La nostra rotta e tracciata dal comunismo rivoluzionario, sulla linea storica del marxismo non adulterato

(«il comunista»; N° 102; Dicembre 2006)

 

LA FINE DEL MONDO ?

 

Come uno spettro, si aggira sul mondo borghese la paura della fine del mondo. I grandi mass-media di ogni paese stanno ponendosi la fatidica domanda: moriremo tutti per asfissia?, per inquinamento?, per i disastri climatici che la forsennata industrializzazione, soprattutto nei paesi più popolati del mondo e di più giovane capitalismo - Cina, India, Indonesia, Messico, Brasile, per citarne alcuni - provoca inesorabilmente? La terra scomparirà?

«Arriva il sorpasso della Cina sugli Stati Uniti, la data è vicinissima, appena tre anni. Ma la leadership mondiale che i cinesi conquisteranno già nel 2009 non sarà quella misurata dal Prodotto interno lordo, è un record funesto che nessuno vorrà celebrare: il primato nelle emissioni di gas carbonici che avvelenano l’aria del pianeta, provocano l’effetto serra e il surriscaldamento climatico», così si legge su la Repubblica dello scorso 8 novembre. E’ quanto annuncia l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) nel rapporto World Energy Outlook 2006.

La propaganda borghese del catastrofismo nucleare degli anni Sessanta è sostituita ora dal catastrofismo climatico: al posto dell’atomo il gas carbonico. Secondo lo schema ideologico borghese, come lo scatenamento della guerra dipende dalla volontà di alcuni potenti, così la morte del pianeta dipende dagli uomini che non avrebbero la «volontà» di controllare in modo appropriato le emissioni carboniche degli impianti industriali. Salvo arrendersi di fronte al necessario sviluppo economico del capitalismo e alle sue conseguenze disastrose, ovvero alla folle rincorsa al profitto per la quale è permesso tutto.

Il vorticoso e selvaggio sviluppo industriale dell’ultimo quindicennio in Asia ha effettivamente aggiunto ad una situazione di inquinamento atmosferico già resa grave dal precedente sviluppo industriale altrettanto vorticoso e selvaggio in Russia, in Europa e negli Stati Uniti, ulteriori tonnellate di «gas serra» nell’atmosfera. Non l’uomo in generale, ma l’uomo borghese è semmai il colpevole; più esattamente il modo di produzione capitalistico!

La caratteristica fondamentale del modo di produzione capitalistico è la ricerca spasmodica di profitto; il che avviene esclusivamente con la produzione di merci da parte di aziende in un ambito (il mercato mondiale) in cui vige la concorrenza sempre più acuta fra capitali e sistemi economici capitalistici necessariamente fra di loro ineguali. Concorrenza che spinge costantemente le aziende a introdurre nei processi di produzione tecniche e tecnologie sempre più rivoluzionarie per abbattere i costi di produzione per unità di merce; ma i costi di produzione vengono abbattuti contemporaneamente dalla riduzione dei costi di fabbricazione e manutenzione dei macchinari, dei costi della sicurezza sul lavoro e, naturalmente, dei costi della manodopera. Per quanto attiene ai macchinari, e all’energia che serve per farli marciare a pieno ritmo, il capitalismo giovane - sebbene viva nelle condizioni storiche adatte per attingere alle più avanzate tecniche di produzione - è in ogni caso condizionato, oltre che dalla concorrenza dei capitalismi più vecchi, dall’ambiente sociale in cui si è innestato e sviluppato.

L’ambiente sociale è determinato storicamente da almeno tre fattori importanti: dall’influenza che nella società ha il vecchio modo di produzione, e quindi dalle vecchie necessità economiche e abitudini sociali ad esso collegate (manodopera proveniente dalla campagna, poco o per nulla istruita, abituata all’isolamento e alle fatiche straordinarie del lavoro manuale giornaliero, non organizzata a difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro); dalla profondità o meno della rivoluzione borghese che ha travolto la vecchia società e che ha aperto la strada all’espansione della manifattura e dell’industria - quindi del capitalismo -; dalla concorrenza internazionale che ha permesso o meno al giovane capitalismo di svilupparsi attraverso il mercato interno e il mercato mondiale.

Cina e India, i due paesi più popolosi del pianeta, fino alla seconda guerra mondiale erano paesi che sembravano destinati al «sottosviluppo capitalistico»; erano paesi coloniali nei quali il predominio del colonialismo capitalista, in particolare europeo, si caratterizzava non per uno sviluppo economico e industriale moderno, ma per il sistematico saccheggio delle loro risorse naturali e per lo sfruttamento bestiale della manodopera locale. Il vecchio e sviluppatissimo capitalismo europeo e americano, se da un lato, per ragioni di concorrenza, ha teso a limitare lo sviluppo economico di Cina, India, Indonesia, Brasile, e di altri grandi e popolosi paesi, dall’altro lato - proprio per ragioni di mercato, alla ricerca di nuovi sbocchi per le proprie merci e i propri capitali - ha dovuto in qualche modo accettare il loro crescente sviluppo, in parte favorendolo.

Stiamo parlando di un unico ambiente economico e sociale, quello capitalistico e borghese in cui sono immersi tutti i paesi del mondo, anche quelli che falsamente per decenni si sono detti o si dicono ancora «socialisti».

