Il capitalismo mondiale nelle strette della crisi (2)

(«il comunista»; N° 118; Ottobre 2010)

 Ritorne indice

 

 

Mutamenti nei rapporti di forza interimperialistici mondiali

 Top

Da quando le autorità giapponesi hanno pubblicato, la metà d'agosto scorso, le cifre del PIL (Prodotto Interno Lordo) giapponese del secondo trimestre 2010, il mondo si è accorto che quelle cifre erano inferiori a quelle cinesi: l'economia cinese, secondo questo criterio (1), stavan diventando, dunque, la seconda del mondo sorpassando l'economia giapponese, e tutto indica che questo risultato si vedrà confermato per tutto il 2010. Alcune informazioni preliminari dell'Sgenzia Internazionale dell'Energia indicano, inoltre, che l'economia cinese è verosimilmente diventata la prima consumatrice d'energia al mondo (2).

Alla fine del 2009, il governo di Pechino aveva già trionfalmente annunciato che la Cina, soppiantando la Germania, aveva raggiunto il rango di primo esportatore mondiale; dieci anni prima essa non era che al nono posto.

Senza dubbio le cifre della crisi economica nel 2008 e 2009 spiegano una parte di questi movimenti; le esportazioni cinesi nel 2009, per esempio, con il loro -16% sono diminuite meno delle esportazioni tedesche (-18%), americane (-18%) e soprattutto giapponesi (-30%). Tuttavia, la progressione delle esportazioni cinesi è una tendenza cui assistiamo da lungo tempo e che illustra la crescita economica di questo paese.

nel 1999, gli Stati Uniti erano il primo esportatore mpmdiale di merci; nel 2003 la Germaniaruba loro il primo posto, mentre la Cina non cessava di progredire. Più precisamente, i dieci paesi più grandi esportatori del mondo erano, nel 1999, in ordine, i seguenti: Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia, Gran Bretagna, Canada, Italia, Paesi Bassi, Cina e Belgio.Nel 2009, abbiamo questa diversa situazione: Cina, germania, Stati Uniti, Giappone, Francia, Paesi bassi, Italia, Belgio, Corea del Sud (in dodicesima posizione dieci anni prima) e Gran Bretagna: il vecchio "despota del mercato mondiale" era stato relegato in coda alla classifica.

Nel corso dell'ultimo decennio, le esportazioni cinesi sono aumentate del 20%, quelle dell'India (che si posiziona ancora lontano dai principali esportatori) sono aumentate del 16% e quelle della Corea del Sud del 9,7%, mentre le esportazioni americane non hanno progredito oltre il 4,3% e quelle del Giappone oltre il 3,3% (meno dei paesi europei come i Paesi Bassi che hanno registrato un 8%, la Germani un 7,5%, l'Italia un 5,7% e la Francia un 4,6% (3).

 

La Cina nuova "fabbrica del mondo"?

 Top

I media dei paesi più importanti affermano correntemente che la Cina è diventata la "fabbrica del mondo", applicandole l'appellativo che era stato utilizzato per la Gran Bretagna nel XIX secolo e che Marx stesso non esitò a usare. Ma quale relatà si nasconde dietro questo cliché?

Diamo prima di tutto un'occhiata al passato. Marx scriveva nel 1858 che la Gran Bretagna (paese che aveva conosciuto per primo la rivoluzione industriale) godeva di una "situazione di monopolio che ne faceva la fabbrica del mondo" (4). L'industria britannica, all'epoca, produceva merci per tutto il mondo, ma Marx aggiungeva anche che il capitalismo britannico scalzava esso stesso questa situazione di monopolio esportando i propri capitali e forniva allo stesso tempo i suoi futuri rivali di macchinari ed equipaggiamenti con i quali questi futuri rivali sviluppavano le loro industrie. Nel 1870 la Gran Bretagna produceva ancora a livello mondiale il 53% del ferro, il 50% del carbone e consumava pressoché il 50% del cotone prodotto nel mondo; si stima che la Gran Bretagna rappresentava circa il 32% della produzione industriale mondiale e circa un quarto del commercio mondiale. Essa era all'apogeo della sua potenza economica. Tuttavia, dietro ad essa si andava profilando un concorrete molto dinamico (anche se poco presente sul mercato mondiale), che era stato il primo cliente degli equipaggiamenti industriali britannici: gli Stati Uniti, che rappresentavano il 23% della produzione industriale del pianeta, seguiti dalla Germania (13%), dalla Francia, distanziata al 10%. La Russia era al 3,7%, il Belgio al 2,9%, l'Italia al 2,4% e gli altri paesi avevano percentuali non significative.

