Elezioni ieri, oggi e domani: la ricetta democratica prevede un’overdose di cretinismo parlamentare

(«il comunista»; N° 100; Maggio 2006)

 

Le elezioni politiche generali del 9-10 aprile sono terminate in una specie di «spareggio» sulla conta dei voti. L’Italia degli elettori è apparsa divisa sostanzialmente a metà tra il centrodestra che ha governato con Berlusconi negli ultimi 5 anni, e il centrosinistra che per una manciata di voti ha «vinto». Da tutte le parti c’è stato l’ovvio scontento, chi per aver perso per qualche migliaio di voti e chi per non aver vinto in modo molto consistente. Tant’è che, nonostante le accuse da parte della destra di molte irregolarità e di brogli, alla fine Prodi poteva dire che il prossimo governo spettava a lui.

E’ stato interessante assistere alla «melina» - per usare un termine calcistico - che Berlusconi e i suoi hanno continuato a fare fino all’ultimo secondo prima di dare le dimissioni nelle mani del presidente della repubblica. In questo gioco delle parti, Berlusconi - dopo averne dette di tutti i colori, sia in campagna elettorale che prima, sul pericolo «comunista» in Italia - ha lanciato agli avversari del centrosinistra la proposta della Grande Coalizione, sull’onda di quello che è successo in Germania tra la Merkel e Schroeder: fare un governo nazionale. In questo governo, sia il polo di centrodestra che quello di centrosinistra dovrebbero scegliere un programma che dia priorità a quelli che vengono definti «i grandi problemi irrisolti del paese»: ripresa economica e sviluppo, lavoro e disoccupazione, grandi opere, riforma costituzionale, ecc. ecc. Dopo una campagna elettorale acida e velenosa, nella quale gli «avversari» non si sono risparmiati accuse e giudizi terribili, questa della Grande Coalizione è apparsa subito come una manovra tattica senza possibilità di realizzazione neanche minima; ma nella sua assurdità immediata rivelava comunque un’antica attitudine della classe dominante italiana: essere sempre pronta ad allearsi col «nemico» di ieri se vi era sufficiente convenienza politica.

Con la elezione di due ex sindacalisti, Bertinotti e Marini, alle presidenze della Camera e del Senato, la classe borghese dominante italiana dà un altro segnale di cambiamento. Se un attore può diventare presidente degli Stati Uniti d’America, perché mai un sindacalista non può andare a sedersi in Italia sulle poltrone istituzionali più importanti dopo quella del Capo dello Stato. Per chi ci crede, è un’ulteriore dimostrazione che la democrazia funziona, che la democrazia permette ideologicamente e praticamente a «ciascun cittadino» di ambire alle cariche più alte dello Stato, a passare tra coloro che «guidano il Paese» invece di essere «guidati».

Ma basta dare uno sguardo alla realtà dei fatti economici e delle dinamiche sociali per comprendere che il teatro in cui si svolgono le battaglie elettorali, prima, e le battaglie parlamentari poi, è un teatro dei burattini.

Non importa se questi burattini fanno di mestiere esclusivamente i burattini politici, al servizio degli interessi di parte o di tutta la classe borghese dominante, o se di mestiere fanno gli imprenditori, i capitalisti, e vestono i panni del burattino politico per dare maggiore credibilità alla funzione del teatro parlamentare, e per controllare anche in questa sede che i propri interessi di parte siano rappresentati e difesi con il vigore, la tempistica e le mosse che la concorrenza di mercato e le ambizioni personali richiedono.

