Le stragi del mare sono stragi di una borghesia divoratrice di forza lavoro

(«il comunista»; N° 101; Settembre 2006)

 

 

Come ogni estate, il Mediterraneo, e in particolare il Canale di Sicilia, diventano la tomba di centinaia di uomini, donne e bambini che fuggono dalla fame e dalla guerra per tentare di approdare in un paese in cui sia possibile non avere più fame, non avere più guerra; insomma, vivere! Quel paese sarebbe l’Italia.

 

L’ITALIA DAI MILLE VOLTI

 

Il volto dell’accoglienza, degli «italiani brava gente», del cuore tenero degli abitanti di Lampedusa o di Portopalo che da anni dimostrano comprensione verso le migliaia di disperati che sbarcano sulle spiagge e vicino alle loro case, e che li aiutano in qualche modo.

Il volto della carità cristiana che si occupa delle anime dei clandestini, e dei loro corpi, a dimostrare che le sofferenze, le violenze, i rischi e la morte cui sono sottoposti - che un dio onnipotente e onnisciente che non può non aver voluto è allo stesso tempo misericordioso con alcuni mentre altri vengono straziati nei corpi e nello spirito da una vita e da viaggi per lo più senza ritorno - sono una prova cui dio sottopone gli uomini perché un tempo, in una leggendaria scena del paradiso, un suo ordine non fu rispettato.

Il volto della paura dello straniero, la paura di perdere la propria piccola e meschina vita quotidiana in un piccolo gruzzolo di privilegi economici e sociali che attirano le masse diseredate e affamate di interi continenti, e che si vorrebbe preservare con leggi «adeguate”, con misure di sicurezza «adeguate”, con punizioni e condanne «adeguate” per coloro che si trovano di fatto nella illegalità.

Il volto del pugno di ferro, di coloro che vedono nella libera circolazione nel «nostro” territorio di persone provenienti da ogni angolo del mondo da cui scappano per molteplici ragioni - ma soprattutto di sopravvivenza - una pericolosa invasione di barbari, di gente con culture, costumi e religioni troppo diverse da quelle cui ci si è abituati da secoli. Il volto del pugno di ferro contro la massa di migranti che vengono accettati solo ed esclusivamente se si sottopongono senza fiatare e senza ribellarsi alle vessazioni che ogni legislazione dei paesi ricchi contiene nei confronti dell’immigrazione, e solo se accettano lavori sottopagati, insicuri, temporanei, faticosi.

Il volto della delinquenza, di qualsiasi tipo di delinquenza, da quella macrorganizzata che si occupa di droga, di contrabbando e di prostituzione, a quella forse meno ramificata ma non meno vessatoria dei piccoli furti, dell’elemosina o del lavoro nero. Manodopera a costo bassissimo, ricattata pesantemente su tutto il tragitto che fa per arrivare in un paese dove sfamarsi, schiavizzata dall’origine alla fine del suo viaggio, sia per i più «fortunati« un posto in fabbrica o un lavoro di badante o di pulizia, sia per i meno fortunati il campo di pomodori, il piccolo commercio o l’edilizia dove l’appuntamento con la morte è dietro ogni impalcatura.

Il voltodel traffico di clandestini, sulle cosiddette carrette del mare, ma anche, anzi soprattutto, sulle strade dei confini di terra da cui, secondo le statistiche ufficiali, transita almeno il 60% dell’immigrazione illegale. Traffico su cui lucrano incravattati manager o commercianti fino allo scafista o al camionista, e per il quale - come in ogni vicenda delinquenziale - oltre a pagare anche con la vita lo stesso migrante, pagano solo gli ultimi della catena.

