I compiti multiformi ma inscindibili del partito di classe

(«il comunista»; N° 102; Dicembre 2006)

 

Questo sintetico ma efficace articolo sui compiti fondamentali del partito di classe fu pubblicato nel periodico di partito in lingua spagnola «el comunista», nel giugno del 1981; una sua traduzione fu pubblicata ne «il programma comunista» n.14 del luglio 1981. L’obiettivo era di tracciare per i giovani compagni che si avvicinavano al partito una rotta sicura, e inequivocabile, affinchè le loro aspirazioni e le loro energie rivoluzionarie trovassero scientifica certezza. Riaffrontando il tema della militanza di partito, fra compagni e con simpatizzanti e lettori, ci sembra opportuno riprenderlo da dove l’avevamo lasciato, circa un anno prima della crisi esplosiva del partito di ieri, ripubblicando questo scritto, primo di altri che seguiranno nei prossimi numeri.

 

Fin dall’origine, il marxismo ha dato degli obiettivi propri del Partito comunista una formulazione di un’esemplare nettezza. Il Manifesto del 1848 lo dice sinteticamente come per inciderlo nella mente degli schiavi salariati: costituzione del proletariato in classe, quindi in partito politico; rovesciamento del dominio borghese; conquista del potere politico. Non è il caso di dilungarsi sul fatto che, per il marxismo, questo rovesciamento presuppone la guerra civile e che questo potere politico può esistere solo nella forma della dittatura del proletariato.

72 anni dopo, reagendo alla degenerazione socialdemocratica e all’apoliticismo anarco-sindacalista, il II congresso dell’Internazionale Comunista, nel suo Manifesto redatto da Trotsky, afferma non meno lapidariamente: la III Internazionale è il partito dell’insurrezione violenta e della dittatura proletaria.

Ne segue che, se si aderisce al partito comunista, è per forgiare l’organo politico che si propone di dirigere l’insurrezione armata e la dittatura proletaria.

E’ estranea al marxismo l’idea che la rivoluzione sia il Gran Giorno vagheggiato dagli anarchici e dai sindacalisti rivoluzionari, negatori della necessità sia del partito che dello Stato proletari. La rivoluzione sarà tutto un periodo storico di avanzate e ritirate, di insurrezioni sconfitte e vittoriose, di guerre civili e di guerre rivoluzionarie, al cui centro starà la questione della conquista e dell’esercizio dittatoriale del potere politico.

La stessa insurrezione è un momento - essenziale, certo - della guerra di classe. Sua condizione oggettiva è una profonda crisi sociale (cioè, uno sviluppo intenso della lotta di classe) prodotta da uno slancio rivoluzionario negli strati più vasti del proletariato, che abbia causato una crisi politica generale della dominazione borghese di una tale ampiezza che il potere cominci a sfuggire dalle mani della classe capitalistica. Sue condizioni soggettive sono l’esistenza di un partito comunista dotato di una chiara visione programmatica, ferreamente centralizzato e disciplinato, agguerrito e temprato, che abbia saputo conquistare un’influenza determinante sui settori più combattivi della classe, e la volontà maturata nel partito e negli strati decisivi del proletariato (e dei soldati) di ingaggiare sistematicamente la lotta finale per la conquista del potere.

La preparazione della rivoluzione è quindi la preparazione del partito e, per il suo tramite, delle masse ai compiti supremi della guerra di classe.

 

TRE FRONTI DI UN’UNICA LOTTA

 

In un passo famoso, Engels riconosce tre compiti permanenti del partito: quello teorico, quello politico e quello economico-pratico (di resistenza ai capitalisti). La Sinistra italiana, nelle Tesi di Lione del 1926 (1), li specifica nel modo che segue:

«L’attività del partito... deve conglobare in tutti i tempi e in tutte le situazioni i tre punti seguenti:

«a) la difesa e la precisazione, in ordine ai nuovi gruppi di fatti che si presentano, dei postulati fondamentali programmatici, ossia della coscienza teorica del movimento della classe operaia;

«b) l’assicurazione della continuità della compagine organizzativa del partito e della sua efficienza, e la sua difesa da inquinamenti con influenze estranee ed opposte all’interesse rivoluzionario del proletariato;

«c) la partecipazione attiva a tutte le lotte della classe operaia, anche suscitate da interessi parziali e limitati, per incoraggiarne lo sviluppo, ma costantemente apportandovi il fattore del loro raccordamento con gli scopi finali rivoluzionari e presentando le conquiste della lotta di classe come ponti di passaggio alle indispensabili lotte avvenire e denunziando il pericolo di adagiarsi sulle realizzazioni parziali come su posizioni di arrivo...».

