Delle crisi cicliche del capitalismo, del loro inevitabile e storico sbocco nella guerra guerreggiata e della sola e decisiva soluzione storica rappresentata dalla rivoluzione proletaria (1)

(Riunione generale di milano, 17 gennaio 2009)

 

(«il comunista»; N° 112; Aprile 2009)

 

Il tema quest’anno è stato dedicato alle questioni legate al corso delle crisi capitalistiche di cui si sta vivendo in questo periodo un tempo di lenta ma inesorabile recessione economica. E’ normale per noi che il rapporto scritto, che incominciamo a pubblicare, sia molto più ampio e approfondito di quello esposto oralmente; i compagni e lettori troveranno, perciò, argomenti e aspetti legati alla questione delle crisi del capitalismo più approfonditi, utili ad inquadrare il tema sia dal punto di vista teorico che da quello storico e politico. Non daremo qui una disamina di dati economici numerici, di cui le pubblicazioni borghesi sono sempre più parche e tendenzialmente disomogenee; ci basterà riferirci ad alcuni dati legati alla produzione industriale per rintracciare la linea di conferma della previsione marxista e collegheremo la tendenza a crisi economiche e sociali sempre più acute e devastanti del capitalismo alla tendenza storica rappresentata dalla lotta di classe che inevitabilmente, nel corso del suo sviluppo, porta l’antagonismo fra le classi fondamentali della società borghese alla massima tensione sociale e allo scontro «per la vita o per la morte».

Si affrontano, in questa riunione, i fattori oggettivi delle crisi capitalistiche e dell’attuale crisi in particolare, i fattori oggettivi della lotta di classe e della sua ripresa il cui sviluppo futuro sboccherà necessariamente nella rivoluzione proletaria, e i fattori soggettivi relativi sia alla classe dominante borghese e ai suoi interventi sui diversi piani (politico, economico, sociale, militare) nel tentativo di controllare e «gestire» le crisi della sua economia e della sua società, sia alla classe del proletariato e nella fattispecie al partito di classe del proletariato. Si tratta quindi di presentare il punto di vista marxista delle crisi capitalistiche per gli aspetti economici in senso stretto, per gli aspetti politici che ne derivano e per gli aspetti sociali.

L’opportuno raffronto con crisi mondiali precedenti (come ad es. quelle del 1929-32, del 1973-75, del 1987-89) servirà a confermare

1) la giusta previsione marxista dell’inevitabilità delle crisi nel processo di sviluppo del capitalismo – tanto più a livello mondiale -, e della loro caratteristica principale di crisi di sovrapproduzione,

2) l’incapacità da parte della classe borghese dominante di risolvere i fattori di crisi del proprio modo di produzione e della propria economia, benché abbia dimostrato di saper intervenire con misure parziali che però si limitano a spostare nel tempo gli effetti catastrofici delle crisi generali fino a farli confluire nello scoppio di guerre devastanti e mondiali con l’unico scopo di rinnovate spartizioni del mercato mondiale e di ripresa della produzione di merci e di rinnovata estorsione di plusvalore,

3) l’inevitabile maturazione, ad un certo punto di sviluppo del capitalismo, degli elementi di antagonismo e di contrasto fra le classi che spinge la classe del proletariato a reagire e ribellarsi lottando contro  condizioni di vita e di lavoro sempre più intolleranti,

4) il ripresentarsi del movimento di classe del proletariato come agente protagonista del rivoluzionamento sociale e la dialettica necessità dell’incontro fra il movimento di classe del proletariato e il partito di classe, il partito comunista rivoluzionario.

 

L’obiettivo del tema non è tanto quello di ipotizzare la «data» della prossima crisi capitalistica mondiale in grado di scatenare i fattori di scontro militare fra le potenze imperialistiche, e meno ancora l’ora «x» dello scoppio della rivoluzione. E’, piuttosto, quello di evidenziare la giustezza della previsione marxista in quanto scienza non tanto dello sviluppo oggettivo delle contraddizioni della società borghese, ma delle sue storiche, inevitabili e ultime conseguenze economiche e sociali. Marx affermò che la scoperta della lotta fra le classi non la si deve a lui ma agli economisti borghesi; a Marx si deve la scoperta delle conseguenze ultime, storicamente inevitabili, della lotta fra le classi che si sviluppa nella società capitalistica fino alla rottura sociale verticale, alla rivoluzione: le forze produttive sviluppate alla massima potenza e a livello mondiale non sono più contenibili nelle forme economiche e sociali del capitalismo; le forme borghesi di dominio della società saltano, la rivoluzione delle forze produttive rappresentate dal proletariato apre la società a nuove forme di organizzazione economica e sociale; il proletariato, creato dalla borghesia e dal capitale come schiavo salariato, si trasforma in becchino della borghesia e del modo di produzione capitalistico, distrugge e seppellisce definitivamente il capitalismo e le classi sociali che lo definiscono, non solo dunque la classe borghese ma la stessa classe proletaria, aprendo alla società umana una storia di armonica organizzazione della specie in cui non esiste più divisione in classi contrapposte, non esistono più interessi di classe contrapposti e antagonisti.

Marx, nella lettera a Weydemeyer del marzo 1852, scriveva: «Per quanto mi riguarda, non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna e la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica. Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: 1) dimostrare che l’esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; 2) che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi» (1).

Basterebbe questo passaggio per affermare senza alcun dubbio che il lavoro di Marx per il Capitale non si riduce ad una analisi del capitalismo nelle sue forme più generali e pure, non si ferma a sostenere con vibrante passione il progresso economico e sociale che storicamente il capitalismo rappresenta nel corso dei successivi modi di produzione che hanno segnato la storia delle società umane, e la contemporanea  e micidiale denuncia delle terribili contraddizioni di cui il capitalismo è inesorabilmente prigioniero. Fino a questo punto ci sono arrivati i borghesi «illuminati» i quali, per quante denunce abbiano fatto e facciano delle storture del capitalismo, non arrivano mai a concludere che è il modo di produzione capitalistico stesso la causa fondamentale delle insanabili contraddizioni del capitalismo, che va completamente rivoluzionato e sostituito. Essi cercano di riformare il capitalismo, attenuandone le contraddizioni più acute, e non vanno oltre, non possono – per ragioni di classe – andare oltre. Il lavoro di Marx, e di Engels, è nuovo e unico rispetto a tutte le scoperte fatte fino ad allora dagli storiografi e dagli economisti borghesi in quanto scopre la legge storica dello sviluppo delle società umane, delle successive e «determinate fasi storiche di sviluppo della produzione» che sono alla base di ogni organizzazione sociale: la legge secondo la quale le società divise in classi, nel corso del tempo, si sono sviluppate fino ad una loro  ultima e determinata fase il cui ulteriore sviluppo non può essere che la fine di ogni divisione in classi contrapposte, di ogni lotta fra le classi. Ed è la stessa legge storica che conduce a stabilire i necessari passaggi economici, politici e sociali affinché da una «determinata fase di sviluppo della produzione» si passi ad una «fase» successiva e superiore. Da qui emerge la necessità di collegare i fattori oggettivi di sviluppo economico e sociale ai fattori soggettivi d’azione delle organizzazioni politiche che condensano e rappresentano gli interessi delle classi contrapposte.