Il volto riformista, dell’imprenditore «di sinistra” e dell’intellettuale «di sinistra», che discettano sulla risorsa-immigrazione e sul fatto che l’Italia, visto che tutta una serie di lavori e di mansioni gli «italiani” non li vogliono più fare, è un bene che sia diventata meta di immigrazione perché in questo modo la parte di tessuto economico che dipende dallo sfruttamento di quei determinati lavoratori può tornare a rivitalizzarsi, e con due convenienze in più: un flusso migratorio continuo, quindi manodopera in abbondanza, e sempre giovane, e costo del lavoro tendenzialmente sempre più basso, data la concorrenza non solo tra migranti e nativi italiani, ma tra gli stessi migranti.

«I dati dimostrano che l’Italia, assieme alla Spagna - si legge su la Repubblica del 5.8.06 - è ormai il paese sviluppato con la maggiore intensità di immigrazione. Il saldo migratorio annuo è dell’ordine di 300.000 unità, cifra proporzionale assai superiore a quello nordamericano (...) Siamo dunque di fronte ad un fenomeno travolgente, per dimensione, per velocità e per durata”. Ecco, l’Italia, e la Spagna, due degli ultimi fra i paesi sviluppati ad essere presi d’assalto dai flussi migratori, presentano caratteristiche un po’ diverse da quelle dei paesi europei colonialisti per eccellenza, come l’Inghilterra e la Francia; la differenza è citata nel brano che abbiamo ripreso: dimensione, velocità e durata. In epoca di sviluppo imperialistico ogni fenomeno sociale prende le forme peculiari del gigantismo caratteristico della forte tendenza alla concentrazione economica dello sviluppo. Più si concentra in poche mani la ricchezza sociale, più aumenta la forbice tra ricchezza e miseria, e più aumenta la pressione sociale delle masse proletarie e diseredate in permanente ricerca di sopravvivere. E tale pressione contiene il pericolo, per le classi sociali privilegiate, di travolgerne almeno in parte i privilegi. Da qui nasce la paura dello straniero, la chiusura verso l’immigrato, il sentimento di odio razziale. Il sotterraneo odio di classe che permea la mentalità di tutti i borghesi e piccoli borghesi nei confronti dei proletari, dei diseredati, degli straccioni, degli analfabeti, dei disperati che premono alle porte, emerge sotto le forma del razzismo o del sentimento di superiorità, che possono prendere la strada sotterranea delle differenze stabilite «per legge” e, o, applicate quotidianamente dagli apparati della burocrazia, oppure la strada dell’aperta violenza e della delinquenza con le quali si approfitta delle condizioni materiali di inferiorità dei migranti per sottoporli allo sfruttamento più bestiale che porta molto spesso alla morte.

E’ l’odio di classe che muove sia la reazione violenta contro gli immigrati, sia la carità o l’elemosina con cui l’individuo privilegiato «si mette a posto la coscienza» e mantiene, difendendola anche in questo modo, la propria condizione privilegiata. Altra cosa è la solidarietà, che non può essere se non di classe, sul terreno della lotta anticapitalistica e antiborghese, l’unica che riesce ad affratellare proletari nativi e immigrati, al di sopra delle nazionalità, delle razze, dei costumi e delle culture da cui provengono, perché questa solidarietà poggia sulla lotta con cui si combattono tutti i privilegi borghesi, ogni tipo di oppressione, ogni tipo di sfruttamento, ogni tipo di violenza che la borghesia - come classe al potere, e come individui imprenditori - attua in difesa dei suoi privilegi sociali e di classe, quindi in difesa, in quanto classe dominante, dei suoi interessi immediati e futuri.

 

LE AZIENDE CERCANO LA FORZA LAVORO IMMIGRATA PERCHE COSTA MENO E HA MENO DIRITTI

 

Già il governo di centrodestra di Berlusconi aveva cominciato ad allargare le maglie degli ingressi migratori, pur mantenendo alta la tensione politica su quote annue relativamente basse di legalizzazione, per motivi ideologici e di interessi rappresentati in sede elettorale. Ai più di 500 mila ingressi richiesti dagli imprenditori per il 2006, il governo Berlusconi aveva concesso permessi di soggiorno per soli 170.000, disattendendo così la «fame» di forza lavoro immigrata, e lasciando di fatto insoluto il problema degli immigrati «clandestini» già in Italia da tempo.

