Delle crisi cicliche del capitalismo, del loro inevitabile e storico sbocco nella guerra guerreggiata e della sola e decisiva soluzione storica rappresentata dalla rivoluzione proletaria (4)

(Riunione generale di milano, 17 gennaio 2009)

 

(«il comunista»; N° 116; Aprile 2010)

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(continua dal n. 114 Ottobre 2009)

 

Riprendiamo il corposo resoconto del tema trattato nella riunione generale del gennaio 2009 dedicato alle crisi del capitalismo e allo sbocco storicamente necessario della soluzione rivoluzionaria.

 

Dopo aver richiamato gli aspetti fondamentali dell’economia marxista inerenti la teoria delle crisi, riferendoci anche allo scritto del Kautsky 1902 ancora marxista,  non possiamo non toccare in modo approfondito quella che nel lavoro di partito abbiamo chiamato «teoria dello sciupìo» e che nella riunione di Milano è stata soltanto accennata. Nelle ampie e corpose trattazioni sull’economia marxista abbiamo costantemente riaffermato la nostra più ferma critica a tutti coloro che, aggiornatori e affossatori del marxismo, pretendono che il marxismo sia «una pura descrizione dell’economia capitalistica e, al più, la scoperta delle leggi che reggono la dinamica economica».

Perciò è particolarmente utile riprendere anche questo aspetto della critica marxista al modo di produzione capitalistico, poiché - come si afferma del resoconto di una riunione di partito appositamente dedicata alla «teoria dello sciupìo» - ad esso si riconduce non solo il fondamento dell’analisi marxista ma lo stesso programma rivoluzionario del comunismo, della società futura. D’altra parte, lo sciupìo sociale che caratterizza il capitalismo e il suo sviluppo mondiale non è che la prova storica che il modo di produzione capitalistico, obbligato a sviluppare la produzione per la produzione, il capitale per il capitale, in un crescendo vorticoso al solo scopo di accumulare capitale su capitale e in un processo di sempre maggiore acutizzazione dei fattorio di crisi di sovrapproduzione, non può che sprecare quantità gigantesche di forze produttive e di lavoro umano senza alcun beneficio per la vita dell’intero genere umano e senza alcun progresso reale nella conoscenza della natura e nei rapporti tra uomo e natura.

Passiamo allora alla pubblicazione del resoconto della riunione di Genova del novembre 1961 (1) in cui appunto fu esposto il tema della «teoria dello sciupìo», resoconto che non perde l’occasione di ribadire il metodo di lavoro organico del partito quando riferisce che gli sforzi per giungere a scolpire meglio le grandi questioni, come le questioni di economia marxista, non possono essere demandati ad un uomo soltanto ma sono sforzi dell’intera collettività di partito.

 

Questioni di economia marxista

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Nelle precedenti riunioni si è varie volte riferito (come anche nei resoconti apparsi su queste pagine) delle sezioni successive del Secondo Libro [del Capitale, ndr] fino alla teoria della accumulazione semplice e progressiva, ma i non pochi materiali arrecati abbisognano di un coordinamento definitivo di formole, schemi e quadri che sono stati varie volte mostrati alle riunioni ma non ancora pubblicati. Tale compito è ponderoso e richiede l’apporto collettivo degli sforzi di tutto il movimento; la principale difficoltà sta nel fatto che la materia del secondo volume, sulla circolazione del capitale (il tema da cui esce la condanna economico-storica del modo capitalista di produzione) non l’abbiamo che per tronconi, senza la sistematica pensata da Marx, e senza che Engels per espressa sua dichiarazione abbia voluto costruire una sistematica propria, ritenendo di non avere il diritto di sostituire opera propria alle pagine meravigliose ma solo «semilavorate» lasciate dalla penna del gigante Marx.

Il compito sarà meno arduo per il Terzo Libro che, studiando il processo d’insieme ha un tema più sociale-politico che conduceva direttamente al programma del partito, quando la redazione venne spezzata sul tema: le classi; a grande sfruttamento di tutto l’opportunismo carognone successivo e anche recentissimo.

Poiché noi rifiutiamo nettamente ogni pretesa di aggiornatori del sistema, e non vogliamo inventare le parti rimaste nell’ombra per effetto delle forze agenti nella lotta storica, e riaffermiamo che il marxismo si formò in un tutto monolitico e definitivo proprio nell’epoca 1840-1870 in cui lavorò Marx (e così sarebbe stato anche se la persona Carlo Marx non fosse mai nata), la principale via per affrontare il problema che ci siamo posti, e che le necessità della annosa lotta contro i deformatori ci hanno posto, è di utilizzare le fonti del marxismo in Marx ed Engels soprattutto, ma anche altrove; e quindi la ricerca sui testi storici è il compito fondamentale.

 

Tale via non è da percorrere da un solo uomo e nemmeno da una sola generazione, essa esige la partecipazione di tutto il partito da tutte le sue sedi e in tutti i suoi aggruppamenti delle varie lingue, tra le quali la più interessante è ovviamente quella tedesca, seppure oggi il movimento tedesco si presenta come il più sconquassato dalla crisi generale. Anche in questo settore i compagni del gruppo parigino hanno fornito materiale ricco e preziosissimo che si è andato accumulando senza che ancora si sia potuto tutto utilizzare, e in questa non lunga esposizione attingeremo ad esso sia pure in modo non del tutto organico.

 

La teoria dello «sciupìo»

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Nei precedenti inviti a tutti i compagni per il loro aiuto nella ricerca comune avevamo delineato non una teoria completa ma le vie per giungere a dare forma alla «teoria dello sciupìo» nel modo capitalista di produzione. Si tratta di un tema delicato in quanto ad esso si riconduce tutto il fondamento della analisi e del programma marxista. Una tale teoria è incomprensibile a quegli sprovveduti che vogliono vedere nell’opera di Marx la pura descrizione della economia capitalistica e al più la scoperta delle leggi che ne reggono la dinamica economica. Essa può essere riguardata come un aspetto del programma per il partito rivoluzionario che noi rivendichiamo alle fiammeggianti pagine del Capitale. Infatti la forma capitalistica si può definire come dilapidatrice degli sforzi e delle energie dell’uomo e della società solo se si perviene a misurarne le perdite in confronto alla dinamica di una società non più capitalistica, data nella storia anche se non presente oggi in nessuna parte del mondo. Occorre dunque ammettere che i dati di una tale società del domani siano desumibili e deducibili, non da schemi ideali o da costruzioni filosofiche astratte, ma dai dati della storia passata e di tutte le forme sociali analizzabili: quelle precapitalistiche e quella capitalista.

La misura dello sciupìo sarà quindi possibile anche se si ammetterà che il passaggio al capitalismo segnò (anzi fu reso inevitabile proprio da esso) un deciso miglioramento nella utilizzazione della attività umana in rapporto alle forme sociali che precedettero quella presente.

E’ chiaro che una critica basata sul richiamo ad una situazione futura che nessuno ancora ha osservata o rilevata incontrerà sempre la fiera derisione di quelli che sono soliti a dileggiare il dogmatismo o perfino la ricaduta nella utopia, di noi marxisti rivoluzionari.

In tutta questa nostra lunga ricerca noi abbiamo citato mille e mille passi in cui si vede che Marx fa sempre in modo esplicito il paragone tra le caratteristiche del processo capitalistico e quelle della produzione futura e della società futura, dato preciso per il quale egli tiene il «comunismo» in atto, pur designandolo sotto diversi nomi e perifrasi. Ciò in tutte le opere, nei tre libri del Capitale, opera massima, e possiamo dire in ogni capitolo di essa, anche se per mostrarlo appieno il lavoro critico deve saper gettare ponti sicuri tra pagine anche lontanissime tra loro.

