La nauseante competizione elettorale torna ad intossicare le masse proletarie italiane

(«il comunista»; N° 108; Aprile 2008)

 

La scena politica italiana dà per l’ennesima volta il voltastomaco.

Dopo due anni di governo Prodi, con cui una coalizione arlecchina di centrosinistra ha carpito il voto di una parte del proletariato, il tran tran parlamentare è nuovamente interrotto a causa della caduta del governo tecnicamente dovuta, come tutti sanno, ai ricattini degli immancabili voltagabbana in costante ricerca di notorietà e privilegi. Tecnicamente dovuta, perché se si considerano gli aspetti meno tecnici e superficiali non si può non rilevare una costante della politica borghese italiana: la sistematica contrapposizione di correntine e partitini che tentano di non farsi schiacciare dai partiti borghesi più grossi e che detengono un misurato potere di bilanciamento nell’arzigogolata rete di interessi particolari che caratterizza la società borghese italiana.

Il capitalismo italiano, infatti, è caratterizzato per la gran parte dalla piccola e media industria, non solo sul versante del mercato interno ma anche su quello del mercato internazionale. Nell’epoca dell’imperialismo, l’economia è destinata, inesorabilmente, a contraddizioni molto forti tra la tendenza alle grandi concentrazioni, ai grandi trusts, alle grandi multinazionali - inevitabile nello sviluppo imperialistico del capitalismo - e la tendenza alla frammentazione, alla suddivisione, alla separazione. I due rami dell’economia, che rispondono a queste due tendenze contrastanti, dipendono uno dall’altro reciprocamente, e trasferiscono sul piano politico la loro lotta di concorrenza; questo succede in tutti i paesi capitalisticamente avanzati, ma in Italia, dove per ragioni storiche l’economia si è caratterizzata in particolare con la piccola e la media azienda, la frammentazione economica è rappresentata con più soggetti politici, con maggior contrasto di interessi particolari. Il sistema democratico e parlamentare si innesta, in Italia, in una storia della classe dominante borghese che ha avuto caratteristiche unitarie molto deboli, perlopiù mutuate dall’esterno - in particolare dalla Francia e dalla grande rivoluzione francese - mentre sopravviveva sempre con un certo peso politico la tradizione comunale, municipale e delle decine di staterelli.

 

L’ITALIA BORGHESE, PAESE DI VOLTAGABBANA

 

La classe borghese italiana, ma non è stata la sola, ha fatto la sua rivoluzione antifeudale ma non ha mai nemmeno tentato di superare la società aristocratica e feudale tagliando la testa al re, come è successo in Francia. E’ nata nel compromesso, nelle congiure di palazzo, nelle manovre, nei patteggiamenti con il clero e l’aristocrazia; non è andata oltre la breccia di Porta Pia, andando a pacificarsi subito dopo con il Papa. La predisposizione a fare la voce grossa e a trattare sotto banco col nemico del momento è nel dna della classe borghese italiana. Nella prima e nella seconda guerra mondiale vi è dimostrato in pieno il suo voltagabbanismo: vi è entrata con una alleanza e l’ha terminata con l’alleanza avversaria. Tale è la sua bramosia di far parte della cerchia dei potenti della terra - e averne un ritorno in termini di prestigio internazionale e di privilegi economici e politici - che non perde occasione per partecipare alle spedizioni militari decise dagli Stati più potenti del momento (gli Usa, oggi soprattutto, come l’ Inghilterra ieri) in zone considerate vitali per gli equilibri imperialistici mondiali; è stato il caso del Libano, dei Balcani, della Somalia, dell’Afghanistan, dell’Iraq e domani di chissà quali altri paesi. Va da sè che nella finzione della democrazia le spedizioni militari per la maggior parte delle volte sono mimetizzate da spedizioni di pace, da aiuti alle popolazioni locali, e magari per costruire ospedali e scuole mentre i bombardamenti distruggono a migliaia case, fabbriche e vite umane.

Una classe dominante, quella borghese italiana, che è destinata ad essere prigioniera dei suoi stessi trucchi, delle sue stesse manovre e contromanovre; una borghesia democratica incapace di centralizzare il proprio potere politico come altre democrazie, ma succube di una centralizzazione ideologica fortissima come quella della Chiesa di Roma. E si capisce perché. La frammentazione economica e sociale chiede un controllo sociale molto capillare, variegato, stratificato di cui la Chiesa di Roma ha grande esperienza storica; esperienza che mette al servizio del capitalismo italiano nella misura in cui ne trae una consistente convenienza politica, economica e sociale. Non è infatti un caso che, anche in mancanza di governi bianchi e democristiani, la Chiesa di Roma ha sempre ottenuto un’ottima difesa dei privilegi e dei benefici conquistati nel tempo. Se perfino il regime fascista, ideologicamente nato anticlericale, sfornò i Patti Lateranensi coi quali si riconosceva, nei fatti, il peso economico, finanziario, sociale, e quindi politico, della Chiesa, sotto una mistificata separazione tra «Stato» e «Chiesa», poteva mai un governo di centrosinistra, sostenuto dai sindacati e dai partiti parlamentari cosiddetti operai e comunisti, non devolvere alla Chiesa di Roma la stessa attenzione, anzi molti più punti concreti a favore in termini di finanziamenti e di tasse non pagate? Il servizio che la Chiesa svolge a favore della conservazione sociale, della difesa delle leggi fondamentali del capitale, della pacificazione e della conciliazione tra le classi, è un servizio diventato ormai indispensabile per la classe dominante borghese italiana; non ne può più fare a meno. E talmente stretti sono ormai i legami tra l’opera riformista dei partiti di sinistra, formalmente laici ma fondamentalmente cattolici o cattolico-dipendenti, e l’opera di consolazione spirituale delle masse sempre più immiserite e dal futuro incerto combinata con l’opera organizzatrice del volontariato e di supporto all’assistenza sociale che svolge la Chiesa attraverso i suoi molteplici apparati ramificati, che l’uno non può più fare a meno dell’altro, scambiandosi talvolta i ruoli.

