Italia, paese delle emergenze

(«il comunista»; N° 107; Dicembre 2007 / Gennaio 2008)

 

«Emergenza rifiuti» in Campania. E’ tornata in primissimo piano la questione dei rifiuti a Napoli e in Campania. Costantemente trattata come una «emergenza», la questione dei rifiuti, che a Napoli e in Campania in particolare si presenta periodicamente come «emergenza sociale» e «questione di ordine pubblico», dimostra una delle contraddizioni capitalistiche più emblematiche dell’anarchia con la quale la borghesia gestisce l’organizzazione sociale.

Vi si possono leggere diversi aspetti: lo spreco, l’affare, la politica dei clan, il dispotismo sociale, la criminalizzazione delle proteste e delle lotte.

 

Lo spreco.

 

Più si sviluppa il capitalismo e più aumenta lo spreco rappresentato molto bene dall’invasione dei contenitori di plastica che avvolgono la vita quotidiana e che testimoniano l’inesorabile tendenza del capitalismo a produrre e far consumare “prodotti” non necessari alla vita umana e in quantità  sempre crescenti.

Lo spreco è congenito al capitalismo: spreco di tempo nella fase di produzione, e spreco di tempo nella fase di circolazione dei prodotti. Qualsiasi prodotto, in economia capitalistica, è merce, perciò tutto il ciclo produttivo e distributivo è volto a realizzare la valorizzazione del capitale che il capitalista ha anticipato per la produzione e la circolazione delle merci. Ogni capitalista, ogni fabbricante, produce per proprio conto e porta al mercato le proprie merci per la loro vendita al fine di intascare più denaro di quanto ha anticipato, insomma per fare profitto. Ma in tutta questa attività, che ogni industriale fa svolgere alla propria forza lavoro salariata, l’imprenditore industriale vede solo il proprio interesse diretto a far profitto, in concorrenza con tutti gli altri imprenditori che dalla vendita dei loro prodotti sul mercato vogliono ottenere esattamente la stessa cosa. Lo spreco di tempo di lavoro sociale (pochi operai sfruttati per molte ore al giorno, al posto di molti operai che lavorano poche ore al giorno) si traduce in ulteriore spreco di tempo di circolazione delle merci: tutte le merci devono raggiungere il mercato - che si fa sempre più “globale” - ed ogni capitalista ha bisogno che le sue merci vengano trasportate al mercato; aumentano così i mezzi di trasporto atti alla circolazione delle merci di ogni capitalista nei tempi e nelle forme imposti dalle condizioni date di ogni attività produttiva. Per vendere le merci, ogni capitalista è obbligato a confezionarle in modo non solo “pratico” per il loro trasporto ai punti-vendita, ma accattivante per il consumatore finale sì da venderle più sicuramente e più care. Allo sciupìo gigantesco di tempo di lavoro sociale per la produzione capitalistica, si aggiunge lo sciupìo sempre crescente di mezzi di trasporto (ah! il traffico stradale, aereo, marittimo, ferroviario, telefonico, e oggi perfino virtuale grazie all’informatica applicata alle reti internet!), e lo spreco stratosferico di contenitori di qualsiasi genere, soprattutto di contenitori di plastica.

Più aumenta lo spreco di forze produttive per produrre quantità gigantesche di merci assolutamente inutili, e spesso dannose, per la vita e la salute umana, più cresce la circolazione e la distribuzione di merci in ogni angolo della terra, più cresce la quantità di merci inutilizzate, invendute o non consumate, e più cresce la quantità di rifiuti di ogni genere, dai residui di ogni tipo di produzione all’accumulo di ogni genere di prodotto, dalle auto ai computer, dalla carta ai rifiuti organici, dai mobili al vetro, dai metalli alla plastica ecc.

