Per la difesa delle condizioni di vita proletarie, riprenda la lotta di classe!

(«il comunista»; N° 111; Gennaio 2009)

 

 

L’obiettivo del salario e la sua difesa dal caro vita, soprattutto quando si viene licenziati e quando non si trova un posto di lavoro, è un obiettivo di classe che un’organizzazione che si proclama a difesa delle condizioni dei lavoratori salariati ha e deve avere come prioritario perché unifica tutti i proletari, di tutti i settori e di tutte le categorie professionali, di qualsiasi nazionalità siano. Se si devia da questo obiettivo fondamentale significa che si persiste e si lavora nella direzione antiproletaria, tendente alla conciliazione degli interessi dei lavoratori con quelli opposti della piccola borghesia e dei padroni che vivono esclusivamente sullo sfruttamento del lavoro salariato.

Il salario è una delle voci su cui i padroni, soprattutto quando la loro economia entra in crisi,  intervengono per diminuirli pesantemente a fronte di un mantenimento o di un allungamentio della giornata lavorativa; ottengono in questo modo una quota superiore di pluslavoro giornaliero non pagato, che in termini marxisti si chiama plusvalore e che i capitalisti chiamano profitto. Questo modo di combattere la diminuzione dei loro profitti è assoluamente naturale per i capitalisti; non devono sforzarsi, nè hanno bisogno di leggi speciali, basta corrompere adeguatamente i sindacati operai per far passare queste esigenze vitali per la sopravvivenza della loro società, del loro modo di produzione e dei loro privilegi.

I proletari, al contrario, per non cadere nella miseria più nera, sono costretti a lottare per un salario più dignitoso e contro la continua pressione padronale  fianlizzata ad uno sfruttamento della loro forza lavoro sempre più bestiale. E’ la lotta in difesa del salario che unifica i proletari, che li fa sentire membri di una sola classe, che   evidenzia l’antagonismo fra i loro interessi e quelli dei padroni. I proletari vivono solo di salario; nella società in cui domina il capitalismo si è obbligati a vendere la propria forza lavoro ad un padrone tutti i giorni e per un dato numero di ore della giornata, sottoponendosi ai ritmi e al grado di intensità di lavoro che i padroni decidono. Questa condizione vale per tutti i proletari, di qualsiasi età sesso e nazionalità siano; la differenza nel trattamento salariale fra i proletari di ogni paese e dei diversi paesi dipende da molti fattori che nel corso della storia dello sviluppo del modo di produzione capitalistico non sono mai sostanzialmente cambiati: divisione del lavoro, settorializzazione delle varie attività produttive e di distribuzione, concorrenza fra capitalisti, concorrenza fra proletari, presenza o meno di lotte operaie. Finché permane la società capitalistica, per modificare radicalmente i fattori inerenti alla divisione del lavoro, alla settorializzzazione delle varie attività produttive e di distribuzione e alla concorrenza fra capitalisti, i proletari non possono fare assolutamente nulla e, d’altra parte, essendo problemi di natura squisitamente capitalistica sono problemi di classe della borghesia e non del proletariato. Sui fattori inerenti la concorrenza fra proletari e la presenza o meno di lotte operaie, i proletari non solo possono ma hanno tutto l’interesse ad agire in quanto classe.

La concorrenza fra proletari è uno dei fattori decisivi del controllo sociale e del dominio politico e ideologico della borghesia sul proletariato; combattere la concorrenza fra proletari è quindi una priorità costante di tutti i proletari perché in questo modo tolgono ai capitalisti un’importante arma di dominio sociale e politico. Combattere la concorrenza fra proletari significa alimentare e rafforzare la solidarietà di classe fra tutti i proletari, non importa che età sesso o nazionalità abbiano, e contrapporre alla pressione capitalistica una forza efficace per bloccare i continui peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro che tutti i capitalisti del mondo non possono non realizzare, direttamente nelle proprie aziende e attraverso le leggi dei loro Stati, più o meno democratici che siano.