 

LA LOTTA TEORICA E POLITICA

 

L’attività teorica del partito è una condizione fondamentale della rivoluzione: senza teoria rivoluzionaria non può neppure esserci movimento rivoluzionario. La precisazione scientifica dei fini ultimi; il possesso e la difesa dei principi del comunismo, cioè degli obiettivi generali da raggiungere per dare alla luce la nuova società; la comprensione della dinamica della lotta di classe per inserirvi l’azione cosciente del partito (ossia la tattica) in grado di assicurare, al di là dei flussi e riflussi, delle vittorie e delle sconfitte, la capacità rivoluzionaria della classe; tutto ciò esige il fermo possesso della teoria marxista e la costante interpretazione dei fatti storici alla luce del marxismo. La lotta teorica traduce la coscienza del partito, che sarebbe antimarxista voler riscontrare nella coscienza individuale di ogni militante, così come la strategia militare non è disseminata in ognuno degli ufficiali e dei soldati di un esercito. La teoria è la bussola del partito rivoluzionario, senza la quale non ci può essere che il piatto empirismo dell’opportunismo, che si nutre dell’ideologia del nemico di classe.

La lotta politica, nella misura in cui può separarsi dalla lotta teorica e assumere una fisionomia propria, si esprime nella attività del partito che sale storicamente i gradini: a) della propaganda dei principi del comunismo e delle conclusioni della dottrina in rapporto all’esperienza e in antitesi alle altre forze e ai partiti delle classi nemiche e del proselitismo; b) della conquista di una crescente e decisiva influenza politico-organizzativa sulle masse combattive della classe, tendendo a subordinarne le lotte agli obiettivi rivoluzionari e alle loro esigenze generali; c) dell’insurrezione armata e dell’instaurazione e direzione del nuovo Stato di classe. In questa attività specifica e caratteristica si concreta la ragion d’essere del partito stesso. In sua mancanza - e, oggi, senza il suo primo livello - non si può parlare né di partito, né di azione di partito.

 

LA PARTECIPAZIONE ALLE LOTTE PARZIALI

 

La partecipazione attiva alle lotte parziali della classe operaia, in particolare a quella sindacale, costituisce uno dei terreni d’azione del partito, sebbene non si tratti di un’attività caratteristica del partito. Quello che, su questo terreno, differenzia i comunisti non è il fatto di partecipare alla lotta sindacale (aperta per principio ad ogni proletario indipendentemente dalla sua ideologia politica) né di parteciparvi in questa o quella maniera, ma il fatto di prendervi parte per rafforzare la convinzione che non v’è conquista stabile nella società borghese e ribadire la necessità di fare della continua guerriglia contro il capitale una scuola di guerra del comunismo (ma la scuola di guerra non è la guerra stessa!).

Mediante questa partecipazione, il partito può completare con la sua propaganda le lezioni dell’esperienza, guadagnare nuovi proseliti ed estendere la sua influenza politica e organizzativa fra le più vaste masse della classe. Reciprocamente, questa partecipazione è un fattore di potenziamento delle organizzazioni immediate e una garanzia del loro mantenersi sui binari della lotta di classe.

Ma se è certo che i comunisti partecipano alle lotte economiche e sono in grado di dar loro storicamente il massimo potenziale integrandole nella lotta per la rivoluzione, non è vero il reciproco: non è per il fatto di essere militanti sindacali, per quanto combattivi si sia, che si aderisce al partito comunista. Il militante sindacale combatte per obiettivi specifici di carattere economico (salari, tempo di lavoro ecc.). Il militante comunista, in quanto tale, iscrive la sua lotta in quella di un organismo che combatte per la conquista del potere.

 

IL LAVORO ORGANIZZATIVO

 

Un aspetto essenziale della lotta dei militanti comunisti è il lavoro organizzativo. Ogni guerra - e in particolare la guerra di classe - implica l’organizzazione, dallo Stato Maggiore fino al reparto, dalle comunicazioni fino alle sussistenze, dalle finanze fino al servizio di informazione e controspionaggio. Allo stesso modo, il partito presuppone un’organizzazione atta al combattimento su tutti i terreni della guerra sociale, con le sue strutture pubbliche e clandestine, legali e illegali, con le sue reti di comunicazione e informazione, con la sua amministrazione e i suoi amministratori, con i suoi organi di propaganda e di difesa, con le sue organizzazioni territoriali e settoriali, centrali e periferiche, verticali e orizzontali, che nel loro insieme devono assicurarne la continuità, l’efficacia e la sicurezza. Si tratta di un lavoro di partito, di un aspetto della sua lotta, che sostiene materialmente tanto il lavoro (anche teorico) di propaganda e di proselitismo, quanto il lavoro di agitazione e di partecipazione alle lotte immediate della classe e quello di direzione rivoluzionaria delle masse.

