Movimento degli studenti, scuola e società

(«il comunista»; N° 110; Novembre 2008)

 

I provvedimenti presi dal governo Berlusconi riguardo la scuola e l’università con la legge finanziaria, e i succesivi provvedimenti inseriti nel d.l. Gelmini, hanno suscitato una serie di proteste nel paese.

Il decreto legge Gelmini riguarda specificamente la scuola primaria, dunque le scuole elementari, per le quali, oltre ad aspetti marginali come far indossare nuovamente agli alunni il grembiule, tornare a dare il voto in condotta ecc., c’è il ritorno al «maestro unico». Questo aspetto del ritorno al «maestro unico» ha messo in serio allarme sia il corpo insegnante che i genitori perché si teme che scompaia il tempo pieno, ossia la possibilità per i genitori che lavorano di andare a prelevare i propri figli  a metà pomeriggio.

Fino ad oggi, ormai dagli anni ’80, la scuola primaria prevedeva 3  maestri ogni 2 classi, con la presenza anche degli insegnanti di sostegno che si dedicavano in particolare agli alunni che avevano delle difficoltà, fisiche, mentali o di lingua perché stranieri. Col decreto Gelmini ogni classe avrà un unico insegnante il quale, se è vero che il «tempo pieno» non scomparirà come appunto afferma il ministro dell’istruzione, dovrà sobbarcarsi ore di lavoro in più ogni giorno.

Per gli alunni che hanno bisogno di sostegno, che faranno? Pare che vogliano istituire nuovamente, come negli anni sotto il fascismo e successivi alla fine della guerra, le classi differenziali. Non solo, la Lega, che è partito di governo, propone di istituire classi separate per gli stranieri in modo che il tempo che serve per apprendere la lingua italiana non venga sottratto al programma scolastico normalmente previsto per gli alunni italiani. Insomma, dice la Lega, ...per favorire l’integrazione. Forse i leghisti non sanno che l’integrazione non passa attraverso la separazione in classi differenziate, e che i bambini hanno capacità di apprendimento molto più veloci che non gli adulti. Forse i leghisti hanno un’idea dell’integrazione molto particolare, vista la loro propensione a dividere e non ad integrare, cioè i padani divisi dai toscani, dai romani e dai meridionali in genere.

Ci si aspetta perciò che venga avanzata un’ulteriore proposta di ...facilitazione all’integrazione: scuole per lombardi differenti dalle scuole per veneti, per piemontesi, per liguri, per emiliani, per friulani, per trentini, per altoatesini... in modo che le loro tradizioni più lontane non vadano a sparire con i loro dialetti e tutto, naturalmente, perché... si integrino meglio... chissà quando.

Le prime proteste sono iniziate proprio dalle scuole elementari, da parte degli insegnati perché prevedono un aumento dell’orario di lavoro giornaliero e dai genitori di alunni che vanno alle elementari perché temono di mettere a rischio il loro lavoro, o di dimezzare il salario perché costretti a lavorare mezza giornata, visto che il «tempo pieno» non verrebbe più garantito.

Ma le proteste ben presto hanno superato il livello delle elementari e sono esplose nelle università e nelle scuole superiori. Ciò che ha sorpreso la cosiddetta opinione pubblica è il fatto che le proteste studentesche, almeno finora, si sono caratterizzate per una certa apartiticità e per un coinvolgimento generale tra studenti e personale docente. Molti giornali hanno messo in risalto una differenza fra il movimento degli studenti del 1968 e l’attuale movimento.

Nel 1968 la ribellione studentesca si rivolgeva contro l’autorità scolastica, contro i professori, individuati come lunga mano nella scuola dell’autoritarismo dei genitori, dei padroni, dei politici ecc. L’autorità nella società era ciò che gli studenti contestavano, rivendicando una autonomia propria, una libertà nell’apprendere, nei metodi di apprendimento, nelle materie di apprendimento, nelle relazioni fra studenti e nell’uso delle strutture strutture scolastiche. Oggi, la protesta, la contestazione, vede dalla stessa parte studenti e professori contro l’autorità del governo e del ministro dell’istruzione in particolare. Oggi, passata la legge finanziaria che prevede ben 8 miliardi di tagli alla scuola e all’università, e di fronte ad una situazione in cui la scuola pubblica viene considerata sempre meno vitale nella formazione delle giovani generazioni, la protesta dei professori approfitta del movimento dichiarato e attuato da parte degli studenti per mettere in piazza anche loro rivendicazioni. Le lezioni fatte all’aperto, nelle piazze, nelle gallerie, nei giardini pubblici invece che nelle aule scolastiche, colpiscono per fantasia e spontaneità, ma vogliono significare che sia i professorti che gli studenti non stanno protestando per non fare scuola ma per fare una scuola migliore, una scuola che serva per un futuro più certo, per un futuro di benessere, e di carriera professionale.