Alla vigilia della prima guerra mondiale, se la Gran Bretagna deteneva ancora la parte più importante del commercio mondiale rispetto a tutti gli altri paesi (16%, contro il 13,8% della Germania, l'11,5% degli Stati Uniti, il 10% della Francia) essa aveva definitivamente perduto il primato di fabbrica del mondo; essa non rappresentava che il 13,6% della produzione industriale del mondo contro il 32% degli Stati Uniti che avevano raggiounto il primo posto negli ultimi anni del XIX secolo. Ma la Gran Bretagna fu sorpassata anche dalla Germania (14,8%) mentre la Russia, dove fermentava la rivoluzione anti-zarista, sorpassava l'imperialismo francese, l'usuraio del mondo: rispettivamente 8,2% e 6,1%; ditero seguivano l'Italia col 2,5% davanti al un nuovo concorrente che aveva dimostrato la sua forza militare congtro la Russia nel 1905, il Giappone col 2,4% (5).

La potenza americana si sarebbe amplificata con sempre più forza in conseguenza della prima e poi della seconda guerra mondiale che rappresentarono un gigantesco business; l'imperialismo yankee guadagnò così non soltanto il suo predominio economico e commerciale, ma anche, per conseguenza, la sua egemonia politica e militare  su una buona parte del mondo per tutto il XX secolo, con una durata e un peso sconosciuti al vecchio imperialismo britannico. Nel 1945, all'uscita del conflitto mondiale, gli Stati Uniti, ai quali la guerra non aveva causato alcuna distruzione dell'apparato produttivo, si assicurarono circa la metà della produzione industriale del mondo.

Anche dopo la ricostruzione postbellica e il nuovo decollo delle economie dei paesi devastati dalla guerra, gli USA hanno mantenuto per lungo tempo una parte prepondenrante della produzione mondiale. E' così che nel 1953, essi rappresentavano ancora il 44,7% della produzione industriale mondiale, seguiti dall'URSS (10,7%) e dalla Gran Bretagna (8,4%). La Germania era al 5,9%, la Francia al 3,23%, il Giappone al 2,9%, l'Italia al 2,3% come la Cina. Ma la quota degli Stati Uniti nelle esportazioni mondiali non andava oltre il 18,8% (quando la quota dell'Europa Occidentale era del 39,4%): il loro mercato interno era ancora il più importante.

I decenni che sono seguiti videro un lento ma inesorabile declino dell'impressionante superiorità economica americana, rispetto alla rapida progressione degli imperialismi concorrenti, europei e giapponese.

Nel 1980, la quota degli Stati Uniti nell'industria mondiale è così praticamente ridiscesa ai livelli del 1913: 31,5%. La seconda potenza industriale è sempre l'URSS,con il 14,5%; essa non ha certamente realizzato il socialismo e nemmeno suoperato economicamente l'America come aveva prospettato Kruscev negli anni Cinquanta. In realtà è il Giappone a diventare la seconda potenza economica mondiale in termini di PIL, guadagnando il terzo posto dietro l'URSS nella produzione industriale internazionale con il 9,1%; seguono la Germania (5,3%), la Cina (5%), la Gran Bretagna (4%), la Francia (3,3%), l'Italia (2,9%). Il Giappone si è lanciato con vigore alla conqusita del mercato mondiale; nulla sembra possa fermarlo e i media americani ed europei fanno sempre più eco alle paure dei loro industriali davanti alla "minaccia" costituita dalle ondate sempre crescenti di merci nipponiche. In Cina, intanto, il governo inaugura alla fine del 1978 il suo grande mitamento di rotta in favore della "liberalizzazione economica" e della "economia di mercato" (6).