 

DEMOCRAZIA, MINESTRA RISCALDATA

 

Ma la democrazia, come sistema organizzativo degli interessi particolari, nel tempo si logora e chiede di essere rinnovata, reinterpretata. Nella società borghese tutto è mercato, tutto è valore di scambio, tutto è riducibile ad un prezzo. Così anche le idee, i sentimenti, le aspirazioni hanno i loro mercati. E così la politica, che è il vero mercato delle idee nella società borghese dove, inevitabilmente, si radica l’attitudine espressamente economica dell’«usa e getta» e dove, sempre più spesso, il «risparmio» spinge ad offrire una minestra riscaldata per l’ultima trovata della nouvelle cuisine.

Nel giro di un quindicennio sono spariti i grandi partiti politici italiani, come la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista, il Partito Socialista; e sono spariti i partiti di seconda fila, come il Partito Socialdemocratico, il Partito Liberale, il Partito Repubblicano, il MSI. I gazzettieri di oggi sostengono che questi partiti sono finiti perchè erano troppo ideologizzati, dando in questo modo un senso del tutto negativo dell’ideologia, ossia dei valori di principio, o se vogliamo, dei valori astratti, che le ideologie affermano e propagandano. In un certo senso non hanno proprio del tutto torto.

L’ideologia del benessere da raggiungere grazie allo sviluppo del capitalismo è caduta con le crisi economiche continue e a livello mondiale. L’ideologia della pace e della soluzione dei contrasti internazionali senza guerra è caduta con il persistere dell’uso della soluzione militare per risolvere i contrasti internazionali. L’ideologia della distribuzione più equa della ricchezza sociale è caduta con il procedere inesorabile del peggioramento costante delle condizioni di vita e di lavoro e con la sempre più vasta precarietà e insicurezza del lavoro e della vita. L’ideologia dell’eguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge è caduta con i reiterati colpi dati alla stessa magistratura - che è organo dello Stato borghese - ogni qualvolta un politico, o un amico dei politici, viene in qualche modo sfiorato da inquisizioni giudiziarie, a dimostrazione che i cittadini non sono per niente tutti uguali di fronte alla legge. L’ideologia della giustizia sociale, punto forte di ogni democrazia, e soprattutto dei partiti «di sinistra» e riformisti, è andata in pezzi di fronte al montare continuo di ogni tipo di sopruso, di vessazione, di violenza, sul posto di lavoro o per strada, nelle scuole, negli oratori o nelle famiglie.

Il problema è che tutto ciò che l’ideologia borghese contiene in termini di valori, di principi, di aspirazioni, di obiettivi da raggiungere e di criteri per raggiungerli è smentito concretamente, quotidianamente, nei fatti dalla vita reale in questa società borghese.

L’ideologia borghese è costruita sul rovescio della realtà, sul falso, in poche parole su ciò che la società borghese capitalistica non potrà mai dare perchè le sue basi economiche non porteranno mai all’equità, all’eguaglianza, alla giustizia sociale, alla pace e all’armonia sociale. La società borghese non può andare contro le proprie basi economiche e storiche; essa deriva da quelle basi, ne è prodotta, le rappresenta in tutte le sue contraddizioni. Contraddizioni che sono attinenti alla divisione della società in classi contrapposte: in una classe borghese - attualmente ancora dominante - che possiede non solo i mezzi di produzione ma soprattutto si appropria l’intero prodotto del lavoro sociale; in una classe proletaria, che è obbligata a lavorare sotto salario per sopravvivere in questa società e dalla quale la classe borghese estrae pluslavoro, ossia tempo di lavoro non pagato e perciò profitto capitalistico; e, come ci ricorda Marx, in una classe di proprietari fondiari che è accomunata alla classe borghese in quanto proprietaria della terra che è mezzo di produzione anch’essa e quindi essa stessa beneficiaria dello sfruttamento del lavoro salariato, ma in contrasto con la classe borghese industriale e commerciale perché beneficiaria di una rendita agraria che va a pesare direttamente sulla ripartizione del profitto capitalistico.

La divisione della società in classi non può quindi fare da base all’eguaglianza degli esseri umani che in questa società vivono, lavorano e muoiono.

 

LA DEMOCRAZIA NON E’ PIU’ PROGRESSO, MA INGANNO E CULLA DELLA REAZIONE

 

La democrazia si rivela un’astrazione dalla realtà, e nello stesso tempo una falsa soluzione delle disparità e dei contrasti che caratterizzano la società borghese. Con la democrazia la borghesia inganna anche se stessa. Ma il risultato più importante che la borghesia ottiene attraverso l’ideologia e la pratica della democrazia è l’inganno del proletariato, dell’unica classe che in questa società non ha nulla da perdere se non la sua condizione di schiavitù salariale, le sue storiche catene! L’inganno della democrazia fonda le sue radici nell’idea che l’individuo, in quanto tale, ha una sua coscienza, una sua volontà, un suo potere «di scelta» e, quindi, la possibilità di modificare le condizioni in cui si trova. L’inganno democratico pretende che le situazioni possano cambiare con l’intervento di una «maggioranza» di individui che vogliano cambiare nello stesso modo, e che questa concordanza sia il risultato di un costante «confronto di idee», idee che ogni individuo forma per proprio conto e che mette a confronto con altri individui. La visione della società che la democrazia borghese propaganda è una visione orizzontale per cui tutti gli individui singolarmente presi, e astraendo dalle loro specifiche condizioni di esistenza e dei rapporti di produzione che li legano, si sommano uno agli altri fino a costituire una certa quantità di individui. Su quella quantità si forma una «maggioranza» di individui che «la pensano» più o meno allo stesso modo, o che credono di vedere le cose allo stesso modo; ed è quella maggioranza che dovrà esprimere la cosiddetta «classe dirigente» della società, almeno fino alle successive elezioni.