La Rivoluzione d’Ottobre, guidata dal partito bolscevico di Lenin, negli anni gloriosi dell’affermazione del marxismo sul proletariato mondiale, aveva fornito materialmente i presupposti politici per la vittoria non solo in Russia, ma nel mondo, della rivoluzione proletaria e comunista, l’unica che può vincere una volta per tutte il dominio dittatoriale sul mondo della classe borghese e del modo di produzione che essa rappresenta, appunto il capitalismo. L’unica che può intervenire drasticamente nella struttura economica della società per cambiarne lo scopo, l’unica che può riorganizzare l’intera società in funzione dei bisogni della specie umana e non dei bisogni del mercato. Questo grande obiettivo storico significherà non solo la realizzazione di una società armoniosa, in cui i catastrofici cicli di crisi economiche e sociali che portano a guerre sempre più devastanti e a distruzioni dell’ambiente naturale sempre più vaste saranno superati per sempre, ma darà alla stessa vita di specie (di ogni specie vivente) una prospettiva e un futuro certi, volti alla conoscenza, alla scienza, all’armonia sociale, in un rapporto non antagonista fra società umana e natura.

La sconfitta di quella Rivoluzione, che chiamiamo russa al solo scopo di identificarne i limiti territoriali e i gravosi compiti ancora storicamente “borghesi” che si dovette accollare, ma che è stato il primo anello della rivoluzione proletaria mondiale, ha facilitato la sconfitta del proletariato internazionale. La Sinistra comunista, cui noi ci colleghiamo direttamente, ha sostenuto, fin dai primi anni Venti del secolo scorso, che il cammino rivoluzionario del proletariato europeo e americano, avanguardie del proletariato mondiale, è stato sbarrato non soltanto dalle difficoltà economiche obiettive di una Russia arretrata e ancora immersa nell’economia contadina, ma dalla contemporanea opera sistematica di deviazione e di tradimento da parte dei partiti che si professavano socialisti e comunisti ma che, nella realtà della loro azione e della loro ideologia, erano al servizio della difesa della società borghese, della sua democrazia e, naturalmente, del suo modo di produzione. La classe borghese ha vinto non per suo intero merito, ma grazie all’apporto di un alleato che si è dimostrato decisivo: l’opportunismo, prima di tipo socialdemocratico, poi di tipo staliniano.

Con il «socialismo in un solo paese», le forze internazionali dell’opportunismo, stravolgendo la teoria marxista, hanno dato un colpo mortale al movimento proletario mondiale, ricacciandolo nel pantano del collaborazionismo interclassista e del nazionalismo borghese. Vinta la rivoluzione proletaria in Russia e in Europa, la controrivoluzione borghese si è data a rafforzare la propria dittatura di classe attraverso sistemi di governo che le assicurassero la piena ripresa del controllo politico e sociale sul proletariato: ai regimi democratici e socialdemocratici aggiunse due nuovi metodi di governo: quello fascista e quello staliniano. Uno, quello fascista, dichiaratamente reazionario, antiproletario e anticomunista; l’altro, quello staliniano, falsamente proletario e comunista, ma sostanzialmente borghese e reazionario. Non c’era altro modo per vincere il proletariato rivoluzionario che colpirlo alle spalle, distruggendone energie, potenzialità, tradizioni e prospettive attraverso gli arnesi dell’opportunismo, attraverso i partiti che utilizzarono la loro stessa storia rivoluzionaria e comunista per falsificare la realtà, per far passare per rivoluzionario quel che era conservatore, per far passare per socialismo quel che era soltanto capitalismo. Centinaia di migliaia di militanti comunisti, di ogni razza e nazione, furono eliminati, assassinati da una controrivoluzione che non si risparmiò nel proprio cannibalismo. Il terrore di perdere il potere e il dominio sul mondo a causa della vittoria proletaria e comunista centuplicò la forza di resistenza delle classi borghesi, e lo spirito di vendetta. Lo spettro del comunismo, materializzatosi con la rivoluzione bolscevica e con i tentativi rivoluzionari in Germania e Ungheria, sviluppò nelle classi borghesi europee una reazione all’ennesima potenza, attaccate com’erano ai propri privilegi. L’odio di classe della borghesia contro il proletariato si manifestò da allora con violenza inaudita, sistematica, permanente e sistematicamente preventiva. E ancor oggi, pure nei paesi che presentano una situazione di pace apparente - salvo registrare tutti i giorni un bollettino di guerra in qualche angolo del mondo - la violenza borghese contro il proletariato non si ferma mai, sia essa economica , sociale, giuridica, politica o culturale. Basti osservare quel che succede alle masse di proletari migranti in cerca di mezzi per sopravvivere e di sfuggire miseria, fame, guerre e malattie; o quel che succede alle masse operaie, soprattutto giovani, in tema di precarietà del lavoro, della vita, del futuro.

Ma la violenza del modo di produzione capitalistico non riguarda solo il lavoro umano, lo sfruttamento del lavoro salariato per estorcene il plusvalore. Riguarda inevitabilmente anche la natura, l’ambiente in cui viviamo. Il mondo borghese è il mondo dello spreco, del rifiuto, dell’usa e getta, del disinteresse verso il valoro d’uso dei prodotti per privilegiare esclusivamente il loro valore di scambio. La folle corsa a fabbricare merci per valorizzare i capitali investiti è la caratteristica di ogni azienda, ed ogni azienda guarda soltanto al proprio profitto, alle proprie «quote di mercato», al proprio tornaconto capitalistico; l’imperativo di ogni azienda è produrre e commerciare, non importa se quel che si produce e si commercia sia davvero utile e non sia dannoso: l’importante è vendere, quindi consumare!