Dieci anni più tardi l'URSS si dibatte in una profonda crisi mentre il Giappone ha continuato la sua ascesa. Le principali potenze industriali mondiali, nel 1990, si classificano in questo modo: USA al 28%, tallonati dal Giappone che è al 22%, mentre la Germania rappresenta il 12% della produzione industriale mondiale, seguita dall'Italia (6;6%), dalla Gran Bretagna e dalla Francia a pari merito (5,7%). La Russia, piombata al 3,3% è passata dietro la Cina (4%) - il crollo del rublo ha accentuato senza dubbio il rinculo russo di cui però la causa principale è stata la grave crisi economica che ha condotto alla frammentazione dell'URSS. Bisogno sottolineare che i paesi europei (e si può evidenziare la quota della Spagna al 3%) hanno avuto risultati migliori che semplicemente resistere al declino che toccava lo Zio Sam poiché essi sono riusciti ad aumentare la loro quota nella produzione industriale mondiale; la Cina ristagna ancora, sebbene le imnprese private si sviluppino molto in fetta a detrimento delle grandi imprese statali.

E arriviamo ora alla situazione attuale.

Gli uffici dell'ONU, che sono la principale (o piuttosto la sola) fonte in materia di comparazione internazionale, non forniscono più dati sulla produzione indusrtriale mondiale, ma sui criteri molto più confusi del "valore aggiunto nell'industria" (7). E così non è possibile fare dei raffronti precisi con i dati precedenti.

Secondo questo criterio, gli Stati Uniti nel 2008 (ultimi dati disponibili) erano ancora la più grande potenza industriale (24% del totale mondiale); ma una nuova potenza è apparsa nel corso di questi 18 anni ed ha conosciuto una crescita folgorante: la Cina, che si situa al 18% (dopo essersi posizionata al 6% nel 1995, al 10% nel 2000, al 13% nel 2005 ecc.). Il Giappone, culminato nel 1995 a quota 26%, non rappresenta più che il 14% del totale mondiale. Di seguito vi sono la Germania (10%) distaccando l'Italia (5%), la Gran Bretagna (4,2%), la Francia (4%), la Russia (3,3%), il Brasile (3,1%) e la  Corea del Sud (3%). Per quel che riguarda l'industria "manufatturiera" (l'industria propriamente detta, escludendo il settore minerario e dell'energia), gli scari fra i paesi sono più deboli: gli Stati Uniti sono al 18%, la Cina al 15,6% e il Giappone al 15,4%.

In breve, la Cina oggi non è per nulla "la fabbrica del mondo" alla maniera in cui sono stati, a turno, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Ciò non toglie che i lamenti dei capitalisti europei e americani di fronte a questo nuovo concorrente siano rumorosi quanto quelli di vent'anni addietro rispetto al concorrente giapponese. Di nuovo c'è che la stampa americana si spaventa per il rischio che corrono gli Stati Uniti perdendo il loro predominio industriale detenuto da più di un secolo e, peggio ancora, che la loro economia nel suo insieme passi al secondo posto da qui a quindici/vent'anni.

 

Produzione d'acciao e crisi

 Top

Qualche dato per illusrtrare la crescita in potenza dei nuovi giagnti asiatici.

Per non appesantire troppo questo articolo, ci accontenteremo di esaminare la produzione d'acciaio, sviluppandone diversi aspetti. Si tratta, in effetti, di un indice classico dello sviluppo della produzione e dell'industria di un paese e dell'evoluzione dei rapporti di forza economica fra i grandi imperialismi. L'acciao è utilizzato tanto per le scatole per conservare quanto nell'edilizia e nell'industria automobilistica e, naturalmente, negli armamenti. Il partito ha consacrato molti lavori allo studio delle variazioni della produzione siderurgica dei diversi paesi e ai suoi rapporti con lo scoppio dei grandi conflitti mondiali (8).

