacale (Cisl e Uil), aumentando così il peso complessivo di questa rinnovata alleanza nei confronti del governo, nella preoccupazione di pover perdere privilegi e posizioni all’interno delle istituzioni dello Stato borghese, e in previsione della gestione dell’enorme torta finanziaria rappresentata dai fondi pensione attraverso l’utilizzo della vecchia liquidazione dei lavoratori. I bonzi sindacali sono sempre più lontani dalla difesa anche solo elementare delle condizioni di lavoro e di salario dei proletari. Un esempio? Essi hanno già dato un colpo mortale alle pensioni, accordandosi con il governo sostenuto dal centro-sinistra nel 1995, riducendole drasticamente (vedi «riforma delle pensioni» del governo “Dini” andata in vigore dal gennaio 1996). Se non è dimostrare concretamente che la linea seguita è del tutto contraria agli interessi dei proletari, ma perfettamente adeguata alla difesa degli interessi padronali, che cos’è?

 

FRAMMENTAZIONE SEMPRE PIU’ ESTESA

 

Continuiamo con la piattaforma dei metalmeccanici: non contenti dell’attuale riparametrazione salariale e dei livelli retributivi nei quali vengono suddivisi i lavoratori, i sindacati tricolore propongono una rinegoziazione dei percorsi professionali “vecchi di trent’anni”; si va così verso un’ulteriore frammentazione salariale sulla base della supposta professionalità o del merito nel lavoro, qualunque esso sia, aumentando ancora di più la concorrenza tra i lavoratori. In questo modo si spezzano maggiormente le possibilità di unione e di solidarietà fra lavoratori, indebolendo ancor più gli operai nel rapporto di forza con il padronato. Attraverso la determinazione di questi premi salariali individuali, il padronato può risparmiare notevolmente sul monte salari generale. Se non è fare gli interessi dei padrone, questo, che cos’è?

La pretesa poi dei sindacati tricolore di ridurre il livello di precarietà del lavoro, e quindi del salario, grazie all’aumento dei contratti a termine e al lavoro tramite agenzie di affitto, è semplicemente assurda oltre che demagogica. Sono stati proprio loro, con gli accordi del luglio 1993 sottoscritti insieme col governo e i padroni, a dare il via al lavoro interinale che in Italia non esisteva – almeno non in forma legale –, giustificandolo fra i lavoratori come un’occasione per i disoccupati di «trovare lavoro». L’occasione, in realtà, è stata colta dai padroni che hanno potuto sfruttare più intensamente la forza lavoro grazie al maggiore ricatto imposto attraverso quei contratti a termine che contengono nel già il licenziamento e allungano il «periodo di prova» praticamente a tutta la vita o quasi. In questi contratti si ponevano delle regole, all’inizio, che sono poi risultate scardinate completamente dai padroni e dal governo con le successive modifiche. I sindacati tricolore non potevano non sapere che, aprendo quella «finestra», prima o poi i padroni sarebbero entrati dalla «porta principale» alla quale miravano fin dall’inizio.

Ed ora, dopo aver approfittato di questa ulteriore flessibilità del mercato dei lavoratori, che diventano così più a buon prezzo, nell’esigenza di trovare manodopera ancora più sfruttabile e meno costosa, le aziende delocalizzano le loro produzioni, nei paesi dell’Est europeo o in Estremo Oriente, senza preoccuparsi minimamente di mandare in malora i lavoratori dell’osannata patria. Alla faccia dei collaborazionisti sindacali che hanno fatto accordi al ribasso credendo di “salvare” in un colpo solo le aziende e i posti di lavoro degli operai ai quali hanno fatto forzatamente digerire quegli accordi.

 

VOTO PALESE IN ASSEMBLEA, NO REFERENDUM

 

Infine, il nuovo accordo sul “referendum” a scrutinio segreto fatto tra le tre confederazioni sindacali per scongiurare «accordi separati»; questo è un patto tra collaborazionisti che sulla base della conta dei voti ricevuti decideranno di firmare tutti e tre, sopra le teste dei lavoratori, la miseria degli aumenti e altre deliziose misure imposte dai padroni.