Gli interessi di classe non sono la somma degli interessi individuali dei componenti di una determinata classe sociale; essi esprimono la difesa di condizioni sociali che accomunano masse di uomini nei loro rapporti di produzione, e quindi nei rapporti sociali. Gli interessi di classe contengono e superano gli interessi delle singole frazioni o dei singoli gruppi di cui sono composte le classi sociali: esprimono la caratteristica più generale degli interessi delle frazioni, gruppi ecc. che compongono le classi generali, quindi tendenzialmente la loro prospettiva storica. Quando usiamo il termine classe, dal punto di vista marxista e non sociologico, intendiamo classe sociale nel suo movimento storico; gli interessi di classe, perciò, sono proiettati in una dinamica storica determinata dai rapporti di produzione e dai rapporti sociali che ne derivano. La classe borghese, la classe del proletariato sono classi che hanno ed esprimono interessi antagonisti in quanto il loro rapporto nel modo di produzione esistente è definito dalle condizioni materiali di produzione e di vita in cui si trovano queste due classi fondamentali della società borghese, poiché l'una senza l'altra non può esistere. La borghesia, fondando il suo potere economico e politico sul monopolio di classe delle condizioni di vita dell’intera società (modo di produzione, sviluppo delle forze produttive, proprietà privata e appropriazione privata dell’intera produzione sociale) ha come interesse di classe il mantenimento e lo sviluppo della società capitalistica e quindi del suo modo di produzione, della proprietà privata e dell’appropriazione privata della produzione sociale. Questo interesse di classe è imposto alla società intera attraverso la forza rappresentata non soltanto dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e della produzione sociale, ma anche dalla sovrastruttura politica che regolamenta la vita sociale in tutti i suoi aspetti, cioè dalla forza dello Stato. Contro questo interesse generale della borghesia, difeso economicamente, politicamente, culturalmente e militarmente dallo Stato centrale e da tutte le sue ramificazioni istituzionali, si erge l’interesse di classe del proletariato, ossia la difesa di condizioni di vita e di lavoro dalla sempre più forte ed estesa pressione economica e sociale, e dalla repressione esercitate dai capitalisti padroni delle fabbriche e di ogni tipo di azienda e dallo Stato.

L’antagonismo di classe tra proletariato e borghesia ha origine nello stesso modo di produzione capitalistico che funziona e si sviluppa solo ed esclusivamente attraverso lo sfruttamento capitalistico del lavoro salariato, il suo soggiogamento senza limiti di tempo e di spazio.

 

Il vero limite del capitalismo è il capitalismo stesso

 

Il modo di produzione capitalistico è produzione di merci, di prodotti che si scambiano contro denaro sul mercato, e solo prodotti-merci, e si basa sullo sviluppo tecnico della produzione, nel senso che ogni innovazione tecnica applicata alla produzione consente un accrescimento della produzione stessa sia in quantità – per unità di tempo di lavoro, per materie prime utilizzate e da trasformare – sia in qualità – per scoperte scientifiche e tecniche applicate alla produzione. Lo sviluppo tecnico, le scoperte scientifiche, nella loro applicazione alla produzione consentono un continuo aumento della produttività del lavoro: in minor tempo e con meno operai si ottiene una quantità di prodotti aumentata.

Data la caratteristica della proprietà privata dei mezzi di produzione e dell’appropriazione privata della produzione sociale, ogni atto di produzione, ogni suo sviluppo, ogni suo accrescimento, sono finalizzati ad accrescere il guadagno del capitalista, del padrone dei mezzi di produzione. Il capitalista anticipa il capitale che serve per avviare la produzione di un qualsiasi prodotto e per comprare la forza lavoro da applicare al processo produttivo. Il capitale, quindi, forma la base necessaria perché la produzione capitalistica abbia inizio e si sviluppi. La sua composizione organica, è costituita da capitale costante, o fisso (mezzi di produzione, materie prime da trasformare) e capitale variabile, o salari (mezzi di sussistenza della forza lavoro); Marx aggiunge nella composizione organica un terzo elemento, il plusvalore e qui di seguito vediamo perché.

Da che cosa il capitalista ricava il suo guadagno, il suo profitto? Dai mezzi di produzione e dalle materie prime da trasformare? No, perché il loro valore viene semplicemente trasferito, in quota parte, nel prodotto finale. Dalla forza lavoro? Sì, nel senso che il valore del lavoro che i lavoratori salariati applicano nel processo produttivo e che quindi si trasferisce nel prodotto finito è più alto del prezzo pagato alla forza lavoro sfruttata nell’unità di tempo considerata (ad esempio la giornata lavorativa). Ciò significa che, sistematicamente, in ogni processo produttivo capitalistico, il capitalista impiega la forza lavoro salariata alla produzione solo ed esclusivamente se la situazione sociale gli consente di sfruttarla in modo che il tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza di lavoro (giorno dopo giorno) sia inferiore (e tendenzialmente sempre più inferiore) al tempo di lavoro complessivo applicato alla produzione. L’esempio di Marx: l’operaio lavora per 10 ore al giorno di cui vengono pagate 5 per la sussistenza, la riproduzione della forza di lavoro, e 5 non gli vengono pagate ma sottratte e intascate dal capitalista. In termini di sfruttamento della forza lavoro questo sistema si chiama: estorsione di plusvalore. Ossia, il valore che l’operaio trasferisce sul prodotto finito attraverso il suo lavoro nell’unità di tempo (la giornata lavorativa) è più alto del valore-salario pagato per la sua giornata lavorativa. Il profitto capitalista è in realtà il valore del pluslavoro – ossia del tempo di lavoro non pagato – e, quindi, è il plusvalore.

Dato che il guadagno di ogni capitalista deriva esclusivamente da questo sistema di estorsione, va da sé che la società in cui domina la classe borghese difenda la conservazione di questo modo di produzione, con ogni mezzo, violento e pacifico. D’altra parte, la stessa società borghese è nata attraverso l’imposizione violenta degli interessi borghesi contro gli interessi delle classi feudali, attraverso rivoluzioni e guerre. Il dominio di classe non è mai stato un frutto maturato sull’albero e raccolto nella giusta stagione: è stato il risultato di uno scontro violento tra classi antagoniste nel quale, alla fine, ha vinto la classe che rappresentava un modo di produzione superiore,  che lo stesso sviluppo del modo di produzione esistente aveva preparato nelle condizioni materiali della produzione stessa. Il modo di produzione capitalistico, data la sua caratteristica di sviluppare le forze produttive con accelerazioni sconosciute nelle società precedenti, ha ulteriormente sviluppato la lotta di concorrenza sul mercato mondiale già presente fin dalle scoperte geografiche e dei cosiddetti nuovi mondi, innestando un processo di universalizzazione del capitalismo in ogni angolo della terra, nel senso che la vita nel pianeta, in ogni angolo del pianeta, dipende soltanto dalle leggi economiche e sociali capitalistiche, finché il capitalismo dura, naturalmente.

La tendenza del capitalismo ad espandersi in tutti gli angoli del mondo non è lineare e nemmeno omogenea; questa espansione si è realizzata in tempi molto diversi, partendo dai paesi in cui il capitalismo si è imposto storicamente prima che in altri (è il caso dell’Inghilterra, e poi della Francia e di altri paesi europei) attraverso rivoluzioni e guerre. Tale espansione del capitalismo ha prodotto differenze di sviluppo notevoli tra i paesi più progrediti e i paesi meno sviluppati capitalisticamente (sviluppo ineguale del capitalismo), determinando diversi gradi di sviluppo e di sottosviluppo attraverso la conquista dei territori e l’apertura di nuovi mercati, attraverso la più micidiale e violenta colonizzazione da parte dei paesi industrialmente sviluppati nei confronti di tutti gli altri paesi. La conquista del mondo da parte del capitalismo non è stata certo una missione pacifica e culturale e, al contrario di quanto sostenuto dagli apologeti della società moderna, non erano la pace tra i popoli e lo sviluppo civile i motori dello sviluppo capitalistico, bensì la sfrenata e irresistibile ricerca di profitto in una lotta di concorrenza senza quartiere che caratterizza il capitalismo e il suo sviluppo fin dalla sua prima apparizione.

Il capitalismo trasforma, fin dall’inizio del suo corso storico, ogni prodotto, ogni relazione economica, ogni relazione sociale, ogni relazione politica e ideologica, in un rapporto mercantile; e mentre tutte le cose, prodotte dall’uomo o trovate in natura, diventano merci, tutti gli uomini diventano compratori e venditori, produttori e consumatori, componenti di un mondo diventato semplicemente un grande mercato. La legge del valore e la legge dello scambio regolano la produzione sociale e quindi la vita sotto il capitalismo. La tendenza principale del modo di produzione capitalistico consiste nello «sviluppo assoluto delle forze produttive» – ed è questa la sua grande forza storica rispetto a tutti i modi di produzione precedenti - «a prescindere dal valore e dal plusvalore in esso incluso, e a prescindere anche dai rapporti sociali nel cui ambito si svolge la produzione capitalistica», ma questo sviluppo assoluto delle forze produttive si scontra con uno scopo ad esso del tutto contraddittorio, «la conservazione del valore capitale esistente e la sua valorizzazione nella misura estrema (l’aumento sempre accelerato di questo valore)». In realtà, «contemporaneamente allo sviluppo della forza produttiva – sottolinea Marx – si sviluppa una più alta composizione del capitale, una diminuzione relativa della parte variabile rispetto alla parte costante» (2). Il capitale, afferma Marx, «non ha come scopo la soddisfazione dei bisogni, ma la produzione di profitto, e raggiunge tale scopo solo grazie a metodi che regolano la massa della produzione in funzione della sua scala, e non viceversa» (3).