La lotta per un salario adeguato al costo della vita e la lotta contro la concorrenza fra proletari è, dal punto di vista della difesa delle condizioni proletarie, un'unica lotta. Se non si lotta contro la concorrenza fra proletari non si avrà la forza di lottare per aumenti di salario che riguardino in generale tutti i proletari e soprattutto quelli pagti peggio. Infatti, attraverso la concorrenza fra proletari, con il ricatto del posto di lavoro e del salario più basso, i padroni ottengono risultati molto più durevoli che non attraverso gli aperti e diretti metodi violenti e repressivi. Perciò il padronato di ogni paese investe molti soldi ed energie per mantenere in piedi un complicato sistema di corruzione degli apparati sindacali e politici che hanno influenza sul proletariato. 

La lotta proletaria o è espressione di difesa della forza lavoro – impiegata o meno nelle varie attività capitalistiche – e perciò in contrapposizione alla pressione capitalistica quotidiana con una lotta di resistenza quotidiana, oppure è un’azione inefficace, impotente, se non addirittura contraria agli interessi anche solo elementari della classe proletaria come succede tutte le volte che la “lotta” viene organizzata, gestita, diretta e terminata dalle forze del collaborazionismo interclassista.

Mettere la lotta per il salario al centro della lotta operaia di difesa immediata dovrebbe essere naturale per ogni operaio, ma da troppo tempo l’opportunismo ha sostituito l’obiettivo del salario accettando  il ricatto del posto di lavoro, dando così un importante sostegno alla politica padronale della divisione del lavoro e dell’aumento della concorrenza fra proletari. Il posto di lavoro è certamente importante per ogni proletario perché, per avere un salario di cui vivere, o si viene sfruttati da un padrone o si muore di fame: questa è la legge del capitale alla quale i proletari di tutti i paesi sono costretti a sottostare.

Ma contro la legge del capitale il proletariato - in quanto classe dei proletari che uniscono le loro forze per difendersi dalle leggi del capitale - ha la possibilità di lottare sulla base di una sua priorità, una sua “legge di sopravvivenza”: che abbia o no un “posto di lavoro”, ogni proletario deve vivere, deve sfamare la sua famiglia e i suoi figli, perciò deve avere un salario che permetta appunto di vivere. I proletari non possono accettare la legge del capitale che recita: avrai un salario, oltretutto sempre più da fame, finché il capitalista che ti dà lavoro può sfruttarti per gonfiarsi le tasche di profitto, e non avrai più salario quando il capitalista non potrà più ottenere il profitto che cerca dallo sfruttamento del tuo lavoro! I proletari devono difendere la propria sopravvivenza nonostante il capitalismo, perciò devono lottare per un salario, da lavoro o di disoccupazione: sempre salario è! E’ lo Stato borghese, il “capitalista collettivo”, che deve assumersi l’onere di versare un salario a tutti i proletari che non hanno un posto di lavoro. I capitalisti sono padroni dei mezzi di produzione e di distribuzione, sono padroni dei prodotti che vengono fabbricati nelle loro aziende, hanno eretto a difesa della proprietà privata e del loro dominio sulla società uno Stato centrale e un’infinita ramificazione di istituzioni sociali, politiche, culturali, religiose e militari; sia dunque lo Stato borghese, il “capitalista collettivo”, a pagare quel salario che il capitalista singolo non vuole o non può più pagare!

Ogni operaio sa bene che in tempi di crisi di mercato la sua condizione di salariato diventa sempre più precaria e insicura: per strati sempre più vasti di lavoratori il posto "stabile", il posto "fisso" diventa sempre più raro. I licenziamenti da un lato e l'aumento vertiginoso  di contratti temporanei, interinali, a termini, a progetto e le mille altre voci che si sono inventati per abbindolare i proletari, sono lì a dimostrare che nella società del profitto capitalistico la vita del proletariato è sicuramente incerta!  Se lo Stato borghese interviene per rendere più sicuro il profitto capitalistico, intervenga anche per assicurare un salario ai proletari che non hanno un lavoro! Questa richiesta può sembrare astratta, fantasiosa, impossibile da ottenere. Non è certamente una richiesta che si possa avanzare con petizioni, raccolte di firme, voti in parlamento. E' in realtà un obiettivo di grandissimo livello che coinvolge il rapporto generale tra proletariato e borghesia, nella lotta tra queste due classi protagoniste della vita sociale. Ma ciò che induce una rivendicazione del genere è l'associazione tra proletari di tutte le età, di qualsiasi categoria e di qualsiasi nazionalità, perché la perdita del posto di lavoro, e quindi del salario, riguarda tutti i proletari, nessuno escluso! 

