Crisi capitalistica e necessità del comunismo

(«il comunista»; N° 112; Aprile 2009)

 

Lo show del G20

 

I rappresentanti delle venti più grandi potenze mondiali si sono riuniti a Londra allo scopo di trovare i rimedi alla crisi che scuote il sistema capitalistico mondiale. Tutti i media della terra hanno salutato la buona novella: i partecipanti si sono trovati d'accordo per iniettare miliardi su miliardi  nell'economia allo scopo di rilanciare la macchina produttiva, rifiutando il protezionismo economico (ossia la guerra commerciale), e mettere fine alle pratiche bancarie dubbiose, ai paradisi fiscali e agli stipendi eccessivamente alti dei banchieri.

In verità non si tratta che di uno show mediatico abilmente orchestrato. Il «comunicato finale», d'altronde pubblicato nella stampa prima ancora che cominciasse la famosa riunione (!) è un catalogo di pii desideri che, per esempio, sommano i piani di rilancio già annunciati da mesi in tutti i paesi, per arrivare a cifre impressionanti che hanno fatto scalpore nei media. Il solo risulatto tangibile è la decisione di aumentare le risorse del FMI perché possa far fronte meglio alle prevedibili difficoltà di numerosi Stati.

Dietro l'unanimismo e le congratulazione di facciata, spuntano le rivalità e gli interessi contrastanti fra i diversi capitalismi nazionali o blocchi di capitalismi nazionali. Come succede dopo ogni recessione, ma con una insistenza più forte in ragione della gravità pià acuta della crisi attuale, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna vorrebbero che l'Europa facesse di più per rilanciare la sua economia e servisse da locomotiva dell'economia mondiale al posto della locomotiva americana entrata in panne.

Ma i paesi europei, dietro la Germania, non hanno alcuna intenzione di cavare le castagne dal fuoco ai profitti dei capitalisti yankee; i loro piani di rilancio sono di un'ampiezza nettamente inferiore e cercano soprattutto di non accrescere in modo smisurato i deficit come invece fanno gli Americani (e i Britannici): è il prezzo da pagare per mantenere in piedi la zona euro che è uno dei loro vantaggi nel periodo traballante che è cominciato. Il portaparola molto pro-americano presidente Ceco, attualmente presidente di turno della Commissione Europea, ha detto in modo molto poco diplomatico prima del G20: gli Stati Uniti ci portano alla catastrofe (1).

E' per la stessa ragione che, al seguito della Germani, gli Stati europei hanno rifiutato la proposta segreta del FMI di far passare immediatamente all'euro i paesi dell'Europa centrale e dell'Est che sono minacciati di bancarotta: essi hanno giudicato che i rischi di indebolimento della zona euro erano troppo elevati. Tanto peggio per quei paesi!

Da parte sua la Cina ha fatto finta di chiedere il rimpiazzo del dollaro come moneta internazionale principale con un paniere di monete. Grazie all'importanza delle sue esportazioni la Cina è in effetti diventata, davanti al Giappone, il paese che detiene nelle proprie casse la più grande quantità di dollari (2): a fine marzo le sue riserve ammontavano a un milione e mezzo di miliardi di euro, di cui il 70% in dollari. La Cina non vuole assolutamente vedere questa enorme massa di moneta svalutarsi ogni volta che il dollaro perde il suo valore nello stesso tempo in cui si accresce il deficit budgetario americano. Essa, tuttavia, non può far granché: cominciare a vendere i suoi dollari sarebbe come precipitare la caduta di questa moneta e rendere così ancor più difficile la vendita delle proprie merci sul mercato americano! Non si è parlato, perciò, di monete al summit di Londra, anche se tutti i paesi convenuti vi pensavano...

 

Acutizzazione della crisi economica

 

Dopo il G20 le borse mondiali hanno ritrovato l'ottimismo; hanno ricominciato a salire, sperando non soltanto che l'economia avesse toccato il fondo, ma anche che la determinazione dei governi nell'assicurare il salvataggio degli istituti finanziari aprisse delle opportunità fruttuose per gli speculatori (3).

Ma le cifre dell'«economia reale» mostrano la realtà di un approfondimento ininterrotto della crisi. Le statistiche di cui disponiamo al momento in cui scriviamo, inizio di aprile, sono relative al febbraio 2009 (4).