L’organizzazione sociale del capitalismo riduce la vita sociale dell’intera umanità in miliardi di unità singole, familiari, per ciascuna delle quali organizza la vendita di tutti i suoi prodotti-merce. Ogni unità familiare è obbligata, di fatto, ad organizzare la propria vita quotidiana come fosse un’azienda; ogni appartamento deve essere arredato, ogni famiglia deve avere almeno un proprio mezzo di trasporto, un mezzo di comunicazione, un frigorifero, una lavatrice, un aspirapolvere e via così in un crescendo micidiale determinato da un consumismo che, prima di essere una «libera scelta», è un modo di vivere imposto dall’organizzazione sociale capitalistica. La quantità di rifiuti è direttamente proporzionale alla frammentazione della vita sociale umana in miliardi di «unità familiari», e all’anarchia capitalistica che spinge ogni capitalista, ogni imprenditore, ogni artigiano, ogni bottegaio, ogni contadino, a produrre e a vendere quantità sempre maggiori di merci in minor tempo possibile affinché la vitale circolazione del denaro non si fermi mai, anzi aumenti con sempre maggiore velocità. E non ha importanza rilevante se in tutto questo turbinare di merci e di denaro, la vita sociale dell’uomo viene sempre più soffocata, ridotta alla schiavitù dal mercato, disprezzata come un rifiuto da smaltire possibilmente guadagnandoci!

 

L’affare.

 

Più aumenta la quantità di merci che invadono il mercato, e più aumenta la velocità di produzione e di distribuzione delle merci sul mercato, più aumenta la quantità di rifiuti della produzione e della circolazione delle merci. E’ matematico, visto che solo una parte dei prodotti-merci può effettivamente essere venduta, dato l’aumento costante della concorrenza (che induce ogni imprenditore ad umentare la quantità di merci prodotta nella stessa unità di tempo, il che equivale all’aumento della produttività del lavoro salariato), e che, nello stabilire il  prezzo di vendita di ogni unità di prodotto, il capitalista prevede in partenza che una certa quantità dei suoi prodotti non sarà venduta (e che perciò si trasformerà automaticamente in rifiuto).

L’aumento della popolazione - e perciò, dal punto di vista dei capitalisti, di consumatori - e il suo sempre più forte concentramento nelle città, non solo porta la vita quotidiana degli uomini ad essere sempre più immersa nel traffico e negli inquinanti che da quest’ultimo vengono prodotti, ma accumula e concentra in poco spazio quantità enormi di rifiuti, che ovviamente devono essere raccolti e smaltiti. Il servizio di raccolta e smaltimento rifiuti - la vecchia Nettezza Urbana - nella moderna società borgehse, è da tempo servizio pubblico. A tale servizio le municipalità hanno sempre provveduto con risorse economiche tratte dalla tassazione dei residenti; anni fa è stata istituita una tassa apposita sui rifiuti, un po’ come le tasse di circolazione per le auto, il canone Rai, la tassa sanitaria ecc. Ossia, si paga una certa cifra media di tassa al di là della quantità di servizio effettivamente utilizzato, e al di là della qualità del servizio erogato che, in genere, è sempre molto al di sotto delle attese. La raccolta dei rifiuti,  nell’arco degli anni, vista la quantità sempre crescente di rifiuti da smaltire, diventa un business che, come tutti i business legati al denaro pubblico, è sottoposto a regolamentazioni specifiche di trasparenza e di qualità affinchè gli appalti cui vengono affidati facciano risparmiare denaro pubblico dando la stessa qualità, se non migliore, di servizio che darebbe direttamente l’organizzazione comunale o provinciale o regionale. Inutile dire che trasparenza e qualità di servizio sono proprio gli aspetti che meno sono tenuti in conto dai ceti affaristici e politici a loro legati data l’attitudine ormai inveterata di affondare le mani nel denaro pubblico per interessi privati.     