Si dirà: è impossibile ottenere un salario se non si lavora, se non si viene sfruttati in un posto di lavoro, quindi se non si è utili ai padroni o al loro Stato al fine di produrre profitto capitalistico. Questa è la classica  visione borghese; ogni capitalista, grande o piccolo che sia, sosterrà sempre un concetto del genere, perché la loro ideologia deriva dalle condizioni attuali di produzione e di vita: tutto si fa dipendere dal profitto capitalistico, dalla produzione di merci e dal denaro; tutto deve passare attraverso il mercato. Ma il proletariato non è mai a pari livello con i capitalisti perché è costretto a vendere la propria forza lavoro ai padroni dei mezzi di produzione che sono anche i padroni della ricchezza sociale prodotta. Sotto il capitalismo il proletariato non ha nessuna possibilità di emanciparsi dalle condizioni di schiavitù salariale in cui lo costringe l'intero sistema di potere borghese. Ogni pur infinitesimo miglioramento nella propria vita lo deve a durissime lotte; lotte che è costretto continuamente e fare per riconquistare quel che aveva già ottenuto copn precedenti lotte e che nel tempo i capiotalisti si sono rimangiati. La lotta della classe del proletariato è una necessità per la sua stessa vita, per la sua sopravvivenza!                                 

Il mercato spinge tutti i capitalisti a dare alle proprie merci un grado di competitività sempre maggiori. E questa competitività non la si ottiene soltanto attraverso rinnovamenti tecnologici di tutta uuna serie di lavorazioni che comportano una diminuzione dell'unità di tempo necessaria a produrre quel determinato prodotto e quindi un aumento della quantità di prodotto nell'unità di tempo. La si ottiene anche riducendo sempre più i cosiddetti "costi di produzione" nelle voci in cui questa riduzione sia effettivamente rapida e immediata. Quali sono queste voci, gli operai le conoscono molto bene perché riguardano direttamente le loro condizioni di lavoro: manutenzione sempre più scarsa degli apparati produttivi, riduzione di tutti i mezzi di prevenzione degli infortuni e della nocività, assenza di controlli, intensificazione del lavoro e aumento delle mansioni lavorative per singolo operaio. Più la concorrenza fra capitalisti aumenta e si acuisce, più aumenta l'insicurezza sul lavoro.  

Che cosa hanno fatto e che cosa fanno i sindacati collaborazionisti su questo fronte? Se non sono spinti da una forte reazione operaia, non muovono un dito. E anche quando alzano la voce contro i morti sul lavoro, contro l'aumento degli infortuni, contro la nocività che colpisce i lavoratori a distanza anche di anni, contro la mancanza di controlli dei sistemi di sicurezza ecc., aspettano semplicemente che l'eco delle grida svanisca e che ...tutti tornino al lavoro come prima!

La crisi economica diventa un pretesto per far passare tutta una serie di misure, sia da parte governativa che da parte padronale che da parte sindacalcollaborazionista. Invece di organizzare dure lotte operaie per recuperare salario sul costo della vita che rincara, i sindacalcollaborazionisti pregano lo Stato borghese e il Padronato che si mettano una mano sulla coscienza e pnesino un po' anche alle famiglie operaie che non arrivano alla terza settimana del mese. Chiedono più innovazione nelle imprese per rendere più competitive le merci! Se da un lato chiedono pietà ai proprietari di tutta la ricchezza del paese, dall'altro si premurano di rassicurare i signori capitalisti che la loro dedizione alla conservazione sociale non c'è criso che possa scalfirla. Le merci diventano più competitve solo se i proletari vengono sfruttati ancora più cinicamente di quanto non lo siano stati finora; solo se le loro condizioni di lavoro e di vita peggiorano rispetto a quelle esistenti, in modo da estorcere dal loro lavoro salariato quote di plusvalore ancora più alte di quelle che già vengono rapinate normalmente.