 

PER UNA CONCEZIONE NON LIMITATIVA DEI COMPITI DEL PARTITO

 

Questi diversi livelli dell’azione del partito rappresentano esigenze specifiche di un’azione unitaria. Ognuno di essi implica metodi di lavoro ben determinati e, di conseguenza, la specializzazione dei militanti. Ma il partito, in quanto collettività unitaria, «deve conglobarli in tutti i tempi e in tutte le situazioni», come detto più sopra. Per usare le parole di Engels, la lotta del partito deve «svolgersi in forma metodica nelle sue tre direzioni concentrate e reciprocamente connesse». Non solo, ma «la forza e l’invincibilità del movimento stanno precisamente in questo attacco che potremmo dire concentrico» (2).

Il partito si prepara e prepara la classe portando a termine l’insieme dei suoi compiti. Non si riduce a nessuno di essi. Non a caso la struttura di base del partito, cioè la sezione locale, è una struttura territoriale alla quale compete tanto il lavoro di propaganda e di proselitismo politico, quanto il lavoro organizzativo e quello di partecipazione alle lotte operaie. Non a caso i gruppi comunisti (o cellule) sindacali o di fabbrica, i gruppi di propaganda (ivi comprese le redazioni), come tutte le altre articolazioni del partito nei diversi settori della sua attività, dipendono dalle sue organizzazioni territoriali (sezioni locali, regionali, nazionali, centro internazionale). Il partito non è la somma delle sue diverse attività, ma la collettività centralizzata che assolve i compiti permanenti della preparazione rivoluzionaria.

Il partito non si limita al lavoro teorico. Esso non è soltanto un prodotto storico dotato di coscienza; è anche un fattore di storia dotato di volontà. Non si tratta soltanto di interpretare il mondo, ma di cambiarlo. Ma, reciprocamente, sottovalutare il lavoro teorico è aprire le porte all’impotenza, all’influenza asservitrice del nemico, al tradimento opportunista.

Il partito non si limita neppure al lavoro di propaganda e proselitismo. Il marxismo ha significato storicamente il superamento dell’utopismo che pretendeva di trasformare la società mediante l’educazione. La lotta contro l’«educazionismo» è stata inseparabile dal marxismo in generale e dalla lotta contro l’opportunismo in particolare. La stessa Sinistra ha avuto come una delle sue prime manifestazioni la lotta del 1912 contro il «culturalismo» della gioventù socialista, contro la destra che pretendeva di ridurre l’attività rivoluzionaria dei giovani all’acquisizione della «cultura socialista».

Il partito è, sì, un organo di propaganda; lo è tuttavia per essere un organo di combattimento. Ma, reciprocamente, sottovalutare la propaganda e il proselitismo politico significa svuotare l’azione del partito, privarlo della sua ragion d’essere. L’esercito della rivoluzione è un esercito di volontari, sia a livello del partito (che è il suo Stato Maggiore), sia a livello delle masse inquadrate nelle organizzazioni immediate della classe. L’adesione al partito, l’orientamento e la guida dei suoi organismi e dei suoi militanti, l’influenza che questi esercitano sulle masse operaie, presuppongono una propaganda politica permanente contro quella delle forze politiche avverse.

Il lavoro di partito non si limita neppure al lavoro organizzativo. Il marxismo, mentre riconosceva nel blanquismo la giustezza dell’esigenza dell’organizzazione centralizzata dell’azione insurrezionale e della conquista del potere, ha mostrato i limiti di questa concezione puramente organizzativa dell’azione rivoluzionaria. La rivoluzione implica la lotta di massa diretta dal partito, e perciò la conquista di una influenza decisiva da parte di quest’ultimo sulla prima. Ma, reciprocamente, sottovalutare il lavoro organizzativo implica una visione pacifista e fatalista della lotta di classe.