Inutile dire che la visione democratica borghese non rappresenta alcun legame con la realtà economica e sociale della società in cui la borghesia è classe dominante. La società umana non discende da un individuo, o da una coppia di individui del tipo Adamo ed Eva, come continuano a raccontare i preti. L’individuo è semmai il prodotto di un gruppo umano, di una società, di una organizzazione sociale anche primitiva, e il suo sviluppo personale è dovuto - e perciò è condizionato - allo sviluppo del gruppo umano, della società umana di cui fa parte. Ma si capisce perché la borghesia ha quella visione della società: è una visione che dipende espressamente dalle condizioni economiche, e quindi sociali, della società da cui proviene, dalla società già divisa in classi antagoniste; ed in particolare corrisponde alle condizioni sociali determinate dal dominio della proprietà privata e dell’approprieazione privata del prodotto sociale. La borghesia non potrà mai rinnegare la sua visione e la sua ideologia perché vorrebbe dire rinnegare la proprietà privata e l’appropriazione privata del prodotto sociale, dunque il capitalismo che è il sistema economico e sociale che la classe borghese rappresenta e difende contro ogni altra classe.

E’ indiscutibile, per i marxisti, che la democrazia borghese ha avuto un ruolo di progresso notevole nello sviluppo sociale; lo ha avuto in corrispondenza della fase storica in cui la rivoluzione borghese ha effettivamente sconvolto il vecchio mondo feudale, il vecchio modo di produzione feudale o asiatico. Dato lo sviluppo ineguale a livello geo-storico del capitalismo, l’epoca della rivoluzione borghese si è protratta per circa 200 anni se prendiamo, come data di partenza, il 1789 francese e la data in cui il ciclo delle rivoluzioni borghesi è terminato del tutto, il 1975, con la vittoria dei moti armati di liberazione nazionale sul colonialismo portoghese in Angola e Mozambico.

E’ noto che, per il marxismo, i compiti storici della democrazia rivoluzionaria borghese in Europa terminarono completamente, in Occidente con la Comune di Parigi del 1871 (quando tutti gli eserciti delle potenze europee, democratiche e non, si coalizzarono contro la prima dittatura proletaria della storia) e ad Oriente con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 (quando tutti gli eserciti delle potenze mondiali, democratiche e non, si coalizzarono contrp la seconda, e vittoriosa, dittatura proletaria della storia). Da allora, nei paesi in cui la democrazia borghese aveva avuto il tempo per dimostrare fino a che punto rappresentasse effettivamente un progresso storico, politico e sociale, rispetto alle vecchie società, la parola d’ordine delle masse proletarie e dei partiti comunisti che ne rappresentavano il futuro, era: rivoluzione proletaria, conquista del potere politico, instaurazione della dittatura proletaria esercitata dal solo partito comunista rivoluzionario.

La storia delle sconfitte proletarie, e soprattutto della sconfitta della rivoluzione proletaria mondiale perseguita dall’Internazionale Comunista guidata dal partito bolscevico, ha dimostrato la validità delle posizioni intransigentemenete antidemocratiche della Sinistra comunista italiana, della corrente che fondò il Partito Comunista d’Italia a Livorno ma ne fu esautorato nel 1923 dall’incipiente stalinismo.

La «via democratica», seppur alla Lenin, ossia con l’obiettivo di distruggere il parlamentarismo borghese dal di dentro del Parlamento (all’epoca ancora molto influente sul proletariato europeo), si dimostrò una via non solo falsa ma particolarmente dannosa per le forze proletarie perché alla preparazione rivoluzionaria fu sostituita, prima marginalmente ma ben presto sempre più a carattere distintivo, la preparazione elettorale. La democrazia non fermò l’andata al potere del fascismo, e non ebbe nemmeno l’onore di far cadere il fascismo che cadde per ragioni esclusivamente militari.

In realtà, la democrazia post-fascista, non potè ripresentarsi più con le caratteristiche della democrazia liberale d’inizio Novecento per la semplice ragione che le aveva storicamente perse in virtù dello sviluppo imperialistico del capitalismo - e quindi dello sviluppo del centralismo economico e politico ad esso corrispondente - che aveva espresso un metodo di governo, il fasscismo appunto, con il quale la borghesia dominante affrontava contemporaneamente due grandi nodi storici per il proprio potere. Si trattava di questo: dal punto di vista politico, trovare un metodo di governo che desse il colpo di grazia al movimento proletario e alle sue ambizioni rivoluzionarie, dopo che la socialdemocrazia aveva svolto fino in fondo il ruolo di deviazione riformista e di svirilizzazione delle lotte sociali del proletariato facendolo inseguire il miraggio di una graduale conquista del potere della cosa pubblica attraverso la progressiva «conquista» di un comune dopo l’altro e di una maggioranza parlamentare; dal punto di vista economico, procedere ad una accelerata centralizzazione e statalizzazione del capitalismo nazionale, convogliando tutte le risorse dell’economia nazionale verso questo obiettivo. Per questi obiettivi, il fascismo non aveva bisogno di dotarsi di una specifica ideologia, di un particolare programma politico, di una complessa visione del mondo. A tutto questo aveva già provveduto la democrazia liberale e il riformismo socialista, dai quali il fascismo di volta in volta pescherà tutto ciò che gli servirà per garantire la difesa del capitalismo nazionale e di svilupparlo senza dover più avere paura della sovversione proletaria; per garantirsi un capillare controllo sociale e per ottenere da parte del proletariato - applicando una buona parte delle istanze del riformismo socialista, se non una partecipazione diretta e una piena condivisione della sua politica, almeno una certa «neutralità»; per garantirsi l’appoggio non solo della grande borghesia italiana, sostenuta e difesa dal potere statale, ma anche della piccola borghesia per la quale organizzava le adunate oceaniche e le conquiste coloniali, facendola vivere un protagonismo e un prestigio sociale che mai aveva potuto nemmeno immaginare in altre epoche.

Ma il fascismo, come sostenne la nostra corrente, ebbe un ulteriore effetto negativo sulle masse proletarie: produsse l’antifascismo democratico, quella rinnovata ideologia riformista con la quale le forze dell’opportunismo e del collaborazionismo interclassista - sindacali e politiche - ripresentarono alle masse proletarie la «riconquista della democrazia» come un passo storico obbligatorio sulla via dell’emancipazione sociale.

