Abbasso lo Stato borghese, arma suprema del capitalismo!

(«il comunista»; N° 111; Gennaio 2009)

 

La grande recessione

 

Ora è ufficiale: secondo le stime del National Bureau of Economic Research, gli Stati Uniti sono entrati in recessione dal dicembre 2007 (1)! Per l’NBER, che, per trarre le sue conclusioni, studia le variazioni mensili dell’economia, uno dei fattori determinanti è la perdita di oltre un milione di posti di lavoro in un anno.

Praticamente fino all’estate scorsa le principali autorità americane e internazionali e la quasi totalità degli economisti facevano a gara a negare che l’economia americana e, al suo seguito, l’economia mondiale avessero cessato di crescere; i più pessimisti fra i “previsori economici” ( ad eccezione di un ristretto numero fra loro, che hanno oggi la loro rivincita in moneta sonante) ammettevano che una recessione sarebbe stata forse possibile, ma sarebbe stata moderata e di breve durata…

Gli esperti economici della Banca centrale americana (Riserva Federale) ritengono che la recessione in corso durerà fino alla metà del 2009, ciò farebbe di questa recessione la più lunga dopo quella del 1929 (le recessioni del 1973-75 e del 1980-82 erano durate 16 mesi ognuna, mentre la “Grande depressione” degli anni Trenta era durata 43 mesi) (2).

Tuttavia i membri dell’NBER ritengono poco probabile che quella che loro chiamano la “Grande recessione” abbia termine entro sei mesi. A novembre il calo della produzione industriale americana ha raggiunto quello del 1982, mentre la perdita dei posti di lavoro (533.000 posti in meno, dopo il calo di 320.000 posti in ottobre e 403.000 in settembre) è a livello del 1974.

Anche l’economia giapponese, la seconda a livello mondiale, è ufficialmente in recessione, esattamente come l’eurolandia, anche se il governo Sarkozy ha trionfalmente pubblicato delle statistiche dubbie secondo le quali l’economia francese avrebbe continuato a crescere.

È possibile toccare con mano la realtà della recessione e l’ampiezza raggiunta nell’ultimo periodo prendendo in esame un settore estremamente importante per l’economia di tutti i grandi paesi capitalistici come quello dell’industria automobilistica. Tutti i mezzi di informazione hanno dedicato grandi titoli alle difficoltà delle colossali imprese americane, che dichiarano in tutti i modi di essere prossime al fallimento, e delle loro corrispettive europee – comprese quelle francesi, italiane, tedesche.

Nei grandi paesi capitalistici avanzati, quasi due terzi delle automobili vengono acquistati a credito; quando i clienti non sono più in grado di chiedere prestiti, inevitabilmente le vendite crollano. In ottobre negli Stati Uniti le vendite della General Motors sono scese del 45%, quelle della Ford del 30%, quelle della Chrysler del 35% e quelle della Toyota (numero due del mercato) del 26%. Anche se spesso in altri paesi il calo è stato meno forte, è tuttavia sensibile: sempre in ottobre, il calo del mercato è stato del 40% in Spagna, del 23% in Gran Bretagna, del 19% in Italia, del 13% in Giappone, dell’8% in Germania e del 7% in Francia. I dati relativi a novembre di cui disponiamo mentre scriviamo mostrano un’accentuazione di questa tendenza.

Alcuni economisti ed “esperti” borghesi occidentali continuano ad affermare che i paesi cosiddetti “emergenti” (secondo il gergo alla moda), e in particolare la Cina, potrebbero fungere da locomotiva per l’economia mondiale; ma questo significa dimenticarsi che il motore della crescita di questi paesi è l’esportazione verso i mercati dei paesi sviluppati (compresa, per alcuni di loro, l’esportazione di materie prime). Di conseguenza, quando questi mercati, saturi di merci, si riducono per effetto della crisi, le esportazioni inevitabilmente diminuiscono, ponendo un freno a tutta l’economia dei paesi esportatori.

Ufficialmente la Cina subirebbe un rallentamento della crescita del solo 9% circa (percentuale che rappresenterebbe il sogno dei capitalisti di qualunque altro paese!).