In questo grande teatro della commedia parlamentare, ormai da più di cent’anni si cimentano generazioni di marionette. Fra di loro vi sono sempre state, ed erano e sono la maggioranza, quelle che rappresentano e difendono interessi capitalistici di parte e che, nella generale commedia della democrazia - il cui canovaccio prevede che si attui l’inganno non solo del «confronto» e della «negoziazione» fra gli interessi contrastanti fra mercanti, ma anche il confronto e la negoziazione fra gli interessi antagonisti fra classi - fanno passare l’idea che il loro palco, quel teatro, quel tipo di «rappresentanza» e di «rappresentazione» siano il non plus ultra per il «vivere civile», per ottenere leggi giuste e obiettive, per un governo della cosa pubblica imparziale e affidabile perché «al di sopra delle parti». Vi sono poi sempre state le marionette, e sono state sempre una piccola minoranza, che recitavano, e recitano, la figura di coloro che non sono legati a particolari interessi, che non rappresentano lobby in contrasto fra loro, ma che si sforzano di rappresentare gli interessi «di tutti», «al di sopra delle parti e delle classi», che più e meglio degli altri quindi sintetizzano l’inganno democratico.

Gli è che nella storia delle lotte fra le classi, raggiunto un certo sviluppo economico e sviluppatasi la rappresentazione politica attraverso i diversi partiti, prende forma l’idea che attraverso una serie di riforme - e quindi attraverso una politica riformista - sia possibile anche per le classi lavoratrici, fino ad allora rimaste praticamente escluse da qualsiasi rappresentaza istituzionale, accedere al gran teatro del Parlamento. E così l’inganno democratico, in parte già funzionante per le classi medie, allargava il suo raggio d’azione all’intero proletariato, obiettivo che storicamente si è rivelato come uno tra i più importanti della conservazione sociale borghese.

C’è stato un tempo in cui la lotta elettorale, e le battaglie politiche in Parlamento, rappresentavano effettivamente un passo avanti nel coinvolgimento delle classi lavoratrici alla politica in generale, allargando gli orizzonti di interessi che normalmente sono molto ristretti, soprattutto per le vecchissime abitudini rurali e contadine. In quel tempo, i partiti dei lavoratori, socialisti e socialdemocratici, approfittarono giustamente delle possibilità legali di fare propaganda pubblica e nazionale; e nella misura in cui il Parlamento prendeva il centro dell’attenzione per quel che riguardava la politica, lo stesso partito dei lavoratori poteva contare sulla diffusione delle sue parole e dei suoi atti, in parlamento e anche fuori di esso, attraverso la stampa. Nello stesso tempo, e siamo nel periodo dello sviluppo cosiddetto «pacifico» del capitalismo europeo e occidentale, si sviluppavano e maturavano quelle condizioni materiali obiettive e storiche per cui l’emancipazione del proletariato dal capitalismo, e quindi dal lavoro salariato, veniva sempre più considerata come un obiettivo da raggiungere non più attraverso la via rivoluzionaria e violenta dell’abbattimento del potere politico borghese (come le rivoluzioni del 1848-49, e poi la Comune di Parigi del 1871, dimostravano necessario) ma attraverso la via graduale e pacifica che si condensava nella via parlamentare e democratica... al socialismo. Legge per le 8 ore, leggi sui diritti civili e sui diritti sindacali, riconoscimento legale di sindacati, leghe, società di mutuo soccorso e partiti operai, contrattazioni di categorie con le associazioni padronali riconosciute e applicate: tutto ciò favoriva la radicazione nelle classi lavoratrici dell’idea che con la democrazia si ottenevano effettivamente obiettivi importanti senza dover attendere l’esito vittorioso della rivoluzione proletaria.

Come sottolineerà Lenin in Stato e rivoluzione, nel 1917, la democrazia borghese si è dimostrata - e si dimostra ancor oggi, purtroppo - il miglior metodo di governo borghese, col quale i partiti borghesi e i partiti «operai» borghesi chiamano una volta ogni tot numero di anni le classi lavoratrici ad esprimere attraverso il voto la banda di politici che ribadirà su di loro lo sfruttamento capitalistico. Ma è un metodo di governo che ha funzionato perché si basa su fatti materiali ben precisi. Nei paesi industrialmente sviluppati, l’intera ricchezza sociale prodotta dal lavoro salariato non viene interamente intascata dai capitalisti e dal loro Stato, ma per almeno una parte serve per concedere alle classi lavoratrici tutta una serie di miglioramenti che, oltretutto, proprio con un metodo esattamente contrario alla democrazia, e cioé il fascismo, giunse ad una consistenza e organizzazione davvero importanti, tanto che la democrazia post-fascista ne erediterà tout court l’impianto (pensioni, ferie, malattie, ecc.).

