Caravanserraglio elettorale
(«il comunista»; N° 99; Febbraio 2006)
Il circo elettorale si è rimesso in moto per l’ennesima volta. Da tempo i
programmi dei partiti non sono ritenuti determinanti e nessuno ha l’intenzione
di far conoscere in modo preciso i propri programmi. La concorrenza avviene a
colpi di slogan ed ogni schieramento - data l’importanza che ha assunto la
televisione sul piano della comunicazione - si preoccupa di partecipare ai più
diversi e insulsi programmi televisivi con i propri mezzi busti più
presentabili.
La concorrenza fra i partiti parlamentari, e fra quelli che aspirano ad un
posto in parlamento, si svolge tutta su promnese che sistematicamente non
vengono mantenute. Questo, in fondo in fondo, la grandissima parte degli
elettori in cuor suo lo sa. Resta però quella strana speranza di elettori
rassegnati a subire menzogne e angherie a tutto spiano, con la quale si
augurano che i prossimi candidati a governare siano meno truffaldini dei
precedenti.
Come spesso accade nell’ambiente democratico, nel quale domina l’apparenza,
il formalismo, la superficialità, gli elettori si trovano a dover «scegliere»
di votare non in base a programmi di governo chiari e definiti, ma in base a
volti accattivanti, personaggi della televisione, del cinema, della cultura,
della scienza, del bosco e del sottobosco della politica borghese. Candidati
che, invece di usare argomenti di vendita atti a imbonire i teleutenti nelle
loro televendite di materassi o di coltelli, usano argomenti di vendita volti a
suscitare simpatia e fiducia. Al posto di: «comprereste un’auto usata da lui?»,
facendo vedere la faccia di qualcuno, ci mettono: «fatevi rappresentare da lui,
in parlamento e al governo, ne avrete un sicuro beneficio!».
Col tempo, le tornate elettorali sono diventate sempre più un caravanserraglio,
dove acquirenti e venditori si confondono continuamente alla ricerca di
concludere un affare. E, come vuole la legge del capitale, gli affari li fanno
coloro che hanno in mano il potere economico e politico; gli elettori rimangono
sistematicamente bastonati. E tra gli elettori, i proletari si distinguono per
perdere più di tutti gli altri perché la loro unica vera forza sta
nell’unificazione di classe e nella lotta in difesa dei propri interessi di
classe, immediati prima ancora che futuri.
I proletari, a loro volta stratificati in diverse fasce salariali, da quelli che sono pagati bene, molto più degli altri e che formano l’aristocrazia operaia, a quelli che hanno la vita appesa ad un filo, disoccupati e precari cronici, rifiutati sistematicamente da quel «mondo del lavoro» di cui cianciano sindacalisti, sociologhi e politici di ogni risma; i proletari, dicevamo, durante le campagne elettorali vengono riesumati:ci si dimentica di loro fino a quando non si avvicinano le elezioni, e allora la caccia al voto diventa per tutti i partiti democratici la priorità, la cosa più importante. Ed ’ ovvio, visto che per la maggioranza dei candidati dai voti che prendono dipendono le loro fortune politiche ed economiche.
La Repubblica italiana compie sessant’anni; il bilancio che i proletari
possono tirare di questi sessant’anni è davvero molto scarso. Sì, certo, molti
ormai hanno frigorifero, televisione, riscaldamento, e casa di proprietà; ormai
tutti o quasi sono forniti di telefonino e molti di computer. Il benessere
sembrerebbe non solo raggiunto ma consolidato. Questo è quel che ci raccontano
giornali e televisione, e soprattutto il governo Berlusconi che insiste
nell’affermare che non è vero che in Italia la maggioranza della popolazione
arriva difficilmente alla fine del mese, e che un quarto di essa o quasi vive
alla soglia della povertà.