La «domanda» di smaltimento dei rifiuti ha posto qualche decina di anni fa il tema dello smaltimento differenziato, e perciò della raccolta differenziata della spazzatura. Fiumi di denaro pubblico sono stati investiti per la raccolta differenziata (grandi contenitori adibiti ad essa, per la carta, il vetro, la plastica, le batterie, i medicinali, e cassonetti per i rifuiuti organici, ecc. da disporre nelle strade) e grandi campagne di propaganda affinchè ogni cittadino, ogni famiglia, si dotasse di contenitori più piccoli adibiti allo stesso scopo. La raccolta differenziata doveva servire per riciclare le diverse tipologie di rifiuti, e per un loro smaltimento adeguato tenendo conto dell’impatto ambientale di questa specifica attività. Naturalmente, «dal dire al fare» c’è sempre di mezzo «il mare», ed è tanto vero questo detto popolare che il mare, appunto, per molti rifiuti, soprattutto tossici, è stato preso come discarica naturale, oltretutto a costo zero!; basti pensare alle navi da trasporto, e in particolare alle petroliere, le cui stive vengono lavate regolarmente in mare.

Ma, più tale smaltimento non è attuato con sani criteri di differenziazione, di riciclaggio e di preventiva organizzazione a salvaguardia della salute pubblica in termini di inquinamento dei terreni, delle acque, dell’aria, più la necessità di smaltimento si trasforma in emergenza e più denaro pubblico viene necessariamente investito per farvi fronte; denaro pubblico che inevitabilmente finisce nella rete di interessi privati che, per la gran parte, sono condizionati dalle organizzazioni malavitose come denunciano, da anni, gli stessi giornali borghesi.

 

La politica dei clan.

 

Lo smaltimento dei rifiuti urbani è servizio “pubblico” di “prima necessità”, quindi è attività quotidiana sovvenzionata dal denaro pubblico; più è grande e popoloso il territorio urbano più vi è il bisogno quotidiano di smaltirli. Si innesta in questa attività tutta la catena del tipico clientelismo politico, e quindi la catena della corruzione. I gruppi, i clan politici si incrociano fino a confondersi con i clan affaristici e malavitosi, tanto più nel caso in cui non si tratta solo di rifiuti del luogo ma provenienti da tutte le parti d’Italia, e non solo di rifiuti urbani ma anche di rifiuti industriali e tossici che, spessissimo, vengono “smaltiti”in modo abusivo e illegale.

La configurazione morfologica della Campania, in particolare nell’area tra Napoli e Caserta, con avvallamenti e crateri di vecchi vulcani non più in attività, facilita lo smaltimento abusivo; e la presenza dominante dei clan camorristici, che in Campania contano su una fittissima rete di controllo economico e politico, condiziona a tal punto le strutture istituzionali e politiche da impedirne lo svolgimento delle proprie attività. Non basta, come è evidente dalle vicende che periodicamente emergono agli onori della cronaca e dell’informazione mediatica, che le varie strutture politiche non abbiano fatto e non facciano direttamente affari con i clan della camorra - vero e proprio Sistema, Rete di interessi di ogni genere. «Ben settantuno comuni in Campania - scrive Saviano nel suo recente libro Gomorra (1) - sono stati sciolti dal 1991 a oggi». Sciolti per condizionamento camorristico, appunto; numero molto più alto rispetto ai comuni sciolti per lo stesso motivo in altre regioni: 44 in Sicilia, 34 in Calabria, 7 in Puglia. «Le aziende dei clan hanno determinato piani regolatori - continua Saviano nel suo libro -, si sono infiltrate nelle ASL, aziende sanitarie locali, hanno acquistato terreni un attimo prima che fossero resi edificabili e poi costruito in subappalto centri commerciali, hanno imposto feste patronali e le proprie imprese multiservice, dalle mense alle ditte di pulizia, dai trasporti alla raccolta dei rifiuti». Dunque, oltre che di estorsioni nella forma di percentuali sugli affari dei negozianti e dei centri commerciali, oltre allo smercio di cocaina ed eroina, i clan si occupano di attività normali, perfettamente legali, anzi di servizio pubblico.