In questo abbozzo della teoria dello sciupìo noi chiedemmo e chiediamo ai compagni di utilizzare uno schema (la scienza si fa sempre riuscendo a costruire schemi, anche magari provvisori) che abbiamo dedotto dai capitoli del Secondo Libro, oggetto dello stadio presente della nostra ricerca.

Lo schema è quello dei «tre momenti» della critica rivoluzionaria. Il primo momento si limita ai rapporti che si stabiliscono entro i confini di una azienda produttiva unica, tra capitalista e operai. La sua analisi è già tutta contenuta nelle formole dedotte dal Primo Libro, ma questo non si deve intendere nel senso erratissimo che tutto il Primo Libro non si preoccupi anche degli altri successivi due «momenti»: tutti e tre all’opposto erompono da ogni capitolo, e come sempre teniamo a dire da ogni pagina.

Se la misura dello sciupìo sociale fosse un concetto così angusto come quello della misura dello sfruttamento dei singoli operai da parte del singolo padrone, saremmo ridotti a volgarissimi immediatisti, che propongono di abolire il padrone lasciando stare il sistema mercantile, la moneta, l’azienda col suo dare e avere ed anche il suo profitto, che andrebbe banalmente diviso tra gli operai. Proudhon per il primo pose il piede su questa via scivolosa, e se gli anni e i secoli contano qualcosa, può essere solo in questo: Proudhon al suo tempo fu un grande, chi oggi proudhonizza è una carogna.

Nel primo momento il grado di sciupìo non sarebbe nemmeno il tasso di profitto, ossia il rapporto del plusvalore a tutto il valore del prodotto; è infatti noto che una parte del plusvalore nella riproduzione progressiva va non a consumo del capitalista ma a nuovo investimento (e vi dovrebbe andare anche in una società senza capitalisti, vedi Critica al programma di Gotha). Allora il solo consumo dei capitalisti parassiti sarebbe misera cosa. Marx lo disse già: voi che vi fermate al primo momento programmate solo una generalizzazione della miseria.

In un passo dei Grundrisse (edizione tedesca, pag. 347: capitolo del «bozzone» marxiano del 1858-59 che corrisponde  al II Libro sulla circolazione del Capitale, nostro tema; capitoletto sui limiti della produzione capitalista, le crisi ecc.) (2) Marx pone questi rapporti: 2/5 di materie prime, 1/5 di macchine, 1/5 di salari, 1/5 di sovraprodotto, di cui 1/10 per il consumo del capitalista, 1/10 per la nuova produzione. Con le nozioni del Capitale si ha: 3/5 di capitale costante, 1/5 di capitale variabile, 1/5 di plusvalore. Il tasso di pluslavoro è 100 per 100, il grado di composizione organica del capitale è tre, come rapporto del capitale costante al variabile, che misura la produttività del lavoro. E’ noto che negli schemi della riproduzione semplice del Secondo Libro, Marx pone sempre 100 per 100 come tasso di plusvalore, ma 4 come grado di composizione organica del capitale. Erano trascorsi 15 anni e più e la produttività era cresciuta: una sezione della ricerca di oggi che additiamo ai compagni chiamati in aiuto è questa: quale il grado odierno?

Comunque allo stato dei Grundrisse tutto il profitto è un decimo del capitale merci prodotto, un nono del capitale anticipato (c + v), quanto a consumo parassitario del capitalista. Ne segue che chi si ferma al primo momento infraziendale non fa che fare salire di un decimo il tenore di vita medio; risultato che non vale certo una rivoluzione!

Cogliamo un punto interessante: quando Marx del 1858 dà un quinto per le macchine, rata alta del 20%, e del terzo di tutto il capitale costante, egli non comprende solo il logorio, ma anche l’ammortamento del capitale fisso, come noi abbiamo fatto di recente alle riunioni in un quadro non pubblicato in cui portiamo nella misura di c anche tutto il rinnovo del capitale fisso. Nel valutare questo sta tutto il problema come mostreranno altre citazioni eloquenti, in quanto la tesi di Marx è che il capitale fisso, o lavoro morto, non genera di per sé valore né sopravalore, che viene tutto dal capitale variabile, parte del circolante. Crediamo avere noi colto, a differenza della più parte dei pretesi discepoli, il pensiero di Marx. Infatti sarebbe assurdo che una macchina che costi 100 tra impianto e manutenzione nella sua vita utile, non getti fuori che 300 in tutto di materie trasformate!

 

Gli altri «momenti»

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Ricordiamo al volo che il secondo momento è quella che considera tutto l’insieme delle aziende di produzione che formano una società capitalista pura, con il gioco dei mille effetti della concorrenza e delle relazioni tra esse, formando un bilancio sociale del capitalismo in cui lo sciupìo e il suo grado almeno si raddoppiano.

Nel terzo momento si paragona questa dinamica con quella di una società senza capitale privato, senza mercato, senza moneta e senza azienda, e si viene al confronto finale con la società comunista, mostrando che lo sciupìo si moltiplica ancora, nella società presente, almeno per due, giusta il nostro schema grezzo: due-quattro-otto, da cui nasce la prova che il lavoro nella società comunista può scendere da otto ore a due gionaliere - ciò, si intende, a grandissimi tratti.

A tal punto possiamo fare ricorso all’apporto francese.

Lo sciupìo diviene il «gaspillage», di cui è data l’altra definizione: le perdite sul «prezzo sociale di produzione». La definizione è di Marx e si impianta già su una considerazione di primo e secondo momento. Il prezzo di produzione è il «valore» (dunque siamo in capitalismo) epurato dagli alti e bassi di mercato concorrenziale. Esso è dunque: capitale costante più capitale variabile più plusvalore al tasso medio sociale di esso. Il prezzo di costo degli economisti borghesi è altra cosa (prix de revient) perché è dato da capitale costante più capitale variabile (sempre per ogni unità di merce prodotta) considerando come è chiaro il compenso per rinnovo del capitale fisso a fine del suo ciclo.

Prima di passare alla critica dello sciupìo capitalista bisogna segnalare l’aumento delle forze produttive che ha realizzato il modo capitalista di produzione rispetto ai più antichi. In tal modo noi coglieremo da una parte le radici di tutte le teorie apologetiche del capitale, e dall’altra la misura dello sperpero, dello sciupìo, offerta dall’inaudito sviluppo di forze produttive che il capitalismo arreca.

Ciò ci permetterà di mostrare da una parte che i «comunisti» legati a Mosca (3) fanno l’apologia di fatto del capitalismo, quando essi pretendono che nei paesi capitalistici... non sovietici i lavoratori ricevano sempre meno prodotti, ciò che essi chiamano la pauperizzazione assoluta, poiché la realtà smentisce queste affermazioni da rivoluzionari da operetta; e dall’altra parte, che il socialismo non ha nulla di comune col sistema americano di calcolo della produzione, secondo il quale appena un prodotto richiede meno tempo per essere fabbricato, di quello che ne richieda la sua manutenzione, lo si getta via piuttosto che tenerlo in funzione (vedremo nel seguito come il capitalismo, sistema di produzione, arrivi a questa alta produttività poiché si appropria di una grande massa di beni fisici gratuitamente, ciò che gli consente di arrivare alle contraddizioni assurde del tipo americano che abbiamo testè citato, mentre la verità è che esso giunge a tale risultato attraverso lo sperpero di materie fisiche di cui la società potrebbe giovarsi). E’ in questo senso che Engels nell’Antidühring caratterizza la produzione socialista scrivendo: «L’appropriazione sociale dei mezzi di produzione elimina non solo l’ostacolo artificiale oggi esistente della produzione, ma anche la vera e propria completa distruzione di forze produttive e di prodotti, che al presente è l’immancabile compagna della produzione e che raggiunge il suo punto culminante nelle crisi. L’appropriazione sociale, eliminando l’insensato sciupìo del lusso delle classi oggi dominanti e dei loro rappresentanti politici, libera inoltre a vantaggio della collettività una massa di mezzi di produzione e di prodotti» (4).