Il carattere specifico della produzione capitalistica, continua Marx, «è di servirsi del valore capitale esistente come mezzo per la valorizzazione massima possibile di questo valore. I metodi con cui essa raggiunge questo risultato comprendono: la diminuzione del saggio di profitto, la valorizzazione del capitale esistente e lo sviluppo delle forze produttive del lavoro a spese delle forze produttive già prodotte». In questo si conferma che il modo di produzione capitalistico si sviluppa attraverso una serie continua di processi contraddittori che, nell’intento di valorizzare al massimo il valore capitale, provocano costantemente ostacoli al processo produttivo stesso. E’ indiscutibile la ricerca spasmodica di profitto da parte della produzione capitalistica, ma è altrettanto indiscutibile la tendenza storica alla caduta del saggio di profitto, tendenza che viene contrastata con metodi in ultima analisi per niente risolutivi, nel senso che possono attenuarne gli effetti catastrofici per un certo periodo di tempo, ma alla condizione di sviluppare elementi di contraddizione sempre più acuti che sfociano successivamente in improvvisi arresti e crisi del processo produttivo.

«La svalorizzazione periodica del capitale esistente – scrive Marx – che  è un mezzo immanente del modo di produzione capitalistico per frenare la caduta del saggio di profitto e accelerare l’accumulazione di valore capitale mediante la formazione di nuovo capitale, turba le condizioni date in cui si svolge il processo di circolazione e riproduzione del capitale, ed è quindi accompagnata da improvvisi arresti e crisi del processo produttivo»; «la produzione capitalistica tende incessantemente a superare questi suoi limiti immanenti, ma li supera solo con mezzi che le contrappongono di nuovo, e su scala più imponente, questi stessi limiti» (4).

Marx, quindi, nello scoprire le leggi fondamentali del modo di produzione capitalistico e del suo sviluppo storico, giunge a definirne i limiti insuperabili nell’ambito della stessa produzione capitalistica e a individuare il percorso storico del loro superamento solo nella distruzione di questo modo di produzione per sostituirlo con un modo di produzione superiore che abbia per proprio scopo ciò che il capitalismo non può e non potrà mai avere: la soddisfazione dei bisogni degli uomini e non del mercato.

«Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso; è il fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e come punto di arrivo, come movente e come fine della produzione; il fatto che la produzione è soltanto produzione per il capitale e non, inversamente, i mezzi di produzione sono puri e semplici mezzi per una espansione sempre più diversificata e completa del processo di vita per la società dei produttori. I confini entro i quali soltanto può muoversi la conservazione e la valorizzazione del valore capitale, poggiante sull’espropriazione e l’immiserimento della grande massa dei produttori, entrano perciò continuamente in conflitto con i metodi di produzione che il capitale deve utilizzare per i suoi scopi, e che tendono ad un aumento illimitato della produzione, alla produzione come fine in sé, all’incondizionato sviluppo delle forze produttive sociali – entrano in permanente conflitto con il fine angusto della valorizzazione del capitale esistente. Se perciò il modo di produzione capitalistico è un mezzo storico per sviluppare la forza produttiva materiale e creare il mercato mondiale ad essa corrispondente, è al tempo stesso la contraddizione permanente fra questa sua missione storica e i rapporti sociali di produzione che gli corrispondono» (5).    

 

La sovraproduzione capitalistica

    

Abbiamo ricordato che lo scopo della produzione capitalistica è la valorizzazione del capitale, che in altri termini è «appropriazione di pluslavoro, la produzione di plusvalore, di profitto» (6).

Spiega Marx che «con la caduta del saggio di profitto cresce il minimo di capitale che dev'essere nelle mani del singolo capitalista a scopo di impiego produttivo del lavoro; che è richiesto sia per il suo sfruttamento in generale, sia affinché il tempo di lavoro impiegato sia il tempo di lavoro necessario per la produzione di merci, affinché non superi la media del tempo di lavoro socialmente necessario per produrre le merci. E nello stesso tempo cresce la concentrazione, perché al di là di certi confini un grande capitale con basso saggio di profitto si accumula più rapidamente che un piccolo capitale con alto saggio di profitto. La massa dei piccoli capitali dispersi viene così trascinata sulla via dell'avventura: speculazione, frodi creditizie, frodi azionarie, crisi». Marx aveva letto bene non solo ciò che succedeva allora, ma ciò che succede in tutto il corso di sviluppo del capitalismo, teso a concentrare sempre di più valore-capitale in grandi capitali - pur a basso saggio di profitto - mentre fioriscono al loro fianco quantità di piccoli capitali destinati a venire risucchiati nel movimento delle concentrazioni o ad alimentare l'avventura delle speculazioni, delle frodi e delle crisi.

«La cosiddetta pletora di capitale - continua Marx - si riferisce sempre o alla pletora del capitale per cui la caduta del saggio di profitto non trova un compenso nella sua massa - ed è questo sempre il caso per i capitali freschi di nuova formazione - o alla pletora che questi capitali incapaci di azione propria e indipendente mettono, sotto forma di credito, a disposizione dei dirigenti dei grandi rami di affari»; basta aver letto un po' di cronache dell'attuale crisi finanziaria, legata ai subprime americani, per ritrovare in queste righe una chiara spioegazione: capitali freschi di nuova formazione incapaci di azione indipendente e legata alla produzione reale, navigano in una circolazione parallela, fatta appunto di frodi creditizie, di speculazione, di frodi azionarie e di crisi!

«Questa pletora di capitale - precisa Marx - trae origine dalle stesse circostanze che provocano una sovrapopolazione relativa ed è quindi un fenomeno complementare di quest'ultima, benché le due si trovino su poli opposti, capitale inutilizzato da una parte e popolazione operaia inutilizzata dall'altra» (7).

La sovraproduzione di capitale, afferma Marx, non è altro che sovraccumulazione di capitale. Come dire che il capitale addizionale, nuovo, per lo scopo della produzione capitalistica, fosse uguale a zero, ossia il suo apporto non producesse che una massa di pluisvalore equivalente  o persino inferiore a quella prodotta dal capitale precedente non accresciuto. Rammentiamoci che lo scopo della produzione capitalistica non cambia mai, è sempre la valorizzazione del capitale, quindi produzione di plusvalore. Nel caso, quindi, del capitale accresciuto che non produce una massa accresciuta di plusvalore, abbiamo una sovrapproduzione di capitale, destinata a rimanere inutilizzata, inoperosa, totalmente o parzialmente, destinato a valorizzarsi ad un tasso di profitto inferiore poiché la massa di plusvalore non cresce e non cresce nemmeno il saggio di plusvalore. Siamo dunque di fronte alla necessità del capitale di valorizzarsi, ma nella realtà ci troviamo di fronte ad una svalorizzazione del capitale. I capitali lottano fra di loro perchè la svalorizzazione cada sul concorrente; la lotta dei capitali in concorrenza fra loro è dunque provocata dalle stesse cause della caduta tendenziale del saggio di profitto e della sovraproduzione di capitale. Non se ne esce: il capitale, più si accumula, più si valorizza e più produce i fattori oggettivi di crisi di sovraproduzione. Ogni grande capitale cercherà quindi di scaricare le perdite, la «propria» crisi, sui capitali concorrenti, e questo «movimento di concorrenza» nel corso di sviluppo del capitalismo travalica i confini delle singole aziende e dei singoli Stati, per diventare un movimento di crisi generale e mondiale.