Ma questa previsione va presa con le pinze, in quanto vari elementi lasciano supporre una vera e propria recessione. La produzione di acciaio è un indice certo dell’andamento della crescita economica. Ebbene, la siderurgia cinese, che con il boom degli ultimi anni è diventata la prima a livello mondiale, ha cominciato a rallentare la scorsa estate e in ottobre la sua produzione è calata del 17%. Molte aziende siderurgiche sarebbero in perdita e rischierebbero di fallire (3). Il mercato automobilistico cinese, considerato a volte come un nuovo eldorado, sarebbe sceso, nel mese di novembre, del 7,6%. Nel settore dei giocattoli, di cui la Cina è il primo produttore mondiale, la recessione ha iniziato a farsi sentire dall’inizio di quest’anno. Per quanto riguarda il settore immobiliare, il suo boom è stato tale che nel 2007 la Cina avrebbe utilizzato il 50% della produzione mondiale di cemento, costruendo la metà dei nuovi edifici del mondo; ma il rallentamento si è incominciato ad avvertire a partire da gennaio ed è divenuto evidente da luglio. Nell’arco dei primi sette mesi dell’anno le vendite sono diminuite del 38% nella regione di Pechino, del 22% in quella di Shangai e del 21% in quella di Canton. La crisi del settore immobiliare non tocca più solo gli Stati Uniti e l’Europa, ma anche la Cina…

 

Lo Stato borghese in soccorso all’economia capitalista 

 

Dopo lo scoppio della crisi finanziaria dello scorso autunno, i capitalisti si sono rivolti d’urgenza ai loro rispettivi Stati per essere soccorsi. Sono svaniti così i discorsi su “più Impresa, meno Stato”, sul liberalismo, sulla deregulation! Gli stessi che volevano “liberare” l’economia dal peso dello Stato e delle molteplici regolamentazioni ora si dichiarano convinti della necessità di regolare e controllare la finanza e si profondono in dichiarazioni sulla “rifondazione del capitalismo” che avrebbero fatto inorridire solo pochi anni fa qualsiasi radicale e piccolo borghese!

Ma non si tratta d’altro che di discorsi: le autorità governative americane ultraliberali non hanno esitato a entrare in partecipazione con alcune imprese, se non addirittura a nazionalizzarle di fatto, proprio come aveva fatto in precedenza l’altrettanto liberale governo laburista inglese. Alla fine di novembre, un alto dirigente della SAAB, la filiale svedese della General Motors, dichiarava che «avrebbe visto volentieri lo Stato svedese come proprietario temporaneo della SAAB durante questo difficile periodo». Il governo svedese (di destra) ha rifiutato per il momento di comprare la Volvo (filiale della Ford che vuole venderla ma non trova alcun acquirente), accontentandosi di affermare che non permetterà la scomparsa dell’industria automobilistica in Svezia (le vendite di veicoli nel paese sono calate, in novembre, del 36%). E’ notizia dell’ultimo momento, prima di andare in stampa, che in Germania lo Stato si è comprato il 25% del capitale della Commerz Bank, assumendone il controllo, banca che fino al giorno prima nessuno sospettava si trovasse in condizioni così difficili.

Alcuni ameni personaggi sono arrivati a scrivere che Wall Street stava diventando socialista e che il primo ministro inglese, Gordon Brown, tornava ad essere di sinistra. In realtà, rivolgendosi nel momento di emergenza allo Stato per riceverne aiuto, queste grandi imprese hanno dimostrato nuovamente, e in modo eclatante, che le nazionalizzazioni in sé non hanno nulla di socialista né di anticapitalista. Quando tutto va bene, nei periodi di crescita economica, i capitalisti possono fare qualche concessione ai proletari, soprattutto sotto forma di normative sociali e altri ammortizzatori gestiti dallo Stato, così come possono accettare l’esistenza di varie regole e controlli statali; ciò porta ad “autolimitare” in una certa misura lo sfruttamento capitalistico per garantire la pace sociale e regolare l’andamento dell’economia.

Ma quando la crescita comincia a ridursi, quando i profitti diventano più difficili da realizzare, tutte queste concessioni, tutti questi limiti e queste regolamentazioni diventano per i capitalisti sempre più insopportabili. Si assiste, allora, a ondate di controriforma e di deregolazione per eliminare i costi e gli impedimenti che ostacolano lo sfruttamento della forza lavoro e pesano sul loro tasso di profitto. Il riformismo classico che prima prosperava in quanto agente di controllo del proletariato gestendo la ridistribuzione delle briciole concesse dai capitalisti, di colpo entra in crisi, e non fa altro che piangere sul felice tempo passato.