Circa il primo punto della effettiva incrementazione iniziale delle forze produttive dovuta al nascere del capitalismo, Marx fin dal 1844 la registrava in un momento in cui un tale svolto poteva essere senza difficoltà letto nelle statistiche, citando nei suoi «Manoscritti economico-filosofici» un autore che ha sempre ben considerato (Schultz, nel Movimento della produzione) nel passo seguente:

«Solo escludendo la forza umana è stato possibile filare da una libbra di cotone, del valore di 3 scellini e 8 pence, 350 matasse, della lunghezza di 167 miglia inglesi, cioè 36 tedesche, e di un valore commerciale di 25 ghinee».

Nello stesso testo Marx riporta:

«In media, in Inghilterra, da quarantacinque anni in qua, i prezzi della tela di cotone sono diminuiti di 11/12, e secondo i calcoli di Marshall la medesima quantità di prodotti, per cui nell’anno 1814 venivano pagati 16 scellini, ora viene fornita per 1 scellino e 10 pence. Il maggior buonmercato dei prodotti industriali ha allargato sia il consumo all’interno sia il mercato estero; e con ciò si connette il fatto che in Gran Bretagna il numero degli operai del cotone non solo non è diminuito, dopo l’introduzione delle macchine, bensì è salito da 40.000 a 1 milione e mezzo. Per quanto concerne ora il guadagno degli imprenditori industriali e degli operai, con la crescente concorrenza dei padroni di fabbrica il guadagno loro, rispetto alla quantità di prodotti da essi forniti, è necessariamente diminuito. Negli anni 1820-33 il ricavo lordo del fabbricante di Manchester per una pezza di calicò è caduto da 4 scellini e 1 penny e 1/3 a 1 scellino e 9 pence. Ma a risarcimento di questo danno il volume della fabbricazione è stato tanto più ampliato» (5).

Sempre nel suo scritto giovanile Marx mostra che la ricchezza è aumentata favolosamente, nei paesi conquistati al regime borghese:

«Supponendo che il lavoro giornaliero di un operaio gli frutti in media 400 franchi all’anno, e che questa somma basti ad un adulto per riuscire in qualche modo a sostentarsi, allora tutti i proprietari che ricevono 2.000 franchi di interesse, rendita, affitto ecc., costringono indirettamente cinque uomini a lavorare per loro; 100.000 franchi rappresentano il lavoro di 250 uomini e 1.000.000 il lavoro di 2.500 persone (dunque i 300 milioni, in moneta di Luigi Filippo, rappresentano il lavoro di 750.000 operai)» (6). Può sembrare un ragionamento semplicistico ma si ricordi che Luigi Filippo era il re borghese e costituzionale e si noti il concetto base che in democrazia l’uso della violenza vige come nel despotismo: il danaro «passa» pacificamente, ma in realtà la violenza è la stessa solo più sordida che per il brigante da strada maestra. Tanto più in una società democratica e mercantile, insegna Marx da 120 anni!

Nel Capitale Marx mostrerà poi che questo aumento favoloso di ricchezze, che fa impallidire la tradizione dei signorotti feudali, proviene dalla cresciuta produttività del lavoro dovuto al macchinismo.

Un passaggio dei Grundrisse servirà a mostrare come Marx fa ad ogni tratto un aperto confronto tra una società scambista e il comunismo. Ciò definisce il nostro metodo storico e mostra che con esso dobbiamo affrontare il problema del calcolo delle perdite. Le leggi di ogni forma di produzione sono originalmente diverse, e lo sviluppo storico della società mostra che ogni nuova forma potrà vantare un «rendimento» superiore alle antiche. Perciò noi prendiamo il nostro sistema di riferimento, il nostro termine di paragone, non nel passato ma dal futuro, in quanto la soluzione del problema sociale non va chiesta al passato come nelle false alternative del genere di quella che ha dato il nome al movimento amarxista di «Socialisme et Barbarie» (7).

Il passo sta nel capitolo che tratta delle false spese nella circolazione del capitale; argomento proprio del Libro Secondo, Sezione Seconda, già da noi ripetutamente delibato.

Marx deride le «robinsonate» di J. Stuart Mill:

«Immaginiamo due lavoratori che scambiano, un pescatore e un cacciatore. Il tempo che l’uno e l’altro perdono nello scambio non frutterebbe né pesci né selvaggina, e sarebbe al contrario una detrazione dal tempo in cui entrambi creano valori, in cui cioè l’uno può pescare e l’altro cacciare, in cui materializzano il loro tempo di lavoro in un valore d’uso. Se il pescatore volesse rifarsi di questa perdita sul cacciatore, pretendendo più selvaggina o dandogli meno pesci, questi avrebbe il diritto di fare lo stesso. La perdita sarebbe comune a entrambi. Questi costi di circolazione, costi di scambio, potrebbero presentarsi soltanto come detrazioni dalla produzione totale e dal valore creato da entrambi. Se essi affidassero a una terza persona, C, il compito di effettuare questi scambi e in tal modo non perdessero direttamente tempo di lavoro, ciascuno di essi dovrebbe cedere, in parti aliquote, una porzione del suo prodotto a C. Il beneficio che essi potrebbero trarre da una simile operazione sarebbe soltanto un passivo più o meno elevato. Ma se essi lavorassero come proprietari comuni, non ci sarebbe alcuno scambio, ma soltanto un consumo collettivo. Di conseguenza i costi di scambio scomparirebbero [nel comunismo, o messeri di Mosca!]. Non la divisione del lavoro, ma la divisione del lavoro in quanto fondata sullo scambio. Sbaglia dunque J. S. Mill quando considera i costi di circolazione come prezzo necessario della divisione del lavoro. Essi sono soltanto costi della divisione naturale del lavoro, fondati non sulla proprietà comune ma sulla proprietà privata» (8).

Il dibattito secolare è sempre vivo; è quello banalissimo sugli specialisti, questi superparassiti del mondo 1961! Se io a piacere caccio o pesco prenderò due pesci o due uccelli al giorno, ma se caccio solo o pesco soltanto, vi saranno almeno tre pesci e tre uccelli al giorno, e vi sarà con questo benefizio della specializzazione professionale un premio del 50 per cento che potrà pagare il servizio commerciale (!!!).

Tanto facile e banale quanto di «senso comune»! Ma noi tendiamo a fornire una formola di calcolo economico che conduca a misurare come la moderna specializzazione costi alla società cara ed amara (basterebbe contare le famigerate tredicesime di queste ferie) contro le rovine di un andazzo poltrone e intrallazzatore del generale lavoro umano. Gli esperti, incontrollati nel mistero del loro settore, sbafano forte e girano a vuoto causando in serie disastri distruttivi di forze produttive in atto o in potenza.

I popoli commercianti, dice Marx in altro passo della stessa opera, come i Fenici, i Normanni, i Longobardi, condussero altri popoli più stabili ad esaltare la produzione, in tempi di gran lunga precapitalistici. Questo sarebbe «l’effetto civilizzatore del commercio».

Ma l’opposto avviene nel sistema capitalistico.

 

Engels e la società comunista

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La critica di Marx sulla funzione della circolazione nella economia presente è di una profondità estrema e coinvolge questioni di economia, di storia e di programma politico nelle quali si intreccia tutto il nostro sistema di partito e la nostra soluzione originale dialettica e grandiosa degli «eterni enigmi» della filosofia di tutti i tempi che col marxismo sono venuti a soluzione.