L’illusione di una scuola capace di consegnare agli studenti una formazione effettivamente utile per un lavoro soddisfacente e per una carriera sicura nel mondo del lavoro, è davvero dura a morire. Ma una differenza tra la situazione del ’68, o del ’77 e la situazione odierna c’è, e non sta tanto nella scuola quanto nella situazione sociale generale.

Sono almeno due le generazioni di giovani, quelli nati negli anni Sessanta-Settanta e quelli nati negli anni Settanta-Ottanta, che assistono ad un declino inesorabile del tenore di vita in generale, e in particolare per i proletari. Generazioni di giovani che si accorgono, perché già lavorano o perché dovranno andare a lavorare prossimamente, che il lavoro che gli si prospetta non è più quello che si prospettava ai loro padri: relativamente sicuro, con possibilità di guadagno decenti, a un tiro di schioppo da casa, con pensione certa e con una casa di proprietà pagata, pur con sacrifici, ma col proprio lavoro di una vita. I giovani oggi, confrontati con una vita precaria sempre più diffusa, determinata dal lavoro che, come norma, si presenta sempre più precario e instabile, perdipiù pagato molto al di sotto delle esigenze di vita cui si erano abituati nel tenore di vita dei genitori, sentono che in crisi non è soltanto il loro presente ma anche il loro futuro prossimo. E’ questa la molla che ha spinto la gioventù studentesca a dimostrare la propria insoddisfazione, il proprio disagio, la propria preoccupazione.

I movimenti degli studenti, per quanto finora non siano organizzati da formazioni politiche, se non in minimissima parte, hanno scosso la quiete nella quale stava avanzando come un rullo compressore la politica governativa che si è data come obiettivo quello di tagliare il più possibile i costi fissi. Il loro disagio, è in realtà il disagio di moltissime famiglie che con il salario o la pensione che prendono non riescono ad arrivare a fine mese. E’ un disagio sociale che  va a mettere in discussione le stesse illusioni che la società borghese del benessere, della prosperità, della carriera ha alimentato per decenni e che continua ad alimentare attraverso la pubblicità, la propaganda dell’ottimismo, la propaganda della difesa dagli stranieri che vengono a “rubare il lavoro” o che vengono semplicemente a “rubare” e a “delinquere”.  Un disagio dal quale i giovani studenti tentano di uscire cercando risposte che non trovano nei politici, al governo o all’opposizione, nel ceto docente o nel ceto imprenditoriale.

La scuola è il loro “mondo” e da questo mondo essi tentano di trarre il maggior beneficio possibile, il maggior utile possibile, in termini di conoscenza, di diploma o di laurea, di formazione professionale, di possibilità di carriera quando dovranno sbarcare nell’altro mondo, nel mondo del “lavoro”. Ma l’illusione si annida proprio in questa separatezza, come se il «mondo della scuola» e il «mondo del lavoro» fossero due mondi diversi, con funzionamenti autonomi e regole a se stanti, mondi che possono essere attraversati senza che l’uno condizioni l’altro. La realtà, nella società borghese capitalistica, è molto più complicata e, nello stesso tempo, più semplice.