Gli è che in periodo di crisi economica, come sempre è successo, i capitalisti tendono a togliere i miglioramenti concessi in precedenza ai lavoratori per aumentare ovviamente la loro quota di profitti. Lo descrivono bene Marx ed Engels, nel Manifesto del partito comunista del 1848, quando affermano: «Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioé il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato. (...) La crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai» (1).

Ma il consenso sociale, per la classe dominante borghese, è troppo importante per essere messo di colpo a repentaglio; nemmeno durante l’aperta dittatura fascista, la classe borghese osò, quando si trovò in forte crisi economica e politica, togliere tutte le concessioni che le avevano consentito in generale di controllare le classi lavoratrici. L’inganno democratico, perciò, viene utilizzato costantemente, anche se le basi materiali del consenso sociale, a causa delle crisi, sono più scarse, proprio per ribadire, soprattutto verso il proletariato, il dominio ideologico, oltre che economico, della borghesia.

I partiti operai, degenerati nel riformismo e, successivamente, già con la prima guerra mondiale e soprattutto con la seconda, nel ministerialismo e nel collaborazionismo, si sono trasformati da guida teorica e politica per l’emancipazione del proletariato dallo sfruttamento capitalistico, in pilastri della conservazione sociale e dello sfruttamento capitalistico. Questa trasformazione è stata oggetto di analisi, di critica teorica e di battaglia politica e pratica lungo tutto il corso storico in cui la corrente politica internazionale più intransigente e coerentemente legata al marxismo, la Sinistra - di qualsiasi partito operaio, e se russo rappresentato da Lenin, se tedesco rappresentato da Liebchnecht, se italiano rappresentato da Bordiga - svolse costantemente il compito di riaffermazione delle tesi marxiste e, in diversi svolti storici, di restaurazione della teoria marxista.

La lotta contro l’interclassismo, di cui la collaborazione fra le classi è la pratica politica, è non per nulla punto centrale della lotta politica del marxismo, in ogni epoca. L’interclassismo è, d’altronde, contenuto nel principio e nella prassi della democrazia borghese: secondo la democrazia esiste il popolo, la sua «sovranità politica» la si vuole corrispondente alla «sovranità teorica» del popolo; la sua autorevolezza ideologica la si vuole far discendere dall’autorevolezza del «pensiero» inteso come prodotto del cervello degli uomini, e, naturalmente, se il cervello è quello di un «grande uomo», il suo pensiero è un «grande pensiero». Il mito dell’ideologia borghese, che rappresenta in modo capovolto e falso la realtà materiale della società umana - sarebbero gli individui singolarmente presi a determinare il corso storico della società umana, e non la forza collettiva e sociale della società umana nel suo sviluppo storico a forgiare i singoli individui - è il mito dell’individuo, del personaggio, del grande uomo. Ma questo mito non nasce dal nulla; è esso stesso materialmente determinato dalla dinamica sociale che sviluppa forme economiche e relativi interessi economici contrastanti, fino alla teorizzazione della proprietà privata come valore assoluto, su cui non è ammessa alcuna transigenza, elevata a dogma indiscutibile!