Ma quando, sempre “all’improvviso”, scoppia una grande crisi come conseguenza inevitabile della crescita economica stessa, tutti i capitalisti si rivolgono nuovamente ai propri Stati, chiedendo loro di intervenire nell’economia, di instaurare barriere, controlli, regolamentazioni, nazionalizzazioni ecc. I riformisti, vecchi e nuovi, ricominciano ad esultare…

Centotrent’anni fa Engels scriveva che:

«le crisi hanno rivelato l’incapacità della borghesia a dirigere ulteriormente le moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi di produzione e di traffico in società anonime [trusts] e in proprietà statale mostra che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento di questo fine»; «Il capitalista non ha più nessuna attività sociale che non sia l’intascar rendite, il tagliar cedole e il giocare in Borsa, dove i capitali si spogliano a vicenda dei loro capitali. Se il modo di produzione capitalistico ha cominciato col soppiantare gli operai, oggi esso soppianta i capitalisti e li relega, precisamente come gli operai, tra la popolazione superflua, anche se in un primo tempo non li relega tra l’esercito industriale di riserva». Engel poi aggiunge:

«Ma né la trasformazione in società anonime [trusts], né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Nelle società anonime questo carattere è evidente. E a sua volta lo Stato moderno è l’organizzazione che la società capitalista si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è un macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale.. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice» (4).

 

Contro la  sottomissione agli interessi capitalistici

 

Il “ritorno dello Stato”, il suo intervento nell’economia per risolvere la crisi attuale, non sono affatto elementi positivi per i proletari, né qualcosa che essi debbano auspicare e appoggiare. Quando lo Stato borghese interviene, è sempre e ovunque nell’interesse del capitalismo, mai e in nessun luogo nell’interesse del proletariato. Le iniezioni massicce di capitali per la stabilità  finanziaria e negli altri settori decisivi per l’economia capitalistica, alla fin fine saranno pagate, in un modo o nell’altro, dai proletari. Padroni e borghesi in generale non esitano mai a invocare l’interesse che i proletari avrebbero nel sostenerli per evitare un fallimento delle “loro” imprese, della “loro” economia nazionale. Questo significa dire ai proletari: abbandonate i vostri interessi a vantaggio degli interessi di coloro che vi sfruttano, accettate ulteriori sacrifici per mantenere i profitti di coloro che vi sfruttano, altrimenti rischiate di trovarvi in mezzo a una strada!

Qualcuno dirà che per i proletari è meglio che l’impresa in cui lavorano abbia dei profitti piuttosto che fallisca. E, in effetti, finché rimarranno sottomessi alla logica capitalistica, i lavoratori non avranno altra scelta che piegarsi alle necessità del capitale, accettare i sacrifici imposti da questo, fino al sacrificio della vita, in futuro, quando verranno chiamati a difendere con la guerra l’economia nazionale. Proprio come lo schiavo, se non rimette in causa il sistema dello schiavismo, ha tutto l’interesse che il suo padrone sia ben pasciuto perché in tal caso, forse, gli lascerà qualche briciola del suo pasto prima di rimetterlo al lavoro a colpi di frusta.

Proletari e capitalisti hanno interessi di classe antagonisti; ogni volta che i proletari, anziché difendersi, accettano i sacrifici che vengono loro chiesti, si indeboliscono e rendono più difficile la futura difesa dei loro interessi. E’ quello che sperimentano i lavoratori delle aziende in difficoltà che, dopo aver accettato tutti i sacrifici richiesti, tutti i piani “sociali”, finiscono per essere licenziati. La stessa lugubre commedia si ripete oggi su larga scala.

Negli Stati Uniti le tre grandi case automobilistiche premono perché lo Stato conceda loro crediti sufficienti a evitare il loro fallimento e le migliaia di licenziamenti che ne deriverebbero. Alcuni circoli borghesi americani ritengono che in realtà sarebbe meno costoso lasciarle fallire, in quanto la riorganizzazione che seguirebbe permetterebbe di eliminare i rami non redditizi, di licenziare migliaia di lavoratori e imporre in modo generalizzato i più grandi sacrifici, cose che altrimenti sarebbero difficili da far passare. Per contrastare questa alternativa, i padroni delle case automobilistiche hanno fatto appello al sindacato UAW. Quest’ultimo, sotto il pretesto di difendere i lavoratori, ha accettato di rimettere in discussione tutta una serie di “vantaggi” concessi in passato ai lavoratori, in particolare riguardo le pensioni, i piani di assicurazione malattia e il pagamento della disoccupazione tecnica (una specie di cassa integrazione).