Si estraggono materie prime e si trasformano prodotti in merci per la valorizzazione del capitale, merci che entrano in concorrenza fra di loro non per qualità di processi lavorativi o per il loro valore d’uso, ma per il loro valore di scambio. Il valore di scambio delle merci è l’elemento di violenza intrinseca che viene immesso nel mercato e che circola in tutto il mondo insieme con le merci. La concorrenza capitalistica è concorrenza fra merci e fra capitali, è una guerra che per teatro ha il mondo intero, globalizzata come si ama dire oggi. La violenza delle guerre guerreggiate è preceduta dalla violenza di cui è intrisa la concorrenza capitalistica, che a sua volta alimenta e fa maturare i fattori economici e politici che scatenano le crisi e la guerra guerreggiata. La spartizione del mondo tra le più grandi potenze imperialistiche non è un gioco a scacchi: è l’obiettivo permanente della lotta di concorrenza fra capitalisti. E in questo obiettivo c’è posto solo per il profitto e il dominio sui mercati del mondo. La guerra è la continuazione della politica fatta con altri mezzi, sosteneva Von Clausewitz, con mezzi militari, appunto. La guerra borghese - che è l’espressione più concentrata della violenza di cui è intrisa tutta la società presente - è quindi congenita alla società borghese, alla società che produce merci, che al centro della propria attività ha il capitale e il lavoro salariato, e perciò il profitto capitalistico.

Ai capitalisti importa poco che le merci siano il risultato di processi lavorativi altamente inquinanti o meno; che siano il risultato o meno di un sistema produttivo equilibrato tra risorse a disposizione e il loro effettivo consumo. L’importante è che siano vendibili nella quantità utile per ricavarne profitto, e nel tempo più veloce possibile di circolazione nel mercato; ciò che rimane invenduto spesso lo si toglie dal mercato, lo si elimina perché la sua eventuale vendita non comporta quel tanto di guadagno che faccia dire: non ci perdo!

Se poi le masse di schiavi salariati sfruttati nei diversi comparti della produzione e della distribuzione capitalistica stentano a mangiare due volte al giorno, a curarsi dalle malattie e a sopravvivere alla fatica sempre più pesante da sopportare, è un problema che i capitalisti delegano alle chiese, alla carità, alla propaganda dell’umanitarismo. Per ragioni di profitto, capitalistico il grado di importanza delle condizioni di vita e di lavoro umane e delle condizioni ambientali di vita e di lavoro sono direttamente proporzionali alla quantità e alla velocità di valorizzazione del capitale. La ricerca di nuove fonti di energia costa troppo rispetto alle vecchie fonti di energia? Non la si finanzia, o al massimo la si delega a piccole cerchie di ricercatori che, senza mezzi e senza prospettive, si adattano ad una ricerca scientifica completamente succube degli interessi capitalistici di breve periodo dei grandi gruppi della finanza internazionale. La produzione capitalistica ha bisogno di aumentare in quantità e in velocità di immissione nel mercato contenendo al massimo i costi di produzione? Si usano macchinari e materie prime a disposizione sul mercato al minor costo possibile, si tratti di carbone, petrolio, acqua, o di manodopera.

Il fatto è che la produzione moderna, che si basa sul modo di produzione capitalistico - diffusa ormai in tutto il mondo - è organizzata per aziende. E questo impedisce congenitamente al capitalismo di pianificare la produzione non solo per soddisfare i bisogni reali della specie umana, ma anche solo per le «esigenze di mercato». Nella realtà capitalistica è il mercato che detta legge alle aziende, e non viceversa. La pianificazione presuppone conoscenza complessiva dei bisogni della società, delle risorse di materie prime, dell’evoluzione della tecnica e della scienza, della forza lavoro, dei gradi di diseguaglianza tra le varie aree del mondo ecc. Presuppone cioè un centro mondiale in grado di organizzare in modo equilibrato e armonioso tutti gli aspetti materiali e ideali della vita della specie in rapporto organico con la natura, bilanciando le esigenze attuali con quelle future. Questo risultato non sarà mai dato dallo sviluppo capitalistico il quale è spinto sì, storicamente, alla concentrazione e alla centralizzazione, ma non dai bisogni della società di specie ma dai bisogni del mercato che tutto è fuorché il mezzo attraverso il quale raggiungere la piena armonia sociale.

Il mercato è il luogo dove vengono concentrate tutte le contraddizioni della società capitalistica e nel quale esse tendono ad acuirsi e scoppiare; ogni azienda capitalistica dipende sia per la sua nascita che per il suo sviluppo e per la sua morte dalla lotta di concorrenza, dunque dipende sempre e comunque dal mercato. Il capitalismo, essendo un modo di produzione organizzato per aziende - leggi proprietà privata, appropriazione privata della produzione sociale - è condannato fin dalle sue origini ad essere prigioniero del mercato. Nel capitalismo tutto è merce, tutto è trattato come merce, compreso l’acqua che beviamo e l’aria che respiriamo! Il destino di questo modo di produzione è storicamente segnato: dato che non può arrestare la sua folle corsa alla produzione e riproduzione di capitale, o verrà abbattuto e sostituito con il modo di produzione comunistico, che per scopo non ha la valorizzazione del capitale ma la soddisfazione dei bisogni della specie umana, oppure andrà incontro a crisi sempre più devastanti e profonde che potrebbero rigettare la società umana nella barbarie dell’economia naturale.