Essi non vedono e non vogliono vedere che la crisi capitalistica non dipende dall’innovazione o meno, dagli investimenti produttivi o meno, dalla buona o cattiva gestione della ricchezza esistente. Da almeno centosessant’anni, da quando un certo Marx e un certo Engels hanno scritto il Manifesto del partito comunista, le crisi cui va incontro il capitalismo sono crisi di sovrapproduzione; non si tratta di mancanza di prodotti, di mancanza di investimenti, di gestione malaccorta delle risorse a disposizione delle aziende o dello Stato: si tratta di troppa produzione, troppi capitali, troppi investimenti, troppe risorse a disposizione della società rispetto alla capacità dei mercati nazionali e del mercato mondiale di smaltire l’eccesso di merci che li ha infine intasati. Ogni merce deve essere venduta ad un prezzo che contenga la quota di profitto per il capitalista che ne è proprietario. Aldilà della percentuale di merci che va in beneficenza o che va distrutta per mantenere il prezzo di vendita delle merci che le sostituiscono, resta il fatto che la pratica del “sottocosto”, della “svendita”, ha respiro cortissimo e solo per una parte relativamente modesta della gigantesca quantità di merci che invadono quotidianamente il mercato. La sovrapproduzione, che è eccesso di produzione di merci rispetto al mercato in cui devono essere vendute,  non si combatte efficacemente se non con altrettanto gigantesche distruzioni. Quando i grandi trusts, le grandi industrie non riescono più a trarre i profitti desiderati perché le loro merci non si vendono più nelle quantità necessarie, entrano in crisi – vedi ad esempio l’industria automobilistica  in tutti i paesi del mondo – e pretendono aiuto dai rispettivi Stati per la loro sopravvivenza. Ma nessuno Stato, per quanta forza finanziaria possieda, sarà mai in grado di distribuire a tutte le aziende in crisi i capitali necessari per la loro singola sopravvivenza. Inevitabile la selezione. Ma la morte delle aziende significa anche la morte di migliaia e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Da questo punto di vista, e solo ed esclusivamente perché viviamo nella società capitalistica, la sorte dei lavoratori è legata alla sorte delle aziende; e sono i primi ad essere colpiti dalla crisi del capitalismo. Ragione di più per non riconoscere comuni interessi, anche perché è assodato che la sopravvivenza di un’azienda non assicura per nulla la sopravvivenza del posto di lavoro e, quindi, del salario a tutti i suoi dipendenti!

Lo sviluppo del capitalismo è caratterizzato da continue crisi di sovrapproduzione che prima o poi sboccano in crisi di guerra. Sì, perché quando gli Stati che dominano il mondo, oberati sempre più dal peso di aziende le cui merci non trovano sbocchi sul mercato mondiale, sono spinti ad alzare il livello di concorrenza fra di loro e con gli altri Stati per una spartizione del mercato diversa da quella esistente; spartizione che non può più avvenire con mezzi pacifici e diplomatici, né con mezzi economici ma solo con l’applicazione della forza militare. Non è una novità, è già dimostrato storicamente.

L’attuale crisi, iniziata l’anno scorso, ha le caratteristiche per durare ancora molto tempo, producendo conseguenze devastanti non solo a livello finanziario – come è già avvenuto e non è ancora finita – ma a livello dell’economia reale, il che significa  disoccupazione sempre più vasta e il precipitare delle masse proletarie in condizioni di permanente precarietà di vita. Ma significa anche che ogni capitalismo nazionale, aldilà di dover intervenire con drastiche misure di contenimento anche nei confronti delle classi abbienti per evitare il proprio tracollo, comincerà a prepararsi non più soltanto agli scontri di concorrenza sul mercato mondiale, sia dei prodotti finiti che delle materie prime e delle fonti di energia, ma agli scontri militari e di guerra. E’ a questo futuro di guerra che la classe dominante borghese comincia seriamente a pensare ed ogni sua azione, ogni suo intervento, ogni sua decisione verranno d'ora in poi  prese in funzione della preparazione alla guerra guerreggiata.