Che il metodo del “referendum”, per di più a scrutinio segreto, sia da rigettare completamente è atteggiamento classista, ossia quell’atteggiamento che mette gli operai non solo al centro della lotta e delle decisioni che la lotta richiede vengano prese, ma nelle condizioni di massima chiarezza nei rapporti di forza con le controparti e nei rapporti fra gli stessi proletari. Deve essere sempre chiaro a tutti chi è d’accordo e chi no, e perché, rispetto alle cose da rivendicare e alle forme di lotta per ottenerle; è, oltretutto, un modo per impedire manovre sottobanco.

Il “referendum” è uno strumento costruito apposta per non permettere una discussione aperta tra gli operai sulle proposte dei bonzi sindacali, delegando l’eventuale adesione o meno a quelle proposte ad un atto del tutto burocratico e formale. Quel che è fruttuoso per ogni lotta operaia di difesa delle condizioni di vita e di lavoro è la diretta partecipazione alle discussioni e alle decisioni che riguardano tutti i lavoratori. Le assemblee operaie sono il luogo giusto per il confronto diretto fra tutti i lavoratori, in cui avanzare argomenti pro o contro, critiche ed anche il rifiuto, e dove si misura la forza, la tenuta, la capacità dei delegati nell’essere coerenti con la difesa degli esclusivi interessi operai. Nelle assemblee vi è anche la possibilità che gli elementi più combattivi e determinati della classe possano influenzare e incoraggiare positivamente i loro compagni di lavoro, contribuendo così a rafforzare la posizione degli operai contro le posizioni padronali che possono sempre contare, all’esterno, sull’appoggio degli altri padroni, delle istituzioni, della polizia, ecc. e, all’interno, sui collaborazionisti e sui crumiri.

Il voto segreto è sicuramente negativo per i proletari, perché è di fatto incontrollabile, e può facilmente essere pilotato da brogli di ogni genere. Il voto palgse (per alzata di mano), al contrario, è sempre più controllabile, quindi preferibile (anche se può essere manovrabile dai professionisti della demagogia del bonzume sindacale ), perché, oltre che ­­­­­permettere la discussione aperta, il confronto diretto tra i lavoratori, e la conoscenza di chi è titubante e di chi è dalla parte del padrone, abitua i proletari ad interessarsi in prima persona della loro condizione togliendo il monopolio delle piattaforme rivendicative, delle trattative e degli accordi ai professionisti del collaborazionismo sindacale. Il voto palese in assemblea dà la possibilità di controllare la votazione effettivamente svolta (anche se in un ambito ristretto di un’azienda o di un reparto, perché al di fuori di questi il sindacato tricolore può comunque manovrare a suo favore eventualmente il risultato reale delle votazioni). Un obiettivo importante della lotta operaia è certamente quello di rafforzare l’unione delle forze operaie, anche se in partenza si tratta di un reparto o di una azienda; quello di rendere più compatta la risposta operaia agli attacchi del padronato. Conoscere chi è più titubante rispetto alle posizioni più classiste o addirittura dalla parte dei padroni, dà la possibilità agli operai più combattivi di utilizzare tutta la propria influenza per rispondere alle titubanze e neutralizzare coloro che seminano demoralizzazione, disunione, disorganizzazione. Col metodo delle schede, sulle quali tracciare dei sì o dei no, non si diffonde partecipazione, non si chiama alla vera responsabilità rispetto alle lotte, si diffonde al contrario distacco, disinteresse, demotivazione.

 

AUMENTI SALARIALI: PIU’ ALTI PER LE CATEGORIE PEGGIO PAGATE

 

La piattaforma sindacale per i metalmeccanici, così misera nelle richieste salariali, è il risultato della condivisione da parte dei bonzi sindacali delle preoccupazioni padronali per la crisi di mercato e per il calo dei profitti. I collaborazionisti intendono «farsi carico» delle difficoltà che incontrano le aziende nel vendere le loro merci moderando le richieste salariali; assieme ai padroni, mentre esagerano le conseguenze immediate della crisi, agitano continuamente lo spauracchio della perdita del posto di lavoro nel tentativo di convincere i più riottosi ad accettare condizioni di lavoro ancora più precarie, più flessibili, e salari sempre più di fame.