 

La fine del capitalismo

 

La tesi marxista sostiene che lo sviluppo storico del capitalismo porta necessariamente verso il comunismo, nel senso che lo sviluppo delle forze produttive sotto il capitalismo pone le basi materiali e storiche per il passaggio dalla società divisa in classi alla società senza classi, quindi dalla società mercantile per eccellenza - il capitalismo - alla società umana per eccellenza - il comunismo.

Il marxismo sostiene che il capitalismo rappresenta l’ultima società divisa in classi che la storia dello sviluppo sociale umano ha prodotto; ultima, in quanto ha reso materialmente e storicamente possibile il passaggio storico ad una società superiore, appunto alla società senza classi, senza proprietà privata, senza appropriazione privata della ricchezza sociale, senza merce, denaro e senza Stato, ossia senza l’organizzazione della forza di difesa degli interessi della classe dominante.

E’ ovvio che tutti i rappresentanti borghesi della politica e dell’intellighentsja non siano d’accordo con la tesi marxista, nel senso che non sono in grado di immaginare una società che non abbia più il mercato, che non abbia più lo Stato, che abbia seppellito definitivamente la proprietà privata e l’appropriazione privata dei prodotti. In difesa del proprio dominio economico e politico sulla società, la classe borghese dominante è obbligata ad inculcare nei crani proletari l’idea che per quanti cambiamenti sociali possano avvenire, per mezzo di guerre o di rivoluzioni, la struttura economica e sociale della società non potrà mai cambiare, sarà sempre quella capitalistica. L’implosione dell’Urss e dei paesi un tempo suoi satelliti, ha dato l’occasione alla propaganda borghese di «dimostrare» che capitale e lavoro salariato, merce denaro e profitto, proprietà privata e concorrenza di mercato non erano solo «categorie» del mondo occidentale, ma fattori economici fondamentali dei quali la società non può disfarsi, pena, appunto, ... il fallimento come è avvenuto nell’Urss... mentre l’implosione dell’Urss la si deve alle conseguenze di crisi economiche capitalistiche in rapida successione, negli anni Ottanta, che hanno messo in ginocchio - e non poteva essere altrimenti - la sua tenuta imperialistica soltanto attraverso una forza militare che non era più sostenuta economicamente da una forza sufficientemente potente da reggere alla concorrenza delle altre potenze imperialistiche mondiali.

La nostra corrente ha dedicato molte energie e molto lavoro alla restaurazione teorica del marxismo e alla critica di tutte le deviazioni teoriche e politiche dal marxismo, prima fra tutte, per ovvie ragioni di battaglia di classe, lo stalinismo: la sua pretesa di «costruire socialismo in un solo paese» era già la consacrazione della definitiva deviazione dal solco del marxismo rivoluzionario, e conteneva tutti gli elementi delle deviazioni successive (leggi: via nazionale al socialismo, mercato socialista, democrazia socialista ecc.). Kruscev arriverà a pronunciare la bestemmia più alta: il raggiungimento del comunismo pieno nella sola Russia nel 1980! A tal punto la deviazione andò in profondità che i proletari furono portati a credere che il socialismo può essere raggiunto solo pacificamente, e gradino per gradino, pezzo a pezzo, paese per paese, municipio per municipio! I borghesi non hanno mai ringraziato abbastanza.

Confondere la nazionalizzazione, o la statalizzazione come si disse poi, con il socialismo economico è stato uno dei punti centrali della propaganda opportunista: significava legare due elementi fondamentali della politica, l’indirizzo economico della società e lo Stato, annunciando che al socialismo si poteva - e si doveva - arrivare attraverso il graduale passaggio dalla proprietà privata delle aziende alla proprietà statale, e attraverso l’intervento diretto dello Stato nell’economia; il tutto naturalmente con mezzi pacifici, che sono poi i mezzi parlamentari. Lo stravolgimento del marxismo non stava soltanto nell’etichettare socialista tutto ciò che appariva collettivo, ossia senza un proprietario con nome e cognome, ma nell’assumere come base teorica l’insostituibilità del modo di produzione capitalistico all’interno del quale ci si apprestava a proporre soltanto delle riforme.

Cambiare tutto per non cambiare niente, affermava il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, all’epoca del tramonto borbonico in Sicilia alla vigilia dell’unità d’Italia. Allo stesso modo ragiona l’opportunismo: al massimo si cambia la forma, ma la sostanza resta esattamente quella di sempre: lo sfruttamento capitalistico del lavoro salariato, la produzione di merci, il dominio della classe borghese sull’intera società.