Può mai la borghesia non pensare a come preparare il proletariato a fare la sua  futura guerra?

Ogni borghesia nazionale ha sempre fatto fare le proprie guerre al proletariato, l’ha fatto in tutta la sua storia, continua a farlo anche nelle guerre locali di oggi e continuerà a farlo nella guerra mondiale di domani. La guerra non scoppia per il volere di qualche pazzo Hitler o di qualche sanguinario generale; la guerra è lo sbocco inevitabile della lotta di concorrenza interimperialistica tra le grandi potenze mondiali, è la loro politica fatta con altri mezzi, con mezzi militari appunto. L’esperienza più che centenaria di dominio politico suggerisce alla borghesia dei paesi di vecchia democrazia, quindi anche alla nostra borghesia italiota, sebbene storicamente vile e voltagabbana, di utilizzare più a lungo possibile l’arma dell’influenza opportunista sul proletariato. Perciò, tanto più in presenza di formazioni politiche “di sinistra” indebolite dal loro stesso logoramento parlamentare e legalitario, come nel caso dei vecchi partiti nazionalcomunisti e delle loro mille derivazioni successive, ha ancor più bisogno dell’appoggio indiretto dei sindacati collaborazionisti che oggi sono ancora in grado di controllare le masse proletarie che  accennano ad atti o atteggiamenti di reazione classista al peggioramento evidente delle loro condizioni di vita e di lavoro, per deviarle sul terreno della collaborazione interclassista attraverso pretesi piani “anticrisi” e richieste di “aiuti agli strati più poveri della popolazione”.

Che cosa deve  fare invece un sindacato di classe?

Deve lottare contro la concorrenza che gli operai sono spinti a farsi dai padroni e dalle leggi del mercato, rivendicando il salario di disoccupazione per i disoccupati e pari salario per pari mansioni per tutti i lavoratori, autoctoni e immigrati.

Deve lottare per la riduzione drastica della giornata lavorativa a parità di salario, combattendo contro l’intensificazione dello sforzo lavorativo, contro la flessibilità all’interno e all’esterno del posto di lavoro, contro l’aumento delle mansioni.

Deve lottare per l’aumento dei salari e delle pensioni, contro il loro diminuito potere d’acquisto in modo da assicurare una vita dignitosa ad ogni famiglia operaia.

Deve lottare contro la nocività e l’insicurezza sui posti di lavoro, bloccando il lavoro ogni volta che la nocività e l’insicurezza mette in pericolo la salute dei lavoratori. Le migliaia di morti assassinati sul lavoro e i milioni di infortunati sul lavoro sono nè più nè meno che il risultato di una guerra quotidiana che il capitale conduce contro il proletariato costringendolo a fatiche fiisiche e nervose quotidiane che ne debilitano i riflessi,  la lucidità, l'attenzione,  per di più in ambienti lavorativi malsani nei quali quasi sempre manca l'applicazione delle più elementari norme di sicurezza.

Che cosa fanno invece i sindacati tricolore?

Tutto il contrario. Essi non lottano mai contro l'aumento delle ore lavorate, casomai le gestiscono concordandole coi padroni. Non lottano mai per la diminuzione della giornata lavorativa a parità di salario, casomai chiedono che la quota di salario corrispondente ad un'ora o più di lavoro non venga pagata all'operaio più "stabile" per contribuire a mantenere il posto di lavoro e quindi il salario agli operai in esubero: e così gli operai vengono convinti a decurtarsi il salario per non far perdere il posto di lavoro ad altri operai!

Quanto alla nocività e alla sicurezza sui posti di lavoro, i sindacati tricolore hanno dimostrato in tutti questi decenni un cinismo degno di tanti capitalisti d'assalto. Raramente essi hanno preso l'iniziativa di lotta per la salvaguardia della salute dei lavoratori, e quando l'hanno presa è stato solo per la potente spinta della base; ma anche in questi casi hanno sempre dirottato la "lotta" sul piano legale e avvocatesco alla ricerca continua di attenuare almeno un po' le mancanze dei padroni in questo ambito.   

Come si dovrebbe lottare?