Finché tutto va bene, ossia finché i capitali ottengono un saggio di profitto che in generale livella alla scala mondiale il loro guadagno, la concorrenza, afferma Marx, «agisce come fratellanza pratica della classe dei capitalisti, che quindi si ripartiscono il bottino comune in proporzione al rischio assunto da ogni singolo individuo». Ma quando non si tratta più di dividersi il bottino, il profitto, ma le perdite, «ognuno cerca di ridurre il più possibile la sua quota in esse, e di riversarla sulle spalle altrui» (8).

In generale, dunque, la classe dei capitalisti va incontro a crisi che producono perdite: perdite di guadagno, di profitto, di capitali. Marx dice che «per la classe nel suo insieme la perdita è inevitabile», quindi la concorrenza si trasforma in lotta tra «fratelli-nemici» perché con la forza e l'astuzia, ogni singolo capitalista cercherà di sopportare il meno possibile delle conseguenze negative della crisi: l'interesse di ogni singolo capitalista entra in conflitto con quello della classe capitalistica nel suo insieme.

La contraddizione materiale della produzione capitalistica, il cui scopo, ripetiamolo, è produzione e riproduzione di valore-capitale, si sposta così sul piano degli interessi di classe dei capitalisti, sul piano del conflitto di interessi tra singoli capitalisti e classe capitalistica nel suo insieme. In questa lotta, di fronte alla crisi di sovraproduzione, vi sarà sempre chi ci perde e chi salva il valore originario dei suoi capitali; una parte di capitali, e quindi di mezzi di produzione, resta inutilizzata e se non va a costituire la circolazione fittizia di capitali speculativi - destinata comunque prima o poi ad esplodere, come dimostrano le crisi finanziarie e di borsa - va incontro a sicura distruzione. Ormai tutti sanno che la crisi capitalistica provoca un fermo nella produzione, più o meno esteso, più o meno profondo, a seconda del grado raggiunto appunto dalla crisi di sovraproduzione. Il capitale trae la sua valorizzazione soltanto dal ciclo produttivo, da quella che gli economisti borghesi chiamano da un po' di tempo l'economia reale, poiché è dal tempo di lavoro non pagato al lavoratore salariato che il capitalista intasca il suo guadagno, il suo profitto. Ma se i mezzi di produzione si fermano, o diminuisce più o meno sensibilmente la produzione, ciò provoca immediatamente una serie di  effetti: liberazione di una parte di capitali da utilizzare nella speculazione, nel credito, nell'ambito della circolazione bancaria e finanziaria; inutilizzazione di una parte di capitali che non trovano canali di circolazione o di speculazione adeguati, perciò si svalorizzano e si distruggono (in parallelo alla distruzione di merci invendute); inutilizzazione di una certa massa di forza lavoro non più sfruttabile al saggio di plusvalore necessario perché i capitali impiegati si valorizzino anche solo minimamente; svalorizzazione o distruzione di mezzi di produzione, capitale fisso e circolante, con cessazione dell'attività di una parte delle aziende produttive.

L'arresto della produzione, dunque, oltre a svalorizzare i diversi elementi che compongono il capitale, dai macchinari alle attrezzature, dalle materia prime al denaro circolante, getta sul lastrico una parte della classe operaia - aumentando la disoccupazione esistente nei periodi floridi dell'espansione produttiva - mentre la parte di classe operaia occupata viene sottoposta ad una intensità aumentata di lavoro per ottenere il famoso aumento della produttività (che significa, in poche parole, aumento della quota di plusvalore intascato dal padrone) normalmente a fronte di un abbassamento del salario. Ciò sta a dimostrare che l'aumento della produttività capitalistica del lavoro non significa - come invece vogliono far credere padroni e opportunisti - tutela delle condizioni di vita e di lavoro operaie, tanto meno miglioramento delle condizioni salariali e di vita operaie, come non significa aumento dell'occupazione. Sovraproduzione di capitale, che vuol dire sovrabbondanza di mezzi di produzione e di sussistenza, in realtà significa soprattutto peggioramento generale delle condizioni di vita e di lavoro operaie proprio perché una parte aumentata della classe operaia viene espulsa dalla produzione e finisce sul lastrico e una parte, diminuita, della massa operaia che rimane occupata nella produzione viene sfruttata di più, nell'unità di tempo (la giornata lavorativa), e pagata di meno. Come si svalorizza il capitale, si abbassano i prezzi delle materie prime e dei mezzi di produzione, così si svalorizza anche il valore della forza lavoro.

«Sovraproduzione di capitale - scrive ancora Marx - non significa mai altro che sovraproduzione di mezzi di produzione - mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza - in grado di funzionare come capitale, cioè d'essere utilizzati per sfruttare il lavoro a un dato  grado di sfruttamento, poiché la discesa di questo grado di sfruttamento al di sotto di un certo punto provoca perturbazioni e ristagni nel processo di produzione capitalistico, crisi, distruzione di capitale» (9).

Il punto critico, dunque, sta nel «dato grado di sfruttamento del lavoro salariato»; qui non c'entra la buona o la cattiva volontà del singolo capitalista, la sua voglia o meno di "guadagnare di meno" per un certo periodo di tempo, dopo aver guadagnato molto in un periodo precedente, allo scopo di mantenere i propri operai occupati in azienda fino al momento di superare il periodo di crisi; come non c'entra nulla la volontà da parte delle organizzazioni sindacali che propongono "contratti di solidarietà" agli operai (far accettare una salario inferiore a tutti quanti pur di mantenere occupato l'organico esistente) a fronte in ogni caso di un aumento della produttività capitalistica  del lavoro. Non è una questione di "volontà" del singolo capitalista, o anche di tutti i capitalisti associati; qui siamo alla base del processo produttivo capitalistico: la produzione capitalistica ha ragione di sussistere alla condizione che il grado di sfruttamento del lavoro salariato non diminuisca oltre un certo limite, il limite appunto del saggio medio di plusvalore. Se questo limite viene superato, l'azienda capitalistica va in perdita secca edelle due l'una: o diminuisce la produzione, e quindi i costi di produzione, o chiude l'attività. Il singolo capitalista, se può contare su riserve sufficienti per sopravvivere e per riaprire un'attività in altro settore o in altro luogo, se la cava; sennò va in rovina. Ma è certo che le decine o centinaia di operai che sono stati espulsi dalla produzione, senza riserve erano fin dall'inizio, sebbene occupati, senza riserve restano ora nella condizione di disoccupati. Il loro destino, in generale, non cambia: la loro permanente precarietà di vita diventa più immediata, più reale; la loro miseria di vita, dalla quale sembravano essersi almeno in parte affrancati nel momento in cui sono stati assunti nelle imprese capitalistiche e nelle mille ramificazioni delle istituzioni pubbliche, torna ad essere condanna quotidiana. Il modo di produzione capitalistico non ha risolto il problema della loro sopravvivenza, o meglio, lo risolve temporaneamente per una minoranza mentre non lo può risolvere per la grande maggioranza.

La produzione capitalistica ha per scopo la produzione di profitto, e questa produzione di profitto dipende dal grado di sfruttamento del lavoro salariato, e dalla continuità nel tempo e nello spazio di questo sfruttamento. Produzione di profitto significa, in sostanza, valorizzazione del capitale, ossia soddisfazione del bisogno di valorizzare il capitale. Soddisfare i bisogni della specie umana, della sua organizzazione sociale in rapporto armonico con se stessa e con la natura, non è lo scopo della produzione capitalistica. E la dimostrazione è data in modo lapalissiano non solo dalle contraddizioni strutturali del modo di produzione capitalistico, dai rapporti conflittuali generati dalla caduta tendenziale del saggio di profitto e dalla conseguente e  inevitabile lotta di concorrenza fra capitalisti e fra Stati capitalisti, dagli antagonismi di classe che non vengono annullati nemmeno nei periodi di espansione economica, tanto meno nei periodi di crisi economica; la dimostrazione è data anche dall'inevitabile precipitare della stragrande maggioranza della popolazione del pianeta in condizioni di sopravvivenza permanentemente incerta. Se da un lato il modo di produzione capitalistico spinge irrefrenabilmente allo sviluppo assoluto delle forze produttive (capitale e lavoro salariato), alla ricerca di una sempre più grande accumulazione di capitale, dall'altro costringe queste stesse forze produttive in condizioni di produzione che le sottopongono ad uno sfruttamento specifico, atto alla esclusiva valorizzazione del capitale. Sviluppo delle forze produttive e condizioni di produzione entrano così permanentemente in conflitto,  e nel loro corso di sviluppo non fanno che aumentare i fattori di crisi che si fanno sempre più estese, profonde e devastanti. Da un lato, aumenta la voracità del capitale, aumenta la ricchezza prodotta di cui si appropria la classe dominante borghese; dall'altro lato, aumenta l'incertezza e la precarietà della vita delle classi lavoratrici salariate, aumenta il grado del loro sfruttamento e, nello stesso tempo, la loro miseria perché non c'è abbastanza da vivere per l'intera massa di proletari nel mondo. L'antagonismo di classe fra borghesia e proletariato è evidente e si tocca con mano, sotto ogni cielo.