La democrazia borghese nasconde con l’inganno la realtà di classe della proprietà privata; l’ha trasformata in un fatto «naturale», come se l’uomo fin dalle sue origini fosse dotato di questa «qualità» e, con l’apparizione nella storia della classe borghese e con la sua vittoria sulle classi storiche precedenti, avesse finalmente avuto la possibilità di regolamentare attraverso la legge e il «diritto» l’uso e la difesa appunto della proprietà privata. Ma la storia delle lotte di classe, e della formazione delle società, è storia di guerre e di rivoluzioni, di violenza e di forza applicata in tutti i campi, siano essi quelli del pensiero o quelli della realtà materiale e della prassi. La borghesia si è imposta sulle classi aristocratiche e feudali con la forza, con la rivoluzione e con le guerre di difesa e di conquista. Dopo, molto dopo, è apparsa la democrazia moderna, quando la storia aveva ormai decretato la vittoria reale e non soltanto ideologica delle classi borghesi su tutte le altre classi sociali esistenti. Prima vince il modo di produzione capitalistico, poi vince la rivoluzione politica borghese, e quindi con essa il diritto alla proprietà privata borghese e il diritto della borghesia allo sfruttamento del lavoro salariato, diritti sanciti per legge; ma la legge la fa sempre il vincitore, mai il vinto!

I comunisti, a cominciare da Marx, hanno sempre salutato come un passo avanti della storia la democrazia rivoluzionaria borghese; giustificando, allo stesso tempo, l’apporto del proletariato alla vittoria rivoluzionaria della borghesia - e quindi del capitalismo, pur nell’autonomia di classe - sulle classi aristocratiche e feudali - e quindi sul feudalesimo, sul dispotismo asiatico, sui modi di produzione arcaici -. Ma quel tempo, il tempo della democrazia rivoluzionaria borghese, è molto lontano; per i paesi d’Europa occidentale e l’America dalla Comune di Parigi 1871, per la Russia e l’Europa dell’Est dall’Ottobre 1917, per la Cina e l’Estremo Oriente dalla rivoluzione borghese maoista 1949, per i paesi dell’Africa dalle guerre di indipendenza di Angola e Mozambico 1975.

Ma la democrazia cui stiamo ancora assistendo, nell’America di Bush o nell’Italia dei Berlusconi, dei Prodi e dei D’Alema, nella Germania di Merkel e di Schroeder o nella Francia di Chirac per non parlare della Gran Bretagna di Blair o della Spagna di Zapatero, è una democrazia cadaverica, asfittica, impotente, incapace di trascinare le masse a progressi storici di grande respiro scientifico, sociale, politico. E’ una democrazia putrefatta alla quale però credono ancora, e danno il loro vitale apporto, le forze del collaborazionismo di classe, le forze che un tempo classificavamo come opportuniste per il loro tradimento verso l’originale collocazione proletaria e rivoluzionaria, ma che oggi chiamiamo semplicemente collaborazioniste. La loro origine, infatti, non va più cercata nel movimento proletario internazionale, e tanto meno nel movimento comunista rivoluzionario, ma nel movimento interclassista, nel bloccardismo antifascista, di forze che si sono fregiate delle antiche vesta del comunismo ormai stalinizzato per ingannare doppiamente il proletariato: sia sul piano del falso socialismo reale di cui si pretese la realizzazione in Russia e nei paesi suoi satelliti, che sul piano della democrazia di cui si pretendeva, e si pretende, rigenerare una vitalità politica e sociale ormai degenerata nel clientelismo, nel commercio dei principi, nel meschino individualismo e immediatismo.

La corsa alle urne resta, drammaticamente, uno sport cui il proletariato partecipa ancora a grande maggioranza. E come rispetto ad una corsa di cavalli , ad un giro ciclistico o ad un campionato di calcio, anche per le elezioni tutta l’attenzione va a concentrarsi su «chi vincerà» e «chi ha vinto».

Noi non diamo alcuna importanza ai risultati elettorali, dato che hanno perso ormai da molti decenni una utilità come indice almeno quantitativo delle forze sociali. Il popolo elettore è diventato una marmellata della quale il risultato delle urne non è in grado di fornirealcun dato interessante per la lotta politica proletaria e comunista.