Negli ultimi anni, quando le imprese italiane hanno cominciato a rendersi conto che l’utlilizzo della forza lavoro immigrata diventava davvero conveniente in termini di costi (non era necessario che gli immigrati avessero tutti istruzione mediamente elevata, che sapessero bene la lingua italiana e che avessero già una esperienza qualificata nelle diverse lavorazioni) e, soprattutto, in termini di offerta (ampia scelta, data l’abbondanza di braccia che si offrivano e si sarebbero continuate ad offrire in un flusso che non accennava assolutamente a fermarsi o ad attenuarsi), cominciarono ad abbandonare posizioni di chiusura verso l’immigrazione, sostenendo invece esattamente il contrario: la massima apertura possibile, spingendo il governo a prendere quei provvedimenti che, insieme alla sicurezza e alla legalità, dessero la possibilità agli imprenditori di fare il loro mestiere: di sfruttare in modo consistente una forza lavoro abbondante e a costi bassissimi. I profitti reclamano produttività, e produttività significa soprattutto costo del lavoro più basso possibile.

Il governo di centrosinistra ha raccolto la pressante richiesta delle imprese, ed ha provveduto ad emanare un decreto per «regolarizzare» nel 2006 altri 350.000 lavoratori migranti, ossia la differenza da quei 520 mila richiesti per quest’anno dalle aziende. Non fa meraviglia che Epifani, capo della Cgil, esprima una perfetta sintonia con le aziende quando precisa che la regolarizzazione dei 350.000 lavoratori stranieri fissata dal decreto governativo era una delle richieste avanzate dalla Cgil. «Si tratta - afferma Epifani -di quei lavoratori che già lavorano e vivono regolarmente nel nostro paese» (l’Unità, 22.7.06), e aggiunge: «Si conferma come questi lavoratori siano una ricchezza ed una opportunità per il nostro paese», facendo eco alle parole del ministro degli Esteri D’Alema che dichiarava che l’immigrazione deve essere «una leva per lo sviluppo del nostro paese» e non «un problema».

Va da sè che un decreto non risolve un problema come quello dell’immigrazione; lo dimostra da anni la pressione dei proletari messicani sui confini statunitensi che, pur avendo recentemente alzato muri difesi da guardie armate, non riescono ad impedire il passaggio da un paese all’altro, non riescono a fermare il flusso migratorio di migliaia e migliaia di «clandestini». Quel decreto dimostra anche che la borghesia dominante con le sue leggi arriva sempre in forte ritardo sulla realtà economica e sociale che deve governare. Quante altre migliaia di morti ci vorranno perché la migrazione in Italia non sia una roulette russa, un rischio di morte continuo? I dati «ufficiali» parlano di 2 milioni circa di immigrati presenti in Italia, ma la realtà è certamente diversa visto che i clandestini sono molto di più dei regolarizzati; naturalmente non vi sono dati sui clandestini morti nei viaggi per raggiungere l’Italia, o morti in Italia nello sfruttamento del lavoro nero, della prostituzione, del lavoro minorile. Il sangue versato dai proletari immigrati non è documentato, i borghesi non sono interessati a tenere questo genere di «contabilità»: sono interessati a che i media ogni tanto ne diano notizia, facciano pure lo scoop, riempiano ogni tanto i loro giornali e i loro programmi televisivi di foto più o meno raccapriccianti e di racconti più o meno drammatici affinché i proletari italiani vedano e conoscano quali sono le condizioni in cui i proletari stranieri sono caduti, condizioni che potrebbero un giorno riguardare anche loro!