La democrazia borghese, in questo modo, riguadagnò credibilità presso il proletariato e le sue bandiere ricominciarono a sventolare sotto le false bandiere rosse di partiti ormai votati al collaborazionismo interclassista. Nella realtà sociale, però, la democrazia post-fascista, come già la socialdemocrazia del primo Novecento, è destinata non solo a perpeturae l’ingannevole idea di cambiamento ad opera di ogni singolo «cittadino», ma a far da culla - nel momento in cui il proletariato si libererà dal suo peso soffocante e tornerà sul terreno della lotta di classe, diretta e indipendente - alla reazione. Sì, alla reazione borghese, perché la classe dominante, inoltrandosi in un periodo storico caratterizzato sempre più da crisi economiche e contrasti fra gli imperialismi più forti, avrà sempre più interesse ad irreggimentare le masse proletarie alle proprie esigenze di difesa del capitalismo nazionale e di lotta contro la sempre più acuta concorrenza a livello mondiale.

Perché, nonostante il pesante logorìo che la democrazia ha subito nei sessant’anni dalla fine del secondo macello imperialistico mondiale, le elezioni, il parlamento, i partiti parlamentari riescono ancora ad ottenere tanta influenza sul proletariato?

La democrazia è come una droga: ormai la grande maggioranza degli operai sanno bene che non risolve nessun problema, e nel tempo lo aggrava. Ma, intossicati come sono, ne hanno bisogno, e la cercano disperatamente. Cercano il puscher, il distributore di democrazia, il politico che riesca a dar loro la sensazione - pur se per brevissimo tempo - che qualcosa, anche impercettibilmente, potrà cambiare o, perlomeno, non peggiorare.

 

CAMBIANO D’ABITO, MA RESTANO OPPORTUNISTI E ANTIPROLETARI

 

I grandi partiti di ieri, le grandi organizzazioni che dispensavano democrazia a piene mani, sono implose e hanno dato vita a tanti piccoli e frammentati partiti che tentano di raccogliere le vecchie bandiere della libertà, della giustizia sociale, dell’integrazione, della pace, sottoponendo i potenziali elettori ad un fuoco di fila permanente di nuovi programmi e nuove promesse. Ma il mercato della politica ha bisogno di marketing, di organizzare un nuovo modo di farsi recepire dal potenziale elettore, di nuove facce e nuove parole.

Nella campagna elettorale americana, gli studiosi di marketing al servizio di Obama hanno riassunto in uno slogan la promessa elettorale che caratterizza tutta la sua campagna: yes, we can! , sì, noi possiamo! Ha poca importanza il programma politico che Obama, o chi per lui, cercherà di applicare se vince le elezioni: l’importante è l’emozione dello slogan, che accomuna tanti ma nel quale ognuno può trovare un proprio modo per uscire dalle proprie frustrazioni, dalle proprie insoddisfazioni, dalle proprie insicurezze, dalle proprie delusioni, dalle proprie sconfitte. Una volta ancora la mistificazione democratica, attraverso la quale ognuno crede di «scegliere» l’uomo, il gruppo, il partito che dovrà risolvere i suoi problemi quotidiani, ripiomba l’individuo, il singolo cittadino, il singolo elettore, nella miseria della propria meschina individualità. E come fosse una indicazione psicanalitica, il candidato presidente si rivolge ad ogni singolo elettore dicendogli: votami, con me tu ce la puoi fare!

In Italia, il vecchio Pci staliniano e togliattiano, terminata la sua immonda opera di stravolgimento della teoria rivoluzionaria e di accodamento all’ideologia democratica borghese, terminato il suo contributo indispensabile a deviare le lotte proletarie degli anni Venti del secolo scorso nel solco della conciliazione fra le classi in funzione di un antifascismo democratico che non scalfì di un millesimo di millimetro il dominio politico della classe borghese - anzi, lo rafforzò come è evidente da questi sessant’anni di storia post-guerra mondiale -, iniziò l’opera della propria trasformazione anche estetica, liberandosi via via di tutti quei simboli che potevano richiamare la sua precedente vita, assumendone altri come ad esempio la Quercia, ma mai, assolutamente mai, abbandonando il tricolore. E finalmente si arriva al Partito Democratico, nuovo di zecca, che del tricolore patriottico ne ha fatto la trama fondamentale.

In realtà, il pesante logorìo dei partiti parlamentari ha colpito un po’ tutti i partiti, perfino uno dei più recenti come Forza Italia che molti chiamano semplicemente partito-azienda dato che senza i milioni di euro di Berlusconi un simile partito non sarebbe mai nato. Et pour cause!, visto che lo scopo era quello di difendere i giganteschi interessi delle sue reti tv, interessi che i sinistri del Pci- Pds-DS bene accompagnati dai vari comunisti rifondaroli e italiani si sono ben guardati dall’andare a toccare. Nasce così anche il Pdl, il Partito delle Libertà (o Partito del Popolo della Libertà) e qui per l’ennesima volta si ribadisce una divisione dei compiti: i capitalisti dichiarati parlano di Libertà, con la elle maiuscola; i servitori riformisti e aspiranti frequentatori dei salotti capitalisti preferiscono parlare di Democrazia, con la d maiuscola. Gli uni hanno il potere in mano e nella loro infinita arroganza declamano il diritto alla libertà (libertà di accumulare ricchezza, libertà di sfruttare il lavoro salariato, libertà di piegare le attività dello Stato alla propria rete di interessi, ecc.). Gli altri si riempiono la bocca di democrazia, e qui emerge la loro sudditanza ideologica e politica alla difesa dell’ordine economico esistente, alla difesa del capitalismo per il modo di produzione che è e che più si sviluppa e più sviluppa disoccupazione, miseria, fame e guerre. Ma questi servitori del capitalismo hanno il compito di continuare ad intossicare, a drogare il proletariato con l’elezionismo, il parlamentarismo, la finzione della loro «sovranità» espressa attraverso un voto che, in realtà, non cambierà direzione al peggioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro anche se, qualche minuscolo palliativo i prossimi governanti finiranno per concederlo.