Il fenomeno camorristico è tipico di Napoli e della Campania, ma si differenzia da fenomeni simili presenti nelle regioni del Nord Italia, dove sembra imperare la legalità, soltanto per la prassi di ferocia e di ammazzamenti nella lotta di concorrenza tra clan e rispettive aziende. Il sistema di corruzione, e di tangenti, per ottenere favori dalle istituzioni e dalle strutture politiche è lo stesso al Sud come al Nord.

E’ che in Campania, dato il capillare controllo del territorio e di tutte le attività lucrose da parte dei clan di camorra, questi ultimi «non hanno bisogno dei politici copme i gruppi mafiosi siciliani, sono i politici che hanno necessità estrema del Sistema. Si è innescata in Campania una strategia che ha lasciato le strutture politiche più visibili e mediaticamente più esposte immuni formalmente da connivenze e attiguità, ma in provincia, nei paesi dove i cla hanno bisogno di sostegni militari, di coperture alla latitanza, di manovre economiche più esposte, le alleanze tra politici e famiglie camorriste sono più strette. Al potere i clan di camorra giungono attraverso l’impero dei loro affari. E questa è condizione sufficiente per dominare su tutto il resto» (2).

Dunque sono i politici che hanno bisogno dei clan per mantenere i loro privilegi. Che cosa ci si può aspettare, quindi, da quelle strutture politiche - e non si fa alcuna differenza tra destra, centro e sinistra - rispetto alla «lotta contro la criminalità», quando sono esse stesse a subire il terrorismo affaristico e criminoso dei clan camorristici, e a goderne i privilegi? Quale «soluzione» possono mai dare all’emergenza continua che si vive in Campania non solo in termini di «rifiuti», ma sotto qualsiasi voce della questione sociale, prima di tutto quella della disoccupazione? I clan camorristici non fanno solo affari, ma «danno anche lavoro», visto che  per ogni affiliato alla mafia sicialiana ce ne sono 5 campani, e per ogni ‘ndranghetista addirittura otto (3).

 

Il dispotismo sociale.

 

In questo servizio pubblico, inerente ai rifiuti, come in tutti gli altri servizi pubblici, è applicata l’attitudine tipica della società borghese sviluppata che consiste nel gestirlo con criteri lontani mille miglia dal beneficio pubblico, soddisfatto solo in minima parte. I criteri cui risponde l’erogazione del servizio pubblico sono sempre più vicini alla soddisfazione di benefici a strati privilegiati - per interesse economico e per posizione sociale - ed è per questo che il  miglior servizio viene fornito a questi strati della popolazione rispetto alle zone periferiche che sono, poi, le più inquinate per la presenza delle discariche, legali e abusive, degli inceneritori o dei termovalorizzatori.

Il dispotismo con cui i capitalisti amministrano le proprie aziende e col quale gestiscono la propria manopera salariata, sul piano sociale si trasferisce direttamente alle strutture politiche che, per vocazione - democratica o fascista, poco importa da questo punto di vista - intervengono sulla vita quotidiana e generale della popolazione per imporre, e difendere,  interessi che non sono mai prioritariamente della comunità ma privati, e spesso malavitosi.

La vicenda legata all’«emergenza rifiuti» dimostra, se mai ce ne fosse stato ulteriore bisogno, che i 50-60 anni di democrazia trascorsi sono serviti soprattutto alle operazioni di infiltrazione delle istituzioni da parte dei clan camorristici. Operazioni andate talmente a buon fine che ormai «non si muove foglia che camorra non voglia».  Certo, le strutture politiche di differente colorazione partitica hanno attuato una strategia che favorisse certe frazioni rispetto ad altre, certe famiglie camorristiche, certi clan affaristici e non soltanto locali ma nazionali e internazionali. Ma la sostanza non cambiava mai: tutto doveva, prima o poi, dare un tornaconto in denaro per ogni decisione politica presa. Prima o poi un’attività produttiva o commerciale finiva nel mirino degli interessi malavitosi, prima o poi un appalto finiva nel giro affaristico clientelare, prima o poi l’elezione del tale candidato o del suo avversario rispondeva a manovre sotterranee che nulla avevano a che fare con i programmi politici resi pubblici o con le promesse elettorali fatte per raccogliere voti, dove il «voto di scambio» era la norma.