Quando mai il posto di lavoro è stato garantito piegandosi alle esigenze del mercato e alle “soluzioni” padronali e governative? Mai! Soltanto la lotta, unificante, determinata, fuori delle esigenze aziendali, al di sopra delle categorie e delle singole fabbriche, combattendo costantemente contro la concorrenza tra proletari che viene alimentata dalle organizzazioni padronali e dai collaborazionisti del sindacato tricolore, può difendere il salario, anche quando il posto di lavoro è messo seriamente in pericolo.

Avere un posto di lavoro non significa avere un salario sufficiente per vivere decorosamente; questo, ogni operaio lo sa perfettamente. Dunque, il salario è la voce più importante delle rivendicazioni operaie in ogni momento, e in particolare nei periodi di rialzo del costo della vita.

Ma come affrontano il problema del salario le piattaforme dei sindacati tricolore? Gli aumenti maggiori sono richiesti sistematicamente per le categorie più alte, quelle che hanno condizioni di lavoro meno pesanti e un salario più alto rispetto alla maggioranza dei lavoratori. La sperequazione salariale non unisce, ma divide; la meritocrazia non unisce, ma divide; la maggioranza dei proletari non fa parte delle categorie più alte, ed è quella che in ogni rinnovo contrattuale ci perde di più. I sindacati tricolore prendono sì i soldi da ogni iscritto (tra l’altro attraverso le mani dei padroni), ma rappresentano in realtà solo gli interessi di quella che noi definiamo “aristocrazia operaia”, ossia quegli strati operai più facilmente corruttibili da parte del padronato, più favoriti e privilegiati e che il padronato - aiutato direttamente dalla politica collaborazionista dei sindacati – usa sistematicamente contro la maggioranza degli operai, diffondendo tra di loro l’idea che solo condividendo con i padroni le loro difficoltà aziendali sia possibile ottenere qualche vantaggio, magari solo a livello individuale.

I padroni, in fondo in fondo, se ne infischiano della moderazione salariale offerta dai sindacati tricolore – i quali si vantano di aver rispettato gli accordi del Luglio 1993, attenendosi alle regole pattuite e usando il bilancino per il calcolo della differenza tra l’inflazione «programmata» dal governo e quella «ufficiale» secondo gli indici dichiarati dall’Istat – e affermano senza esitazioni di essere disponibili a trattare al massimo sul 50% dell’aumento salariale chiesto dai sindacati, oltretutto in cambio di un ulteriore aumento della flessibilità dell’orario di lavoro!

 

COMBATTERE CONTRO LA CONCORRENZA FRA PROLETARI

 

Quanto alla concorrenza «straniera» alle merci prodotte in Italia, e alle conseguenze che questa concorrenza comporta sull’economia delle aziende, i sindacati confederali offrono il loro peso, la loro intelligenza, la loro influenza per una “alternativa”, e cioè che i prodotti italiani siano più specializzati degli altri concorrenti, siano più innovativi, più qualitativamente elevati, più tecnologicamente avanzati: tutto ovviamente all’insegna del battere la concorrenza sul piano internazionale , dando a credere che in questo modo si possano salvare i posti di lavoro senza abbattere il potere d’acquisto dei lavoratori in Italia. Lo stesso discorso viene fatto da tutti i sindacati collaborazionisti in tutti i paesi, come in ogni paese i capitalisti le provano tutte per “battere la concorrenza”; che cosa ne ricavano i proletari romeni, indiani, cinesi, pakistani, turchi o marocchini? Se i salari di molti operai italiani non bastano per arrivare alla fine del mese, per i proletari dei paesi meno sviluppati capitalisticamente è peggio ancora: per un salario miserrimo vendono la loro disgraziata vita ai capitalisti della concorrenza, o vengono a venderla qui da noi accettando condizioni di lavoro e di vita bestiali. I sindacati collaborazionisti sono due volte traditori: non difendono gli interessi proletari né nell’immediato né tantomeno nel lungo periodo, e non combattono – se non a parole - la concorrenza fra proletari, grazie alla quale i capitalisti ottengono surplus di profitti, sia in modo legale che in modo illegale.