Il periodo chiamato di "guerra fredda" era stato caratterizzato da una corsa a chi produceva più acciaio fra l'URSS e gli USA; questa corsa si imbattè nel 1974 con la grave crisi economica che mise fine ai famosi "trent'anni gloriosi" di espansione economica dopo la seconda guerra mondiale, secondo l'espressione degli economisti borghesi, e registrò questa situazione: URSS 136 milioni di tonnellate contro 132 degli Stati Uniti e 119 del Giappone. Gli altri paesi che fanno parte del gruppo dei 10 più grandi produttori d'acciao dell'epoca sono: Germania, con 53 milioni di tonnellate, Francia con 27, Cina con 26, Italia con 23, Gran Bretagna con 22, Polonia con 13 e Cecoslovacchia con 12,7.

Cinque anni più tardi, alla vigilia della crisi economica successiva, l'economia internazionale ha ripreso la sua crescita sebbene ad un ritmo rallentato. Nel 1979, i primi dieci produttori mondiali sono nell'ordine: URSS (149 mln tonn.), USA (123), Giappone (111), Germania (43), Cina (37), Italia (26), Francia (23), Polonia (19), Brasile (15), Cecoslovacchia (14). I paesi capitalisti occidentali e il Giappone non sono riusciti a tornare ai livelli del 1974 (la Gran Bretagna si ritrova relegata al dodicesimo posto dietro la Spagna), e la forte recessione del 1980-82 avrà delle ripercussioni importanti: ma la gerarchia internazionale dei paesi industrializzati non conosce ancora delle mutazioni significative. Il preteso "campo socialista" appare solido e anche blindato rispetto alle crisi economiche che sembrano colpire soltanto i paesi occidentali.

Facciamo un balzo di dieci anni. nel 1990, quando l'URSS è sul punto di crollare e il mondo si tuffa verso una nuova recessione internazionale, abbiamo la seguente classificazione.

L'URSS è sempre e largamente in testa con 154 milioni di tonnellate prodotte nell'anno; la quantità è senza dubbio diminuita rispetto al suo picco storico del 1988 (163 mln tonn), ma il paese soffoco sotto il peso della sovraproduzione metallurgica.

il Giappone è in seconda posizione con 110 mln tonn., seguito dagli USA che sono scesi a 89 mln (sia pure ad un livello più alto di quello del... 1948). La Cina è balzata al quarto posto con 66 mln tonn., precedendo la Germania (38,4), l'Italia (25), la Corea del Sud (23), il Brasile (20), la Francia (19) e la Gran Bretagna (18) che approfitta della caduta della Polonia e della Cecoslovacchia per tornare fra i primi dieci produttori mondiali d'acciaio superando anche la Spagna. I paesi occidentali e il Giappone sono ancora sensibilmente al di sotto dei livelli del 1974, ad eccezione dell'Italia, e soprattutto della Spagna che ha ripreso una crescita continua dopo un temporaneo rallentamento nel 1975-76.

E ora arriviamo alla vigilia dell'inizio del XXI secolo; la bolla delle "nuove tecnologie" non è ancora scoppiata e gli attentati alle Torri Gemelle di New York non si sono ancora avuti. Siamo ancora nell'euforia della "nuova economia" (per intenderci, in una parola: internet) che, secondo i propagandisti del capitalismo avrebbe  fatto scomparire le crisi. Ma i rivolgimenti che si sono verificati nella classifica dei maggiori produttori d'acciaio testimoniano le mutazioni propdotte nei rapporti di forza fra gli imperialismi, a cominciare dalla scomparsa dell'URSS.

Nel 2000, il primo produttore mondiasle d'acciaio è diventata la Cina, con 127 ml tonn., davanti al Giappone (106) e agli USA (101). Seguono distanziati la Russia (che non è più URSS) con 59 mln tonn., la Germania (46), la Corea del Sud (43), l'Ucraina (31), il Brasile (27), l'India (26,9), l'Italia (26,7). La Cina, nel 1996 detronizza il Giappone che non è stato il più grosso prodottore mondiale d'acciao solo per qualche anno e che da un decennio vede ristagnare la sua produzione siderurgica. Segno di una rinascita di vitalità industriale, gli USA, invece, hanno visto la loro produzione aumentare in questi 10 anni di circa il 13% sebbene essa  rimanga al di sotto di quella del 1974. In Europa, la produzione tedesca è aumentata più del 7%, quella italiana del 6%, la francese, che con i 20 mln tonn non fa più parte dei primi 10 produttori mondiali, registra comunque un aumento del 5%, quando la produzione britannica è rinculata del 15%. Il più forte rialzo della produzione d'acciao in Europa è però quello della Spagna, col suo 16% che le permette di sorpassare nuovamente la produzione britannica (15,8 mln tonn. contro i 15,1).