«Non è che si producano troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. - conclude qui Marx - Al contrario. Se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo decente ed umano la massa della popolazione.

«Non è che si producano troppi mezzi di produzione per poter occupare la parte della popolazione idonea al lavoro. Al contrario. Prima si produce una parte eccessiva della popolazione, che non è realmente atta al lavoro; che, per le sue condizioni, dipende dallo sfruttamento di lavoro altrui, o da lavori che possono valere come tali solo nell'ambito di un modo di produzione miserabile. Non si producono, in secondo luogo, mezzi di produzione sufficienti perché tutta la popolazione idonea al lavoro lavori nelle condizioni più produttive, quindi il suo tempo di lavoro assoluto si abbrevi grazie alla massa e all'efficienza del capitale costante impiegato nel corso del tempo di lavoro.

«Ma periodicamente si producono troppi mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza, per farli funzionare come mezzi di sfruttamento dei lavoratori a un saggio di profitto dato. Si producono troppe merci per poter realizzare nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalistica il valore in esse contenuto e il plu    svalore ivi racchiuso, e riconvertirli in nuovo capitale, cioé per poter compiere questo processo senza esplosioni perennemente ricorrenti.

«Non è che si produca troppa ricchezza. E' che si produce periodicamente troppa ricchezza nella sua contraddittoria forma capitalistica» (10).

La sovraproduzione capitalistica, come si è detto, provoca, raggiunta una certa quantità di capitali e di merci, un intoppo nel mercato, una impossibilità di ulteriore valorizzazione dei capitali impiegati nella produzione di quelle merci, perciò una crisi. Ma questo succede solo sotto il capitalismo, proprio perché la sua economia, pur potenzialmente capace di grande produzione di ogni tipo di prodotto ad altissima produttività, se paragonata con i modi di produzione storici precedenti, è un'economia volta esclusivamente alla produzione e riproduzione di capitale. Perciò ogni eccedenza produttiva è eccedenza di mercato, è parte di produzione potenzialmente invenduta al prezzo che contiene la quota di valorizzazione del capitale anticipato. Si produce per soddisfare le esigenze del mercato, della valorizzazione del capitale, non per soddisfare le esigenze di vita della specie umana.

Nella produzione di merci «il nesso fra sovraproduzione e crisi si fa evidente - scrive il Kautsky ancora marxista nel suo testo sulle Teorie delle crisi - Essa è infatti la produzione di produttori privati, che producono indipendentemente l'uno dall'altro e ciascuno dei quali produce ciò di cui non ha bisogno e i prodotti di cui ha bisogno li acquista da altri produttori per il tramite del denaro. In questo stadio dell'economia, di norma io non posso consumare alcun prodotto che non abbia comperato e pagato. Ma non posso comperare e pagare senza denaro, e il denaro me lo procuro (a meno che non ricorra al furto, al ricatto o ad altri metodi simili) soltanto se vendo i miei prodotti o la mia forza lavoro. In altri termini, non posso consumare se non ho trovato acquirenti per le mie merci. Ora la sovraproduzione implica di necessità che una serie di merci rimanga invenduta, e cioè che i loro compratori non siano in grado di procacciartsi denaro, e quindi di comperare e consumare» (11). Nel capitalismo, dunque, non c'è scampo: consumi, e quindi vivi, se hai denaro per comperare ciò che serve per vivere, altrimenti sei espulso dal mercato e quindi espulso dalla vita.  «La sovraproduzione - continua Kautsky - può essere causa di crisi soltanto laddove si produce per la vendita e mai laddove si produce per l'autoconsumo (...). Ma la produzione di merci non solo crea la possibilità che dalla sovraproduzione nasca una crisi, ma conferisc euna nuova forma al concetto di sovraproduzione. Nella  produzione in funzione  dell'autoconsumo, sovraproduzione è sinonimo di produzione eccedente le capacità di consumo date. Non da essa, ma solo dalla sottoproduzione possono nascere in questo stadio indigenza e miseria. Perciò ogni economia lungimirante, e verosimilmente anche ogni società socialista, cercherà costantemente di realizzare un certo grado di sovraproduzione oltre il consumo normale, onde compensare inattese flessioni della produzzione o far fronte a imprevisti aumenti del fabbisogno» (12). La bestia nera non è la sovraproduzione in sè, ma la sovraproduzione capitalistica. E infatti:  «Nella produzione di merci, invece, sovraproduzione significa produzione eccedente la domanda dei consumatori in possesso di denaro. Gli altri consumatori sono messi nel novero degli straccioni, cui non resta che andarsi a farsi sotterrare e che in ogni caso sono costretti a scomparire dal mercato» (13).

In una società invece, fondata su un modo di produzione volto a soddisfare i bisogni della vita sociale umana, e che ha superato completamente i limiti e le contraddizioni della produzione mercantile e capitalistica, la produzione materiale dei mezzi di produzione e di sussistenza viene programmata sui bisogni sociali generali, programmazione che non si limita al ciclo annuo di produzione, e che è ben lungi dall'affidare la produzione dei beni necessari alla società alle decisioni delle singole aziende. Questa programazione considererà necessaria - quindi per l'appunto programmabile - una sovraproduzione relativa (soprattutto di mezzi di sussistenza) proprio per dotarsi di scorte da utilizzare nei casi di eventuali emergenze, di raccolti insufficienti, ecc. «Questo tipo di sovraproduzione - afferma Marx - equivale a controllo della società sui mezzi materiali della propria riproduzione» (14); non sarà più il mercato a controllare i mezzi materiali della produzione sociale, non si produrranno più merci nè capitali, ma prodotti la cui unica caratteristica sarà data dal loro valore d'uso:  se ai prodotti, mezzi di sussistenza e mezzi di produzione si toglie la caratteristica specifica del capitalismo, il valore di scambio, rimane smplicemente la loro caratteristica di utilità sociale, il loro valore d'uso. Sarà la società di specie che controlla i mezzi materiali di produzione,  denaro e capitale saranno un pallido ricordo della preistoria umana perché i beni prodotti saranno semplicemente beni d'uso a disposizione di ciascun membro della società, che viva a Saint Tropez o nella foresta amazzonica, alle falde del Kilimangiaro o nella pianura padana, nella selva del Borneo, in riva al Gange o ai bordi del lago Michigan.

 

Saggio medio di profitto e sua caduta tendenziale

 

Per lungo tempo, nelle file degli economisti borghesi, e soprattutto nelle file dei rinnegati e traditori della classe operaia, si sosteneva che le leggi economiche che presiedevano il capitalismo ai tempi di Marx erano cose, e ben altre cose, diversissime, si erano rivelate poi nello sviluppo del capitalismo monopolistico. Di questo il nostro partito ha trattato in molte occasione, nelle riunioni generali e negli studi, a partire dal «Dialogato con Stalin» (15) a cui ora ci rifacciamo, anche perché le vette toccate dall'opportunismo staliniano non sono poi state toccate da nessuno dei suoi epigoni.