Il padronato, grazie soprattutto alla libertà concessagli dalla legge con i nuovi contratti a termine, può arrivare ad esempio a licenziare senza un giustificato motivo alcuni lavoratori per riassumerne degli altri subito dopo, e senza che ci sia un visibile calo del lavoro da svolgere; la nuova legge Biagi permette una straordinaria selezione del personale e, quindi, una tremenda pressione attraverso il ricatto del posto di lavoro e del salario, anche se misero, che gli corrisponde. Il proletario che accetta condizioni peggiorative “vince” la concorrenza con gli altri proletari: a questa guerra tra sfruttati ha portato il collaborazionismo sindacale! Invece di rafforzare la difesa delle condizioni di tutti gli operai, e attirare in questa difesa i proletari più deboli e gli immigrati, l’opera dei sindacati tricolore non fa che aumentare la pressione capitalistica su tutta la classe operaia, e in particolare sulle categorie più disagiate e meno organizzate.

Nella riduzione drastica del salario rispetto al costo della vita in continuo aumento, in questi ultimi anni ha giocato molto il collegamento del salario all’ aumento della produttività – che è il padrone a stabilire di volta in volta –; grazie agli accordi di Luglio 1993, il sindacato tricolore insieme con il padronato e il governo decidono la quota salariale, via via sempre più consistente, che viene legata direttamente alla produttività. Aumento della produttività, e non aumento dell’organico, significa sempre aumento dello sforzo lavorativo individuale, ritmi e intensità di lavoro aumentati nella stessa unità di tempo; se poi, come succede spessissimo, aumentano anche le ore individuali di lavoro, lo sforzo di lavoro richiesto agli operai è particolarmente duro.

In periodo di mercato favorevole, e di maggiore produzione, gli operai che lavoravano di più riuscivano in qualche modo a mantenere il passo con il caro vita. Ma quando è arrivata la crisi del mercato, e la conseguente contrazione degli ordinativi, in molte aziende il padronato ha cominciato a ridurre o togliere completamente questa voce salariale che era solo una “Una Tantum” contrattata col sindacato annualmente. La conseguenza immediata è che il salario si è ridotto drasticamente. E ciò dimostra quanto denunciamo da sempre: senza gli incentivi di produttività definiti esclusivamente dai padroni, e senza un salario base contrattato aldilà degli incentivi di produttività, il salario operaio diminuisce automaticamente.

Ma la contrattazione sul salario base, sugli aumenti stabili in busta paga la si fa con la lotta, che deve diventare più dura in tempo di crisi perché i capitalisti per principio non concedono nulla se non sono costretti.

La piattaforma contrattuale dei sindacati confederali sancisce il fatto che i proletari devono vivere al di sotto di un certo tenore di vita, perché «il mercato» non consente di più. Per stare al passo con il rialzo del costo della vita, avrebbero dovuto chiedere almeno 300 euro di aumento salariale, riparametrandoli al contrario rispetto alle abitudini attuali della contrattazione sindacale, ossia in modo che i livelli di retribuzione più bassi e peggio pagati avessero un aumento maggiore dei livelli più alti e meglio pagati.

Questi sindacati non riusciranno, neanche «riunificati», a raggiungere gli aumenti che essi stessi hanno scritto nella piattaforma. Come nella loro tradizione demagogica, l’hanno infarcita di «salvaguardia della professionalità» delle categorie meglio pagate e delle «compatibilità» con le esigenze di carattere aziendale, ma la caratteristica pratica del loro operato sarà per l’ennesima volta calare le brache di fronte al mercato e alle esigenze dei profitti aziendali. Da vera sanguisuga, il sindacato tricolore vive ormai solo del sangue degli operai, senza far nulla per difenderli ma, al contrario, adoperandosi per conciare la loro pelle già martoriata.

 

NO AL COLLABORAZIONISMO SINDACALE, SI’ AL METODO CLASSISTA DI LOTTA

 

Sebbene non vi sia ancora una crisi di mercato drammatica per i suoi affari, la classe borghese ha tutto l’interesse ad abituare i proletari ad accettare un salario inferiore, un peggioramento generalizzato delle loro condizioni di vita e di lavoro. A questo fine sono anni che le organizzazioni sindacali collaborazioniste in realtà lavorano, ma in tempi in cui la concorrenza capitalistica mondiale si fa più spietata, viene loro imposto dai rapporti di forza padronali di adeguarsi più velocemente e di far sì che i proletari accettino, col minor tasso conflittuale possibile, queste nuove condizioni se vogliono continuare ad avere un ruolo nella società del mercato e ad essere legittimate dai padroni e dal governo.