Il degrado delle periferie, che caratterizza ormai le periferie di tutte le grandi città del mondo, è sì la conseguenza di servizi non adeguati e di un solido disinteresse da parte delle amministrazioni locali verso zone delle immense città nelle quali non vivono e non passeggiano i ricchi borghesi, ma è nello stesso tempo voluto, e in qualche modo organizzato affinché le organizzazioni malavitose abbiano il loro territorio di sfogo, come in una divisione di compiti circa il controllo del territorio. Nel capitalismo non vi è stata soltanto la separazione della città dalla campagna, ma anche, nella stessa città, la separazione dei quartieri residenziali della borghesia ricca e della media borghesia, dove le case costano moltissimo, dai quartieri in cui sono state spinte a forza le masse proletarie e sottoproletarie, come a formare un popolo degli abissi

 

La criminalizzazione delle proteste e delle lotte.

 

E’ il caratteristico effetto della pressione poliziesca atta a «mantenere l’ordine pubblico» e a «far rispettare le leggi e la legalità»: trasformare la spontanea resistenza e la violenza degli abitanti, esasperati da anni e anni di inettitudine delle istituzioni e di vessazioni e soprusi di ogni tipo mascherati da decisioni «necessarie», date le continue «emergenze», in atti criminosi e perciò passibili di arresti e condanne.

La situazione di fortissima tensione creatasi a Napoli e in Campania sulla questione dei rifiuti,  non dipende soltanto da quanto sopra riassunto. Da molti anni si è continuato a contrastare la fabbricazione di impianti di incenerimento e di termovalorizzazione, mentre si è continuato ad usare terreni demaniali e non (in una zona punteggiata da crateri di ex vulcani, come è Pianura, Quarto, Acerra, Villaricca, Giugliano ecc.) per sotterrare milioni di tonnellate di rifiuti. Evidentemente sugli impianti di incenerimento e di termovalorizzazione dei rifiuti non vi erano sufficienti interessi malavitosi da difendere. Al contrario, la raccolta dei rifiuti non differenziati e il loro smaltimento nelle discariche erano e sono attività che producono una catena di profitti nella quale facilmente si inseriscono gli interessi mafiosi i quali ultimi non si sono accontentati, ovviamente, di una fetta ma hanno manovrato per controllare alla fonte istituzionale la spartizione dell’enorme massa di denaro pubblico che le continue «emergenze» mettono a disposizione. D’altra parte, il controllo capillare del territorio campano agevola una attività che preveda non la sua  concentrazione in poche centrali di smaltimento, ma la sua frammentazione in una serie infinita di attività ciascuna delle quali appaltabile ad aziende differenti (e naturalmente controllate) con la disseminazione in tantissimi siti diversi di discariche terrestri, ma anche marine, a seconda della tipologia dei rifiuti.

Contro gli effetti di questa «gestione» dei rifiuti, le popolazioni delle periferie interessate dalle discariche, che come è evidente a tutti sono abitate soprattutto da proletari e sottoproletari, si sono ribellate al continuo degrado della loro vita quotidiana.