La società borghese è una società divisa in classi antagonistiche, che hanno interessi diversi e contrapposti. La classe dominante borghese organizza l’intera società, quindi fabbriche, uffici, strade, porti, infrastrutture di ogni tipo, a proprio beneficio: ogni attività produttiva è organizzata per portare profitto capitalistico. E perché ciò avvenga nella forma più competitiva e più consensuale possibile, la borghesia si è organizzata con istituzioni adatte a indirizzare la popolazione, per le diverse fasce d’età, verso l’assimilazione di modi di vivere, di lavorare, di divertirsi, di oziare, di pregare, di studiare, o di delinquere, funzionali alla conservazione della società capitalistica. Scuola, magistratura, polizia, esercito, carceri, parlamento, uffici comunali, provinciali, regionali ecc., tutte istituzioni che si ripartiscono le diverse funzioni sociali del dominio borghese sulla società per garantire la continuità dell’estorsione del plusvalore dal lavoro salariato.

Alla stregua di qualsiasi altra istituzione borghese, anche la scuola è di classe, cioè è organizzata in funzione della conservazione sociale ed ha il compito di preparare i giovani, fin dalla fanciullezza, al mondo del lavoro, il che vuol dire alle esigenze delle aziende capitalistiche nelle quali la «popolazione attiva», impiegata nella produzione, nella distribuzione e in tutte le varie attività di supporto, viene segmentata nelle varie categorie a partire dalla più bassa, della manovalanza, per arrivare fino alle categoria più alta, della dirigenza. Per il capitale, tutti sono «lavoratori», compreso il padrone e il capitalista il cui «lavoro» consiste nello sfruttare il lavoro altrui per estorcerne plusvalore, che nella terminologia borghese è il profitto. Per il capitale, a scuola tutti gli allievi sono «studenti», come in carcere dietro le sbarre tutti sono «carcerati», sulle strade tutti sono «automobilisti», al mercato sono tutti «venditori» o «acquirenti». L’indistinzione di classe, come se non ci fosse antagonismo fra le classi, è sempre servita alla classe dominante borghese per mascherare la realtà dello sfruttamento del lavoro salariato e dell’antagonismo sociale che divide la classe del proletariato dalla classe borghese. I paesi capitalistici più sviluppati, proprio in ragione del loro sviluppo, hanno avuto bisogno di un proletariato più istruito di un tempo, e l’indistinzione di cui parlavamo ha accompagnato la diffusione dell’istruzione pubblica a tutte le fasce della popolazione, rendendola addirittura obbligatoria fino ai 16 anni. Ma, come succede spesso nello sviluppo contraddittorio del capitalismo, se da un lato nei periodi di esapansione economica tutti i servizi pubblici aumentano la loro diffusione, quindi anche la scuola  per tutti i gradi scolastici fino all’università, dall’altro, nei periodi di crisi economica, soprattutto se persistente, i servizi pubblici tendono a restringere il proprio campo d’azione, a selezionare gli utenti; in genere questa selezione avviene con due metodi: aumentando le tariffe per determinati servizi, lasciando andare in rovina altri servizi. Lo si può constatare facilmente nelle ferrovie, nei servizi del trasporto pubblico, negli ospedali e nelle stesse scuole.

Ciò di cui si lamentano oggi gli studenti è, ad esempio, il fatto che la scuola pubblica viene sempre più messa ai margini  nell’attribuzione di risorse economiche. Il che risponde a verità, nel senso che andando sempre più verso la selezione dei servizi secondo criteri di meritocrazia, la cosiddetta eccellenza viene premiata a discapito di tutto ciò che non è eccellenza. Per antonomasia si sa che l’eccellenza è rappresentata da un’infima parte di un tutto che non  sarà mai allo stesso livello di eccellenza. Il criterio di selezione si fa più netto, meno democratico, meno confuso, meno popolare. La borghesia italiana, o di qualsiasi altro paese,  che può accedere a professionisti e “cervelli” in ogni parte del mondo non ha più bisogno di produrre in patria i migliori ingegneri, i migliori scienziati, i migliori tecnici; li può scovare in Cina, in India, in Argentina, in Sudafrica o in Ucraina; li può trovare già belli e pronti in altri paesi. La scuola nazionale, perciò, non è più la sola miniera da cui estrarre il prodotto pronto per l’uso; quindi, si può risparmiare sui famosi costi fissi visto che al sistema capitalistico servono soprattutto operai, magari specializzati, e impiegati, sufficientemente istruiti per poter decifrare indicazioni particolari e in lingue diverse dall’italiano.