La nostra scuola ha il compito di esprimere in una formulazione i rapporti di grandezze economiche in cui si assomma questa geniale conquista raggiunta nella storia dell’umanità circa un secolo addietro [oggi, 2010, ne dobbiamo aggiungere un altro mezzo, ndr], ma ancora ben lontana dall’essere entrata nella coscienza sociale, e meno che mai nella scienza «ufficiale», che per quel secolo [e mezzo, ndr] non ha fatto altro che decadere ed indietreggiare. Mentre ripetiamo di non dare ancora oggi questa presentazione sistematica, ricordiamo che il rapporto tra le sfere della produzione e della circolazione (o della distribuzione) è posto su piani diversissimi nella economia di Marx e in quella dei borghesi: per loro il tema è la produzione, la distribuzione e il consumo delle merci, e la economia è la scienza dello scambio, assunto come categoria economica eterna nella storia della società; per noi si tratta di uno studio parallelo della presente transitoria economia capitalista, una delle economie storiche di scambio. Ed allora, con Marx classico parliamo di produzione e circolazione del capitale, e ancor meglio del plusvalore, o valorizzazione dinamica del capitale stesso, e del suo confronto con la economia comunista, che in modo rivoluzionario si pone fuori dalle categorie di capitale, di plusvalore, di valore e di scambio.

Fedeli alla asserzione che il sistema è come un blocco dato dalla metà del secolo XIX; e per darne sempre maggior prova, vogliamo rifarci ad una magistrale impostazione programmatica data da Federico Engels nei tre discorsi che tenne ad Elberfeld nel febbraio 1845, quando già la sua collaborazione con Marx era totale (gliene scrisse il 22 febbraio) (9). In quel tempo l’analisi critica della produzione capitalistica non era ancora organicamente formulata, e su questa strada le ricerche di Engels (che aveva vissuto nella industriale Manchester tra il 1842 e il 1844) economicamente precedevano Marx, con la sua giovanile formazione filosofica, anche se Engels adulto attribuì tutto a Marx il merito della scoperta delle leggi scientifiche del capitalismo. Ciò prova solo come questi due grandissimi uomini precorsero la fine dell’individualismo intellettuale, che, un secolo dopo, oggi ancora ci appesta, ma che sparirà nella vergogna. E prova come Engels stesso disse che la scoperta era matura, e il nome di chi doveva farla non importava, sebbene Mehring, come storico, dica di dover registrare quello che era stato, e non quello che avrebbe potuto essere. Nei tempi successivi si girò in un immenso equivoco: che la discussione aperta sul comunismo come «proposta» (tale è apertamente nei discorsi di Elberfeld) ossia come aperto programma di partito, sia stata più modernamente messa da parte quasi come manifestazione di «utopismo» e vi si sia sostituita un’arida scienza descrittiva e passiva.

A smentita di questa visione tipo «Seconda Internazionale», contro cui sorgerà poi la possanza di Lenin maestro e condottiero, ma che purtroppo nel più recente tempo ha ripreso il turpe sopravvento nel più velenoso opportunsimo di oggi, noi conduciamo la nostra lotta per una ulteriore «restaurazione» dell’unica ed indivisibile dottrina rivoluzionaria e affermiamo la nostra tesi: non è possibile descrivere, spiegare e comprendere la dinamica del capitalismo, senza ricorrere ad ogni passo della ricerca alla sua confrontazione col tracciato ben definito della società comunista, che uscirà dalla sua morte.

 

Citazione da Engels

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«Poiché (nella società presente) ciascuno produce e consuma per suo conto, senza curarsi molto della produzione e del consumo degli altri, deve necessariamente verificarsi assai presto una sproporzione stridente fra produzione e consumo. (...) Il fabbricante non sa nulla di tutto ciò, egli fabbrica, come i suoi concorrenti, alla cieca e si consola con il fatto che anche gli altri devono fare altrettanto. (...) Tutti dobbiamo ammettere che nessuno di noi può fare a meno del suo prossimo, che già l’interesse ci tiene tutti vincolati l’uno all’altro, eppure con le nostre azioni colpiamo apertamente in faccia tale verità, eppure organizziamo la nostra società come se i nostri interessi non fossero i medesimi, ma invece in tutto e per tutto contrapposti l’uno con l’altro. Abbiamo visto quali siano state le conseguenze di questo errore di fondo; se vogliamo eliminare tali pessime conseguenze, dobbiamo correggere l’errore di fondo, e ciò appunto è quel che intende fare il comunismo.

«Nella società comunista, dove gli interessi dei singoli non sono reciprocamente contrapposti, ma uniti, la concorrenza è superata. E’ ovvio che non si parlerà più della rovina di una classe, anzi più in generale non si parlerà più delle classi, come oggi di ricchi e poveri. Così come, per quel che riguarda la produzione e la ripartizione dei beni necessari per vivere, sparirà il guadagno privato, l’obiettivo del singolo di arricchire per proprio conto, e spariranno da sé le crisi della circolazione [del commercio, ndr] (E’ chiaro che qui Engels passa da una critica dello sciupìo di primo momento, già contenuta nella ingenua condanna morale dell’arricchimento del padrone sul lavoro degli operai, ad una critica del secondo momento, ossia dello sciupìo nell’insieme in una società mercantile privatistica). Nella società comunista sarà cosa facile conoscere sia la produzione che il consumo. Poiché si sa quanto occorre in media a un singolo, sarà facile calcolare di quanto avrà bisogno un certo numero di individui, e siccome la produzione non sarà più nelle mani di singole persone private che mirano al guadagno, ma nelle mani della comunità e della sua amministrazione, sarà una cosa da nulla regolare la produzione sui bisogni.

«Vediamo dunque che nell’organizzazione comunista i malanni principali dell’odierno assetto sociale spariscono. Se però andiamo un po’ più nei particolari, ci accorgiamo che i vantaggi di una tale organizzazione non si fermano qui, ma vengono eliminati molti altri inconvenienti, fra i quali oggi ricorderò soltanto alcuni inconvenienti di carattere economico. L’odierna organizzazione della società è certamente la meno razionale e pratica che sia possibile immaginare. La contrapposizione degli interessi porta con sé che una gran massa di forza-lavoro viene usata in modo che la società non ne tragga alcun utile e una notevole quantità di capitale va inutilmente perduta senza riprodursi. (In tesi molto posteriori Marx descriverà questo stesso sciupìo sociale come una distruzione di capitali, intendendo quindi che nel sistema capitalistico la distruzione di ogni capitale vale uno sperpero di forze produttive, e quindi di lavoro umano presente o passato utile alla società; ma commette errore enorme chi ne deduce che la forma capitale delle forze produttive non debba essere del tutto scomparsa nella società socialista)» (10).

Dopo aver svolta la critica della irrazionalità clamorosa della spesa trasporti in ogni economia ove ciascuna azienda decide da sola quanto produrre e dove spedire i prodotti al consumo, con pure regole di tornaconto (che sono in pieno vigore, come ormai si ammette, anche in Russia 1962) Engels così prosegue:

«Nella società organizzata razionalmente non c’è nemmeno da parlare di tali circostanziati trasporti. Allo stesso modo in cui è facile sapere, tanto per restare all’esempio, quale quantità di cotone o di prodotti di cotone impiega una singola colonia, allo stesso modo è facile per l’amministrazione centrale venire a sapere qual è la quantità impiegata nel complesso dai villaggi e dai comuni del paese. Una volta che sia stata organizzata una tale statistica, il che può avvenire facilmente in due o tre anni, la media del consumo annuale cambierà soltanto in rapporto all’aumento della popolazione; è dunque cosa facile stabilire in anticipo, a tempo opportuno, quale quantità di ogni articolo richiederà il fabbisogno della popolazione: l’intero grosso quantitativo verrà ordinato direttamente alla fonte e lo si potrà far venire direttamente, senza intermediari, senza più soste e trasbordi che non siano realmente fondati nella natura delle comunicazioni, cioè con un grande risparmio di forza-lavoro; non sarà necessario pagare il loro utile agli speculatori, ai commercianti all’ingrosso e al minuto. Ma non è tutto: questi intermediari in tal modo saranno resi non solamente innocui per la società, ma addirittura utili. Mentre adesso, con svantaggio di tutti gli altri, fanno un lavoro che nel migliore dei casi è superfluo, pur procurando loro di che vivere, anzi in molti casi procura loro grandi ricchezze, mentre dunque adesso sono direttamente dannosi al bene generale, dopo avranno le mani libere per un’attività utile, e potranno darsi a un’occupazione in cui dimostrare di essere membri effettivi, non soltanto apparenti, finti, della società umana e partecipare realmente alla sua attività generale» (11).