E che succede a sinistra del Partito Democratico? Non sia mai che i partiti della «sinistra» non si adeguino alle condizioni di mercato cambiate. Nasce così la Sinistra l’Arcobaleno, che per testimonial s’è trovata il signor Bertinotti, ex comunista, ex sindacalista, ex presidente della Camera e candidato premier a queste elezioni; essa raduna sotto la propria bandiera un’accozzaglia di gente in cerca di accasamento, dai pacifisti verdi e ambientalisti ai rifondaroli duri e puri della sinistra sedicente «comunista». Insomma, si è costituito il Partito Democratico di Sinistra (PDS, vi dice niente?), visto che il partito di Veltroni si è spostato decisamente verso il centro e verso l’elettorato cattolico amante delle adunate in Piazza San Pietro dove va a battere le mani ad un omino che si rivolge loro da una finestra, questa volta vestito di bianco e non di nero (una finestra anche qui, dopo quella già tristemente famosa di Piazza Venezia; la storia si ripete).

Il proletariato, se pensava di aver votato per Prodi con l’idea di non dover di nuovo riprendere la strada dei seggi se non a fine legislatura dopo 5 anni, si è sbagliato. Ma si è sbagliato molto di più nel credere che il governo di centrosinistra fosse un governo amico, a differenza di quello di centrodestra. Che poteva essere un governo amico gliel’ha fatto credere la CGIL e gli altri sindacati della Triplice, che sponsorizzarono Prodi prima ancora che salisse a Palazzo Chigi. Il fatto è che ci ha creduto e che per l’ennesima volta è stato fregato.

Ma non è Prodi, o Berlusconi, o Veltroni, o Pinco Palla a deludere: è il sistema democratico borghese a rinnovare continuamente la mistificazione della sovranità «popolare», a rinverdire continuamente un parlamento nel quale non si decide ormai da decenni la direzione della politica, perché questa politica si decide nelle segreterie dei partiti, nei salotti dei capitalisti, nelle associazioni dei poteri forti, nei convegni di cui nessun media parla mai.

Il proletariato, finchè è intontito dall’intossicazione democratica non risucirà mai a riconoscere i propri amici e distinguere i propri nemici; ed è per questo, soprattutto, che la classe dominante borghese investe quantità di denaro spropositate per mantenere in piedi e in attività l’enorme e ramificato apparato della democrazia.

Il Partito Democratico si è preparato per tempo; ha voluto le primarie per indicare il nome del suo segretario, ed è stato votato Veltroni da più di 3 milioni di persone. Ha quindi messo in piedi una complessa macchina elettorale per iniziare da subito, appena caduto il governo Prodi, la corsa a riprendersi la poltrona del governo; ha steso un «programma elettorale» in 12 punti che non hanno il valore di comandamenti, ma di promesse e ha iniziato un tour in pullman per andare a portare la «lieta novella» in 100 città. Che cosa distingue questo nuovo partito dai partiti collocati genericamente a sinistra nello schieramento parlamentare? Di sostanziale nulla, di formale parecchio.

Rifacendosi al riformismo, e alla democrazia in generale, non fa che ribadire un’appartenenza alla corrente storica dell’opportiunismo di cui hanno fatto parte tutti i partiti che l’hanno preceduto e che si richiamavano, falsamente, al marxismo e alla classe operaia (1). Il Pci, parecchi decenni fa con la politica della «solidarietà nazionale» ai tempi di Berlinguer; e con la sua trasformazione prima in Pds e poi in DS, non ha fatto che dare continuità alla spasmodica ricerca del consenso elettorale attraverso la politica del collaborazionismo interclassista più osceno, fino al Partito Democratico con il quale, era ora!, dopo aver abbandonato definitivamente alcuni simboli tradizionali della sinistra operaia (la falce e martello e il termine di «comunista») getta alle ortiche anche la bandiera rossa per avvolgersi completamente nel tricolore nazionale.

La nostra corrente fin dagli anni Venti del secolo scorso aveva denunciato la politica frontista dell’Internazionale Comunista, e dei partiti che ne assorbirono più o meno rapidamente i successivi sbandamenti di tipo democratico, politica che avrebbe portato - se non raddrizzata velocemente - a deviare completamente sul terreno della democrazia tout court e della conciliazione tra le classi. Tutto il percorso fatto dal partito comunista italiano di Gramsci e Togliatti, e di tutti gli altri partiti comunisti la cui natura fu stravolta dallo stalinismo, non ha fatto altro che confermare quanto la Sinistra comunista di Bordiga aveva denunciato allora. L’insegnamento che il nostro partito di ieri, riorganizzatosi sulle basi teoriche, programmatiche e di bilancio storico del marxismo non adulterato, ha tratto dalla storia del movimento comunista internazionale e dalle sconfitte dei partiti comunisti , ha tracciato la via della rinascita del movimento politico del comunismo rivoluzionario e su quella via noi ci riconosciamo interamente: una via che non può essere se non antidemocratica, anticonciliazionista, anticollaborazionista e, per conseguenza, antielezionista ed antiparlamentare.

Il Partito Democratico non fa che riprendere le vecchie parole dell’opportunismo socialdemocratico degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso: Italia unita e democratica, crescita del Paese, redistribuzione della ricchezza nazionale, confronto e conciliazione contro ogni antagonismo, ecc. E, come se questo indirizzo politico fosse del tutto nuovo - lo vuole il marketing nella comunicazione - ruba lo slogan al Sig. Barak Obama traducendolo in italiano: si può fare!, come dire: possiamo vincere le elezioni anche se tutti i sondaggi danno la vittoria a Berlusconi; noi, l’Italia può farcela!

In un cinico gioco tra vecchi arnesi della politica forcaiola, i soliti noti si sono travestiti da nuovi personaggi, rincorrendosi negli slogan elettorali e nell’imbellettarsi per farsi più attraenti al cospetto degli elettori: tutti i partitacci parlamentari sono a caccia di nuovi volti da usare come specchietti per le allodole e per assicurarsi voti da quei potenziali elettori schifati come sempre dalla politica dei governi precedenti e da quelli che, delusi dallo schieramento sostenuto in precedenza, gli voltano le spalle per andarsi a illudere dello schieramento avversario.