In questi sessant’anni abbiamo assistito alla ricostruzione postbellica,
all’espansione dell’economia, alla trasformazione dell’economia del paese da
agricolo-industriale in industriale, alle inesorabili crisi economiche, a fasi
si recessione sempre più ravvicinate e di durata sempre più lunga. Le lotte con
le quali i proletari, pur guidati e influenzati dal collaborazionismo tricolore,
hanno ottenuto dei miglioramenti negli anni Sessanta, non sono state in grado
di difendere quei miglioramenti dagli anni Settanta in poi. Dalla crisi del
capitalismo internazoionale del 1973-75, i proletari sono stati
sistematicamente spoliati delle conquiste raggiunte nel periodo precedente, sia
in termini salariali che in termini normativi. Non sono certo mancate le
tornate elettorali in tutti questi anni, anzi, tra politiche, europee,
amminisrtrative e referendum di ogni sorta, non passzava anno che non ci fosse
un appuntamento elettorale. I governi si sono alternati, tra centro-sinistra e
centro-destra, ma le condizioni di vita e di lavoro proletarie non sono
migliorate, anzi sono progressivamente peggiorate. Semmai, sono stati i governi
di centro-sinistra ad aprire la stagione dei sacrifici per i proletari,
abbattendo uno dopo l’altro gli ammortizzatori sociali esistenti che avevano
assicurato al capitalismo italiano la partecipazione del proletariato alla
ricostruzione postbellica e a cicli di profitto sempre più vorticosi: dalla
mobilità e flessibilità del posto di lavoro e dell’orario alle nuove forme di
precarietà, dalla scala mobile alla nocività e alla sicurezza sul lavoro, dalle
pensioni all’età pensionabile, fino a ridurre la gioventù proletaria di oggi in
condizioni di massima incertezza del proprio futuro.
Che cosa hanno ottenuto i proletari dai vari governi che si sono succeduti?
Una vita più incerta, più misera, non soltanto per gli operai anziani, già pensionati o vicini alla pensione, ma anche per i propri figli. La razza dei proletari è condannata ad un peggioramento progressivo delle condizioni di vita e di lavoro!
E la razza dei padroni? Questi macinano profitti a mani basse e la
sudditanza del collaborazionismo sindacale e politico li stimola a diventare
sempre più arroganti e cinici. 3-4 operai muoiono sul lavoro ogni giorno: e non
si fa nulla sul piano delle misure di sicurezza, anzi i sindacati tricolore
hanno sottoscritto norme che di fatto gettano la responsabilità degli infortuni
e delle morti in ambiente di lavoro sui lavoratori stessi. Il costo della vita
è aumentato di due-tre volte, e non secondo il paniere dell’Istat che è
concepito per ottenere statistiche favorevoli ai governanti, ma secondo i beni
necessari a vivere giorno per giorno: e nulla viene fatto per contrastare il
rialzo arbitrario dei prezzi che i commercianti applicano nella loro costante
ricerca parassitaria di guadagno, e tantomeno da parte dei sindacati tricolore
che sono lontani mille meglia dall’organizzare lotte efficaci per ottenere
aumenti di salario adeguati al rialzo del costo della vita.
I padroni hanno tutto l’interesse che i proletari deleghino sindacalisti e
politici a rappresentare i loro interessi; nella misura in cui i sindacalisti e
i politici funzionano come lunga mano del capitale nelle file proletarie, i
capitalisti hanno tutto l’interesse di tutelarli, di privilegiarli, di pagarli
profumatamente per il loro servizio. Avete mai visto schiere di sindacalisti e
di politici deille organizzazioni cosiddette operaie caduti in miseria? Questi
servi dei padroni hanno mai condiviso il tormento del lavoro e della vita
misera dei proletari? Vera e propria aristocrazia operaia, questi
collaborazionisti sono talmente attaccati ai loro piccoli e grandi privilegi
che sono disposti a fare qualsiasi cosa che loro viene richiesta dai padroni
pur di non perderli. Quante lotte, quante ore di sciopero sono state buttate al
vento, sprecate, senza che si ottenesse nulla, anzi con il risultato di far
demoralizzare gli operai, col risultato di far recepire lo sciopero, la lotta,
come uno strumento spuntato che tutt’al più poteva servire «per riprendere le
trattative con le controparti».
I rappresentanti del collaborazionismo sindacale e politico sono
interessatissimi alle elezioni, è il loro terreno d’imbroglio preferito, è la
loro occasione per dimostrare ai capitalisti quanto sono bravi nell’influenzare
i proletari, nel tenerli sotto controllo. E’, d’altra parte, anche l’occasione
per dimostrare che il loro servizio al capitalismo è necessario e deve essere
sostenuto dalla società che, in ogni caso, spende cifre gigantesche per
mantenere in piedi un mastodontico apparato burocratico - parlamentari, giunte,
commissioni, portaborse, funzionari, uffici, sedi, giornali, ecc. - che ha
l’esclusiva funzione di tenere in piedi la menzogna della democrazia per
turlupinare il popolo-bue e, in particolare, il proletariato.