I proletari sanno ormai che dal sindacato collaborazionista non possono aspettarsi nulla di buono; molti però sperano che la sua mediazione attenui e fermi il peggioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro. I proletari sanno, per esperienza, di aver bisogno di un’organizzazione sindacale perché da soli sono troppo deboli; il fatto è che anche quando l’organizzazione sindacale cui si è iscritti dimostra più e più volte di non essere affidabile, di «lavorare contro», di essere più d’accordo coi padroni che con gli operai, è difficile abbandonarla. Si sarebbe del tutto scoperti, alla mercé dei padroni e dei dirigenti d’azienda, soli contro il mondo; e allora si cerca un’organizzazione sindacale “alternativa”, già costituita ed operante. Abituati per troppo anni a non dover impegnarsi direttamente nell’organizzazione delle lotte, a delegare ai «sindacalisti professionisti» ogni anche piccola questione, oggi è ancor più difficile cambiare abitudine, cambiare metodo e coinvolgersi personalmente.

Eppure è questa la strada da percorrere per una difesa efficace delle proprie rivendicazioni. Bisogna porsi nelle condizioni di contribuire direttamente ad una nuova organizzazione sindacale, che si differenzi nettamente dal collaborazionismo sindacale sia sul piano delle rivendicazioni e delle priorità, sia sul piano dei mezzi e dei metodi di lotta. Nelle esplosioni di lotta che comunque si verificano, nonostante l’opera di pompieraggio sistematico dei sindacati tricolore, i proletari non riescono ancora a fare un importante salto di qualità, cioè a fare a meno della «copertura» del sindacato collaborazionista e della sua opera nefasta di mediazione: è questa vera e propria dipendenza che contribuisce in modo sostanziale a fallire l’obbiettivo della lotta. Ma sganciarsi dalla tutela del collaborazionismo sindacale è vitale se si vuole che le proprie lotte abbiano un minimo di probabilità di successo; il che significa agire sul terreno classista (ossia sul terreno dell’esclusiva difesa degli interessi proletari, al di fuori delle compatibilità aziendali) con metodi classisti (ad esempio riconquistando il metodo delle assemblee nelle quali discutere e decidere obiettivi, forme di lotta e delegati alla trattativa) e con mezzi di classe (mobilitazioni e scioperi che non si facciano condizionare a priori dalle regolamentazioni esistenti e finalizzate a deprimere l’azione di lotta proletaria).

Il collaborazionismo sindacale dà priorità al negoziato, alla concertazione tra le «parti sociali»; di fatto tende a conciliare gli interessi padronali con quelli operai prima ancora di saggiare la volontà e la capacità di lotta degli operai. Il metodo classista di lotta dà priorità alla difesa delle condizioni di vita e di lavoro operaie, alla lotta necessaria per una loro difesa efficace, all’organizzazione di questa lotta, alla sua compattezza, alla sua tenuta e al suo successo, accettando ciò che la realtà sociale esprime da ogni poro: l’uso della forza. Il collaborazionismo sindacale dà priorità all’organizzazione del lavoro, agli investimenti delle aziende, al suo ruolo di mediatore fra padroni e operai, e utilizza la propria legittimazione che i potere costituiti hanno sottoscritto per influenzare i proletari ad accettare le esigenze aziendali e, più in generale, le esigenze dell’economia nazionale. Il metodo classista di lotta dà priorità alle rivendicazioni operaie di base, vitali e unificanti, come il salario, l’orario di lavoro, la difesa dalla nocività, le misure di sicurezza sul posto di lavoro: le esigenze dei proletari ben separate dalle esigenze aziendali.