Per un cambiamento economico e sociale effettivo c’è bisogno della rivoluzione. Lo è stato per la società borghese rispetto alla società feudale, come per la società feudale nei confronti della società schiavistica. Lo sarà per la società comunista rispetto alla società borghese, con una differenza sostanziale: prima della trasformazione economica della società dovrà vincere la rivoluzione politica attraverso la quale l’unica classe rivoluzionaria - il proletariato - guidata dal suo partito di classe, conquisterà il potere politico abbattendo violentemente lo Stato borghese, e instaurerà al posto della dittatura della borghesia la dittatura del proletariato. Solo dopo che la rivoluzione politica del proletariato avrà vinto su diversi paesi economicamente avanzati, la trasformazione economica dal capitalismo al socialismo (ossia alla fase inferiore del comunismo, quella che corrisponde al periodo della dittatura del proletariato) potrà essere sufficientemente avviata sì da impedire la restaurazione del capitalismo.

La fine del capitalismo non avverrà se non dopo un lungo periodo rivoluzionario, nel quale le forze della dittatura proletaria (quindi, le forze del comunismo) combatteranno per la vita o per la morte contro le forze di conservazione capitalistica e borghese. Il sol dell’avvenir non sorgerà all’improvviso, una bella mattina, anche se dopo una lunga guerra di classe tra i proletari di tutto il mondo e lo schieramento reazionario che i borghesi di tutto il mondo organizzeranno con la massima determinazione; il comunismo sarà il risultato di una lotta tra forze storiche gigantesche, le forze dell’avvenire, della società senza classi, e le forze della reazione, della società divisa in classi. In questo senso Engels ricorda che con la rivoluzione proletaria finirà la preistoria e si aprirà finalmente la storia dell’umanità; l’ultimo storico antagonismo di classe sarà definitivamente superato.

Si è detto tante volte che il capitalismo è caratterizzato dalla forma del lavoro salariato, forma che consente alla produzione di diventare da individuale a sociale; ma è ben vero che il lavoro salariato esisteva anche prima della società capitalistica.

E sul lavoro salariato vale la pena di soffermarsi. Scrive Engels nel suo efficacissimo libretto «Il socialismo dall’utopia alla scienza» (1), che la forma del lavoro salariato preesistente ai capitalisti «era allora un’eccezione, un’occupazione ausiliaria, un accessorio, uno stadio di transizione. Il contadino, che a intervalli diventava giornaliero, aveva il suo boccone di terra, che alla peggio poteva bastare a dargli da vivere. Gli statuti delle corporazioni provvedevano a che il garzone di oggi diventasse il maestro di domani. Ma tostoché i mezzi di produzione divennero sociali e furono concentrati nelle mani dei capitalisti, la cosa mutò aspetto. Tanto i mezzi di produzione quanto i prodotti dei piccoli produttori isolati vennero a poco a poco perdendo il loro valore, né rimase loro altra via di uscita che collocarsi quali salariati presso il capitalista. Il lavoro salariato, dapprima eccezione ed elemento accessorio, divenne regola e base di tutta la produzione: mentre prima era un’occupazione ausiliaria, ora divenne l’attività esclusiva dell’operaio. L’operaio salariato temporaneo si trasformò nel salariato a vita. Il numero dei salariati a vita s’accrebbe inoltre vertiginosamente per il contemporaneo crollo dell’ordinamento feudale, per lo sbandamento del servitorame dei signori feudali, per la cacciata dei contadini dalle loro masserie ecc. La separazione tra i mezzi di produzione concentrati nelle mani dei capitalisti, da un lato, e i produttori, ridotti a non possedere più nulla all’infuori della propria forza lavoro, da un altro lato, divenne completa. La contraddizione tra produzione sociale e appropriazione capitalistica si presentò come antagonismo fra proletariato e borghesia».

La formazione sociale capitalistica, dunque, poggia sostanzialmente sulla contraddizione tra produzione sociale e appropriazione privata della produzione sociale. Il problema della formazione sociale superiore al capitalismo è di distruggere questo antagonismo, distruggendo l’appropriazione capitalistica ma mantenendo la produzione sociale che è il vero salto qualitativo storico rispetto alle società di classe precedenti e che rappresenta la condizione storica del trapasso al comunismo.

Da comunisti rivoluzionari, intransigenti, coerentemente marxisti, siamo spesso stati accusati di idealismo, di utopismo. Ma la nostra certezza nella società futura comunista poggia sul materialismo storico e dialettico. «Una formazione sociale - scrive Marx - non perisce mai finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione» (2). Ciò riguarda qualsiasi formazione sociale esistita nella storia, quindi anche la società senza classi di domani.

Non deve sfuggire al lettore che si sta parlando di tempi storici, e che i problemi di cui parla Marx sono inerenti alle contraddizioni sociali che si accumulano nella vecchia società fino a diventare irrisolvibili se non attraverso, appunto, la morte della vecchia formazione sociale per dare spazio alla nuova.

Che la «fine del capitalismo» voglia dire la «fine del mondo» non è altro che il grido d’allarme che la classe dominante borghese lancia di fronte ad un futuro che la terrorizza. La borghesia non è in grado di pensare la società se non in termini di mercato, profitto, capitale; una società senza denaro?, e la borghesia vi accuserà di voler tornare al baratto; una società senza profitto?, e la borghesia vi accuserà di voler uccidere la libera impresa; una società senza merci, senza valori di scambio, quindi senza mercato?, e la borghesia vi accuserà di voler tornare indietro nella storia, nell’oscurantismo medievale. Per i borghesi non può esistere una società che in cui non sia esercitato il dominio del capitale del quale si sentono - e sono - i rappresentanti, magari con l’illusione di averlo concepito, scelto, voluto, mentre non sono che i guardiani di un modo di produzione che consente loro di appropriarsi nella forma della proprietà privata dell’intera produzione sociale.