La finanziaria del governo Berlusconi, il decreto Gelmini e i decreti che verranno, vanno in realtà in questa direzione. Nella direzione, oltretutto, in cui stanno andando anche altri paesi europei, e in cui è già andata la scuola pubblica negli Stati Uniti, ossia nella direzione di livellare la scuola pubblica ad un grado modesto di istruzione e di conoscenza ma sufficiente per sfruttare la forza lavoro in questo modo istruita, e di delegare alcuni istituti d’eccellenza e soprattutto le scuole private e le università private alla formazione della classe dirigente borghese.

Gli studenti delle scuole pubbliche che oggi protestano e manifestano il loro disagio nelle strade e nelle piazze, nelle occupazioni e nelle assemblee, che sono figli di operai, di impiegati, di dirigenti, di commercianti, di padroncini e di padroni, esprimono repulsione verso un taglio delle risorse economiche che mette a repentaglio da subito il loro futuro prossimo. Hanno voglia i governanti a ribadire che nel decreto Gelmini non si parla nè di Università nè di Licei ma solo della scuola primaria, e che perciò le proteste degli studenti medi e degli universitari non sono giustificate. Questi giovani sentono la mazzata sul collo e la vogliono evitare. Si fanno forti del fatto che manifestano pacificamente, che le loro proteste sono civili e democratiche, che non sono contro la scuola ma sono per una scuola che funzioni di più e meglio; ma temono che la corsa che ha preso il governo non si fermi e perciò dichiarano di non fermare nemmeno la loro protesta.

Questo è un movimento che può probabilmente durare ancora ma che inevitabilmente andrà a cozzare contro difficoltà obiettive: una scuola migliore, ossia una scuola che istruisca in modo eccellente, indiscriminatamente, tutti gli studenti, non esiste nella società borghese. La scuola borghese è fatta per discriminare, non per equiparare, e in periodo di crisi capitalistica questa sua caratteristica emerge ancor più netta. Non si illudano gli studenti di poter fermare il rullo compressore della politica borghese dominante rivendicando di voler studiare meglio e di più, e comunque rivendicando che sia data la stessa possibilità a tutti coloro che vanno a scuola. L’unico obiettivo concreto che la scuola borghese offre agli studenti è una preparazione per la carriera lavorativa. Ma la carriera, di per sè, è appunto il massimo di discriminazione che esista, perché in pochi raggiungono la cima della carriera, mentre i molti sono ridotti  a sgomitare nei piani più bassi.

Se è la carriera che gli studenti vogliono, la scuola borghese gliela offre, ma alle condizioni di mercato, in una competitività che non è pià limitata ai confini nazionali ma è mondiale. La scuola pubblica nazionale è destinata a degradarsi, e così le condizioni di studio perché questa condizioni dipendono dalle più generali condizioni di vita e di lavoro.

Allora, la protesta degli studenti, le loro manifestazioni possono avere una prospettiva nella misura in cui si legano alla protesta e alle manifestazioni dei proletari; proletari che vengono spinti alla lotta dalle peggiorate condizioni di lavoro e di vita, dal rischio di perdere il posto di lavoro come ormai sta per succedere in molte aziende e non solo all’Alitalia. E’ giusto  che gli studenti leghino la propria protesta alla mancanza di futuro; è giusto che denuncino il fatto che il governo ha trovato i soldi per salvare le banche, salvare l’Alitalia, ma non li vuole trovare per la scuola che anzi viene impoverita di miliardi di euro. Ma se queste proteste si limitano a sostenere il «diritto alla carriera», non fanno che il gioco della borghesia dominante, che facilmente le svuoterà di ogni contenuto contraddittorio.

Come succede sempre quando ci sono grandi movimenti di piazza, vi si infilano  elementi di provocazione perché il controllo sociale ha bisogno di pretesti per deviare l’attenzione dai problemi reali che muovono il disagio sociale, in questo caso studentesco, e indirizzarli verso problemi di ordine pubblico. E’ successo a Genova nel 2001, rispetto a grandi manifestazioni del tutto pacifiche; può succedere ancora. Nel frattempo il governo ha minacciato di far intervenire la polizia per impedire le occupazioni delle Università e delle scuole. A quando l’intervento della poliziai per impedire l’«occupazione delle piazze» in cui si fanno le lezioni all’aperto, o nelle quali si va a manifestare? 

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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