Se guardiamo i dati della Produzione Industriale, l'indice più significativo per quel che concerne l'evoluzione dell'economia, abbiamo per gli Stati Uniti un netto calo sull'anno precedente: -11,8%, mentre il Giappone, seconda economia mondiale, conosce un vero sprofondamento: -38,4%! Per gli altri grandi paesi le cifre sono le seguenti: Russia: -13,2%; Germania (primo esportatore mondiale): -23,2%; Gran Bretagna: -12,5%: Italia: -20,7%; Francia (gennaio): -13,8%; Spagna: -23,9%. E se volgiamo l'attenzione verso altri paesi importanti, constatiamo le seguenti cifre: Brasile: -17%; Argentina: -14%; Messico: -11%; Turchia: -23%. In Asia, fanno eccezione rispetto a questo andamento l'India: (gennaio): -0,5%, e soprattutto la Cina, il solo paese ad annunciare una crescita della sua produzione industriale: +3,8%!

In gennaio gli ordinativi all'industria sono calati in media di oltre il 30% nella zona dell'euro: Germania: -37,7%; Spagna: -33,5%; Francia: -30,9%; Gran Bretagna: -11% (la contemporanea svalutazione della Sterlina ha favorito le esportazioni della perfida Albione!).

Un altro indice, corollario di questi ultimi, è quello delle esportazioni. La Germania, che è come abbiamo ricordato il primo esportatore mondiale, ha visto le proprie esportazioni diminuire in un anno del  23,10% in febbraio ( verso la zona dell'euro la diminuzione è stata un po' più marcata: -24%); la Cina, secondo esportatore mondiale, ha registrato in febbraio una caduta del 25,7% (e si conoscono già le cifre di marzo: -17%, ma siccome le importazioni sono diminuite molto di più, del -25,1%, il paese ha annunciato un nuovo surplus della sua bilancia commerciale!).

Ancora una volta è il Giappone che ha conosciuto la situazione peggiore, con uno sprofondamento delle esportazioni in febbraio del 49,9%! Il settore dell'auto è quello che ha sofferto più di tutti, segnando una caduta del 72,9%, il settore dei televisori non cade «che» del 63%, quello dei computer del 54%, ecc. Nell'ansia di uscire dalla sovraproduzione che soffoca il paese, il governo ha annunciato un nuovo piano di rilancio allo scopo di sviluppare il mercato interno nel tentativo di supplire all'intasamento del mercato mondiale: più di cento miliardi di euro dovranno essere iniettati nell'economia quest'anno; milioni di posti di lavoro dovranno essere creati nel settore delle nuove energie, oltre ad aiuti per le persone anziane. Ma è molto dubbio che ciò possa risolvere il problema dei fabbricanti d'auto, degli imprenditori della siderurgia o dei fabbricanti dell'elettronica giapponese...

Quanto agli Stati Uniti, essi hanno registrato un calo del 16,9% delle loro esportazioni. Le loro importazioni si sono abbattute molto di più a causa anche del marasma del mercato interno (-28,8%), ma così il deficit del loro commercio estero si è fortemente ridotto. Per quel che concerne gli altri paesi concorrenti sul mercato mondiale,  disponiamo di cifre solo per alcuni: Francia: -20,9%; Italia (gennaio): -25,8%; Gran Bretagna (gennaio): -6,5%.

In conseguenza di questo forte rallentamento delle esportazioni e delle importazioni della maggior parte dei paesi, la caduta del commercio mondiale dovrà giungere ad un livello senza precedenti dopo la fine della seconda guerra mondiale. L'Organizzazione Mondiale del Commercio prevede un calo del 9% in volume per quest'anno, 2009, mentre l'OCSE, sempre molto prudente, stima che la caduta raggiungerà il 13%.

I proletari sono i primi a pagare il prezzo della crisi del capitalismo, cominciando dalla perdita del loro lavoro. Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione è passato in un anno da 4,8% a 8,5% (marzo 2009). Se si prendono in considerazione le persone scoraggiate nella ricerca di un posto di lavoro e quelle che sono obbligate a lavorare a tempo parziale o in maniera temporanea, si arriva alla cifra del 15% di lavoratori che hanno conosciuto nel corso degli ultimi mesi la diminuzione e la perdita del posto di lavoro. Senza dubbio non è ancora una cifra «record» (nel corso della crisi del 1974-75 il tasso di disoccupazione aveva raggiunto il 9%, e nel corso della crisi del 1980-82 il 10,8%), ma anche i più ottimisti fra gli economisti ammettono che la disoccupazione aumenterà ancora nei prossimi mesi. Si sa che cosa significhi questo per i proletari: la perdita della casa e in generale la miseria! E così, in gennaio è stata registrata una cifra record di proletari che, per sfamarsi, sono dovuti ricorrere ai buoni alimentari (Food stamps) accordati dallo Stato ai bisognosi: 32,2 milioni di persone! Intanto, sempre di più sono i borghesi e le istituzioni che dicono di aver paura delle conseguenze di moti della miseria negli Stati Uniti (5)...