Lo sciopero è fermata organizzata del lavoro da parte dei lavoratori salariati

Lo sciopero se fatto e diretto fuori dalle pratiche impotenti, sempre rispettose delle compatibilità con le esigenze dei padroni, diventa un’arma potente in mano agli operai: a patto però che lo si attui senza nessun preavviso dato in anticipo ai padroni; lo sciopero è un’arma di pressione efficace se unifica i proletari, se sviluppa tra di loro la solidarietà di classe, se tende ad allargarsi e a coinvolgere i proletari di altre aziende e settori. Diventa invece controproducente e del tutto impotente, finendo per demoralizzare e indebolire gli operai, se lo si fa dipendere dalle esigenze dell’azienda, dalle compatibilità economiche e da preavvisi che sono lì al solo scopo di far preparare con molto anticipo i padroni alle ore o alle giornate di sciopero in modo che l’assenza dal lavoro non comporti di fatto nessun danno ai padroni ma solo danni agli scioperanti. 

Il sindacato di classe organizza le azioni di sciopero dei lavoratori in modo che siano efficaci rispetto alle rivendicazioni avanzate. Il sindacato collaborazionista proclama lo sciopero disorganizzando i lavoratori in modo che sia meno efficace possibile e che comporti meno danni possibili all'economia aziendale. A questo scopo vale anche l'azzeramento della vita sindacale sia in fabbrica che fuori di essa. Il ricorso ad assemblee preorganizzate nelle quali si impedisce di fatto un vero coinvolgimento dei proletari ai motivi dello sciopero e alle azioni da condurre, ha svuotato il senso stesso delle assemblee operaie. Il ricorso ai referendum con il quale i sindaclcollaborazuionisti sostituiscono la partecipazione operaia alle assemblee, isola i proletari ognuno nella propria individualità e distrugge il senso di appartenenza ad una classe viva, che lotta per i propri interessi accomunando gli operai di ogni esperienza, di ogni età, di ogni livello, di ogni nazionalità. L'attività "sindacale" dei sindacati collaborazionisti ha ucciso l'attività sindacale dell'associazionismo operaio. Intascate le quote di iscrizione attraverso il gentile servizio delle amministrazioni aziendali, i bonzi sindacali si dedicano ai compiti burocratici che il ruolo loro richiesto dalla classe dominante esige che siano espletati. Il 99% del loro tempo e delle loro energie è dedicato a come salvaguardare la loro funzione sociale di collaborazione inetrclassista, non alla lotta di difesa delle condizioni proletarie di vita e di lavoro; e a come far passare nelle file proletarie le esigenze del padronato e dell'economia capitalistica mimetizzandole da proposte e rivendicazioni "utili" anche ai lavoratori nel quadro di una invalicabile conciliazione degli interessi aziendali e proletari.

Un sindacato di classe, oltre a darsi obiettivi unificanti per tutti i lavoratori, deve organizzare le lotte in maniera che unifichino praticamente i proletari eliminando tutte le possibili divisioni fra di loro, reintroducendo la tradizione delle assemblee operaie e della vita proletaria nelle camere del lavoro in cui i proletari di qualsiasi categoria, età, sesso, nazionalità, occupati stabilmente, precari  o disoccupati si incontrano, si scambiano esperienze e informazioni e organizzano insieme la propria lotta di difesa. 

Se è vero che l'unione fa la forza, è anche vero che la forza con cui il proletariato può opporsi alla pressione capitalistica e ottenere un miglioramento nelle condizioni di vita e di lavoro, deriva dall'organizzazione della lotta, dagli obiettivi unificanti e dai mezzi usati nella lotta. Combattendo contro la concorrenza fra proletari non solo si difende il salario ma si attua quell’allenamento alla lotta che diventa necessario sempre più quanto più la crisi capitalistica si generalizza e perdura nel tempo.