Il potere borghese percepisce, d’altra parte, che il problema dell’immigrazione clandestina non lo risolverà probabilmente mai, data la catastrofica realtà economica e di vita nei paesi di provenienza degli immigrati; paesi che, a fronte dello sviluppo capitalistico nei paesi ricchi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, presentano una situazione sempre più drammatica in una tendenziale e progressiva divaricazione tra ricchezza mediamente più diffusa nei paesi occidentali e ricchezza più concentrata in pocchissime mani nei paesi della periferia del capitalismo sviluppato: la forbice tra ricchezza e miseria si allarga non solo fra borghesi e proletari, ma tra paesi imperialisti dominanti sul mondo e paesi dominati.

Il permesso di soggiorno di cui il lavoratore straniero deve essere in possesso per risultare in piena legalità, è il simbolo della sua oppressione sociale, della violenza economica e sociale cui è sottoposto per il solo fatto di essere proletario e straniero.

Le file interminabili davanti ai pochi uffici aperti per presentare le famose domande di regolarizzazione, le notti passate in coda attendendo che gli sportelli aprissero non sapendo se la propria domanda sarebbe stata accolta o meno, dimostrano come questi proletari siano discriminati perché sono proletari, dei senza riserve, persone rifiutate nei loro paesi d’origine e condizionate a priori nei paesi d’arrivo. La «libera circolazione» delle persone è una leggenda: non esiste alcuna libertà di spostarsi da un paese all’altro, nessuna libertà di cercare una soluzione meno oppressiva e vessatoria per sopravvivere.

Nella società borghese la condizione del proletario è sempre più la condizione dell’insicurezza, non solo a livello salariale, ma a livello della stessa vita. Gli infortuni sul lavoro, le morti da malattie contratte in una società che pensa prima di tutto alla salute dei portafogli borghesi, gli infortuni e le morti sulle strade, nei cieli e nei mari a causa di dissesti idrogeologici provocati dalla sete di profitti o da materiali da costruzione scarsi o da manutenzionie non fatte, stanno a dimostrare che per gli imprenditori la vita degli uomini conta solo se la loro forza lavoro può essere sfruttata adeguatamente in ragione del profitto capitalistico, e conta solo per il tempo e l’intensità con cui questo sfruttamento viene realizzato.

Già quando muore un operaio italiano è tanto se ne danno notizia i giornali o le radio locali; quando muore un operaio straniero, magari clandestino, non è di solito citata come notizia, tanto meno per denunciare le condizioni bestiali in cui sono costretti a sopravvivere gli immigrati. Se l’immigrato, quando è vivo, puiò contare su ben pochi diritti, quando muore, se mai ne aveva qualcuno, lo perde di sicuro.

I pochi diritti su cui gli immigrati possono contare in Italia sono il portato di una storia di lotte e di emigrazione che ha coinvolto in dimensioni enormi gli stessi proletari e contadini italiani, nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento. Ma senza lotta sociale, senza lotta di classe, ogni diritto che la borghesia concede e che gli viene strappato diventa carta straccia alla prima occasione. Le donne proletarie, pur essendo nate, cresciute, educate, istruite nello stesso paese dei proletari uomini, subiscono da secoli una precisa discriminazione nei posti di lavoro, e soprattutto nei salari. Perché? Fondamentalmente perché alla macchina produttiva capitalistica possono assicurare meno continuità di sfruttamento di quanto non la assicurino gli uomini; basta una gravidanza, e la donna proletaria cade immediatamente in condizioni di estrema precarietà. Se questo succede per le donne proletarie, native, figurarsi se non succede per gli immigrati, e donne per giunta.

 

DOVE SONO I PROLETARI ITALIANI?

 

L’Italia dai mille volti, non presenta però il volto proletario, il volto di classe.