Il memorabile testo sviluppa quindi il concetto fondamentale che superando la opposizione di ciascun interesse individuale contro ciascun altro e contro tutti gli altri, cade la sovrastruttura del contrasto tra membri della società  come vero «bellum omnium contra omnes» [guerra di tutti contro tutti, ndr], e la ragione di tutto il complicatissimo e costosissimo, oltre che corruttore e perpetuatore della psicosi criminaloide generale, apparato poliziesco e giudiziario. Si rendono dunque superflue tutte o quasi le attuali gerarchie e burocrazie amministrative e giuridiche (e politiche).

«Già ora scompaiono i delitti passionali in confronto ai delitti commessi per calcolo, per interesse; diminuiscono i delitti contro le persone aumentano quelli contro la proprietà» (12). Un secolo e più trascorso da queste linee, si può aggiungere che a dismisura crescono  poi i delitti mascherati, tollerati ed impuniti contro la economia sociale nelle sue forme grossolane e statali, quelli che per brevità indichiamo col nome espressivo di intrallazzi, gradevole esercizio essenziale dei membri notabili della società modernissima, anche quale si è sviluppata in Russia...

 

Patria, militarismo, famiglia, capisaldi dello sciupÍo sociale

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Engels qui svolge il confronto suggestivo dell’enorme risparmio di forze produttive che arrecherà la fine del militarismo. Egli è come sempre ben lontano dai piagnistei pacifisti di stile piccolo borghese.

«Il membro di una tale società [comunista, ndr] nel caso di una guerra, la quale d’altronde potrebbe aversi soltanto contro nazioni anticomuniste, ha da difendere una patria reale, un focolare reale, e dunque combatterebbe con un entusiasmo, con una tenacia, con un coraggio, di fronte ai quali il macchinale addestramento di una moderna armata finirebbe per disperdersi come paglia al vento (...), l’entusiasmo delle armate rivoluzionarie dal 1792 al 1799, che pure combattevano per una illusione, per una patria apparente, e non si potrà non comprendre quale deve essere la forza di un esercito il quale si batta non per un’illusione, ma per una realtà palpabile» (13).

Invecchiate queste parole? O puzzolenti quelle di oggi che ricadono nel più lurido feticcio nazionale in regime capitalista?

L’essenziale di questo punto è che:

«Queste innumerevoli masse di forze-lavoro, che ora vengono sottratte ai popoli civili dalle armate, in un’organizzazione comunista verrebbero quindi riconsegnate al lavoro» (14). Il volume di prodotti risparmiati ponendo al lavoro gli oziosi soldati, e quello delle materie belliche consumate, costituiscono un quantum calcolabile in rapporto a quello di tutta la produzione: basterebbe confrontare anche storicamente le cifre di bilanci militari statali dei grandi paesi con quelle della totale attività economica degli stessi (prodotto lordo nazionale, il famoso PIL). Ecco un settore di ricerca per i nostri relatori.

Engels passa poi alla odierna «economia domestica». Egli, nel discorso, si rivolge così agli ascoltatori:

«Ma, signori, entrino una volta senza riguardi nella casa, nel più intimo santuario di un ricco, e mi dicano se non si tratta del più folle sperpero di forza-lavoro, quando una folla di persone viene tenuta lì a servire un unico individuo e tutte le sue occupazioni consistono nel poltrire o, a dir molto, in lavori originati dal fatto che ogni persona sta isolata fra le sue quattro pareti. Questa folla di cameriere, cuoche, lacché, cocchieri, domestici, giardinieri e come altro si chiamano, in realtà che cosa fanno? (...) per molte ore durante la giornata si dedicano a lavori che esistono solo per la cattiva organizzazione dei nostri rapporti sociali: stare sul retro della carrozza, obbedire ai grilli di sua signoria, portare i cani da grembo e altre ridicolaggini» (15).

Oggi è ovvia la banale obiezione che la società borghese si sarebbe liberata dal parassitismo esoso di questo personale di servizio, anzi il medio cafoname sarebbe ridotto a piangerci sopra, quando dopo i lauti pranzi lava all’americana insieme agli ospiti le stoviglie, passando in cucina. Ma in effetti le funzioni servili nel magma sociale se hanno in un certo senso cambiata l’etichetta umiliante, non hanno certo migliorata la loro utilità, e le forme che hanno preso non sono né più utili, né meno ignobili nella sostanza.

A questo punto il nostro maestro Engels ritiene di aver già dimostrato che nella nostra organizzazione razionalizzata «l’orario di lavoro oggi consueto per il singolo verrà ridotto alla metà, anche solo utilizzando le forze-lavoro ora non impiegate o impiegate in modo improduttivo» (16). Siamo nel 1845, ricordiamolo!

Ma Engels ritiene che non siamo ancora al punto più importante, e passa a quello della distruzione del focolare domestico familiare. Si tratta della associazione sostituita all’individuo non solo nella vita della produzione, ma in quella del consumo, anche per ora solo nei consumi materiali.

Il discorso di Elberfeld non si rivolgeva a militanti e nemmeno a soli operai (17). Non lo dimentichiamo nel considerare l’audacia di quelle previsioni.

Engels si richiama qui alle proposte del contemporaneo «socialista inglese Robert Owen». Un utopista, diciamo oggi, senza nulla togliere della stima che Marx ebbe per lui. Ma, se non ci diffondiamo sulle idee schematiche che Owen prese ad attuare a New Lamark nelle sue fabbriche comuniste, che Engels descrive per essere intelligibile a quel tempo remoto, come il palazzo quadrato di 1650 piedi di lato (circa 500 metri) e contenente un grande giardino, capace di ospitare da due a tremila persone (che forse ben decifrato è un progetto più valido di molta della ultimissima ipocrita urbanistica specie tipo Ina-Casa italiana che in quasi 25 ettari ammasserebbe più di 10 mila persone!), la parte critica del passo è del tutto decisiva.

120 anni fa [oggi ne dobbiamo aggiungere 50, ndr] era una visione avvenirista il riscaldamento centrale. Pensate che proprio nella tradizionalista Inghilterra ancora nel 1962 si vituperano i progetti che rinunziano al caminetto a legna in ogni camera da letto del grasso borghese (e tanto più ipocrita se meno grasso)! Il geniale Owen calcolò tutte queste economie immediatamente realizzabili. Quello che Engels dimostra coi minuti conti di Owen è l’enorme volume dello sciupìo di forze e tempi di lavoro che comporta la sminuzzatura della umanità nelle cellule familiari molecolari, i cui effetti economici sono tuttavia meno deleteri di quelli sociali e politici, in quanto è lì il vero limite che tarpa le ali alla nascita dell’uomo sociale nuovo, incapace di rendersi solidale al suo simile sotto il pretesto idiota che ha amore per se stesso e per il suo minimo cerchio familiare, pretesto che ogni giorno si riduce di più a menzogna esosa.

Sotto le codine e retoriche lodi a questo tipo di società per famiglie, oramai fradicio da millenni, si nasconde una delle più turpi schiavitù, quella delle casalinghe o donne di casa, da cui escono per vie parimenti degenerative e contro natura le nazioni ricche di stile americano e quelle più povere in cui le donne della classe lavoratrice reggono due fardelli sulle loro misere spalle di sesso detto «debole» dalla ipocrisia dei benpensanti.