In altri paesi a vecchia democrazia, il disgusto per le carnevalate
elettorali ha abbassato la partecipazione alle elezioni di un buon cinquanta
per cento, se non di più. Questo non significa che ci siano schiere importanti
di astensionisti pronti a lottare contro il potere borghese con altri mezzi;
nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di un disgusto che porta
all’indifferenza per la politica, al qualunquismo, alla rassegnazione «perché
tanto le cose non cambiano». E’ nello stesso tempo un segno della ridotta presa
del meccanismo democratico, di un inganno del tipo di quello che usa
l’imbonitore al mercato: in questo caso l’imbinitore fa meno affari, ma il
mercato rimane e si continua a vendere merci.
Il disgusto per le elezioni, per il parlamentarismo, per la democrazia, è
figlio delle disillusioni accumulate nei decenni e che portano, come dicevamo,
a ripiegarsi nella propria vita privata, nella famiglia, nel proprio piccolo
ambito. Da questo punto di vista, questo sentimento di disgusto non fa
minimamente paura al potere borghese, perchè, di fatto, toglie dal terreno
delle lotte sociali e politiche una bella fetta di popolazione. Quel che può
impensierire la borghesia dominante è caso mai il passaggio dall’attività
politica sul terreno della democrazia parlamentare al terreno della lotta
diretta, in pratica antidemocratica, della lotta che sfugge al controllo dei
partiti e delle organizzazioni politiche e sociali legali e conosciute. Per
certi versi alcune lotte dei cosiddetti no-global, o delle popolazioni della
Val di Susa contro la Tav, o della popolazione di Scanzano contro il deposito
di scorie radioattive, sono lotte che disturbano seriamente la borghesia, non
solo perché impediscono il normale e veloce corso degli affari capitalistici in
quei casi interessati, ma anche perché possono dare il là a lotta non più
soltanto popolari, ma a lotte proletarie di classe e per obiettivi che non sono
più soltanto contingenti, ma di più lago respiro. Ecco perché, di fronte a
lotte di quel tipo scatta quasi automaticamente da parte dell’autorità
costituita la criminalizzazione, il sospetto che quelle popolazioni siano
istigate o strumentalizzate da qualche decina di facinorosi, se non di
terroristi!
Pur non trattandosi di lotte di classe, quindi di lotte che per obiettivi si pongono sul terreno dell’antagonismo netto fra proletari e borghesi, contengono comunque elementi di disagio sociale e di rifiuto delle decisioni calate da autorità che non vengono più riconosciute come «neutre» ma troppo interessate specificamente alla tale o tal altra impresa. Sono lotte, in realtà, che non incidono seriamente sulle scelte del potere borghese, che scalfiscono impercettibilmente la corazza del potere borghese, e che soprattutto non vanno ad incidere seriamente sul potere economico e politico della classe borghese dominante. Cosa che invece solo la lotta di classe del proletariato può raggiungere, poiché la vera «fabbrica del profitto» sta nello sfruttamento del lavoro salariato, in quello sfruttamento per cui il tempo di lavoro necessario al proletario per sopravvivere quotidianamente è solo una parte, la più piccola, del tempo di lavoro totale che quotidianamente il lavoratore salariato dà al proprio padrone. E’ in questa differenza, fra tempo di lavoro necessario alla riproduzione delle energie proletarie e tempo di lavoro totale erogato dal lavoratore salariato al capitalista, che si produce il plusvalore, che i capitalisti chiamo profitto.
I capitalisti, fino a quando il sistema democratico e parlamentare funziona nei loro interessi saranno sempre favorevoli alle elezioni democratiche. Sanno, per esperienza storica, che attraverso le elezioni democratiche e attraverso il parlamentarismo non sarà mai scalzato il loro potere politico, e quindi economico. I costi della democrazia non li pagano loro, in verità, ma la società, nel senso che vengono ripartiti su tutta la popolazione attraverso le casse dello Stato e delle istituzioni locali. Sono sempre liberi, d’altra parte, di appoggiare coi propri finanziamenti privati il tal partito o i tali candidati per assicurarsi protezioni politiche, appalti, commesse e quant’altro può essere utile a lucrare profitti scavalcando la concorrenza. Operazioni, queste, che sono sempre avvenute e che avvengono normalmente alla luce del sole, per quel che di legale è utile far vedere, a sottobanco per tutto il resto. Il sistema democratico è, oltretutto, il sistema che produce la maggiore incidenza di illegalità come una serie di scandali bancari e borsistici stanno a dimostrare. A riprova che la democrazia imbroglia il proletariato, e il popolino, ma non i capitalisti che sono gli imbroglioni per eccellenza.