La borghesia, terrorizzata da un futuro in cui il suo dominio e i suoi privilegi non esisteranno più (per la semplice ragione che non esisteranno più le classi con il loro antagonismo), non vede alternative: o lo sviluppo dell’attuale società capitalistica attenuandone gli eccessi (come hanno sempre predicato i riformisti e gli ambietalisti, ma anche il papa), e quindi con uno sviluppo «sostenibile», oppure la fine di tutto, della vita e della terra. La maledizione di dio che nel medioevo faceva gridare i cattolici invasati: mille non più mille!, prospettando la fine del mondo allo scoccare dell’anno Mille per colpa dei peccati degli uomini, si riproduce in questo 2006 sotto forma della superstizione più vicina al borghese: la fine del mondo si può evitare se gli Stati, i poteri esistenti si decidono a vigilare con più attenzione e volontà sugli eccessi dell’industrializzazione selvaggia.

I peccati dell’epoca moderna, quindi, sono tutti ascrivibili all’infinita sete di profitto capitalistico soprattutto delle nuove economie lanciatesi potentemente a rincorrere sul mercato mondiale le posizioni dominanti dei capitalismi di vecchia data, leggi appunto Cina, India ecc. Ma la sete di profitto non è altro che il motore dell’economia capitalistica, nei vecchi come nei nuovi capitalismi. La sete di profitto è inversamente proporzionale ai bisogni naturali dell’uomo. «Il capitalismo è l’epoca della soddisfazione dei bisogni artificiali e l’insoddisfazione dei bisogni naturali», scrive Bordiga in Mai la merce sfamerà l’uomo (3). «Per i primi non vi sono limiti alle quantità offerte: basta aprire nuove fabbriche (in generale) e adesso per “forzare la domanda”, come trovammo detto in Marx, vi è tutta una scienza, coi suoi professori, i suoi corsi, i suoi congressi. Si tratta del marketing, dell’arte di lanciare sul mercato nuovi prodotti e trovare sempre maggior numero di consumatori e volume di piazzamento. Pubblicità e artifizi di ogni genere concorrono a far sorgere dal nulla la nuova “domanda”». La follia iperproduttiva sta in questo bisogno congenito del capitalismo, produrre qualsiasi cosa, e soprattutto «valori d’uso» artificiali sollecitando una «domanda di mercato» prima inesistente, al fine di vendere sempre di più oggetti che, per la maggior parte, si dimostrano inutili e dannosi; basti pensare alla plastica o alle vernici in tutte le loro applicazioni e al ciclo dei rifiuti di tutti gli oggetti di plastica e verniciati, che aumentano sempre più di volume e il cui smaltimento è sempre più inquinante.

Il capitalismo, nel suo sviluppo forsennato, produce sempre più valori d’uso artificiali, e sempre meno valori d’uso naturali, e perciò è inevitabile - dato che il profitto capitalistico è assicurato alla condizione di abbattere sempre più i costi di produzione e il costo del lavoro - che le condizioni di vita della specie umana progressivamente peggiorino: aumenta la miseria per popolazioni sempre più vaste, aumentano fame e malattie ripresentandosi come fenomeni epidemici e cronici, aumentano i fattori inquinanti e la distruzione ambientale, infortuni e morti sul lavoro, feriti e morti nelle mille guerre esistenti; cresce geometricamente la precarietà della vita della specie umana e, in genere, delle specie viventi animali e vegetali.

Il quadro è terribile, e il terrore dei borghesi sul futuro del pianeta è del tutto giustificato. I cento mali che minacciano costantemente la salute della società borghese pare non hanno in realtà rimedio in questa società. Tutti gli ordinamenti che la società borghese adotta per mitigare le conseguenze dei suoi mali non possono essere letti che in un modo solo, come sosteneva il battagliero Augusto Bebel nel suo famosissimo libro del 1882, La donna e il socialismo: «è una questione di denaro per l’economia privata dei tempi nostri e cioè: l’industria può sopportarli? e fruttano? Se non rendono, l’operaio deve andare in rovina. Il capitale non si muove se non c’è guadagno. L’umanità non ha corso alla Borsa» (4).

Il rimedio è peggio del male: il fatto è che il rimedio borghese ai mali borghesi non li risolve, a mala pena porta sollievo ma solo ad una parte sempre più piccola di privilegiati possessori di denaro, mentre nella realtà non è di nessun impedimento al corso storico obiettivo della società borghese verso la sua catastrofe.