Come dovevasi dimostrare, il servilismo dei bonzi sindacali non ha affatto protetto i lavoratori, ma, al contrario, li ha disarmati: per ottenere i finanziamenti dallo Stato, la General Motors ha annunciato di prevedere il licenziamento di trentamila operai, ossia un terzo della sua forza lavoro (5)…

La politica di servile sottomissione agli interessi capitalistici, camuffata ovviamente sotto il nome di “interesse generale” o di interesse “dell’economia nazionale”, che l’inquadramento collaborazionista impone ai proletari, non può avere altri risultati. Il valzer di miliardi generosamente concessi alle banche e ad altre imprese, mentre le sue casse erano ritenute vuote, mostra agli occhi di tutti che lo Stato è unicamente al servizio dei capitalisti. Mostra che questo Stato è sempre lo Stato dei capitalisti e che non muoverà neppure un mignolo per i proletari. Solo i lacché della classe capitalista possono proporre ai lavoratori di far appello a questo Stato, lasciando intendere che si possa preoccupare della loro sorte. Lo Stato borghese è il nemico dei proletari, l’arma suprema di capitalisti, tanto attraverso i suoi sbirri e i suoi giudici, quanto attraverso le sue varie istituzioni politiche e “sociali” di collaborazione di classe.

Ma i lavoratori non sono condannati eternamente all’impotenza; dispongono di un’alternativa alla rassegnazione o al servilismo, quella della difesa intransigente e risoluta dei loro interessi di classe. I duri colpi che, per via della crisi, i capitalisti dovranno assestare ai proletari non scateneranno automaticamente o meccanicamente la ripresa generale della lotta di classe. Potrebbero addirittura avere, inizialmente, l’effetto contrario di paralizzare, ancor più di quanto già non lo sia, gran parte della classe operaia.

Ma, lacerando ulteriormente le maglie della collaborazione di classe che li paralizza da decenni, spingeranno inevitabilmente dei settori del proletariato, anche “periferici”, alla lotta e perfino a esplosioni sociali. I borghesi lo sanno (6), e lo sanno pure i loro servi collaborazionisti; essi tentano di sminare il terreno preparando delle valvole di sicurezza e rafforzando contemporaneamente l’armamentario repressivo. Ma non riusciranno a impedire queste lotte, così come non sono riusciti a impedire lo scoppio della crisi economica e non potranno impedire il suo aggravamento.

E sarà al fuoco di queste lotte, confrontandosi con i sabotaggi e i tradimenti delle false organizzazioni “operaie” o “rivoluzionarie”, che delle minoranze di proletari avranno la possibilità di rompere con l’opportunismo e di porsi sul terreno del programma comunista e del partito di classe.

 

 


 

(1) L’NBER è ufficialmente incaricato di stabilire le date dei periodi di recessione e di espansione; per far ciò si basa su una serie di indicatori economici, mentre di solito gli economisti, i mezzi di informazione e i governi si basano sulla variazione trimestrale del Prodotto Nazionale Lordo (occorrono due trimestri di calo del PNL perché si parli di recessione): l’NBER ritiene ambigue le variazioni di questa misura trimestrale. Cfr. «Le Monde», 3/12/2008.

(2) Per la durata dei cicli di espansione e di recessione negli USA dal 1857, vedi: http//www.dev.nber.org/cycles/cyclesmain.html.

(3) Cfr. «The Wall Street Journal», 27/11/2008. In India, in novembre, le aziende siderurgiche sono state costrette ad abbassare i loro prezzi del 15-20%.

(4) Engels, «Anti-Dühring», Terza sezione, Elementi teorici, in Opere complete, Marx-Engels, Editori Riuniti, Roma 1974, vol.XXV, pp.267-268.

(5) Comunicato AFP,2/12/2008.

(6) Secondo «Le Canard Enchaîné» del 3/12/2008, il presidente francese Sarkozy, nel corso di una riunione sulla situazione economica, avrebbe dichiarato: «Stiamo andando verso una serie di scontri sociali, perfino verso LO scontro sociale». 

Vero o falso che sia, non v’è alcun dubbio comunque che i responsabili politici sono sempre più attenti alla tenuta della pace sociale; e per questo si appoggiano fra l’altro sugli apparati sindacali collaborazionisti che hanno dato da tempo ai borghesi prova del loro “senso di responsabilità” nei confronti dell’ordine capitalistico.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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