E’ ormai un secolo e passa che la borghesia prende le decisioni
determinanti in materia di economia, finanza e politica, fuori dei parlamenti;
mentre il parlamento serve per far passare quelle leggi che facilitano gli
affari di una lobby piuttosto che di un’altra. E’ il mercato, e in particolare
il mercato finanziario in epoca imperialista, che svolge il ruolo di fulcro
vitale del capitalismo; è un fatto riconosciuto da tutti, dai borghesi
innanzitutto. Non è quindi pensabile che vi siano istituzioni borghesi, statali
e locali, che vandano in contrasto con il mercato. Il parlamento borghese non
farà mai passare leggi che vadano contro gli interessi di mercato, e in
particolare delle lobby che guidano e dominano il mercato. Semmai, in
determinati periodi, la classe borghese dominante può decidere di acconsentire
una attenuazione della voracità dei suoi membri in termini di sfruttamento del
lavoro salariato, o in termini di speculazioni finanziarie, e perciò - a difesa
del mercato in generale e del capitalismo in generale - emana leggi che
appaiono restrittive e che vanno a colpire qualche interesse particolare. Ma fa
parte del gioco, come quando la borghesia decide - sia sotto la spinta delle
lotte operaie, sia per esigenze di controllo sociale e di una certa pace
sociale - di accettare e promulgare leggi che tutelano, in una certa misura, i
lavoratori; salvo poi non applicarle, o applicarle solo in parte.
Se guardiamo la storia delle lotte di classe fra borghesia e proletariato, non si può non rilevare che ci sono stati periodi in cui la borghesia dominante è passata, essa stessa, dal metodo di governo democratico e parlamentare al metodo di governo dittatoriale, quindi antidemocratico e antiparlamentare. I casi più eclatanti sono quelli del fascismo italiano, e del nazismo tedesco. In entrambi i casi la borghesia dominante ha chiuso l’esperienza democratica, che si stava dimostrando incapace di controllare in modo sufficiente il proprio proletariato, passando alla dichiarata e netta dittatura di classe.
La paura del movimento di classe del proletariato del primo dopoguerra,
movimento che aveva tentato una serie di insurrezioni rivoluzionarie, e il
disorientamento dei partiti borghesi democratici, hanno spinto la classe
dominante borghese a intraprendere la via antidemocratica per eccellenza, ma
solo dopo che i partiti riformisti e socialdemocratici che influenzavano la
maggior parte del proletariato avevano svolto il loro compito di
disorientamento, di frammentazione e di demoralizzazione sfiancando e mettendo
alle corde le migliori energie proletarie. Solo allora, ossia solo quando il
veleno democratico e socialdemocratico aveva prodotto i suoi effetti
paralizzanti, la borghesia si decise ad utilizzare uno strumento politico del
tutto nuovo che aveva lo scopo principale di colpire le organizzazioni
proletarie isolatamente, come in una specie di guerriglia partigiana ante
litteram. Il fascismo, legale e illegale allo stesso tempo, protetto dallo
Stato borghese, finanziato dai capitalisti, passa dalla «legalità democratica»
alla «legalità fascista» nell’arco di pochissimi anni. La borghesia dominante
non ha timore a dichiarare il suo passaggio all’aperta dittatura, e per il
partito di classe è la conferma storica del vero volto della borghesia, il
volto di una dittatura di classe che mira a schiacciare in particolare il
proletariato proprio per il potenziale pericolo da lui rappresentato in termini
di abbattimento rivoluzionario del potere borghese.
La sinistra comunista «italiana» che dal 1921 al 1923 guida il partito comunista d’Italia, analizza con grande tempestività il fenomeno fascista considerandolo come l’espressione più alta dell’imperialismo contro cui il proletariato, guidato dal suo partito, doveva lottare accettando a viso aperto il terreno di guerra di classe che la borghesia stessa aveva scelto. Altre correnti, e in particolare quella centrista di Gramsci e Togliatti, vedevano invece nel fascismo una specie di «ritorno indietro della storia», una espressione delle classi agrarie legate al precapitalismo; perciò teorizzarono la lotta contro il fascismo come una lotta per il ristabilimento della democrazia, nella quale lotta si giustificava l’alleanza con i partiti borghesi che professavano la propria fede nel sistema democratico. Dall’alleanza fra partiti indipendenti al fronte unico politico, allla lotta antifascista per la democrazia, i passaggi ormai erano scritti: un partito trasformato da rivoluzionario a riformista,ad un partito stalinizzato, non poteva che perdere mano a mano tutte le caratteristiche del partito di classe delle origini e diventare un partito nazionale, un partito operaio borghese. Il Pci, dopo il 1926, non farà che accelerare la sua degenerazione, rinnegando tutta la sua storia rivoluzionaria precedente.