Ma queste variazioni sono poca cosa rispetto ai progressi dei nuovi paesi: nello stesso periodo la produzione brasiliana ha progredito del 25%, quella dell'India del 79%, quella della Corea del Sud del 90% e quella della Cina, che batte ogni record, del 92%! Va segnalato che sulla stessa linea di tendenza si trova la produzione d'acciao turca che aumenta del 54% con i suoi 14 mln di tonnellate, e soprattutto la produzione messicana: + 80% con i suoi 15,6 mln di tonnellate d'acciao, che si posiziona appena sotto la spagnola ma superando anch'essa la produzione britannica. L'industrializzazione si sta estenderndo a velocità sostenuta a paesi che per lungo tempo sono stati relegati alla periferia del mondo capitalista.

Vediamo ora la situazione che ha preceduto immediatamente la crisi attuale.

Prendiamo in effetti in esame le cifre del 2007, quando la produzione mondiale d'acciaio ha cominciato a diminuire ma in maniera ineguale e differenziata geograficamente, a partire dal maggio-giugno 2008 fino ad aprile 2009: si tratta di un abbattimento di circa il 25%, , senza precedenti dopo la seconda guerra mondiale, che ha esordito nei grandi paesi capitalisti, epicentro della crisi economica, dove la diminuzione ha raggiunto il 50% prima di estendersi a tutto il pianeta.

Al momento della crisi degli anni Trenta, la diminuzione della produzione mondiale di acciaio era stata interrotta per 3 anni, fino al 1932 quando raggiunse il 58% in meno del record del 1929; a quell'epoca, soltanto un piccolo pugno di paesi produceva acciaio. E' questo che ha fatto dire a numerosi economisti: "la differenza col 1929 è che oggi noi abbiamo la Cina!". E' vero, d'altra parte, che nella crisi attuale la caduta della produzione dei grandi paesi è stata meno lunga ma più brutale che allora, mentre la produzione cinese non è diminuita che del 4% ed ha ricominciato a crescere già dal 2009, mentre i paesi occidentali e il Giappone erano ancora nel pieno del marasma.

Ma torniamo per un momento al 2007. Il dominio cinese nella produzione d'acciaio è schiacciante, con i suoi 489 milioni di tonnellate: è un eccezionale balzo in avanti del 380% in 7 anni! Questa quantità d'acciaio corrisponde a quella prodotta in tutto il mondo nel 1967. Il Giappone segue con 120 mln tonn. (13% di aumento) mentre gli Stati Uniti sono ridiscesi a 98,5 mln tonn (-2,5%). Ci sono poi la Russia, in netto progresso a 72,4 mln tonn. (+22%), l'India in pieno boom a 53 mln tonn. (97% d'aumento!), la Corea del Sud a 51,5 (+18%), la Germania a 48,6 (+2,3%), l'Ucraina a 42,8 (+38%), il Brasile a 33,8 (+25%) e l'Italia a 31,5 (+18%). Dobbiamo anche notare, all'undicesimo posto, la forte spinta della Turchia con 25,8 mln di tonn. (+84%), mentre il Messico, che rientra nell'orbita americana, vede rallentare la sua progressione (+13%). Per quel che riguarda gli altri paesi europei, la Spagna è sempre in aumento (19 mln tonn., cioè il 20% di aumento), mentre la Francia rincula (19,2 mln tonn., -4%), come la Gran Bretagna (14,3 mln tonn., -5%).

La Cina, producendo il 35% dell'acciaio mondiale (in un mese tanto quanto la Germani produce in un anno) e relegando gli altri produttori a quote molto più contenute: 9% per il Giappone, 7% per gli USA, 5% per la Russia, 4% per l'India, non è proprio la fabbrica del mondo, ma è certamente diventata l'acciaieria del mondo! (9).