La condizione di vita e di lavoro del proletario immigrato, oggi, è la condizione di vita e di lavoro del proletario nativo, domani. La concorrenza fra proletari è un aspetto essenziale della lotta che la borghesia fa contro il proletariato, per il semplice motivo che questa concorrenza tende a ridurre le pretese salariali dei proletari. Questo succede normalmente, ogni giorno, anche in assenza di proletari immigrati da altri paesi, ma in presenza di migrazioni interne al paese, come ad esempio successe in Italia negli anni subito dopo la fine della seconda guerra mondiale con il flusso migratorio dalle regioni del Sud Italia verso il nord industriale, Torino, Milano, Genova . Il flusso migratorio da altri paesi - oggi una vera e propria invasione - e soprattutto da paesi molto poveri non solo del bacino del Mediterraneo, ma dal centro dell’Africa o dal lontano Oriente, è un’occasione per i capitalisti per aumentare la concorrenza fra proletari in modo molto pesante: maggiore è la pressione dell’immigrazione ai confini dell’Italia, e maggiore è l’opportunità per gli imprenditori italiani di innescare una spirale sempre più acuta di competizione fra proletari nativi e proletari immigrati, soprattutto se gli immigrati sono in grado di svolgere le stesse mansioni degli italiani.

Ma la classe operaia italiana si è dimenticata delle proprie tradizioni di lotta; lasciandosi guidare da decenni dagli opportunisti, dai professionisti della conciliazione e della concertazione, essi hanno perso vigore e tempra, esperienza di lotta e capacità organizzative, senso della vera solidarietà di classe e di appartenenza ad una classe che ha finalità storiche indipendenti da quelle di ogni altra classe della società borgehse.

Aver praticato nelle lotte sociali, nelle lotte sindacali, e nella vita quotidiana, la collaborazione con gli interessi delle altre classi, e innanzitutto con gli interessi dei capitalisti, ha portato il proletariato a non saper più distinguere, nemmeno sul terreno della difesa elementare degli interessi immediati, quali sono i propri obiettivi e quali invece gli obiettivi dei padroni ( e dei loro lacché in livrea sindacale o politica).

Uno dei risultati più importanti, sul terreno immediato, che le lotte di classe del passato avevano raggiunto è quello della netta separazione fra proletario e borghese, fra proletario e lacché della borghesia (prete, ruffiano o bottegaio che fosse); la conciliazione fra interessi operai e padronali era naturalmente rigettata come forma di sabotaggio della lotta operaia. La rivendicazione, fosse salariale o normativa, si conquistava con la lotta, e la si difendeva con la lotta perché si sapeva che poteva essere rimangiata dal padronato in ogni occasione.

Oggi, e da molti decenni purtroppo, la conciliazione degli interessi operai e padronali è diventata il fondamento della politica sociale; quindi la lotta operaia, come mezzo per ottenere soddisfazione alle molteplici rivendicazioni operaie è stata emarginata, «superata», eliminata dalla normale attitudine di contrapposizione fra proletari e borghesi. Questa contrapposizione è stata trasformata in «lotta di concorrenza», fra proletari e borghesi, o meglio fra organizzazioni che si dicono operaie - come sindacati o partiti politici - e organizzazioni padronali al fine di dimostrare chi è più bravo a gestire l’economia aziendale e nazionale, chi è più bravo a gestire il consenso proletario alle scelte imprenditoriali e governative sul terreno economico e sociale. E in questo vortice di concorrenzialità, alla pari delle aziende che si misurano sul mercato, così i sindacati operai misurano la propria forza «contrattuale» sul piano dello scambio tra «valori» concordemente considerati scambiabili: ad esempio, una selva di sacrifici in termini salariali e normativi per le diverse categorie di lavoratori, in cambio di una partecipazione ai diversi tavoli in cui si prendono decisioni di altra strategia economica e sociale. In fondo, la carriera dei bonzi sindacali può arrivare molto lontano, come dimostrano Bertinotti (da ex sindacalista della Cgil a presidente della Camera dei deputati) e Marini (da ex sindacalista della Cisl a presidente del Senato della Repubblica)!