Per gli altri paesi, si dispone di cifre ufficiali come di seguito: Germania (marzo): 8,1%; Spagna (febbraio): 15,5%; Francia (marzo): 8,6%; Gran Bretagna (gennaio): 6,5%: Italia (marzo): 6,7%.

Il Giappone ha dichiarato per febbraio una cifra del solo 4,4%, ma molti specialisti sanno, in ragione del modo particolare di rilevare questo indici nell'arcipelago giapponese, che bisognerebbe raddoppiare le cifre giapponesi della disoccupazione per poterle comparare a quelle degli altri paesi.

La Cina annuncia egualmente un tasso di disoccupazione molto basso; ma le autorità stesse hanno dichiarato che alla fine del 2008, 20 milioni di «lavoratori migranti» (ossia il 15% del totale) avevano già perduto il loro lavoro ed erano ritornati alla campagna: questa sola cifra è sufficiente ad indicare l'ampiezza della disoccupazione di massa in un paese in cui 300.000 imprese hanno chiuso nel 2008 i loro cancelli (6).

 

Un modo di produzione basato sul profitto e non sulla soddisfazione dei bisogni umani

 

Gli stessi economisti confessano - ma non pubblicamente - di ignorare come va evolvendosi l'economia; questo però non impedisce loro di affermare pubblicamente che le cose vanno un po' meglio; sono pagati per questo! Ma, più in generale, i borghesi e i loro diversi specialisti non possono evidentemente ammettere che le crisi sono congenite al sistema capitalistico, giudicato da loro come il miglior sistema esistente, il sistema più «naturale». Essi non sono in grado di comprendere che le crisi sono dovute alle contraddizioni insormontabili del sistema stesso e che esse annunciano la catastrofe finale verso la quale il sistema capitalistico si dirige inesorabilmente: il suo rovesciamento da parte della rivoluzione proletaria internazionale o il ripiombare di nuovo in una guerra mondiale devastatrice, la sola «soluzione» borghese che possa eliminare per un lungo periodo il pesante fardello, sempre più soffocante, della sovraproduzione.

Marx ha spiegato le cause delle crisi in numerosi passaggi del «Capitale»; si può leggerne uno per esempio (7):

«La contraddizione del modo di produzione capitalistico risiede appunto nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive, che entrano costantemente in conflitto con le specifiche condizioni di produzione in cui si muove, e soltanto può muoversi, il capitale.

«Non è che si producano troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo decente ed umano la massa della popolazione.

«Non è che si producano troppi mezzi di produzione per potere occupare la parte della popolazione idonea al lavoro. Al contrario. Prima si produce una parte eccessiva della popolazione, che non è realmente atta al lavoro; che, per le sue condizioni, dipende dallo sfruttamento di lavoro altrui, o da lavori che possono valere come tali solo nell'ambito di un modo di produzione miserabile. Non si producono, in secondo luogo, mezzi di produzione sufficienti perché tutta la popolazione idonea al lavoro lavori nelle condizioni più produttive, quindi il suo tempo di lavoro assoluto si abbrevi grazie alla massa e all'efficienza del capitale costante impiegato nel corso del tempo di lavoro.

«Ma periodicamente si producono troppi mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza, per farli funzionare come mezzi di sfruttamento dei lavoratori a un saggio di profitto dato. Si producono troppe merci per potere realizzare nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalistica il valore in esse contenuto e il plusvalore ivi racchiuso, e riconvertirli in nuovo capitale, cioè per potere compiere questo processo senza esplosioni perennemente ricorrenti.

«Non è che si produca troppa ricchezza. E' che si produce periodicamente troppa ricchezza nella sua contraddittoria forma capitalistica.

«Il limite del modo di produzione capitalistico si rivela:

«1)  Nel fatto che lo sviluppo della forza produttiva del lavoro genera, nella caduta del saggio di profitto, una legge che a un certo punto si oppone nel modo più ostile al suo stesso svolgimento, e che perciò dev'essere continuamente superata per mezzo di crisi.