Pacifista, nella misura in cui la lotta di classe è una guerra a morte per il potere: la borghesia ha dimostrato tutta la sua capacità di resistenza in difesa della propria dittatura; lo Stato Maggiore del proletariato deve prepararsi metodicamente e sistematicamente ad una guerra che non è soltanto di idee, ma va condotta coi mezzi materiali di ogni guerra civile. Fatalista, nella misura in cui lascia ad altri la risoluzione dei problemi che invece competono al partito, e solo ad esso, per assicurare la continuità e l’efficienza dell’azione politica dell’avanguardia rivoluzionaria.

 

CONTRO L’ECONOMICISMO

 

Il partito non si limita neppure alla partecipazione alle lotte immediate. L’orizzonte del partito non si riduce alla guerra di guerriglie sindacali. La sua lotta non si confonde con nessuna delle lotte parziali e non è la somma della sua partecipazione ad esse. Marx riconosce come precursore del movimento comunista non il movimento spontaneo di carattere sindacale, ma l’utopismo che portò con sé l’anticipazione programmatica della società futura, e la Congiura degli Eguali di Babeuf, che, insieme all’intuizione del comunismo, apportò la lotta politica proletaria per la conquista del potere. La genesi e lo sviluppo del movimento comunista non coincide con, e non si sovrappone al, movimento sindacale della classe operaia. Quest’ultimo affonda le sue radici nell’antagonismo che oppone profitto e salario, e che non esce né può uscire dall’orizzonte della società borghese; mentre il movimento comunista si situa nel terreno della lotta per un nuovo modo di produzione, nel terreno politico della conquista del potere. Il movimento sindacale contrasta gli effetti dello sfruttamento salariale; il movimento politico rivoluzionario tende ad estirparne le cause.

Le energie rivoluzionarie della classe non sono cristallizzate nel movimento sindacale, ma in quello politico. L’adesione al partito rivoluzionario implica che si superino i limiti inerenti ad ogni movimento sindacale, che ci si elevi alla coscienza e alla volontà comuniste. Perciò era ed è opportunista la pretesa dell’economicismo di ieri e di oggi di «dare alla lotta economica un carattere politico» (3).

La funzione del riformismo è appunto quella di ridurre l’orizzonte della lotta proletaria alla lotta per una più favorevole ripartizione fra salario e profitto. Perciò, né la coscienza né la volontà comunista possono risultare dal movimento sindacale; perciò la coscienza rivoluzionaria dev’essere importata dall’esterno nel movimento spontaneo, mediante l’azione del partito, per integrare l’azione delle masse in una lotta che superi i limiti della congiuntura e degli interessi immediati.

Far dipendere la nascita, le direttive e l’azione del partito dalle lotte parziali e dai loro alti e bassi, ossia dalla curva spontanea del movimento sindacale, significa sacrificare gli obiettivi finali ai risultati contingenti, che è la definizione stessa dell’opportunismo; significa far propria la formula del riformismo di sempre, per il quale «il movimento è tutto, il fine è nulla».

Il partito non è né un’organizzazione scelta di propagandisti (un «partito di professori»), né un partito di sindacalisti, per combattivi che siano: è l’organizzazione dei proletari che alla coscienza dei principi comunisti uniscono la decisione di consacrare tutte le loro forze alla causa della rivoluzione.

Ma, reciprocamente, sottovalutare la partecipazione alle lotte immediate significa consegnare il proletariato che difende le sue condizioni di vita nelle mani di influenze avverse; significa vietarsi l’apprendimento della difficile arte della lotta e la possibilità di estendere l’influenza del partito fra le masse; significa, insomma, rendere impossibili le condizioni indispensabili della preparazione rivoluzionaria del partito e della classe.

Non esiste una «via maestra» percorrendo la quale forgiare concretamente il partito rivoluzionario ed estenderne l’influenza; il partito si rafforza e acquista la capacità di dirigere la classe nel suo cammino, sviluppando l’insieme dei suoi compiti nel corso di una lotta che si iscriva nella ferrea continuità fra le sue posizioni programmatiche e le sue consegne di propaganda e di battaglia.

Non esiste via «più breve» perché non ne esiste altra.

 


 

(1) Vedi le Tesi di Lione, presentate dalla Sinistra del Pcd’I al 3° congresso del partito a Lione nel 1926, § 3. Azione e tattica del partito, nel volume di partito In difesa della continuità del programma comunista, pp. 96-97.

(2) Cfr. F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, Prefazione del 1874, Ed. Rinascita, 1949, p. 25.

(3) Cfr. Lenin, Che fare?, Ed. Riuniti, 1974, cap.III, § a) L’agitazione politica e la sua limitazione da parte degli economisti, pp.96-97.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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