L’attenzione che vi poniamo, quindi, non è finalizzata a scovare la presenza di forze in qualche modo rappresentative della lotta di classe proletaria, o di forze che potrebbero favorire la lotta di classe del proletariato. Nell’agone elettorale le forze che vi partecipano sono tutte, sebbene di diversa provenienza e di diverso peso, tutte funzionali alla conservazione sociale, al mantenimento del sistema di sfruttamento capitalistico, ed egualmente interessate a mantenere le masse proletarie nella soggezione ideologica e pratica verso la classe dominante borghese.

E’ logico che tutte parlino di riforme: chi le intende un po’ più a favore degli imprenditori, chi un po’ più a favore dei lavoratori, perché la caccia al voto prevde ovviamente che si tocchino interessi immediati diversi, ma tutte assolutamente e inesorabilmente all’interno del quadro politico e sociale del capitalismo. Anche un Bertinotti, che ogni tanto si permetteva di usare termini come «lotta di classe» fino a lanciarsi nella critica della «proprietà privata», ha dovuto gettare la debole e pallida maschera di «guerrigliero zapatista» per vestire i panni istituzionali del presidente della Camera dei Deputati. Le sue prime parole sono state: pace, lavoro, democrazia. Già in bocca a Giuseppe Mazzini stonavano, e Marx non gliele mandò a dire, figuriamoci centocinquant’anni dopo.

Resta il compito, per i comunisti rivoluzionari, della critica della democrazia in tutti i suoi aspetti, con due obiettivi: allenarsi in permanenza alla lotta teorica e ideologica contro la borghesia, allenarsi in permanenza alla lotta anche nella prassi di partito, ben sapendo che il partiti vive e agisce in ambiente altamente contaminato dal cretinismo democratico e parlamentare. Non soltanto negli anni cruciali della rivoluzione proletaria e comunista, a cavallo degli anni Venti del secolo scorso, ma anche nella recente storia del nostro partito comunista internazionale, il virus democratico ha colpito duramente. La lezione che la Sinistra comunista italiana ha tratto dalla storia del movimento proletario e da quella del movimento comunista internazionale non va dimenticata: la democrazia borghese rappresenta l’insidia più grave e pericolosa per il proletariato e per il partito di classe che la borghesia abbia potuto generare; va combattuta nei principi e nella prassi, senza tentennamenti, senza eccezione, senza ma.

Il parlamentarismo rivoluzionario di buchariniana e leniniana memoria, se nel 1920, come tattica, ci sembrava già molto pericolosa ma per disciplina internazionale l’applicammo, col fascismo e, soprattutto, con la democrazia anti- e post- fascista, quella tattica si dimostrò rovinosa. Tutti i partiti dell’Internazionale Comunista caddero vittime della democrazia antifascista, caddero nell’antimarxista tattica del bloccardismo e del partigianismo con la quale si pretendeva di sospendere per tutto un periodo storico la lotta di classe contro la classe borghese dominante, qualsiasi veste governativa vestisse e a qualsiasi fronte di guerra imperialista partecipasse. Il fascismo fu demagogicamente considerato un «passo indietro nella storia», mentre nella realtà capitalistica era il passo avanti del suo stadio imperialistico ben illustrato da Lenin. Il «ritorno alla democrazia» fu quindi considerato da tutte le forze del tradimento opportunista come il passaggio storico obbligato necessario al proletariato per poter poi, successivamente (ma, ovviamente, non avvene mai) riprendere la sua lotta di classe indipendente e rivoluzionaria.

La parola d’ordine dei comunisti non fu più, allora, quella di Lenin e dell’Internazionale comunista non ancora degenerata: dittatura proletaria contro dittatura imperialista (fosse sotto forma di fascismo o di democrazia, sempre dittatura del capitale era), ma democrazia contro fascismo, ossia ci si metteva al servizio di una frazione della classe borghese contro l’altra, nella loro specifica lotta di concorrenza, e si faceva fare al proletariato - questa volta sì - un passo indietro nella storia del suo movimento rivoluzionario di classe.