«2) Nel fatto che a decidere dell'ampliamento o della limitazione della produzione non è il rapporto fra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di uomini socialmente evoluti, ma l'appropriazione di lavoro non pagato e il rapporto fra questo lavoro non pagato e il lavoro oggettivato in generale, o, per esprimersi in termini capitalistici, il profitto e il rapporto fra questo profitto e il capitale impiegato, quindi un certo livello del saggio di profitto. Ne segue che esso si scontra in barriere già ad un grado di estensione della produzione che invece, partendo da altri presupposti, apparirebbe in larga misura insoddisfacente: si arresta quando non la soddisfazione dei bisogni, ma la produzione e la realizzazione del profitto, gli impongono di arrestarsi».

 

Costituzione del Partito di classe

 

L'assurdità del modo di produzione capitalistico appare evidente nelle crisi, allo stesso modo dell'assurdità ancora più grande dei diversi rimedi coi quali si pretende di risolvere le crisi riformando il capitalismo, purgandolo nei suoi «eccessi», «democratizzandolo» o facendolo «controllare» dallo Stato.

Non è possibile riformare o controllare il capitalismo per renderlo al servizio dei veri bisogni della specie umana; la sua sopravvivenza non è possibile senza che cada in crisi a ripetizione, senza guerre, senza miseria crescente per intere popolazioni, compresi i paesi più ricchi, o senza devastazioni ogni volta più distruttrici della natura. Esso mette sempre più in pericolo l'avvenire dell'umanità.

La società capitalista dovrà necessariamente essere sostituita da una nuova società e da un modo di produzione che non sia basato sulla ricerca del profitto ma sulla soddisfazione dei bisogni sociali, sui bisogni di tutti gli esseri umani. Una società senza classi nè sfruttamento di classe, senza miseria, senza oppressione: il comunismo.

Tuttavia, come è successo ai modi di produzione e alle organizzazioni sociali anteriori, anche il capitalismo non cederà mai  il posto senza combattere fino in fondo. Il conflitto delle forze produttive e, in ispecie, della più potente fra loro, il proletariato, dovrà essere assunto e diretto esso stesso fino in fondo contro il sistema politico che protegge il capitalismo e assicura il suo funzionamento: cioè fino alla presa violenta del potere, la distruzione dello Stato borghese e l'instaurazione della dittatura del proletariato, passaggio indispensabile non soltanto per reprimere la reazione borghese ma anche per sradicare progressivamente il capitalismo e riorganizzare tutta l'economia.

Questo compito titanico, il proletariato, sola classe rivoluzionaria in questa società, potrà assolverlo alla condizione ch'esso abbia avuto, in precedenza, la forza - per riprendere le parole del Manifesto dei Comunisti - di organizzarsi in classe, quindi in partito.

Lavorare alla costituzione del partito di classe, questo è il compito che pone oggettivamente la crisi capitalistica ai proletari d'avanguardia!

 


 

(1) «Il segretario al Tesoro americano parla di un'azione permanente e, al nostro Consiglio [europeo, ndr] di primavera noi ci siamo davvero allarmati. Gli Stati Uniti ripetono tutti gli errori degli anni Trenta (...). Ogni loro iniziativa, ogni espediente e ogni servizio sono la via della catastrofe», cfr. «Financial Times» del 26/3/09.

(2) Una buona parte di queste riserve esistono sotto forma di buoni del tesoro americano. Nel corso del suo viaggio in Cina, Hillary Clinton ha supplicato la Cina di continuare ad acquistarli (ed è ciò che è necessario per finanziare il deficit di budget USA) dicendo loro: «siamo nella stessa barca». Il problema per i Cinesi è che essi non hanno alcun controllo sulla direzione che prende questa barca, cioè sulla politica economica americana...

(3) Il piano Geithner di salvataggio delle banche pesantemente indebitate è stato così battezzato «piano per i fondi avvoltoi». Secondo il settimanale «Business Week» (13/4/09), gli Hedge Fund e le Banche d'Investimento sono già pronti per sfruttare al meglio queste opportunità speculative.

(4) Le cifre sono riprese in generale dalla serie di statistiche pubblicate dal settimanale britannico «The Economist».

(5) Ad esempio, nello scorso novembre l'Istituto di Studi Strategici del Collegio Militare dell'esercito americano ha pubblicato uno studio sui rischi di una «violenza civile generalizzata» in seguito ad uno «sprofondamento economico»: i borghesi si preparano a periodi molto difficili...

(6) Vedi «Business Week», 13/4/09.

(7) Cfr. Marx, Il Capitale, Libro III, cap. XV, UTET, Torino 1987, pp. 329-330, i corsivi sono nell'originale di Marx.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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