Se da una parte il Partito del Popolo della Libertà, che raggruppa, per esclusivi interessi elettorali, formazioni politiche che dalla destra fascista del partito di Alessandra Mussolini vanno al centro democristiano, sbandierando in continuazione le parole della Libertà e sollecitando l’Italia ad “alzarsi”, dall’altra parte il Partito Democratico - che ha dato lo stop a schieramenti “troppo” disomogenei per “correre da solo” - ingloba qualche frangia precedentemente di centrosinistra (chiamando l’operazione: apparentamento), come il partito dell’Italia dei Valori di Di Pietro e i radicali di Pannella e Bonino, disposti ad abbassare le proprie bandiere a favore dell’unica bandiera del PD - si presenta come la formazione politica che interpreta la democrazia come l’uomo della strada, sollecitando non l’Italia ma la politica a cambiare. In questo duello tra «gentiluomini», Veltroni e Berlusconi sanno perfettamente che il gioco elettorale, all’interno del solito teatrino delle contrapposizioni., è fatto di continui compromessi e di continui cambi di campo: per entrambi regna la propaganda delle promesse e la politica degli interessi di parte. Ma il quadro politico italiano non è ancora maturo perchè vi siano soltanto due grandi partiti parlamentari che rivaleggiano, come ad esempio negli Stati Uniti; perciò, i piccoli partiti - quelli che danno fastidio perché le loro percentuali, così necessarie per avere le maggioranze alla Camera e al Senato, si trasformano normalmente in ricatti verso i grandi partiti - hanno ancora una grande vitalità e, soprattutto, possono contare su sovvenzioni e prebende dalle quali i loro vertici ben difficilmente si staccherebbero.

 Sull’onda della concentrazione politica già in atto (nel Partito Democratico si sono fusi i DS e la Margherita; nel Partito del Popolo della Libertà si sono fusi Forza Italia e Alleanza Nazionale) al centro e a sinistra nascono nuove formazioni. E’ il caso della Sinistra l’Arcobaleno, una specie di quadrilatero composto da Rifondazione Comunista, Sinistra critica, Verdi e Comunisti Italiani, come abbiamo ricordato sopra, che si è posta l’obiettivo di bilanciare lo spostamento verso destra del Partito Democratico per “coprire” la domanda del mercato elettorale di sinistra non contenta degli ammiccamenti reciproci di Veltroni e di Berlusconi. Ed è il caso del «nuovo» Partito Comunista dei Lavoratori, ulteriore scissione da RC, che si erge a «vero» difensore dei «lavoratori» ma sempre in quel parlamento dove i lavoratori salariati vengono sistematicamente tostati. E il caso delle formazioni di centro, ex democristiane ed ex socialdemocratiche, che tentano un accorpamento simile tra Udc e Rosa Bianca in un sussulto di orgoglio cattolico sostenuto vigorosamente dai Vescovi. Tutti in attesa di affittarsi ad uno o all’altro partitone in cambio - come sempre - di prebende e posti in qualche commissione ministeriale.

Dopo che tutti i partiti parlamentari, a cominciare dalla Lega che l’ha tenuta a battesimo, hanno detto peste e corna dell’attuale legge elettorale (tanto che il suo stesso estensore principale, Calderoli, della Lega, l’ha definitia una porcata) e dichiaravano la necessaità di cambiarla con una legge molto meno arzigogolata (e costruita perchè una rappresentanza maggioritaria non potesse effettivamente governare come è successo alla coalizione di centrosinistra guidata da Prodi), la caduta del governo Prodi e i sondaggi elettorali che davano vincente la coalizione del centrodestra, hanno prodotto un’accelerazione non alla redazione di una nuova legge elettorale, bensì alla corsa alle elezioni con la legge-porcata ancora in essere.

Se ci voleva un motivo in più per negare al sistema democratico attuale la possibilità di rimediare da sè ai danni che fa direttamente anche a se stesso, eccolo. Sono talmente evidenti, in questo caso, gli interessi in tema di media e tv che Berlusconi e il centrodestra vogliono strenuamente difendere, che il precipitare della crisi governativa di Prodi con la mancata legge sul «conflitto di interessi» ha di fatto messo nelle mani di Berlusconi la possibilità di vincere agevolmente e piegare per l’ennesima volta le leggi a beneficio dei suoi interessi di parte e degli interessi dei capitalisti che il suo partito rappresenta in parlamento. Le leggi ad personam, di cui tanto si è sentito parlare nella campagna elettorale precedente, non sono state toccate dal governo di centrosinistra: come mai? Perché sotto sotto scorre un fiume dalle cui acque tutti i partiti, dichiaratamente borghesi o falsamente operai, pescano i propri benefici e la propria quota di privilegi.

 

I PROLETARI DI FRONTE ALL’ ENNESIMA PRESA IN GIRO

 

I proletari, di fronte a questo ennesimo spettacolo dell’oscena politica borghese, arlecchinamente vestita di ogni colore possibile, che cosa dovrebbero fare?

La democrazia definisce il voto come diritto e dovere di ogni cittadino, ma non punisce chi non va a votare. Dunque l’astensione dal voto, in sè e per sè, non è punita. Essa è un mezzo che può servire a screditare l’obiettivo dell’elezione alla quale si riferisce la richiesta di voto, o a screditare in generale il sistema elettorale, o a negarlo, e semplicemente ad infischiarsene in quanto mezzo della politica.

L’astensionismo è un indirizzo politico che è stato adottato in diverse situazioni sia dai comunisti, che dagli anarchici, ed è stato perfino suggerito dalla Chiesa in occasione del recente referendum sulla fecondazione assistita. Alla stessa stregua dell’andare a votare, l’astensionismo di per sè non cambia l’assetto politico esistente. Tutt’al più, una forte astensione in un paese come l’Italia dove la partecipazione alle elezioni è sempre stata, in genere, piuttosto alta, può essere interpretata come una larga insoddisfazione delle risposte che i partiti politici hanno dato e danno ai problemi sociali, fatto salvo che c’è sempre una percentuale non indifferente di potenziali elettori che non vanno a votare perchè se ne infischiano della “politica” in generale e si chiudono nel proprio mondo personale.

La Sinistra comunista italiana, negli anni successivi alla fine del primo macello imperialistico mondiale, alla chiamata elettorale rispose propagandando l’astensionismo con ragioni politiche che non avevano nulla in comune con l’astensionismo anarchico o qualunquista.