Con Owen Engels deride lo sciupìo del tempo perso a fare le stesse provviste in duemila parcelle dal panettiere e dal beccaio. Ma il moderno uomo cretinizzato da due secoli di capitalismo crede, convinto sulla fede dello schermo televisivo o cinematografico, che il girare botteghe sia il supremo piacere della umana vita! E le redente donne russe gelano in file bestiali!

Noi vogliamo ridurre la società ad una caserma! Vecchia obiezione dell’anti-comunismo convenzionale. Ma dianzi non era proprio alla caserma che avevamo profetizzato la stessa fine che al domicilio privato?

Utopismo è il contrapporre alla società odierna un modello di società futura pensato e dipinto a freddo. Buon marxismo è condurre l’analisi della economia capitalistica, come uscita dalla storia, ossia nella sua nascita per il potenziamento delle forze produttive umane, e oggi nella sua corruzione verso un dilapidamento sempre più folle, fino alla certezza delle forme  che prenderà, distruggendola, la società nuova.

 

Altra luce dal pensiero di Engels

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Lo svolgimento che nei Grundrisse dà Carlo Marx del processo di circolazione, e che parte dalla già citata robinsonata sul cacciatore e il pescatore, conduce al risultato che tutto il tempo dei commercianti ed intermediari fa parte della quota sciupìo da addebitare alla forma capitalistica di produzione.

Oggi la produzione è basata sullo scambio e per questo ai capitalisti fabbricanti che ne sono i beneficiari l’opera dei commercianti è indispensabile. In una economia non capitalista questa falsa spesa è eliminata e sparisce, tra tutte le altre, quella divisione di lavoro che oggi corre tra capitalisti della produzione e del commercio, essendo la verità che non fanno lavoro né gli uni né gli altri, anche se si può dire che entrambe le schiere dedichino il loro tempo, l’una nella produzione, l’altra nella distribuzione, a pompare per profitto proprio il lavoro altrui.

Marx dice tra l’altro (18):

«Il tempo di circolazione - nella misura in cui impegna il tempo del capitalista in quanto tale - dal punto di vista economico ci riguarda tanto quanto il tempo che egli trascorre con la sua mantenuta. Se il tempo è denaro, dal punto di vista del capitale lo è soltanto il tempo di lavoro altrui, che è indubbiamente il denaro del capitale nel senso più proprio del termine. (...) Si fa una grossa confusione se si considera il tempo che il capitalista spende nella circolazione come tempo che crea valore o addirittura valore eccedente. Il capitale in quanto tale non ha altro tempo di lavoro oltre al suo tempo di produzione.

«Qui il capitalista ci interessa esclusivamente in quanto capitale. E come tale egli svolge la sua funzione soltanto nel processo complessivo che noi dobbiamo considerare. Altrimenti si potrebbe addirittura pensare che il capitalista possa farsi compensare il tempo durante il quale egli non guadagna denaro [da altrui lavoro, ndr] come salariato di un altro capitalista - ovvero che egli perda questo tempo. Che esso rientri nei costi di produzione [dell’altro capitalista, ndr]. Il tempo che egli perde o impiega in quanto capitalista, è comunque tempo perduto, che da questo punto di vista è investito a fondo perduto. Il cosiddetto tempo di lavoro del capitalista contrapposto al tempo di lavoro dell’operaio, che costituirebbe il fondamento del suo profitto, sotto foma di salario sui generis, dovremo prenderlo in considerazione in seguito».

In questo punto, trattato quasi con le stesse parole nel Secondo tomo del Capitale, Marx si riporta ad un tema del Terzo tomo: ossia la risposta all’argomento che il padrone di una fabbrica può avervi funzioni di un tecnico, di ingegnere, se ha una tale preparazione. In questo caso, adoperando il suo tempo di lavoratore, sia pure intellettuale (l’esempio potrebbe valere anche per un lavoro manuale) egli evita di pagare lo stipendio di un direttore, ed in questo caso il valore del suo tempo di lavoro passa nel prodotto. Al solito Marx, riferendosi al programma della società e della forma non più capitalista, mostra che la funzione sociale del capitalista, come avente diritto su tempo di lavoro di altri, e non suo proprio, può essere abolita e dovrà esserlo con vantaggio sociale (fenomeno già attuale ai tempi di Marx, dello scadimento del capitalista a semplice funzionario, a parte il tema delicato di quello che la società debba dare ai suoi funzionari).

Torniamo al tema delle vere e false spese di circolazione. Il passo, così seguita:

«Nulla di più frequente che vedere includere nei puri costi di circolazione il trasporto ecc., nella misura in cui sono connessi con il commercio. In quanto porta un prodotto sul mercato, il commercio gli conferisce una nuova forma» (indispensabile nella società mercantile). Il trasporto, certo, non modifica che la posizione geografica,. ma qui non ci interessa la modalità del cambiamento di forma. Certo il trasporto commerciale dà oggi al prodotto un diverso e nuovo valore di uso - e ciò vale fino al bottegaio di dettaglio, che pesa, misura, incarta e dà in tal modo al prodotto una nuova forma per il consumo - e questo nuovo valore di uso costa del tempo di lavoro (quello del bottegaio o del commesso di negozio) e genra quindi un tanto di altro valore di scambio. (Notiamo che oggi molta parte di questo lavoro si fa alla partenza nella sfera della produzione, dosando e confezionando parti di prodotto che vanno tal quale nelle mani dell’acquirente; tutte forme utili per captare la sua libertà di scelta). Ma Marx qui conclude che «il trasporto al mercato rientra nel processo di produzione stesso [dunque è una spesa di produzione e non una falsa spesa di circolazione, ndr]. Il prodotto è merce, è in circolazione, solo quando si trova nel mercato» (19).

Questo ed altri passi di Marx sulle spese di circolazione (notiamo sempre che nel Secondo Libro [del Capitale, ndr] si tratta della circolazione dei capitali e non della semplice circolazione dei prodotti e merci) convergono al confronto di Engels in Elberfeld circa l’enorme sciupìo di trasporti che fa il sistema capitalista rispetto a quello comunista. La media distanza geografica tra la sede di produzione e quella di consumo di un bene d’uso è uno sforzo fisico reale che dovrà anche allora essere fatto; ma in un piano razionale, e fuori dalla gara speculativa di concorrenza e caccia a prezzo più alto, il totale delle lunghezze di trasporto per unità di merce eviterà di essere molte e molte volte maggiore del necessario.

E’ questo un elemento essenziale di sciupìo, che viene subito dopo quello della produzione di merci in eccesso sul consumo e gettate via (caffé brasiliano gettato in mare o bruciato nelle locomotive...). Sono tutti sciupii definibili «da assenza di piano di produzione e consumo».

Secondo Marx come secondo Engels la società comunista sopprime ogni falsa circolazione e serba solo quella dovuta alla natura delle cose e non allo scambio (ossia alla appropriazione privata e non sociale dei beni). Sopprimendo tale circolazione assurda il comunismo sopprime la divisione del lavoro tra fabbricanti e mercanti, e la funzione autonoma del commerciante, fenomeno caratteristico del capitalismo.

«Al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi» (Antidhüring) (20).

«L’esistenza delle classi ha origine dalla divisione del lavoro, e nella nuova società la divisione del lavoro, quale s’è avuta finora, scomparirà totalmente» (Engels, I fondamenti del comunismo, prima stesura mandata a Marx per il Manifesto) (21). Nello stesso scritto si legge anche: «L’educazione potrà far seguire rapidamente ai giovani l’intero sistema di produzione, li metterà in grado di passare a turno dall’uno all’altro ramo della produzione, secondo che lo richiedano i bisogni della società o le loro inclinazioni».