E’ ormai chiaro a tutti che l’inettitudine istituzionale, e la volontà precisa di non risolvere nemmeno parzialmente il problema dei rifiuti, riguardano tutti i partiti politici che hanno governato negli ultimi decenni Napoli e la Campania, centro-destra o centro-sinistra che sia. E la mobilitazione spontanea, e determinata, di queste settimane, delle popolazioni di Pianura e degli altri luoghi dove le varie istituzioni vogliono riaprire le discariche o aprirne di nuove, fa emergere un aspetto interessante: gente pacifica, che non intendeva assolutamente opporsi con la violenza alla polizia, ha comunque affrontato senza paura situazioni di grande tensione e scontri, e senza cedere dalla protesta. Inevitabile, in situazioni di questo tipo, che gruppi più intolleranti e, in qualche modo, più incoscienti, diano fuoco ai rifiuti (impestando ancor più l’aria) o che si scontrino con la polizia quando questa tende a sfondare le barriere materiali e umane che impediscono il passaggio di qualsiasi veicolo verso le discariche già esistenti; oppure che avvengano infiltrazioni di elementi che appositamente attaccano la polizia per provocarne la reazione violenta aumentando così il caos e la disorganizzazione delle mobilitazioni spontanee.

Resta il fatto che il grosso degli abitanti che si oppongono alla riapertura di vecchie discariche o all’apertura di nuove, esprimono una profonda intolleranza per le condizioni di vita quotidiana in cui sono costretti e una buona determinazione a non cedere. Era già successo nei movimenti, quelli sì, popolari contro la progettata discarica calabrese di Scanzano, e in Val di Susa contro i cantieri dell’Alta Velocità ferroviaria. Qualcosa nel clima sociale generale sta lentamente e impercettibilmente cambiando, e non è soltanto l’aumentata sfiducia verso i partiti parlamentari, ma anche il fatto di prendere in mano direttamente la protesta, la lotta, la resistenza quotidiana alle vessazioni di una società che sempre più esprime il suo sommo disprezzo per la vita di quel popolo che ad ogni appuntamento elettorale viene lusingato, vezzeggiato, e inesorabilmente ingannato. Mobilitazioni di strada che vengono facilmente criminalizzate col fatto che i «teppisti», i «facinorosi» sono sempre pronti ad approfittare della disorganizzazione della massa.

 

*   *   *

 

L’atteggiamento del partito nei confronti di queste mobilitazioni è teoricamente severo e fortemente critico poiché esse sono intrise di legalitarismo, di pacifismo e di democratismo, cosa che limita enormemente la potenzialità di una radicalizzazione classista. Ciò non toglie che la protesta, la resistenza, la lotta contro l’inettitudine delle istituzioni vada incoraggiata e sostenuta nella consapevolezza che la combattività dimostrata potrà essere effettivamente proficua per lotte sociali che riguardano la vita quotidiana delle masse proletarie alla condizione che prenda le caratteristiche della lotta classista, che non si limiti alla «questione della spazzatura», ma che allarghi i propri orizzonti alle questioni più generali e che riguardano sempre le masse proletarie, dai salari in fabbrica alla lotta contro i licenziamenti e alla lotta per il salario di disoccupazione, dalla drastica diminuzione delle bollette dell’acqua, del gas, della luce, all’abbattimento degli affitti, dalla riduzione delle rette per gli asili e le scuole alla lotta contro la discriminazione degli immigrati, ecc.

Per i borghesi, la spazzatura rappresenta un passaggio nella circolazione delle merci e del denaro, un passaggio sempre più importante visto che la produzione e riproduzione di capitale passa attraverso la vendita delle merci e la distruzione, in mancanza del riciclaggio, delle merci invendute o inutilizzate. L’ «usa e getta» non è soltanto uno slogan pubblicitario, è la sintesi della concezione che il capitalismo ha delle merci prodotte e che devono essere consumate (anche nell’accezione di: logorate, o gettate) il più velocemente possibile per essere sostituite da altre merci e così via… all’infinito. Alla sovrapproduzione di merci, caratteristica della crisi capitalistica, corrisponde la sovrapproduzione di rifiuti; l’esagerazione, soprattutto dannosa e malsana, è una qualità tutta capitalistica.