Senza la lotta classista dei proletari e la tendenza ad unire nella lotta sempre più proletari, al di là dell’età, del sesso, della nazionalità, delle categorie o dei settori di appartenenza, e in presenza di una concorrenza fra proletari sempre più spietata, si favoriscono le manovre antioperaie dei padroni che tendono a peggiorare le condizioni di lavoro, di sicurezza e di nocività sui posti di lavoro. Senza la lotta classista dei proletari, ci si trova inevitabilmente in balìa dei sindacati collaborazionisti e dei partiti operai borghesi che pensano esclusivamente a difendere i loro privilegi sociali con i quali sono stati corrotti dalla classe dominante.

La crisi economica peggiorerà inevitabilmente le condizioni sociali di tutti gli strati di popolazione, e creerà per determinati strati proletari condizioni di sopravvivenza intollerabili. Proteste, manifestazuioni, episodi duri e violenti sono prevedibili e la classe dominante borghese non sta a guardare. Continuerà ad utilizzare come ha fatto finora tutti i mezzi della corruzione politica e sindacale, tutti i mezzi cosiddetti pacifici per spezzare sul nascere i tentativi proletari di rispondere con la lotta classista indipendente dagli apparti sindacali e poltici delle forze della conservazione sociale. Ma non avrà alcuno scrupolo nell'usare i metodi della repressione poliziesca per "riportare l'ordine" di fronte a manifestazioni e scioperi che sfuggissero al controllo dei collaborazionisti. Anche a questo i proletari si devono preparare.

La lotta operaia deve ritornare nelle mani dei lavoratori, deve ritornare ad essere espressione della loro forza e delle loro esigenze immediate. Con le organizzazioni sindacali del collaborazionismo i proletari non otterranno mai alcun beneficio, alcun risultato favorevole; le organizzazioni sindacali collaborazioniste sono sempre più la rappresentanza degli interessi immediati e parziali di una aristocrazia operaia che viene lusingata e favorita dal padronato al solo scopo di dividere la classe operaia e di influenzarla dal punto di vista dell’interclassismo. Per mantenere l’influenza sul proletariato, le organizzazioni sindacali collaborazioniste fanno sempre più pesare il fatto di essere i principali interlocutori del padronato e dei governi borghesi. La loro forza la prendono non dai proletari che li sostengono con la partecipazione attiva nell’attività sindacale – che non c’è più da qualche decennio –  ma dallo Stato borghese e dai capitalisti che li usano come propri luogotenenti nelle file proletarie.

I proletari, per la propria difesa sul terreno immediato, hanno bisogno di organizzazioni di classe, che indirizzino tutta la loro attività esclusivamente in difesa degli interessi proletari, al di fuori di ogni pratica collaborazionista e al di fuori di ogni apparato legato mani e piedi agli interessi del capitale. Queste organizzazioni classiste esistevano ancora negli anni Venti del secolo scorso; sebbene fossero dirette da riformisti mantenevano ancora fermi i principi dell’antagonismo di classe tra proletariato e borghesia. Ma quelle organizzazioni, la CGL (senza la “i” di italiana) e le poche altre come il Sindacato Ferrovieri e l’Usi, sono state distrutte dal fascismo dopo che i riformisti ne avevano svuotato lo spirito e l’attività classista. La risorta CGIL è nata con la sigla che ricorda la vecchia CGL ma nella sostanza è nata come sindacato collaborazionista, come sindacato operaio che tendeva all’integrazione nello Stato borghese, come già erano i sindacati fascisti. Un’organizzazione del genere non potrà mai condurre le lotte operaie sul reale terreno della lotta di classe; anche se spinta, come lo è stata negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, da una pressione operaia molto forte alla quale non poteva sfuggire pena la perdita di iscritti e dell’influenza che aveva ottenuto grazie appunto alla collaborazione interclassista e “antifascista”, un’organizzazione del genere tradirà sempre il proletariato, lo ingannerà sempre e sistematicamente fino a ergersi, un domani, di fronte a reazioni violente delle masse proletarie spinte da condizioni di vita intollerabili, come uno dei pilastri dell’Ordine Costituito, ossia di quell’ordine borghese che difende il regime di sfruttamento capitalistico del proletariato e che si difende, dal proletariato in lotta, con ogni mezzo legale e illegale.