In questa frase fondamentale e classica la coincidenza tra le inclinazioni individuali (le famose vocazioni) e l’interesse sociale è completa, e da allora abbiamo la «produzione dell’uomo per l’uomo», concetto geniale dei giovanili manoscritti filosofico-economici di Marx.

Questo antico canone del marxismo originale mostra che non abbiamo nulla aggiunto o scoperto o sognato, quando abbiamo presentato come massimo traguardo del programma comunista la fine delle «specializzazioni», delle «professioni» chiuse e delle ancor più ignobili «carriere» dell’oggi nefando. Fine supremo di questi settori chiusi e ciechi non è che il procaccio di un consumo inutile e passivo, frodato alla società e all’umanità.

 

Riassumendo

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La teoria dello «sciupìo» è tesi centrale del marxismo non solo dal punto di vista economico, quanto e in primo luogo da un punto di vista rivoluzionario. Lo sciupìo è la dilapidazione delle forze produttive, dei prodotti e della ricchezza sociale. Usando il metodo dei «tre momenti», chiave dialettica per la lettura del Capitale e del marxismo, lo sciupìo al livello aziendale, cioè nel primo momento, si ridurrebbe allo sfruttamento del lavoro salariato da parte dei capitalisti; ma sarebbe sempre poca cosa. Infatti, Marx picchiò in testa al «frutto indeminuito del lavoro» di Lassalle, chiarendo che anche nella società comunista sarebbe esistito il plusprodotto, cambiando però radicalmente la forma e la destinazione sociale.

E’ nel secondo momento, nella società capitalista presa nel suo insieme, nell’insieme delle aziende, che si consuma inutilmente gran parte del lavoro umano. Questo «sciupìo» sociale appare maggiormente evidente e criminale se si confrontano la società capitalista e quella futura, la comunista. E’, infatti, il modello comunista dell’organizzazione della produzione e della forma del lavoro umano che pone bene in risalto i caratteri nefandi del modo di produzione capitalistico, una volta unanimemente ammesso che nella storia le forme della produzione si succedono sulla base dell’aumento delle forze produttive.

Per la società capitalista, secondo i suoi corifei, non esiste sciupìo, lavoro inutile, distruzione di ricchezza, se non in maniera del tutto accidentale come nelle guerre tra Stati. Marx invece mette costantemente in evidenza il carattere distruttivo del capitalismo, sulla base delle continue giustapposizioni tra società capitalista e società comunista.

I «faux frais», le false spese della circolazione del capitale proprie di una società scambista ed esasperate dalla «libera concorrenza» sulla base di un’economia aziendale, mercantile e monetaria: il militarismo, la stessa patria e la famiglia (anguste forme di atrofizzazione della produttività del lavoro), costituiscono elementi di distruzione effettiva o di irrazionale utilizzazione del lavoro e di ricchezza. Le crisi sono quindi lo sbocco naturale delle molteplici manifestazioni di «sciupìo», il risultato periodico e ricorrente dell’accumularsi di plusvalore inutilmente prodotto, irrazionalmente riprodotto, sulla base di una produzione sociale e della sua appropriazione privata.

 

Cronologia  delle crisi

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Le date che diamo in questo testo sono desunte dai testi marxisti, e pertanto significano crisi che furono oggetto di riflessione e di studio dei nostri maestri.

La serie si apre con la crisi del 1800 che, secondo Ricardo, fu causata dalla carestia di cereali per cattivo raccolto ed ebbe sede solo in Inghilterra. La successiva si verificò nel 1815, per le stesse ragioni - secondo il giudizio di Ricardo - della precedente.

La crisi del 1825 ebbe invece il suo epicentro negli Stati Uniti d’America e in India, e fu una crisi cosiddetta commerciale. Marx (Il Capitale, Libro 3°, vol. III, pag. 250, Ed. Rinascita) così caratterizza le crisi commerciali:

«Il fenomeno più generale ed evidente delle crisi commerciali è la diminuzione improvvisa, generale, dei prezzi delle merci, che si verifica dopo un loro aumento prolungato generale». Le crisi di questi anni si manifestano tutte sotto le spoglie di crisi commerciali, cioè per restrizioni di mercati esteri, e i fenomeni che esse generano sono pressoché gli stessi, più o meno accentuati.

Alla crisi del 1847-48 Marx dedica un lungo scritto anche nella Neue Rheinische Zeitung, oltre che i continui accenni negli altri testi, particolarmente nel Capitale. In questo testo Marx esamina tutti i fenomeni che s’intrecciano prima e dopo le crisi stesse. La prosperità, il benessere di oggi, precede il travaglio critico. «Gli anni 1843-1845 - scrive Marx - furono gli anni della prosperità industriale e commerciale, conseguenza necessaria della depressione quasi ininterrotta dell’industria negli anni 1837-1842. Come sempre, con la prosperità si sviluppò molto rapidamente la speculazione. La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi  e ne  aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. (...) Tuttavia, non potendo per ora offrire una storia completa della crisi successiva agli anni 1843-45, ci limiteremo a raccogliere solo i sintomi  più importanti della sovrapproduzione» (22).

I nostri opportunisti vorrebbero il benessere senza intrallazzi, il boom senza la speculazione: il maestro insegna che in regime capitalista la prosperità è madre di speculazione, in cui si riversano in un primo momento gli immediati effetti della incipiente sovrapproduzione. Marx traccia già la sinusoide della produzione capitalistica con le sue periodiche alterne vicende di esaltazione e depressione produttiva. La crisi è preceduta da un periodo di intensa ripresa produttiva, preceduta a sua volta da un periodo di crisi. La caratteristica della speculazione d’alto bordo fu allora la corsa agli investimenti nelle ferrovie. Oggi [1962, ndr] il contenuto produttivo del benessere è la speculazione  universale delle lineee di comunicazione internazionali: autostrade, trafori, transatlantici, jet a reazione, missili, e il grande Barnum della cosmonautica. Si ritrova anche in questo testo la classica previsione della catastrofe storica del capitalismo:

«(...) gli schiavi verranno emancipati, perché, come schiavi, saranno divenuti inutilizzabili. In tal modo del tutto analogo si abolirà in Europa il lavoro salariato, quando cioè esso non solo non sarà più, per la produzione, una forma necessaria, ma le sarà anzi divenuto una catena» (23).

Ogni qualvolta la crisi esplode nel bel mezzo della beata apparente eternità del capitalismo, l’inutilità delle forme capitalistiche dell’economia appare in luce meridiana: nulla ha più valore, il denaro serve al massimo per bisogni fisiologici, le categorie intoccabili dell’economia del capitale saltano, è il caos.

Marx svolge, inoltre, un’analisi « a volo d’uccello» della più vulcanica macchina produttiva americana, nella quale intravede un potente focolaio delle contraddizioni del capitalismo e il futuro centro dello sviluppo sfrenato della borghesia mondiale:

«La prosperità dell’Inghilterra e dell’America si è fatta ben presto sentire sul continente europeo»; il mercato mondiale collega ogni angolo della terra e lo obbliga a sottomettersi al capitale. I due centri, Inghilterra e America, del capitalismo mondiale sono «il demiurgo del cosmo borghese» dai quali ha origine «il processo iniziale» e delle crisi e della prosperità. Cosicchè, se «le crisi originano rivoluzioni prima nel continente, la loro causa si deve tuttavia trovare sempre in Inghilterra. E’ naturale che le esplosioni violente si manifestano prima    alle estremità del corpo borghese che nel suo cuore, perché qui le possibilità di un compenso sono più grandi. D’altra parte il grado in cui le rivoluzioni continentali si ripercuotono in Inghilterra è insieme il termometro che mostra fino a qual punto queste rivoluzioni mettano veramente in questione le condizioni di esistenza borghesi, o fino a qual punto esse si limitano a colpirne le formazioni politiche» (24).