La democrazia post-fascista ha ribadito, con più forza e con più mezzi di controllo sociale a disposizione, il sistema di sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale; ha moltiplicato le guerre di rapina dei paesi imperialisti maggiori, e ha di conseguenza moltiplicato le guerre che le borghesie dei diversi paesi colonizzati o ex-colonizzati hanno continuato a fare per imporre i propri specifici interessi economici e politici; ha aumentato enormemente il tasso di oppressione su intere popolazioni, determinando loro inenarrabili migrazioni a causa non solo delle guerre, ma delle malattie e delle carestie; ha aumentato l’impoverimento della stragrande maggioranza dei proletari e dei contadini del mondo mentre non termina mai l’accumulo di ricchezza nelle mani di una piccola minoranza di capitalisti; è accresciuta enormemente la pressione sul proletariato di tutto il mondo - occupato e disoccupato - trasformando l’antico dispotismo di fabbrica in un dispotismo sociale scientificamente programmato.

La democrazia post-fascista, se mai era possibile, è peggiore di quella liberale di cui il fascismo si disfò per imporre una dittatura aperta del capitale a fronte di un pericolo storico rappresentato proprio dal proletariato e dalla sua lotta rivoluzionaria.

Ai proletari, più volte ingannati dalla democrazia e dall’opportunismo, più volte portati al macello di guerre borghesi, più volte abbandonati nella più totale precarietà della vita e in migrazioni disastrose, viene propinata per l’ennesima volta la minestra riscaldata e irrancidita delle elezioni democratiche. La loro partecipazione dimostra che non vedono alternative, non vedono altre strade da percorrere. Ma non le vedono soprattutto perché non si riconoscono come una collettività in movimento, una classe che ha interessi da contrapporre a quelli borghesi e per i quali vale la pena lottare, e lottare duramente. La loro visione è quella dei semplici individui, di coloro che ragionano, pensano, agiscono solo nell’orizzonte privato e quotidiano; e anche quando scioperano per il rinnovo di un contratto sono tendenzialmente portati a guardare solo le proprie tasche, la propria convenienza individuale. Fino a questo punto è arrivata l’intossicazione della democrazia borghese: ti dà apparentemente la possibilità di avere il mondo ai tuoi piedi (attraverso la rete internet, o attraverso una vincita alla lotteria, o il tanto atteso colpo di fortuna), ma nella realtà ti debilita, di indebolisce, ti paralizza. E ti lascia pochissimi spazi in cui sfogare le tensioni, la rabbia, le insoddisfazioni che una vita così meschina non può non farti accumulare giorno per giorno: da qui nasce la violenza in famiglia, negli stadi, nelle strade, da questo continuo abbrutimento.

Democrazia vuole anche dire benessere e vita agiata per pochi e abbrutimento per moltitudini di uomini sempre più vaste.

In Italia non è finita; dopo le elezioni politiche di aprile, vi saranno le amministrative di fine maggio, e poi ancora a fine giugno per il referendum sulla cosiddetta devolution, ossia sulla riforma della costituzione. Una campagna elettorale interminabile, che si somma una all’altra, in un crescendo che porta inesorabilmente al rincretinimento generalizzato e permanente. Nessuno sa, d’altra parte, come ormai succede da anni, che cosa aspettarsi se vota una lista piuttosto che un’altra, un candidato o il suo avversario. Nella civiltà dei quiz non si può certo pretendere che vi sia studio e conoscenza: l’importante, per il sistema democratico, che vi sia una quota sufficiente di popolazione che va a votare e che quindi convalidi con la propria partecipazione il sistema stesso. Il risultato elettorale è sempre un risultato parziale e temporaneo: se nel periodo del mandato elettorale gli eletti non soddisfano le attese dei propri elettori questi ultimi possono non votarli più successivamente e passare a preferire qualcun altro. Nel frattempo, come ogni elettore può constatare facilmente, la fregatura è permanente e garantita.

Democrazia vuol anche dire fregatura assicurata!

 


 

(1) Cfr. K.Marx-F.Engels, Manifesto del partito comunista, ed. Einaudi, 1962, pp. 108-112.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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