La teoria staliniana di allora, che si basava esattamente sullo stesso imperativo capitalistico: produrre di più, sempre di più, partiva dall'affermazione che il capitalismo monopolistico rispondeva a leggi del tutto diverse da quelle cui rispondeva all'epoca della libera concorrenza. Secondo  Stalin, il capitalismo, sviluppatosi nel capitalismo monopolistico, non aveva più come sua legge fondamentale quella scoperta da Marx, e cioè della «diminuzione del tasso medio del profitto», ma quella della «ricerca del massimo profitto»! (16). Marx superato da Stalin? In realtà si tratta di «tasso medio» nel senso geostorico, nel senso che le diverse fasi storiche influenzano il corso del fenomeno di cui stiamo parlando. Non abbiamo nessun problema ad ammettere che in date fasi, ad esempio «nelle fasi di grande affare sulla guerra, di grande affare sulla ricostruzione, il saggio di profitto sale altamente» (17). Stalin, interessato a far passare l'idea che Marx doveva essere superato, ne ricavò che la legge marxista della caduta tendenziale del saggio medio di profitto non era più valida e doveva essere sostituita dalla legge staliniana del massimo profitto! (come se la ricerca del massimo profitto possibile non fosse la molla originale del modo di produzione capitalistico, e straconosciuta dal marxismo!).

Ma le diverse fasi dello sviluppo capitalistico sono state perfettamente previste dal marxismo, e nulla toglie alla legge tendenziale storica della caduta del saggio di profitto, come le fasi successive hanno ampiamente dimostrato. Quel che Stalin non capì, e meno ancora capirono i suoi epigoni, è che una cosa è la massa del profitto e una cosa è il saggio di profitto. E' sempre stato affermato dalla teoria marxista che il profitto capitalistico tende al suo massimo, al «massimo globale, grazie all'accumulazione del capitale, all'aumento della produzione ( e delle popolazioni) all'aumento del capitale costante che per la cresciuta produttività una stessa armata di lavoro può vivificare» (18).

Il saggio, o tasso, è il rapporto tra il profitto e il prodotto (in termini borghesi, il fatturato), e può diminuire in tre modi: «Uno è quello di diminuire il profitto senza bisogno che diminuisca il prodotto, e non è quello a cui Marx pensa in regime capitalista (con la dittatura proletaria diminuiremo a zero il "profitto" e diminuiremo anche il prodotto nei settori antisociali, drasticamente). Il secondo modo è che il profitto resti lo stesso e salga il prodotto. Il terzo modo è quello conforme nella grande media alla evoluzione studiata da Marx: il prodotto aumenta enormemente, e il profitto aumenta a sua volta, e se Stalin vuole anche grandemente, massimamente, ma in una minore proporzione del prodotto» (19). E' evidente anche per un allievo di scuola elementare che in tutti questi tre casi il saggio di profitto diminuisca. 

Dopo aver teorizzato la «costruzione del socialismo in un solo paese», dando così il colpo di grazia al glorioso partito bolscevico e all'Internazionale Comunista, Stalin si lanciò nella teoria del «mercato socialista» che sottendeva sempre e soltanto la produzione di merci, che è la caratteristica del capitalismo, con una pretesa «differenza»: il «capitalismo monopolista» va alla ricerca del massimo di profitto, giorno per giorno, azienda per azienda, mentre il «socialismo russo» andrebbe alla ricerca del massimo di produttività del lavoro grazie alla quale cresce la produzione. L'inganno sta nel fatto che la produzione di cui parlava Stalin rispondeva alle stesse leggi della produzione capitalistica: produzione di merci, di qua e di là della cosiddetta «cortina di ferro». Perciò, aumentare la produttività del lavoro in regime di produzione di merci - che si autodefinisca "socialista" o che si  dichiari apertamente "capitalista" - non ha se non uno scopo fondamentale: aumentare la quota di plusvalore (tempo di lavoro non pagato) che intasca il capitalista (privato o Stato che sia)  e combattere la tendenza alla caduta del tasso medio del profitto.

Ribadiamo, bisogna riassumere i concetti di fondo, « ricordare quale sia la differenza che passa tra massa di profitto e massa di plusvalore, tasso di profitto e saggio di plusvalore, e quale sia l'importanza della legge di Marx, minuziosamente esposta al principio del III Libro, circa la tendenza alla discesa del tasso del profitto medio». E' indubbio che il capitalista tenda ad aumentare il profitto (la massa del profitto), non certo la sua discesa. «Non il profitto - massa del profitto - scende, ma il tasso del profitto! Non il tasso di ogni profitto, ma il medio tasso del profitto sociale. Non ogni settimana o ad ogni uscita del Financial Times, ma storicamente, nello sviluppo tracciato da Marx al "monopolio sociale dei mezzi di produzione" tra gli artigli del Capitale, di cui è scritta la definizione, la nascita, la vita e la morte» (20).

Esaminando in una riunione di partito del 1958 (21) i dati del saggio medio del profitto nell'arco di 40 anni negli Stati Uniti, dal 1916 al 1957, considerato sia netto che lordo dalle tasse, risulta senza ombra di dubbio la tendenza alla sua caduta, e perciò la conferma della legge di Marx: «il saggio lordo nel 1916 era il 27.5% ed era sceso nel 1957 al 6.9%; mentre il saggio netto parte da 16.6% e arriva al 3.8% (...) La massa del profitto, nello stesso periodo, è salita di 5 volte», dunque la massa aumenta, ma il saggio diminuisce. Se poi si esaminano i dati relativi alle due guerre mondiali, chi si aspetta una salita del saggio di profitto rimarrà deluso: «dal 1916 al 1939 in pieno effetto dello sfruttamento statunitense della prima guerra vediamo i due saggi, da lordo e netto, fare queste discese: da 27.5 a 7.8 e da 16.6 a 5.0. nel prospero 1929 il lordo è stazionario e il netto sale di poco: a 7,2 e a 6.2, ben lontani dai valori antebellici. La crisi li rende negativi nel 1931-32 e la ripresa al 1937 li riporta a 5.2 e a 4.1. (...) il saggio ha un impulso durante la seconda guerra e tocca nel 1943 febbrile di armamenrti il 10.6, ma l'effetto fiscale basta a rendere quasi regolare la curva del saggio di profitto netto che viene ad adagiarsi totalmente sulla previsione di Marx. Dal 1940 al 1954, saltando gli anni in cui il senso di variaziione non muta, vi è una chiara successione: 4.8, 4.5, 4.0, 4.3, 5.1, 3.7, 3.2, 3.2, 3.4. Questo è un esempio che si potrà dimostrare classico della validità per il capitalismo imperialistico delle leggi scoperte da Marx nel capitalismo concorrentista di prima del 1870». Andando ad esaminare i dati dei successivi 20 anni, 1957-1977 (gli unici finora disponibili e  comparabili con i precedenti), la tendenza è ulteriormente confermata: nel decennio 1951-1960 il saggio lordo è di 8.9, in quello 1961-1970 è di 6.9, nel periodo 1974-1977 è di 7.6, mengre il saggio netto, negli stessi peridoi è stato di 4.5, 4,1, 3.1 (22).

Quindi nel capitalismo imperialistico, perciò monopolista, non cambia la legge della caduta tendenziale del tasso medio di profitto, ma vi è ribadita e, semmai, conduce ad acutizzare la contraddizione tra aumento continuo della produzione («con cui il sistema capitalista lotta per non affondare: produrre in crescendo!»), aumento delle esportazioni, tendenza quindi alla sovraproduzione, e contemporanea tendenza alla caduta del tasso medio di profitto. Marx, nel III Libro del Capitale, afferma che la sola via per sfuggire alla legge della discesa del tasso medio di profitto è quella di superprodurre.

Produrre più merci non cambia il fatto  la merce prodotta contiene sempre due parti di capitale anticipato: capitale costante (materie prime da trasformare, macchinari, edifici, ecc) e capitale variabile (salari). Nel rapporto fra queste due parti, aumenta storicamente sempre più la parte costante rispetto a quella variabile, aumentano le materie da trasformare rispetto alla forza lavoro applicata per trasformarle, e ciò grazie all'applicazione al lavoro umano di nuove risorse tecniche e scientifiche che aumentano la produttività del lavoro. Più si alza la produttività del lavoro, rimanendo stabili le ore giornaliere lavorate, meno operai sono necessari per lavorare la stessa quantità di materie; a fronte di una più alta produttività del lavoro, il capitalista ottiene una più grande quantità di materie lavorate rispetto ai cicli produttivi precedenti, con meno operai. Dunque, per una certa massa di merci prodotte ci vogliono sempre meno operai.