E’ nel rapporto di forza fra proletari e padroni che si decide il successo delle rivendicazioni operaie. Ogni conquista che si strappa al padronato (o all’ente pubblico imprenditore) è più duratura se è stata raggiunta con la lotta, decisa organizzata e compatta. Ma ogni singola conquista sindacale è caduca, perché i rapporti di forza sociali cambiano continuamente, perché le condizioni della lotta cambiano, perché le tattiche padronali e istituzionali cambiano. Ecco perché l’organizzazione sindacale operaia deve essere caratterizzata da piattaforme e metodi che rispondano costantemente alle esigenze della lotta di classe. Se le piattaforme e i metodi sindacali sono caratterizzati dalla conciliazione sociale, dalla concertazione fra le parti, gli operai sono esposti costantemente al ricatto padronale senza la possibilità di rispondere nell’immediato e con la forza necessaria perché il ricatto non passi.

Il metodo classista di lotta sostiene ogni rivendicazione operaia ad orizzonte ampio, tendente a superare la frammentazione fra categorie, livelli, età, sesso, nazionalità, unificando nella lotta tutti gli operai; ma nella consapevolezza che ogni rivendicazione operaia è parziale, limitata nel tempo e nello spazio, e pur se ottenuta può essere rimangiata prima o poi dai capitalisti (come avviene sistematicamente), il metodo classista di lotta mette al centro del suo operare la solidarietà di classe fra proletari, unico efficace strumento per combattere la concorrenza fra operai e togliere così al nemico di classe una potentissima arma di difesa dei suoi privilegi e del suo dominio sociale. 

L’estrema precarizzazione del lavoro si trasforma, nella sua estensione, in un potente ammortizzatore sociale a basso costo, e il sindacato tricolore invece di combatterla la vuole «regolamentare». L’aristocrazia operaia diventa sempre più il perno della politica confederale attraverso la quale influenzare tutti gli altri proletari perché accettino i peggioramenti imposti dal “mercato”; in cambio, gli strati più privilegiati della classe operaia potrà contare su condizioni di lavoro meno dure e su un salario più alto. Questi sono due fattori destinati a diventare fondamentali per la politica sindacale opportunista: da una parte, si normalizza la frammentazione della classe proletaria in migliaia di tipologie lavorative le une separate dalle altre; dall’altra parte, si mettono al centro degli interessi della lotta sindacale le esigenze degli strati privilegiati della classe operaia, strati appositamente blanditi, corteggiati e appoggiati dal padronato e dai collaborazionisti per la loro funzione conservatrice e conciliatrice. Non è un caso che in questi strati della classe operaia si sedimentano pregiudizi tipici della piccola borghesia, legati al razzismo, all’individualismo, alla meritocrazia, all’aziendismo, tutti pregiudizi che si mettono di traverso e contro l’unità della classe operaia, la solidarietà nella lotta e l’internazionalismo.

La solidarietà tra proletari al di là delle barriere regionali e nazionali è la via per non immiserire ulteriormente nelle proprie condizioni di vita. Le gabbie salariali non le hanno inventate gli operai, se le sono inventate i padroni e i collaborazionisti sindacali. E, sebbene sui pezzi di carta le gabbie salariali erano state “superate”, nella realtà sono sempre esistite, e oggi sono destinate a tornare in auge tanto più con le nuove ondate migratorie dal Sud al Nord Italia. I salari di fame che i capitalisti pagano agli operai immigrati da altri paesi non se li sono inventati gli operai; fanno parte di quella «libera contrattazione» tra padroni e operai che caratterizza questa società di sfruttatori e sfruttati, che i collaborazionisti sindacali accettano passivamente, tendendo caso mai a parteggiare per l’operaio italiano rispetto all’operaio immigrato, mai a lottare perché siano trattati e pagati alla stessa maniera. Fare convegni sulle condizioni di vita e di lavoro e sulla disperazione nei paesi arretrati dai quali provengono gli immigrati, clandestinamente o meno, non vuol dire fare «internazionalismo proletario»; la solidarietà fra proletari la si dimostra coi fatti, con le rivendicazioni e con la lotta. I proletari dei paesi più civili, più capitalisticamente avanzati, e quindi più spietatamente disumani, hanno un vantaggio storico sui loro fratelli di classe dei paesi capitalisticamente più giovani e più deboli: sono più istruiti e hanno una più lunga tradizione di lotta alle spalle. Attirando i giovani e disperati proletari d’Africa, d’Asia, d’America, sul terreno della lotta di classe non solo rafforzano il fronte proletario perché combattono la concorrenza fra proletari, ma “istruiscono” alla lotta di classe i proletari immigrati che si adopereranno, tornando ai loro paesi d’origine, ad importare esperienze e tradizioni classiste a difesa delle condizioni di vita e di lavoro nei loro paesi. Non agire in questa prospettiva, per i proletari italiani, e per i proletari di tutti i paesi industrializzati, significa accettare supinamente la concorrenza sempre più spietata fra proletari, in virtù della quale – oltretutto – nessun proletario, nemmeno l’italiano, è più “garantito” nel tenore di vita e nel posto di lavoro. La dimostrazione l’abbiamo sotto gli occhi: la delocalizzazione delle industrie, da un lato, e l’utilizzo sempre più esteso di proletari immigrati, dall’altro, sta comportando l’abbattimento costante del potere d’acquisto dei salari italiani.