E’ infatti la società borghese, il mondo borghese che corre verso la catastrofe, verso il punto di non-ritorno. Le classi borghesi dei vari paesi lottano fra di loro per la supremazia sui mercati, per la spartizione del mondo, per accaparrarsi quote di plusvalore più consistenti dei concorrenti, dunque per la supremazia anche nello sfruttamento del lavoro salariato; la loro lotta di concorrenza è accanita, non si ferma un istante, riempie tutti gli spazi e tutto il tempo. Ma, nello stesso tempo, le classi borghesi lottano anche sul fronte dell’antagonismo di classe, contro il proletariato in tutti i paesi del mondo; e anche questa lotta è permanente, senza esclusione di colpi, e là dove possono adottare sistemi politici drastici come la dittatura militare, la decimazione in massa, il massacro perpetuo, il genocidio, non si fanno alcuno scrupulo (basti ricordare gli oltre 4 milioni di morti nella guerra del Congo, gli 800.000 dello scontro tra gli Hutu e i Tutsi, oltre 1 milione di morti in Iraq durante i 13 anni di embargo e gli oltre 600 mila durante la guerra attuale ecc.). La lotta che la classe borghese fa per mantende il suo potere politico, e che vede come avversario principale la classe del proletariato, avviene normalmente nel quadro della società civile e non si svolge come fossero due eserciti inquadrati e ben distinti l’uno dall’altro: è una lotta che coinvolge tutte le classi e tutti i ceti della società, e per la quale la classe borghese dominante, maestra nella mobilitazione delle masse a proprio vantaggio, non risparmia alcun mezzo al fine di convincere, corrompere, ricattare, eliminare tutti coloro che per qualche motivo possono essere utili od ostacoli alla sua causa.

«Il capitale - dice uno scrittore della “Quarterly Reviever” - fugge il tumulto e la litt, ed è timido per natura», riporta Marx nel Libro I de Il Capitale, ed è ripreso da Bebel nel suo La donna e il socialismo. «Questo è verissimo - continua Marx - ma non è tutta la verità. Il capitale aborre la mancanza di profitto o il profitto molto esiguo, come la natura aborre il vuoto. Quando c’è un profitto proporzionato, il capitale diventa audace. Garantitegli il dieci per cento e lo si può impiegare dappertutto; il venti per cento e diventa vivace; il cinquanta per cento e diventa veramete temerario; per il cento per cento si mette sotto i piedi tutte le leggi umane; dategli il trecento per cento, e non ci sarà nessun crimine che esso non arrischi, anche pena la forca. Se il tumulto e le liti portano profitto, esso incoraggerà l’uno e le altre. Prova: contrabbando e tratta degli schiavi»; e non solo tumulti e liti, ma, possiamo aggiungere, anche guerre. Come Marx nessun lesse in anticipo la storia dello sviluppo capitalistico: di fronte a che cosa si fermano le famosissime Multinazionali? Di fronte all’omicidio?, di fronte alla devastazione ambientale?, di fronte allo sfruttamento di bambini e donne, o alla tratta dei clandestini?, di fronte allo sfruttamento più bestiale degli schiavi salariati?, di fronte ai massacri, alle guerre? A niente di tutto questo! In realtà, oggi, che la lotta di concorrenza si è fatta mondialmente molto più acuta, il capitale è disposto a qualsiasi crimine anche per molto meno del 300% di profitto.

La vera catastrofe, per i borghesi capitalisti, consiste nel non poter più avere profitti del trecento per cento, per i quali sono disposti ad ogni sorta di crimine, e non solo contro il proletariato o la popolazione genericamente intesa, ma contro i membri della loro stessa classe fino ai membri della loro stessa famiglia.

La catastrofe che noi comunisti rivoluzionari prevediamo non è solo quella della guerra alla scala mondiale - ché le guerre alla scala locale sono ormai cosa di tutti i giorni! - e non è solo la miseria crescente, la disoccupazione crescente, la crescente precarietà della vita. E’ la trasformazione della vita dei 6 miliardi e passa di abitanti della terra in un inferno quotidiano, dove le risorse e le capacità materiali e intellettuali dell’uomo sono sacrificate sistematicamente e sempre più al dio profitto.

La catastrofe che noi comunisti rivoluzionario prevediamo è che il mondo borghese della divisione internazionale del lavoro, dell’antagonismo di classe, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, al punto di maturazione delle gigantesche contraddizioni di questa società capitalistica salterà in aria come l’eruzione esplosiva di tutti i vulcani della terra: le forze sociali che rappresentano la vera ricchezza della società umana, le forze della produzione, si scontreranno con i rapporti capitalistici di produzione in modo che, non riuscendo più quei rapporti a tenere in equilibrio i diversi fattori sociali e a tenere sottomesse le forze produttive alle leggi del capitale, ogni legge, ogni consuetudine, ogni privilegio, ogni forma di sopruso, salterà in aria e al loro posto si instaurerà il potere dell’unica classe sociale della società moderna - il proletariato - che rappresenta la negazione di qualsiasi sopruso, di qualsiasi privilegio, di qualsiasi forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La classe del proletariato non ha nulla da perdere in questa società - perchè ha già perso tutto - ma ha un mondo da guadagnare!