In un ambiente sociale e sindacale di questo tipo i proletari non avranno alcuna possibilità di reagire con un minimo di successo di fronte alla gragnuola di sacrifici che verrà e, soprattutto, di fronte ad un progressivo peggioramento delle loro condizioni immediate di vita e di lavoro.

Si innesta in questo processo di progressivo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, l’abbondante e disordinato flusso migratorio di questi ultimi anni. Nessun proletario egiziano, pachistano, peruviano, cingalese, tunisino, senegalese o di qualsiasi altro paese viene in Italia col proposito di sostituire i proletari italiani nei loro lavori. Se non avessero dovuto sfuggire alla fame e alla guerra dei loro paesi non si sarebbero nemmeno messi in viaggio, visti oltretutto i rischi mortali che comportano. E’ il meccanismo del lavoro salariato che obbliga gli operai a farsi concorrenza per ottenere un posto di lavoro, e quindi un salario; è il rapporto fra capitale e lavoro salariato che determina il prezzo della forza lavoro - il salario - e più offerta di braccia c’è sul mercato del lavoro, più il prezzo di questa merce tende a diminuire: è appunto una legge del mercato, la legge della concorrenza!

La lotta operaia ha lo scopo di ottenere un salario più alto, e un orario di lavoro più basso; queste sono le due principali e fondamentali linee di lotta che possono unificare i proletari sullo stesso terreno, sullo stesso fronte di lotta. Grazie a queste rivendicazioni è possibile per i proletari nativi attirare a sè, nella lotta, anche i proletari immigrati, e per i proletari immigrati svincolarsi dai ceppi dell’ulteriore oppressione borgehse in quanto stranieri.

Lottare quindi contro la concorrenza fra proletari diventa un obiettivo vitale sia per i proletari nativi che per i proletari immigrati. Le organizzazioni sindacali attuali, strutturate come sono sulla collaborazione di classe con i capitalisti, non potranno mai essere organizzazioni efficaci di difesa delle condizioni immediate di vita e di lavoro di tutti i proletari, al di sopra della nazionalità e o della razza di provenienza. E se anche attraverso di loro per qualcuno è possibile ottenere un miglioramento, sarà sempre un fatto del tutto parziale, occasionale e dovuto ad interessi di consenso sociale o elettorale.

I proletari italiani dovranno rifarsi alle vecchie tradizioni di lotta e classiste che proiettarono il proletariato italiano nella prospettiva rivoluzionaria degli anni Venti del secolo scorso. Dovranno disfarsi del peso di decenni di riformismo, di legalitarismo, di collaborazionismo, di conciliatorismo, che lo hanno completamente paralizzato, e lo potranno fare soltanto spezzando i legami con le organizzazioni sindacali e politiche tricolori. Certo, dovranno ricominciare ad organizzarsi direttamente, con le sole proprie forze, e sbaglieranno mille volte prima di imboccare la strada di classe e di utilizzare al meglio gli strumenti e i mezzi della lotta classista; ma saranno tentativi e sbagli positivi, perché fatti sulla strada della ripresa di classe e perciò contribuiranno alla crescita del movimento di classe. A questa lotta saranno chiamati anche i proletari immigrati, il cui destino anche individuale tende ad essere sempre più vicino a quello dei proletari nativi.

Le stragi del mare, che dal punto di vista mediatico fanno certamente più effetto ed è anche per questo che ne danno particolare risalto, sono stragi borghesi, perché i benefici da quelle stragi - in termini di peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro proletarie - li traggono non solo i borghesi direttamente interessati al traffico di carne umana, ma l’intera classe borghese.

La lotta proletaria, nella sua ripresa di classe, quando spezzerà i cordoni che legano i proletari al collaborazionismo e all’interclassismo, dovrà tener conto anche di questo sangue, versato da proletari in lotta per una misera sopravvivenza di schiavi salariati!

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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