 

Sovrapopolazione relativa, esercito industrialedi riserva

 

Il capitalismo, sviluppandosi ed estendendosi, se da un lato produce sempre più merci per un mercato che è ormai da più di un secolo mondiale, creando ciclicamente le condizioni di crisi di sovraproduzione, e sviluppa una sempre più numerosa classe di lavoratori salariati anche nei paesi industrialmente più arretrati, dall'altro lato crea una contemporanea sovrapopolazione salariata che a sua volta genera un sempre più vasto esercito industriale di riserva: una parte di lavoratori salariati espulsi dalla produzione e una parte non ancora assorbiti nella produzione, formano così il vasto esercito di disoccupati. In parallelo alla concorrenza che le merci, i capitali, gli Stati borghesi si fanno sul mercato mondiale, si sviluppa una concorrenza anche tra i lavoratori salariati, possessori di una merce particolare che si chiama forza lavoro dal cui sfruttamento capitalistico si estorce plusvalore.

La grande ricchezza della società moderna, costituita dallo sviluppo impressionante delle forze produttive - mezzi di produzione, mezzi di sussistenza, forza lavoro salariata - si ritorce contro la società stessa, o meglio contro la stragrande maggioranza della popolazione che è costituita, appunto, dalle classi proletarie.

Può il sistema produttivo capitalistico non produrre sempre più merci? No, perché aumentando la produzione di merci a più alta produttività (dunque a costi di produzione inferiori allo scopo di ottenere un profitto più alto dal prezzo di mercato al quale le merci vengono vendute) il capitalista ottiene una massa di profitto superiore. Può il sistema produttivo capitalistico produrre sempre più merci con meno operai? Sì, grazie all'aumento costante della produttività del lavoro. Più merci, meno operai; più concorrenza sul mercato, e più i capitalisti cercano di abbattere i costi di produzione; più si abbassano i costi di produzione, più aumenta la pressione sul capitale variabile, sui salari, e quindi sulla forza lavoro sia in termini di tasso di sfruttamento crescente, sia in termini di abbassamento dei salari, sia in termini di espulsione dalla produzione di masse operai sempre più vaste.

Lo sviluppo del capitalismo, dunque, se da un  lato tende ad aumentare la produttività del lavoro, grazie ai perfezionamenti tecnici delle lavorazioni, alla più razionale organizzazione del lavoro e delle postazioni di lavoro, all'utilizzo di macchinari più avanzati e tecnologicamente più redditizi, dall'altro lato tende ad impiegare meno forza lavoro nei cicli produttivi. Ma l'aumento della produttività potrebbe diminuire enormemente lo sforzo lavorativo degli operai, e contemporaneamente diminuire enormemente le ore di lavoro di ciascun operaio  necessarie alla produzione. Perché il capitalismo non lo fa? Perchè il vero guadagno del capitalista proviene dall'estorsione di plusvalore dallo sforzo lavorativo giornaliero che ogni operaio è obbligato a fornire   per ricevere un salario con cui sopravvivere.

Ripetiamo: il plusvalore corrisponde alla quota di tempo di lavoro non pagato che il padrone estorce all'operaio ogni giorno di lavoro. La giornata lavorativa dell'operaio  è costituita da una parte di ore che vengono effettivamente pagate con salario ( che corrisponde ai mezzi di sussistenza, ai beni di consumo necessari  a riprodurre la forza lavoro perché venga sfruttata il giorno dopo), e una parte di ore che il capitalista non paga, ma che entrano nel valore della merce prodotta, e poi venduta al mercato, come plusvalore. Alzando la produttività del lavoro, le ore necessarie alla riproduzione della forza lavoro tendono a diminuire rispetto alle ore di plusvalore.

L'analisi che il borghese fa della merce che porta al mercato è questa: la merce è costituita da due parti, il costo di produzione (capitale complessivo anticipato per la sua produzione) e il profitto (l'aggiunta, il guadagno che il capitalista intende ottenere dalla vendita della merce). Il tasso di profitto è quindi il risultato di questa semplice operazione: prodotto (fatturato, merce venduta) diviso costo di produzione. Costo di produzione 100, prezzo di vendita 110: profitto 10, perciò il tasso di profitto è il 10%.

L'analisi che fa il marxista è invece questa. Per produrre una merce ci vogliono due forme di capitale: materie prime da trasformare, strumenti, macchinari ecc, che chiamiamo capitale costante; forza lavoro umana applicata ai processi di produzione, pagata con salario, che chiamiamo capitale variabile. Il costo di produzione, perciò, è composto da questi due pezzi.  A queste due parti, però, se ne aggiunge una terza, che chiamiamo plusvalore, ossia, come già detto sopra, quella parte di valore della merce non pagato in salario, ma intascato direttamente dal capitalista come suo vero guadagno ricavato dalla vendita della merce. Il saggio di plusvalore si calcola perciò dividendo il plusvalore per il solo capitale variabile (e non per il capitale complessivo); prendendo il caso citato sopra avremo, per semplificare, un costo di produzione 100, che dividiamo per semplicità in 50 di capitale costante e 50 di capitale variabile, prezzo di vendita 110, e perciò un saggio di plusvalore di 10 diviso 50, cioè del 20%. Il saggio di plusvalore è, quindi, sempre più alto del saggio di profitto.

Per ottenere, quindi, la riproduzione e la valorizzazione del capitale, il capitale deve passare per il processo produttivo, deve  essere investito nella cosiddetta economia reale, nella produzione di beni materiali utili o comunque commerciabili, di prodotti che hanno un valore di scambio e che effettivamente si scambine nel mercato contro denaro. Ma, come si può dedurre facilmente da quanto esposto finora, le merci prodotte hanno due caratteristiche fondamentali: o sono mezzi di sussistenza, prodotti di consumo e di prima necessità, o sono mezzi di produzione, mezzi che servono a loro volta per produrre merci (edifici, macchinari, strumenti di lavoro, vie di comunicazione, mezzi di trasporto, ecc.). Abbiamo visto che il profitto capitalistico è determinato dal rapporto tra la spesa in salari (capitale variabile) e il capitale complessivo (capitale costante + capitale variabile); il saggio medio di profitto è la proporzione tra di loro nel ciclo produttivo di un anno in quel determinato settore di produzione, e il saggio medio generale di profitto è, per l'appunto, la media dei saggi di profitto di tutti i rami di produzione riferiti ad un anno. Abbaimo anche visto che il saggio di profitto sale nella misura in cui il capitale variabile, la forza lavoro, il lavoro vivo, viene impiegato su una massa sempre crescente di capitale costante, di mezzi di produzione, di lavoro morto. Perciò i capitalisti tenderanno a produrre sempre più mezzi di produzione piuttosto che mezzi di sussistenza, consegnando al mercato, alle sue leggi, la realizzazione dei propri profitti. Ed è dal mercato, infatti, nel quale ogni capitalista porta le sue merci per venderle, che emerge la contraddizione caratteristica della società capitalistica: ogni azienda non sa preventivamente quali sono effettivamente i bisogni di mercato da soddisfare, nè in termini di quantità nè in termini di qualità, ma sa che dovrà fare di tutto per battere la concorrenza se vuole ottenere il massimo di profitto dalla sua attività e valorizzare il capitale che ha anticipato. E dato che il mercato non si lascia condizionare dalle esigenze di ogni singola azienda, sia pure una grande azienda, un trust, una multinazionale, ogni singolo capitalista interviene là dove ha effettivamente la possibilità pratica e immediata di farlo direttamente, cioè sulla propria singola azienda riducendo il più possibile i costi di produzione per facilitare - in un certo senso "in partenza" - la realizzazione dei profitti.