La Sinistra comunista italiana era innanzitutto rivoluzionaria, e quindi antidemocratica. Combatteva nelle file proletarie l’intossicazione democratica che il partito socialista aveva contribuito fortemente a diffondere; combatteva l’illusione di conquistare il potere politico da parte del proletariato attraverso la via elezionista e parlamentare, dunque attraverso la via cosiddetta pacifica; combatteva l’enorme spreco di energie che il partito proletario rivoluzionario avrebbe dovuto profondere sul terreno elezionista e parlamentare distraendole dal più importante e decisivo terreno dell’aperta lotta di classe e dell’organizzazione rivoluzionaria del proletariato. Coniò il motto: o preparazione rivoluzionaria, o preparazione elettorale, sintetizzando così la prospettiva che il partito rivoluzionario doveva assumere interamente convogliando tutta la propria attività e la propria azione nella preparazione rivoluzionaria di se stesso e del proletariato, compito primario per ogni partito che si dichiarava marxista e rivoluzionario.

La posizione tattica astensionista che assunse la Sinistra comunista italiana non fu una posizione dettatata dalla contingenza, nè dettata dal rifiuto del potere, nè dallo schifo per le istituzioni borghesi, nè tanto meno dal rifiuto della politica in generale. Non fu mai una posizione moralistica, nè semplicemente tecnica. La tattica astensionista proveniva soprattutto dal bilancio delle battaglie di classe condotte in tanti anni di democrazia borghese, e dal bilancio delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni che a partire dal 1917 russo dimostrava come la democrazia non solo come principio ideologico ma anche come criterio politico serviva esclusivamente alla conservazione del potere borghese e deviava sistematicamente le forze politiche proletarie e la masse proletarie dal loro cammino rivoluzionario.

La tattica astensionista, in particolare nei paesi a capitalismo avanzato e di lunga tradizione democratica, era la tattica più adeguata per le ragioni riassunte poco sopra, e in questo senso la Sinistra comunista italiana tentò di farla adottare anche dall’Internazionale Comunista. Ma in questo tentativo non ebbe successo; passò la tattica del parlamentarismo rivoluzionario, sostenuta la Lenin, da Trotsky e Bucharin, perché sembrò meno «settaria», più «comprensibile» per la maggioranza delle masse proletarie e più «controllabile» da parte dei partiti comunisti al fine di non cadere nel parlamentarismo tout court. D’altra parte, insieme alla tattica del parlamentarismo rivoluzionario, l’Internazionale Comunista indirizzava i partiti comunisti a svolgere la più ampia attività di perparazione rivoluzionaria nelle file proletarie, a partire dalle lotte sul terreno immediato fino alle lotte politiche più generali. Dunque, nella visione dei bolscevichi il parlamentarismo rivoluzionario non era contrapposto alla preparazione rivoluzionaria, ma dovevano andare di pari passo. Ma, la nostra corrente di Sinistra comunista ebbe, purtroppo!, ragione: la porta lasciata socchiusa al sistema democratico attraverso il «parlamentarismo rivoluzionario» divenne una porta spalancata. L’aggettivo «rivoluzionario» scomparve ben presto e nei fatti rimase il parlamentarismo, l’adozione della democrazia come metodo per raggiungere il potere politico; e la preparazione rivoluzionaria venne completamente stravolta e trasformata nella tattica antifascista in una battaglia, anche armata, per ripristinare la democrazia borghese.

Allora, a cavallo degli anni Venti, la situazione mondiale era rivoluzionaria, e la costituzione dell’Internazionale Comunista alla quale tutti i partiti aderenti dovevano essere disciplinati era una effettiva conquista rivoluzionaria di tutto il proletariato mondiale. Perciò, passate le tesi sul parlamentarismo rivoluzionario, la Sinistra comunista italiana disciplinatamente le accettò e le applicò in Italia come nessun altro partito comunista europeo, pur condividendole pienamente, fece. Abbiamo sempre sostenuto, dimostrandolo con le tesi alla mano, che la Sinistra comunista italiana e Lenin erano perfettamente d’accordo sulla critica teorica e politica della democrazia borghese e del parlamentarismo: entrambi volevamo la distruzione del parlamento e della democrazia borghese. L’illusione dei bolscevichi, allora, fu che adottando la tattica del parlamentarismo rivoluzionario il partito avrebbe rafforzato la preparazione rivoluzionaria sua e del proletariato, e quindi facilitato la presa violenta del potere nei paesi a capitalismo avanzato. Non andò così: si precipitò sempre più nell’abisso della democrazia borghese trascinando il proletariato in questa tragica sconfitta secolare.

Se l’astensionismo rivoluzionario di allora aveva avuto un senso profondo, e si rilevava la giusta tattica per tutti i paesi a lunga tradizione democratica, oggi è ancor più valido.

L’intossicazione democratica è talmente diffusa ed è talmente profonda che la prima cosa che il proletariato deve fare - allo stessa stregua di qualsiasi avvelenamento - è certamente astenersi dall’assumere ancora dosi di elezionismo e di parlamentarismo. Ma un’intossicazione si deve combattere, non basta non assumere più dosi tossiche. Perciò l’astensione da sola, come fatto meccanico, serve a poco.

 

LA VIA PROLETARIA NON PASSA PER LA DEMOCRAZIA E IL PARLAMENTARISMO, MA PER LA RIPRESA DELLA LOTTA DI CLASSE

 

 Al parlamentarismo rivoluzionario noi contrapponiamo l’astensionismo rivoluzionario, ossia l’opera positiva del proletariato, attraverso le sue avanguardie di classe, di rottura della conciliazione di classe, di rottura dell’interclassismo, di rottura della pace sociale. Non andare a metter un segno sulla scheda elettorale non vuol dire per noi fregarsene di quello che succede sul terreno politico; se questo atto rimanesse un atto isolato ed episodico, varrebbe come semplice testimonianza di rifiuto della scheda, e finirebbe lì. Sostanzialmente non cambierebbe nulla. Per noi, in realtà, significa far seguire a questo atto qualcosa di molto più importante: dedicare le proprie energie, la propria passione politica all’organizzazione della lotta in difesa degli interessi esclusivi del proletariato, sul terreno immediato ed economico come su quello più generale e politico.