Il proletariato ha bisogno di organismi di difesa immediata che siano indipendenti dagli apparati legati allo sfruttamento del lavoro salariato, politici, istituzionali, sociali, culturali o religiosi che siano. Per non doversi trovare in condizioni di sudditanza dal capitale e dallo Stato borghese, per non doversi trovare in condizioni di vita sempre peggiori e per non doversi trovare un domani completamente alla mercé della propaganda di guerra, come oggi alla mercé della propaganda della conciliazione fra le classi, i proletari devono ricominciare a lottare partendo dagli obiettivi immediati elementari, organizzandosi in partenza anche solo in piccoli gruppi, ma con la prospettiva di dover riconquistare il terreno della lotta di classe perché è l’unico terreno sul quale è possibile per il proletariato mettere in campo effettivamente la sua forza numerica, il suo spirito di lotta, la sua tenacia e perseveranza nella difesa della sopravvivenza materiale e spirituale.

Questa via non è nuova per il proletariato, è già stata percorsa dalle generazioni passate. Purtroppo, l’opera devastante dell’opportunismo non ha permesso alle generazioni passate di trasmettere il testimone della lotta di classe alle generazioni più giovani; così, le generazioni più giovani, le generazioni di oggi si trovano “orfane” di un’esperienza che non può più essere trasmessa direttamente e fisicamente dai loro padri e dai padri dei padri. I giovani proletari dovranno riconquistare la capacità di lottare contro la borghesia in difesa dei propri esclusivi interessi con le loro sole forze. Sappiano che al loro fianco avranno sempre i comunisti rivoluzionari, anche se ridotti oggi ad un pugno di militanti. Ma dalla loro, i giovani proletari hanno la storia, hanno il procedere inesorabile delle contraddizioni della società capitalistica che la farà esplodere in crisi catastrofiche. Essi hanno davanti un futuro che la storia ha già segnato, la fine di una società che si basa sullo sfruttamento, sempre più bestiale, da parte di una piccola minoranza che forma le classi borghesi in tutti i paesi del mondo, della stragrande maggioranza delle popolazioni del pianeta che forma le classi proletarie, le classi dei senza-riserva, dei nullatenenti.

Sarà la spinta materiale a sopravvivere in condizioni meno bestiali e oscene di quelle che ci ha riservato e ci riserva la società borghese, a far fare esperienza alle giovani generazioni di proletari che ad un certo punto dello scontro con le classi borghesi si renderanno conto che l’unica via d’uscita sarà quella di accettare fino in fondo lo scontro di classe: nessun negoziato, nessuna conciliazione , nessun patteggiamento preventivo potrà dare risposte concrete; solo la lotta di classe, organizzata, disciplinata, certa, indirizzata su obiettivi solo proletari e quindi antiborghesi e anticapitalistici darà le risposte positive alle devastanti contraddizioni della società del denaro, della merce, della proprietà privata. Quel domani è lontano, ma potrebbe essere più vicino di quel che si augurano borghesi e riformisti, a causa del precipitare delle crisi del capitale in crisi sempre meno gestibili e spostabili nel tempo.

Le giovani generazioni proletarie ricominceranno da dove già molte generazioni passate sono passate: dalla riorganizzazione di classe della difesa dei propri ed esclusivi interessi immediati. La lotta di classe non è una formula da applicare inun certo momento e in determinate situazioni sociali: è lo sbocco inevitabile dello scontro tra forze sociali gigantesche, tra proletariato e borghesia che per la loro condizione sociale storicamente non possono conciliarsi, perché l’una, la borghesia, mantiene i suoi privilegi e il suo dominio sulla società intera alla sola condizione di schiacciare nella schiavitù salariale più pesante la gran  parte dell’umanità; l’altra, il proletariato, produttrice della ricchezza sociale ma obbligata a sopravvivere da schiava e di volta in volta morire di lavoro o in guerra, è l’unica classe di questa società di cui la borghesia ha paura.

E il motivo c’è, perché la memoria delle rivoluzioni proletarie del 1848, del 1871, del 1917 la classe dominante borghese non l’ha persa, e le riproduce ogni notte lo steso incubo: la fine di ogni suo privilegio, di ogni suo profitto capitalistico, di ogni suo potere sul mondo.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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