E così, l’emergenza «rifiuti» si va a sommare all’emergenza «incendi» che ogni estate bruciano centinaia di ettari di boschi, all’emergenza sanitaria, per cui le persone muoiono per malasanità e non per motivi naturali, all’emergenza «anziani» che non hanno pensioni sufficienti per sopravvivere e per curarsi, all’emergenza «immigrati» che sbarcano sulle coste italiane sfidando la morte ad ogni traversata di deserto, ad ogni traversata del braccio di mare che li divide dalla costa da cui partono, ad ogni viaggio nascosti nelle soffocanti cabine dei camion. E si va a sommare all’emergenza salari che governanti e industriali non hanno nemmeno più vergogna ad ammettere che non bastano per arrivare alla fine del mese; e all’emergenza sicurezza sul lavoro, sulla quale sindacalisti, politici e governanti hanno la faccia di bronzo di sostenere che è ora finalmente di prendere misure adeguate perché di proletari all’anno ne muoiono troppi!

Il clima sociale determinato dalle continue emergenze è un clima sociale del tutto funzionale al dominio borghese e capitalistico. I proletari, già martoriati dall’oppressione salariale e da condizioni di lavoro sempre più precarie e insicure, dannose e pericolose per la stessa vita, si ritrovano a sessant’anni dalla fine del secondo macello imperialistico, e dalla promulgazione di una Costituzione repubblicana che viene sbandierata come una conquista nobilissima e civilissima perché il suo primo articolo declama che «è fondata sul lavoro», a ricominciare tutto daccapo! Il posto di lavoro non è più sicuro, il salario è sempre più insufficiente e precario, il futuro dei propri figli è sempre più incerto, il benessere che avrebbe dovuito essere assicurato da un’economia nazionale che è stata difesa a costo di grandissimi sacrifici (come hanno voluto i sindacati tricolore) per la stragrande maggioranza dei proletari non si vede più. Chi ha la «fortuna» di un posto di lavoro comunque rischia tutti i giorni la vita: ne muiono più di 3 al giorno, e ne rimangono invalidi più di 10 al giorno. E mentre i profitti capitalistici aumentano, diminuiscono i salari, diminuiscono le misure di sicurezza, spariscono le misure di prevenzione, spariscono i posti di lavoro: aumenta l’esercito industriale di riserva, come lo ha chiamato Marx, ossia la massa di disoccupati che preme sulla masaa di proletari occupati agendo come elemento principale di concorrenza fra proletari in mano al padronato, ai ceti politici che ne governano gli interessi sociali ed economici, al sindacalismo collaborazionista che ne gestisce i movimenti e la frammentazione.

Il capitalismo nel suo sviluppo produttivo iperfolle produce, come abbiamo detto, sovraproduzione di merci e di capitali tanto che, ad un certo punto, la saturazione del mercato provocherà una reazione violenta  in tutte le maggiori  economie del  mondo portandole inevitabilmente alla necessità di spartirsi il mondo in modo diverso, e quindi alla terza guerra mondiale. La sovraproduzione di merci porta inevitabilmente anche alla sovraproduzione di rifiuti,a tal punto che il loro normale smaltimento - aldilà dei mezzi adottati per smaltirli - non sarà più possibile: dovranno essere anch’essi distrutti per lasciar spazio ad altre merci e ad altri rifiuti, in una spirale micidiale di cui il capitalismo non conosce la fine.