Quel parlamentarismo che Lenin voleva fosse rivoluzionario, che
Lenin voleva fosse una particolare tattica per contribuire a distruggere il
parlamento dall’interno, mentre dall’esterno contemporaneamente le masse
proletarie guidate dallo stesso partito comunista dovevano attaccarlo per
vincerlo e instaurare la dittatura proletaria; quel parlamentarismo divenne non
più uno dei mezzi della lotta rivoluzionaria, ma il fine della lotta politica.
La democrazia, e in particolare la democrazia antifascista, ebbe il
sopravvento: i partiti comunisti, e l’Internazionale, cedettero alle lusinghe
del sistema democratico e persero per sempre la strada della rivoluzione. I
rinnegati alla Stalin, alla Togliatti, alla Thorez, perseguitarono e
schiacciarono le poche avanguardie di comunisti rivoluzionari che resistettero
al tracollo e che mantennero, nonostante tutte le avversità, vivo il filo del
tempo. E’ anche alla resistenza di queste poche avanguardie che dobbiamo lo
sforzo della ricostituzione del partito di classe, sebbene attraverso una serie
di passi incerti dal punto di vista teorico come da quello politico.
Il ciclo controrivoluzionario doveva fare il suo corso, doveva fornire tutti gli elementi - e la partecipazione alla guerra «antifascista» li mise in evidenza senza equivoci - perché fossero tratte le lezioni principalie si potesse mettere mano alla restaurazione teorica e alla ricostituzione dell’effettivo partito di classe sulla base di quella restaurazione e di un programma che ne discendesse direttamente. Dobbiamo così arrivare al 1952, per avere un partito fondato su basi teoriche e programmatiche salde e inequivocabili, e sulla base di un bilancio delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni senza il quale non sarebbe stato possibile riaffermare a livello internazionale la validità e l’invarianza del marxismo. Nel 1952 nasce il partito comunista internazionale al quale noi facciamo riferimento diretto, ma le tesi programmatiche e politiche sono date fin dal 1926, sono quelle della sinistra comunista «italiana» presentate al congresso di Lione in perfetta coerenza con le tesi del 1922 e del 1921 che caratterizzarono il partito comunista d’Italia dalla sua fondazione. Collegati a queste tesi sono i lavori di impostzione e di bilancio tracciati nel 1943-44, ancora in piena guerra imperialista, che costituirono la base politica e di analisi storica su cui si ricostituì il partito nel secondo dopoguerra.
Non è un caso che fin dalle prime formulazioni politiche ci sia stata la
netta e decisa critica alla democrazia, sia dal punto di vista del principio
che dal punto di vista della tattica. Il disastroso cedimento dei partiti
comunisti della III Internazionale di fronte alla democrazia borghese, li portò
necessariamente a parteggiare per la guerra degli Stati imperialisti
democratici contro gli Stati imperialisti fascisti: il disfattismo
rivoluzionario di Lenin, col quale si indicava al proletariato l’opposizione
alla guerra borghese per entrambi di fronti e la trasformazione della guerra
borghesefra Stati in guerra civile fra le classi, fu calpestato e sotterrato.
Sappiamo bene che non è corretto far discendere il tracollo del movimento
comunista internazionale dall’errata tattica del parlamentarismo
rivoluzionario. Le cause di quel tracollo non possono essere addossate ad una
particolare tattica sbagliata; purtroppo furono le molteplici oscillazioni
tattiche con cui l’Internazoionale comunista agì tra il 1921 e il 1926 ad
aprire le porte alle correnti oppportuniste e, alla fine, anticomuniste; fino
alla teorizzazioine del socialismo in un solo paese con la quale si voleva
giustificare la ragion di Stato russa alla quale il movimento proletario e
comunista internazionale fu sottomesso.