Questa preziosa lezione teorica tratta dall’intreccio economico che si era sviluppato già allora nei due continenti, ma ancora in prevalenza l’Europa e la Gran Bretagna, e dal quale esplose la crisi del 1847, anticipa e sancisce la validità della posizione rivoluzionaria difesa da Lenin e dalla Sinistra italiana per la quale la Rivoluzione d’Ottobre avrebbe resistito ad ogni ritorno reazionario a condizione che fossero crollate le centrali europee, segnatamente la Germania, dell’imperialismo capitalista.

La chiusa a questo testo di Marx costituisce un tremendo ceffone a volontaristi e immediatisti d’ogni tempo:

«Data questa prosperità universale in cui le forze produttive della società borghese si sviluppano con quella sovrabbondanza che è, in generale, possibile nelle condizioni borghesi, non si può parlare di una vera rivoluzione. Una rivoluzione siffatta è possibile solamente in periodi in cui entrambi questi fattori, le forze produttive moderne e le forme borghesi di produzione, entrano in conflitto tra di loro. Le diverse beghe, a cui attualmente si abbandonano i rappresentanti delle singole frazioni del partito continentale dell’ordine e in cui si compromettono a vicenda, ben lungi dal fornire l’occasione di nuove rivoluzioni, sono al contrario possibili soltanto perché la base dei rapporti è momentaneamente così sicura e, ciò che la reazione ignora, così borghese. Contro di essa si spezzeranno tutti i tentativi reazionari di arrestare l’evoluzione borghese, come tutta l’indignazione morale e tutti i proclami ispirati dei democratici. Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a nuova crisi. L’una però è altrettanto sicura quanto l’altra» (25).

La nuova crisi del 1857 ebbe il suo epicentro negli Stati Uniti, ma ben presto contagiò l’Inghilterra e la Germania. In Gran Bretagna la stessa agricoltura fu investita dalla depressione economica, come Marx aveva già sentenziato nel 1850. Nella misura in cui le forme capitalistiche della produzione afferrano ogni ramo dell’attività produttiva, si schiudono canali traverso cui fluisce la crisi. Tutta l’economia così è soggetta alle crisi!

 

(continua nel prossimo numero con il seguito del Resoconto della Riunione Generale di partito, Milano 9-10 giugno 1962, relativamente alle Questioni di economia marxista: Teoria delle crisi).

 

 


 

(1) Vedi la Riunione Generale di partito di Genova, 4-5 novembre 1961, «Si legge nella strada storica segnata dai programmi l’antitesi tra rivoluzionari proletari e servi assoldati del capitale. Marx-Lenin: dittatura del partito proletario - comunismo senza stato. Bernstein-Krusciov: via democratica al socialimso - stato di democrazia socialista», Parte III intitolata «Questioni di economia marxista», pubblicata ne «il programma comunista» nn. 1 e 2 del 1962.

(2) Vedi K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica Grundrisse»), Giulio Einaudi Editore, Torino 1976, alle pp. 417 e successive del I volume.

(3) I «comunisti» legati a Mosca, all’epoca, erano i membri dei partiti comunisti, stalinisti   fino alla morte di Stalin e destalinizzati dopo il congresso del Pcus del 1956, ideologicamente, politicamente ed economicamente dipendenti dal Pcus, sostenitori della «costruzione del socialismo in un solo paese», della «via nazionale al socialismo» e del mastodontico inganno del «socialismo realizzato» in Russia e nei paesi suoi satelliti.

(4) Vedi F. Engels, Anti-Dühring, Marx-Engels Opere complete, vol. XXV, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 272. Abbiamo qui riportata la citazione come dal volume ora richiamato; la citazione riportata nel testo apparso ne «il programma comunista» del 1961 è leggermente diversa, ma sostanzialmente non cambia.

(5) Vedi K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx-Engels Opere complete, vol. III Editori Riuniti, Roma 1976, p. 277. Abbiamo qui riportata la citazione come dal volume ora richiamato; la citazione riportata nel testo apparso ne «il programma comunista» del 1961 è leggermente diversa, ma sostanzialmente non cambia.

(6) Ibidem, p. 278.

(7) Socialisme et Barbarie, gruppo di origine francese di cosiddetta sinistra marxista, con velleità di aggiornare il marxismo, giunse a dichiararne la morte nel 1963 (vedi l’articolo I “barbaristi” gettano la maschera, «il programma comunista» n. 22/1963) poiché “la direzione statale dell’economia” avrebbe permesso al capitalismo «di controllarne l’evoluzione in grado sufficiente per evitare squilibri catastrofici».

(8) Vedi K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica Grundrisse»), cit. alle pp. 635-636 del I volume.

(9) Nel febbraio del 1845, a Elberfeld, ebbero luogo tre riunioni pubbliche con tema il comunismo. F. Engels tenne due discorsi, nella prima e nella seconda riunione, cui seguirono dibattiti molto partecipati e di cui Engels parlò nelle lettere scritte a Marx  il 22, il 25 e il 26 febbraio. Nel testo pubblicato su «programma comunista» si citano tre discorsi di Engels, ma in realtà soltanto due (tenuti l’8 e il 15 febbraio) sono stati pubblicati nella «Rheinische Jahrbücher zur gesellschaftlichen Reform» 1845, I vol. Per il testo in italiano vedi Marx-Engels,  F. Engels, Due discorsi a Elberfeld, Opere complete, vol. IV, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 563-583.

(10) Vedi F. Engels, Due discorsi a Elberfeld, febbraio 1845, cit., pp. 564-566.

(11) Vedi F. Engels, Due discorsi  a Elberfeld, cit., pp. 567-8.

(12) Ibidem, p. 568.

(13) Ibidem, p. 570.

(14) Ibidem, p. 570.

(15) Ibidem, p. 570.

(16) Ibidem, p. 572.

(17) E’ lo stesso Engels a dirlo, nella lettera a Marx del 22 febbraio 1845: «Ieri nella più grande sala del maggiore albergo della città abbiamo tenuto la nostra terza assemblea comunista: La prima con 40 persone, la seconda con 130, la terza con almeno 200. Tutta Elberfeld e tutta Barmen, dall’aristocrazia del danaro fino alla épicerie [mercantucoli, ndr], con la sola eccezione del proletariato, vi eran rappresentate». In Marx-Engels, Opere complete, vol. XXXVIII, Editori Riuniti, Roma 1972, Carteggio, Engels a Marx a Bruxelles, 22-26 febbraio 1845, p. 21.

(18) Vedi K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica Grundrisse»), cit. pp. 638-9 del I volume.

(19) Vedi K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica Grundrisse»), cit. p. 639 del I volume.

(20) Cfr. F. Engels, Antidhüring, cit., p. 270.

(21) Cfr. F. Engels, Principi del comunismo, scritto nell’ottobre 1847 fu inviato da Engels a Marx nel novembre 1847 come traccia per il «Manifesto comunista», per la stesura del quale il secondo congresso della Lega dei comunisti, dicembre 1847, dette loro l’incarico. In Marx-Engels, Opere complete, vol. VI, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 373, la citazione successiva è a p. 374.

(22) Vedi K. Marx - F. Engels, Rassegna, maggio-ottobre 1850, «Neue Rheinische Zeitung. Politish-ökonomische Revue», V-VI fascicolo, maggio-ottobre 1850, in Marx-Engels, Opere complete, cit. vol. X, p. 501.

(23) Vedi K. Marx - F. Engels, Rassegna, maggio-ottobre 1850, «Neue Rheinische Zeitung. Politish-ökonomische Revue», V-VI fascicolo, maggio-ottobre 1850, cit., p. 513.

(24) Vedi K. Marx - F. Engels, Rassegna, maggio-ottobre 1850, «Neue Rheinische Zeitung. Politish-ökonomische Revue», V-VI fascicolo, maggio-ottobre 1850, cit., pp. 519, 521, 522.

(25) Ibidem, p. 522.

 

Partito comunista internazionale

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