 

INDIRIZZO DI CLASSE NON SOLO PER I METALMECCANICI, MA PER TUTTI GLI OPERAI

 

Il motivo per cui i proletari continuano a perdere ulteriore terreno rispetto alle loro esigenze sono direttamente proporzionali all’aumento progressivo della loro frammentazione, alla concorrenza sempre più aspra che mina le basi di una qualsiasi unità e quindi della loro reale forza da opporre al padrone.

Ecco perché l’organizzazione di classe, che i lavoratori devono ricostituire, deve avere come caratteristica essenziale l’unificazione dei proletari; e questa unificazione la si raggiunge fissando obiettivi di lotta che nella sostanza accomunino la grande maggioranza dei proletari, e la si raggiunge utilizzando mezzi di lotta il più possibile incisivi. Un obiettivo di lotta unificante, ad esempio, è l’aumento di salario più alto per le categorie a livello salariale più basso; o il salario di disoccupazione per i proletari che sono stati espulsi dalla produzione e ai quali non viene dato un altro posto di lavoro. E per quanto riguarda la durata della giornata lavorativa, in contrapposizione alle tendenza padronale di allungare sempre di più l’orario giornaliero di lavoro, in cui assorbire una parte delle ore straordinarie fissate nei precedenti accordi contrattuali, l’obiettivo unificante di base è la diminuzione drastica della giornata lavorativa a parità di salario abbinato al no allo straordinario. Le 35 ore, di cui si riempivano la bocca i falsi estremisti, che fine hanno fatto? Non sono obiettivi facili da conquistare, è indubbio. Ma la lotta di classe serve appunto per ottenere obiettivi che i padroni non concederebbero mai né spontaneamente, né per convenienza politica temporanea (come per le 35 ore in Francia, addirittura legge, ma mai applicata).

Sugli esempi più recenti degli autoferrotranviari (ATM di Milano), e degli operai di Melfi (Fiat), il mezzo di lotta più incisivo si è dimostrato lo sciopero che non tiene conto del preavviso anticipato dell’inizio della lotta o del suo termine, come invece da anni ci hanno abituati i sindacati tricolore perché intendevano favorire le precauzioni che i padroni mettono in atto in queste occasioni, e ridurre lo sciopero da arma formidabile in mano agli operai ad arma spuntata e impotente.

Sciopero senza preavviso, sciopero ad oltranza, picchetti per tenere fuori i crumiri; assemblee sotto il diretto controllo degli operai dove prendere tutte le decisioni in merito alle trattative e ai metodi di lotta da attuare, delegati eletti direttamente nelle assemblee dei lavoratori per trattare con i padroni ma revocabili in qualsiasi momento dalle stesse assemblee se dimostrano di non essere all’altezza del compito o di deviare dagli interessi degli operai e dalle direttive decise; lotta in piedi anche durante le trattative, questi sono alcuni passi fondamentali che la classe operaia dovrà necessariamente fare per non piegare ulteriormente la schiena e la testa rispetto alla crisi del capitale che avanza inesorabile, e all’aggressione sempre più spavalda dei capitalisti alle condizioni di vita e di lavoro proletarie.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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