Ciò non toglie che il partito di classe, dovendo tirare tutte le lezioni
dalla controrivoluzione, avesse l’obbligo di dare una risposta ferma, certa,
inequivocabile e valida per tutto il periodo che ci distanzia dalla successiva
rivoluzione proletaria e comunista vittoriosa in Occidente, alla questione
della democrazia su tutti i piani: teorico, programmatico, politico, tattico ed
organizzativo, sia nell’attività di partito verso il proletariato e verso la
società, sia nella vita interna di partito.
La lezione è questa:
- critica netta della democrazia borghese sul piano dei principi e come
sistema politico di governo
- critica della prassi democratica come mezzo per accelerare la via della
rivoluzione e dell’emancipazione del proletariato dal lavoro salariato
- critica del metodo democratico come mezzo per la maturazione politica del
proletariato in termini di classe
- rifiuto del metodo democratico come principio organizzativo interno del
partito di classe
- sul piano delle lotte immediate di difesa delle condizioni di vita e di
lavoro del proletariato, accettazione del metodo democratico in quanto
accidente organizzativo attraverso il quale i proletari hanno la possibilità di
riconoscere i propri obiettivi, i propri metodi e i propri mezzi di lotta in un
terreno in cui il risultato principale che il proletariato ha interesse a
raggiungere è la partecipazione di masse sempre più numerose alla lotta di
classe, la solidarietà di classe, l’unificazione delle lotte, e l’influenza
sempre più determinante del partito di classe sugli strati avanzati della
classe operaia. Questo è l’unico terreno nel quale il partito riconosce la
necessità dell’uso del metodo democratico, almeno fino a quando l’influenza che
ha conquistato sul proletariato non è decisiva per la lotta rivoluzionaria.
Noi sappiamo, d’altra parte, che ancora oggi la nostra voce non raggiunge
se non pochi elementi della classe proletaria. Il nostro partito è di
piccolissme dimensioni, ridotto dalle sfavorevoli condizioni obiettivi della
lotta di classe a pochi elementi. A qualche compagno, impaziente di toccare con
mano dei risultati numerici più interessanti, questa nostra caparbia posizione
antidemocratica può essere apparsa un po’ anacronistica, poco «politica» dove
per politica si intende tattica manovriera. Nel corso di sviluppo del nostro
partito si sono verificate molte crisi interne che quasi sempre avevano come
loro perni le questioni della tattica e dell’organizzazione nel senso che si
sarebbe voluto allargare le maglie dell’organizzaione ed allentare le norme
tattiche per facilitare l’entrata nel partito di nuove forze.
Noi abbiamo sistematicamente combattuto queste tendenze, pur sapendo che
avremmo potuto rimanere in pochi, anzi pochissimi, ma nella consapevolezza che
il partito rivoluzionario che sarà in grado, nelle condizioni storiche
favorevoli alla lotta rivoluzionaria e alla rivoluzione, di rappresentare
effettivamente l’unica guida certa, ferma, riconoscibile e influente sul
proletarito - come lo fu il partito bolscevico nella rivoluzione russa e nel
movimento comunista internazionale - sarà quel partito che avrà saputo
mantenere nel tempo - aldisopra delle crisi e degli alti e bassi della lotta
fra le classi - la più forte coerenza con il patrimonio di tesi e di lezioni
storiche che il movimento comunista internazionale ha maturato nel corso del
suo sviluppo.
Il nostro astensionismo rivoluzionario non è un vezzo, è un’aqzione
politica perché combattiamo ideologicamente e praticamente il metodo del
parlamentarismo e dell’elezionismo, e nello stesso tempo propagandiamo
tra le file proletarie e nella società l’unica vera alternativa all’inganno
borghese, quella della ripresa della lotta di classe sulla base del
riconosciuto antagonismo di classe fra proletariato e borghesia, e della
ricostituzione degli organismi proletari di lotta sul terreno immediato perché
la difesa delle condizioni di vita e di lavoro non sia un semplice slogan,
impotente ed inefficace, ma una pratica quotidiana, una scuola di guerra
come diceva Lenin, nella quale i proletari si allenano alla lotta come classe
dei lavoratori salariati, contro la borghesia intesa come classe dei
capitalisti.
Reputiamo, infatti, che l’astensionismo, se rimane una semplice
dichiarazione, una semplice pratica individuale, non è nemmeno una tattica, ma
la manifestazione di un disgusto per le elezioni che rischia di cadere nel
qualunquismo.
Partito comunista internazionale
www.pcint.org