E’ in relazione a questa visione catastrofista, ossia di un catastrofismo di classe, ch, da comunisti rivoluzionari, ribadiamo la nostra rotta di sempre: lottare intransigentemente contro la società borghese significa non cedere non solo sul piano teorico e programmatico generale - che sarebbe già molto - ma nemmeno sul piano politico e pratico della lotta quotidiana. Non cedere alle lusinghe del riformismo, che sostiene la via meno difficile, la via democratica e parlamentare, ad una emancipazione che non è nemmeno più collegata come un tempo alla classe proletaria, ma che viene ormai intesa come generico progresso nell’ambito della società borghese esistente. Non cedere allo spontaneismo, secondo il quale la vera forza motrice della lotta sociale e la sua direzione politica vanno cercate esclusivamente nel movimento reale del proletariato, o delle classi povere in genere, per come si presenta di volta in volta, non capendo che il movimento reale delle masse non ha mai una sua autonomia politica e programmatica in sé. Non cedere al cospirazionismo, che mette il futuro della società umana nelle mani di piccoli gruppi altamente determinati ed eroicamente predisposti a sacrificarsi in una lotta che in realtà non è mai tra individui o gruppi di individui, ma è tra classi sociali che si muovono sulla spinta materiale di determinazioni economiche e sociali storicamente date e impossibili da saltare in virtù di supposte volontà di persone più meno ritenute geniali. Non cedere al fatalismo, per cui se la fine del mondo dovrà arrivare arriverà senza che si possa far nulla per impedirla giumngendo alla conclusione che tanto vale cercare di vivere meglio possibile anche se sulle spalle dello sfruttamento capitalistico del proletariato; per cui se la guerra mondiale o la rivoluzione dovranno scoppiare, scoppieranno aldilà dell’attività che gruppi politici di modeste o modestissime dimensioni si dannano a continuare a fare pur in periodi particolarmente sfavorevoli alla lotta di classe proletaria come quello che stiamo attraversando da ottant’anni. Non cedere all’intellettualismo, che vuole indirizzarsi alle «coscienze» dei singoli per elevarle alla comprensione della necessità di cambiare il mondo, e che attende che le masse seguano, prima o poi, le indicazioni che solo gli intellettuali - supposti unici possessori della conoscenza e della scienza - sarebbero in grado di dare. Non cedere a quelle forme di pessimismo che vedono nell’attuale potenza del capitale e della borghesia un ostacolo insormontabile per la rivoluzione proletaria, e che giungono a dare per morta la visione rivoluzionaria marxista per la quale lo sviluppo del capitalismo fino al massimo della sua tensione economica e sociale è allo stesso tempo potenza e debolezza del potere borghese; potenza edebolezza in quanto la spinta materiale delle forze sociali che rappresentano le forze produttuive della società - capitale e lavoro salariato - è destinata ad infrangersi contro i legami sempre più stretti in cui il modo di produzione capitalistico costringe la sviluppo - qualitativo e non solo quantitativo - delle forze produttive, facendoli saltare; potenza e debolezza di un potere che è costretto ad acutizzare le contraddizioni sociali, e quindi gli antagonismi sociali, nel tentativo di accaparrarsi sempre più profitto a discapito della sopravvivenza quotidiana di masse sempre più crescenti.

La catastrofe che noi comunisti rivoluzionari prevediamo è la catastrofe del mondo borghese, del capitalismo, di una società che va verso una terza guerra mondiale al solo scopo di spartire il mondo fra le potenze imperialistiche in modo diverso da quello attuale e di poter riavviare la macchina infernale del profitto capitalistico dopo enormi distruzioni di prodotti, macchinari, infrastrutture, uomini.

Prepararsi e preparare il proletariato agli svolti storici determinanti per la sopravvivenza o meno del capitalismo è uno dei compiti più importanti dell’attività politica dei comunisti rivoluzionari. Significa preparare le condizioni soggettive perché il proletariato sia in grado di rispondere agli attacchi della borghesia e di passare poi all’attacco del potere borghese nella situazione più favorevole possibile alla vittoria rivoluzionaria. Significa dedicare le migliori energie alla formazione del partito di classe, del partito comunista, organo storicamente indispensabile perché il movimento reale del proletariato, mosso per spinte obiettive alla lotta contro la borghesia e il suo potere politico, sia indirizzato verso gli obiettivi rivoluzionari, cioé quegli obiettivi che dovranno assicurare l’effettiva trasformazione sociale da capitalismo a socialismo, da società basato sul profitto e sui privilegi dei pochi alla società basata sul lavoro e sull’interesse della stragrande maggioranza. Solo attraverso questo indispensabile passaggio storico, e solo guidati da un partito che ha nel suo programma e nel suo dna la conoscenza del futuro storico dell’umanità, i proletari di tutto il mondo potranno scrivere sulle proprie bandiere: non abbiamo nulla perdere in questo mondo borghese, abbiamo tutto un mondo da guadagnare!

Il comunismo, la società senza classi, la società dove l’uomo è finalmente essere sociale e non sfruttato o sfruttatore, capitalista o proletario, è il futuro della società umana, è finalmente la società nella quale l’uomo scriverà la sua storia uscendo dalla preistoria delle società divise in classi, delle società nelle quali lo sviluppo delle forze produttive, delle scienze e della tecnica avveniva in ambiti sociali caratterizzati dagli antagonismi sociali. Il comunismo è la società in cui ognuno darà secondo le proprie capacità ed avrà secondo i propri bisogni.

 


 

(1) Vedi F. Engels, Il socialismo dall’utopia alla scienza, Newton Compton Editori 1977, cap. III, p. 108.

(2) Vedi K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Prefazione del 1859, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 7.

(3) Vedi A. Bordiga, Mai la merce sfamerà l’uomo, raccolta di testi sulla questione agraria e la teoria della rendita fondiaria secondo Marx, Iskra Edizioni, Milano 1979, p. 216.

(4) Cfr. Augusto Bebel, La donna e il socialismo, Savelli spa, Roma 1977, p. 346.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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