Quindi, ai proletari noi diciamo:

Per difendere condizioni di vita e di lavoro dignitose, in questa società bisogna lottare sul terreno dello scontro di classe, perché solo su questo terreno è possibile strappare effettivamente dei risultati positivi in questa direzione.

Di più, sul terreno della lotta di classe i proletari imparano davvero a lottare per i propri interessi e soltanto per questi. Imparano a riconoscere l’effetto della propria forza che cresce nella misura in cui cresce il numero e la mobilitazione.

Sul terreno della lotta di classe i proletari riacquisiscono la capacità organizzativa e politica di contrapporsi adeguatamente agli attacchi che la classe padronale e le forze della conservazione sociale e della reazione inesorabilmente portano alle condizioni di esistenza proletarie. Su questo terreno, i proletari hanno la possibilità di distinguere che sta dalla parte degli interessi proletari e chi invece sta dalla parte degli interessi borghesi; chi dedica con trasparenza le sue forze alla causa del proletariato e chi, invece, mistifica falsando parole e obiettivi con atteggiamenti conciliatorei e collaborazionisti.

Riprendere il cammino sul terreno della lotta di classe riporta il proletariato a livello storico di protagonista dell’unico cambiamento che ha un senso in questa società: la rivoluzione, la rivoluzione proletaria e comunista che si pone come obiettivo fondamentale di conquistare il potere politico.

Preparazione rivoluzionaria, rivoluzione e conquista del potere politico, instaurazione della dittatura proletaria e suo esercizio da parte del partito comunista rivoluzuionario, è un unico processo storico che non ammette soluzioni intermedie. Come a suo tempo la borghesia rivoluzionaria si pose l’obiettivo di conquistare il potere politico instaurando la sua dittatura di classe, così il proletariato - l’unica classe rivoluzionaria nella società borghese - dovrà percorrere la stessa strada; la differenza sta nel fatto che la borghesia fece fare la sua rivoluzione soprattutto ai proletari e ai contadini poveri che poi li sottopose allo sfruttamento salariale, mentre il proletariato combattendo per la propria emancipazione dal lavoro salariato combatte per tutto il genere umano per instaurare una società in cui non esistono più classi antagoniste, una società di specie.

Può sembrare impossibile che storicamente si giunga ad un risultato del genere; anche gli aristocratici e il clero feudale erano convinti che la borghesia e il popolino vaneggiassero su democrazia e libertà politiche. La storia ha dato ragione alle forze sociali spinte dallo sviluppo economico a rivoluzionare la vecchia società feudale; borghesia e popolino vinsero ineluttabilmente contro teste coronate e sottane porporate. La storia darà ragione al proletariato che oggi i borghesi e i loro tirapiedi democratici pensano non sia in grado di prendere nelle proprie mani il proprio destino di classe. Lo credevano nel 1848 di fronte ai moti proletari che fecero tremare le capitali europee, da Parigi a Vienna, da Milano a Berlino. Ed è da allora che lo «spettro del comunismo si aggira per l’Europa». Lo credevano ancora nel 1871 quando con la Comune di Parigi i proletari parigini diedero l’assalto al cielo; ma, isolati dal resto dei proletari d’Europa, dopo tre mesi soccombettero alle forze delle potenze democratiche e feudali coalizzate contro il primo potere proletario instaurato. Lo credettero ancora dopo l’Ottobre 1917, quando i bolscevichi guidarono le incivili, le analfabete, le ignoranti masse proletarie e contadine russe alla vittoria rivoluzionaria contemporaneamente sullo zarismo e sulla borghesia; ma, non sviluppandosi la rivoluzione in Europa, pur vincendo una tremenda guerra civile sostenuta da tutte le potenze imperialistiche che si stavano facendo la guerra ma si coalizzarono contro il potere proletario di Mosca, dovette, dopo dieci anni di potere, cedere alla degenerazione socialdemocratica e opportunista aprendo la via alla vittoria della controrivoluzione staliniana.

Lo «spettro del comunismo» non si aggirava più entro i confini dell’Europa, li aveva allargati al mondo intero.

Il proletariato, nonostante i propagandisti borghesi si diano un gran daffare per negarne le potenzialità rivoluzionarie e per renderlo praticamente invisibile, è sempre il centro vitale della produzione capitalistica; dalla sua rassegnazione di fronte alla schiavitù salariale o dalla sua reattività di classe e ripresa della lotta sull’aperto terreno di scontro con la classe borghese, dipende la permanenza o meno al potere della classe borghese.

Nella misura in cui il proletariato continua a dare la propria fiducia ai metodi di governo della borghesia, democratici o meno che siano, è destinato a restare invisibile, è destinato a morire continuamente sul posti di lavoro, o per fame, o nelle guerre borghesi. La strada che apre al proletariato una via d’uscita da questa situazione è solo ed esclusivamente la strada della ripresa della lotta di classe: su questa strada il proletariato riconoscerà il suo partito di classe, il partito comunista rivoluzionario, come ieri il proletariato russo trovò il suo partito bolscevico. Altre alternative storiche non esistono, e si può cominciare con il voltare le spalle alle elezioni borghesi e al parlamentarismo per dedicare le proprie energie, le proprie speranze, la propria intelligenza, la propria esperienza alla lotta di difesa degli interessi proletari sul terreno della lotta di classe. Già su questo terreno i comunisti rivoluzionari son all’opera.

 


 

(1) Da quello sedicentemente «comunista» di Togliatti-Longo-Berlinguer-Natta-Occhetto-D’Alema ai vari raggruppamenti usciti dall’implosione del 1989-91 come il PDS-DS di Occhetto-D’Alema-Veltroni-Fassino, come Rifondazione comunista di Garavini-Cossutta-Bertinotti-Giordano e il Partito dei Comunisti italiani nato da una scisione di RC con Cossutta-Rizzo-Diliberto; da quello sedicentemente socialista di Nenni-Pertini-De Martino-Mancini-Craxi-Benvenuto-Del Turco alle sue varianti successive come il PSDI di Saragat e i vari raggruppamenti socialisti di De Michelis e Boselli. Anche la «Sinistra Arcobaleno», con l’operazione elettorale di quattro partiti che sembrava non avessero molto in comune, ha abbandonato i simboli tradizionali e il termine «comunista».

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

Ritorno indice

Top