Sarà sempre più evidente che ciò che fa male alla società e al suo civile sviluppo non è un’economia capitalistica cosiddetta sostenibile, perché non è il borghese, non è il capitalista e tanto meno il cittadino a controllare il sistema economico capitalistico: è invece il sistema economico capitalistico a condizionare la vita di tutta intera l’umanità ed ogni suo singolo componente. Perciò la causa non va cercata nella buona o cattiva volontà dei capitalisti, o dei cittadini genericamente intesi, o nella «coscienza civile» che dovrebbe albergare in ogni singolo cittadino; la causa di ogni malanno sociale è nel sistema capitalistico stesso di cui i borghesi non sono che i parassiti, classe del tutto superflua per il bene sociale generale. E per eliminare la causa di tutti i mali sociali, cioè il capitalismo, è necessario combattere il capitalismo nelle sue radici sociali, nell’antagonismo che oppone fin dalle origini la classe dei borghesi alla classe dei proletari in una guerra che storicamente vedrà vincitore la classe del proletariato perché è l’unica classe in grado di lottare per tutta l’umanità e per la sua futura armonia sociale.

E’ per questo che i comunisti rivoluzionari si oppongono agli obiettivi, e quindi alle lotte, che pongono sullo stesso piano gli interessi dei proletari con gli interessi dei padroni, dei capitalisti. Nella società attuale non esiste alcuna parità, se non come inganno democratico quando si blatera di «diritti». La classe borghese è la classe dominante, perciò domina e detta leggi e regole funzionali ai suoi interessi di dominio, difendendo il potere con la forza (polizia, carabinieri, esercito, magistratura, carcere). Tutto ciò che non è funzionale al dominio borghese, è contro il dominio borghese, e perciò la borghesia lo contrasta e lo reprime; ed agisce in questo modo nelle grandi questioni, come le spedizioni militari in Afghanistan e in Iraq, e nelle questioni più dimensionate come la spedizione dei camion di spazzatura nelle discariche, in Campania, in Sardegna o in qualsiasi altro posto. Non sarebbero scortate dalla polizia se tali spedizioni non fossero contestate dalla popolazione del luogo.

I comunisti rivoluzionari sanno che il clima sociale di emergenza instaurato in Italia è funzionale alla conservazione sociale borghese in quanto non fa vedere l’insieme delle contraddizioni di una società sempre più cinica e putrefatta. Ai liquami delle balle di rifiuti, a milioni di tonnellate accatastate in decenni e decenni di smaltimento corsaro nelle discariche, liquami che infettano da decenni terreni e falde acquifere, si aggiungono i liquami putrescenti di una politica opportunista che per decenni ha intossicato il movimento operaio e le sue lotte, paralizzandone le reazioni di classe che pur in questi sessant’anni dalla fine della guerra si sono percepite, ma che non hanno lasciato tracce visibili ai giovani proletari di oggi. L’azione soporifera e nauseante delle forze politiche e sindacali collaborazioniste che si rifacevano, e si rifanno, al movimento operaio, al socialismo, al comunismo produce ancora effetti di drammatica impotenza nelle file proletarie.

La lotta di classe è una lotta che non solo vede il proletariato protagonista e, quindi, «controparte» sociale con cui la borghesia se la deve vedere, ma che unisce, accomuna, rafforza il movimento della classe operaia su obiettivi che rispondono esclusivamente alla difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro. Condizioni di vita che prevedono non solo salari più alti e giornate di lavoro più corte, ma la salvaguardia della salute nella vita quotidiana. Ed è certo che il problema dei rifiuti, del loro smaltimento non tossico e dannoso per la salute pubblica, è problema che riguarda direttamente i proletari. La lotta per la sicurezza e contro la nocività in fabbrica non è disgiunta dalla lotta per la sicurezza e contro la nocività nei quartieri di abitazione: di fondo, è la stessa lotta, anche perché nella questione, ad esempio dei rifiuti, viene applicata una discriminazione fondamentalmente di classe! Avete mai visto discariche nei quartieri residenziali dei ricchi borghesi?, o nelle chiese?, o nei campi da golf?

 


 

(1) Cfr. Roberto Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel segno di dominio della camorra, Mondadori, Milano 2006, citazioni a pag. 57.

(2) Cfr. Roberto Saviano, Gomorra, cit.  pag. 57-58.

(3) Ibidem, pag. 55.

 

Partito comunista internazionale

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