Va da sè che i costi di produzione sono effettivamente riducibili in tutti quegli aspetti e quelle attività che dipendono da decisioni aziendali; certi macchinari e determinate materie prime da trasformare si acquistano sul mercato a prezzi non determinati dal singolo compratore, perciò è praticamente impossibile ridurre all'immediato la spesa in questi settori. In altri campi invece  il singolo capitalista è facilitato, sia perché è proprietario delle merci prodotte e spesso dei mezzi di produzione utilizzati per produrle, sia perché è difeso nella sua attività di imprenditore dalle leggi dello Stato; è il caso di tutto ciò che è inerente la forza lavoro, dunque il capitale variabile. La concorrenza tra capitalisti si converte in concorrenza tra proletari, tra lavoratori salariati, nella quotidiana lotta per le condizioni salariali e di lavoro. Il capitalista tende costantemente a premere sulle condizioni salariali e di lavoro, non tanto e non solo per ridurre il salario o per aumentare le ore di lavoro, quanto per ottenere da ogni ora lavorata una quantità crescente di pluslavoro (lavoro non pagato, che si traduce in plusvalore). E per ottenere questo risultato il capitalista non solo alimenta e acutizza la concorrenza fra proletari (più aumenta la concorrenza fra proletari, più si abbassa il salario richiesto per lo stesso lavoro), ma si predispone ad ogni sorta di risparmio: non pagando tasse e contributi, non attrezzando i posti di lavoro con adeguate misure di sicurezza, non rendendo l'ambiente di lavoro sano dal punto di vista della nocività, risparmiando sulla manutenzione e sui materiali, ecc.  E' dai tempi di Marx che i capitalisti si comportano alla stessa maniera, ed è dai tempi di Marx che gli operai muoiono sui posti di lavoro, si infortunano e si ammalano! Niente di nuovo sotto il sole!

Il progresso tecnico contribuisce ad aumentare la produzione nella stessa unità di tempo; dunque, molta più materia prima può essere lavorata dallo stesso numero di operai, che anzi tendono a diminuire mentre le ore di lavoro giornaliere restano le stesse, e spesso tendono ad aumentare. Mentre cresce la produttività del lavoro, diminuisce il numero di operai applicati ai cicli produttivi. Mentre si sviluppa il capitalismo anche nei paesi alla periferia degli Stati imperialisti più forti, aumentando così la popolazione proletaria nel mondo, ed aumenta la capacità produttiva dell'industria, diminuisce la popolazione operaia impiegata nella produzione, ed aumenta la popolazione operaia disoccupata, la popolazione operaia disponibile al lavoro.

Questo vero e proprio esercito industriale di riserva, come lo chiamò Marx, è in realtà presente sempre in tutte le fasi di sviluppo e di crisi del capitalismo. Solo che nelle fasi di crisi di sovraproduzione, come aumenta la quantità di prodotti invenduti così aumenta la quantità di braccia inutilizzate. La vita quotidiana di masse sempre più vaste di proletari si trasforma in una condanna alla precarietà permanente, all'insicurezza permanente, alla fame permanente.

La sovraproduzione di merci genera l'intasamento nel mercato; la circolazione delle merci si ferma, la loro vendita si ferma, il mercato entra in crisi e con esso il sistema capitalistico di produzione. Se ne può uscire solo in tempi lunghi, ma a l prezzo di mandare in rovina molte aziende e interi settori di produzione (ed è quel che succede in ogni crisi prodonda come l'attuale). Parallelamente, si genera una sovraproduzione di braccia da lavoro, e di bocche da sfamare, e mentre il mercato è gonfio di beni e di prodotti di ogni genere, una parte sempre più vasta di popolazione proletaria non vi può accedere, non ha denaro per acquistare anche soltanto il minimo per sopravvivere in modo decente.

In situazioni del genere diventa evidente come una minoranza di borghesi, che difendono con ogni mezzo le loro proprietà e le loro riserve, si contrapponga ad una larga maggioranza di proletari che sono già precipitati o stanno per precipitare nel pauperismo e nell'inedia. La lotta fra le classi non è un fatto ideologico, è un concreto fatto materiale, determinato dalle condizioni in cui si sviluppa la produzione e, quindi, la vita. I borghesi lottano per mantenere i loro privilegi, le loro proprietà, le loro riserve, e lo fanno attraverso strutture economiche, politiche e sociali ben precise, a partire dallo Stato centrale e dalle sue molteplici polizie. Solo una piccolissima parte di loro, a causa delle crisi capitalistiche, va in rovina e perde in parte un po' di privilegi e di riserve accumulate nel tempo, mentre per le stesse cause anche una parte di piccoloborghesi precipita nelle condizioni del proletariato, dei senza riserve. La crisi capitalistica non risparmia nessuno, è un fatto, ma è certo che quelli che sono nati senza riserve, la razza dei proletari, quanto più vive e prolunga la sua vita il capitalismo e la società che su di esso si basa, tanto più sono condannati ad una vita da schiavi salariati quando percepiscono un salario, e da schiavi senza diritto alla sopravvivenza quando il salario non c'è. Vie d'uscita, di emancipazione, il capitalismo non ne dà; il proletariato la via d'uscita la troverà soltanto nella ripresa dell'aperta lotta di classe, e nel cammino verso la rivoluzione che ha il compito di scardinare da cima a fondo l'intero sistema capitalistico.

 

    (1-continua)

 


 

 

(1)   Cfr. Marx-Engels, Opere complete, vol. XXXIX, Editori Riuniti, Roma 1972, Marx a Joseph Weydemeyer a New York, Londra 5 marzo 1852, pp. 534-538.

(2)   Cfr. Marx, Il Capitale, Libro terzo, cap. XV, UTET, Torino 1987, p. 319.

(3)   Cfr. Marx, Ibidem, p. 328.

(4)   Cfr. Marx, Ibidem, pp. 319-320.

(5)   Cfr. Marx, Ibidem, p. 320, corsivi di Marx.

(6) Cfr. Marx, Ibidem, p. 321.

(7) Cfr. Marx, Ibidem, pp. 320-321.

(8) Cfr. Marx, Ibidem, p..323.

(9) Cfr. Marx, Ibidem, p. 327.

(10) Cfr. Marx, Ibidem, pp. 329-330; il corsivo è originale di Marx.

(11) Cfr. K. Kautsky, Teorie delle crisi, Guaraldi Editore, Firenze 1976, p. 66.

(12) Cfr. K. Kautsky, Teorie delle crisi, cit. pp. 66-67.

(13) Ibidem, p. 67.

(14) Cfr. Marx, Il Capitale, Libro secondo, cap. XX, Utet, Torino 1980, p.561.

(15) Cfr. Dialogato con Stalin, testo che fa parte della lunga serie intitolata Sul filo del tempo, scritto da Amadeo Bordiga e pubblicato su «il programma comunista» tra l'ottobre e i primi di dicembre 1952, nei numeri dall'1 al 4. Questo «Dialogato» si svolge idealmente su tre giornate e riponde alle Osservazioni e alle puntualizzazioni fatte da Stalin, nel corso del 1952, ai partecipanti ad una discussione tra economisti russi. Tali "Osservazioni" di Stalin furono raccolte dalla rivista "Rinascita", del Pci, col titolo Problemi economici del socialismo nell'URSS, Ottobre 1952. Raccolto e pubblicato in volumetto nel 1953 come testo di partito, fu in seguito tradotto e pubblicato in francese dalla rivista Programme Communiste nel n.8, 1959; in italiano, successivamente, dalle Edizioni Sociali, Borbiago 1975.

(16) Cfr. Dialogato con Stalin, Edizioni Sociali, cit., p. 83.

(17) Vedi Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx, RG Cosenza, Ravenna e Piombino, in «il programma comunista» n.10 del 1958, Parte I, «L'espansione storica del volume della produzione industriale», § 76. Come il saggio discende.

(18) Ibidem.

(19) Ibidem.

(20) Cfr. Dialogato con Stalin, cit., p. 84.

(21) Vedi Il corso del capitalismo mondiale..., cit. «il programma comunista» n. 13 del 1958.

(22) Vedi il volume edito dalle Edizioni «Il Partito comunista», Firenze 1991, intitolato egualmente Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx 1750-1990, che ripubblica tutto il lavoro di partito con delle elaborazioni ulteriori sulla stessa linea tracciata dal partito in precedenza, Tabella 1, USA/Riunione 22-III,16, Il saggio del profitto, p. 468.

 

Partito comunista internazionale

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