 

Il dominio del capitale straniero

Top

 La struttura delle esportazioni cinesi si è modificata nel corso degli anni nella misura in cui si sviluppava la potenza della sua industria. Fino a non molto tempo fa la Cina esportava soprattutto prodotti tessili e vestiario a buon mercato, e ora si tratta di computer o di macchine che sono prodotti-guida all'esportazione. E' questo un tratto tipico del capitalismo che si sviluppa all'inizio in quel che si chiama "industria leggera" e in produzione di beni di consumo; poi, nella misura in cui l'economia si sviluppa, il settore dell'industria pesante e della produzione di beni di produzione diventano più importanti.

L'industria tessile era l'industria più importante della Cina quando le armate di Mao presero il potere (come in Inghilterra nella prima metà del XIX secolo), ma durante il periodo maoista le esportazioni del tessile cinese sul mercato mondiale subirono, alla pari di tutte le altre esportazioni, una drastica riduzione.

Le riforme economiche della fine degli anni Settante diedero nuovo slancio agli scambi economici con il resto del mondo; la parte della Cina negli scambi mondiali passò così dall'1% del 1980 a più dell'8% nel 2008. Le esportazioni cinesi passarono dai 14 miliardi di dollari del 1979 ai 1.218 miliardi del 2007: L'industria tessile e della confesione fu il primo beneficiario di questo balzo; nel giro di qualche anno le esportazioni del tessile cinese presero il postyo di quelle degli altri paesi in via di sviluppo dove questa industria, abbandonata dai vecchi paesi capitalisti, si era largamente concentrata, per raggiungere il loro picco nel 1985. L'industria della confezione, che richiede più attività industriale, continuò in proporzione a crescere e nel 1994 al Cina divenne il promo esportatore mondiale di abiti. Quell'anno i settori del tessile, della confezione, del cuoio, dei giocattoli ecc., rappresentavano più del 34% delle esportazioni cinesi, mentre i settori degli equipaggiamenti meccanici ed elettrici rappresentevano meno del 13%. Oggi, la Cina rimane sempre il primo esportatore mondiale del tessile e dell'abbigliamento (realizzando nel 2007 il 23% delle esportazioni mondiali del tessile e il 33% delle esportaizoni mondiali dell'abbigliamento), ma ormai gli apparati meccanici ed elettrici costituiscono circa il 60% delle sue esportazioni.

La Cina è ormai il primo produttore mondiale di elettrodomestici, di componenti elettroniche, di materiali da costruzione, il secondo produttore mondiale nella chimica ecc. Se poi consideriamo una produzione molto emblematica del capitalismo moderno, quella dei veicoli, ufficialmente considerata dalle autorità di Pechino come un "settore-chiave" (10), si constata che nel 2007 la Cina era il terzo produttore mondiale. Prendendo in considerazione tutte le categorie di veicoli (dalle utilitarie ai veicoli commerciali, dai camion alle auto di massima cilindrata) il Giappone era il primo produttore al mondo con 11,6 milioni di veicoli (4 milioni dei quali di automobili vere e proprie), seguiti dagli Stati Uniti con 10,8 milioni (di cui 10 mln di automobili), la Cina con 8,9 mln (6,3 auto), la Germania con 6,2 mln (5,7 auto), la Corea del Sud coin 4 mln (3,7 auto), la Francia con 3 mln (2,5 auto), il Brasile con 2,9 mln (2,3 auto), la Spagna con 2,8 mln (2,2 auto), il Canada con 2,6 mln (1,3 auto), l'India con 2,2 mln (1,7 auto).

Dieci anni prima, la Cina non era che al decimo posto con solo 1,6 milioni di veicoli prodotti! Tuttavuia, la prima impresa automobilistica cinese, la FAW, nel 2007 non era che la ventesima nella classifica mondiale dei produttori d'automobili: è l'americana General Motors che produceva e vendeva la maggioranza dei veicoli in Cina, e i costruttori stranieri nel loro insieme detenevano il 70% del mercato...

Questo esempio illustra una caratteristica poco conosciuta ma molto importante dell'economia cinese attuale: il dominio del capitale straniero sui settori più dinamici e più produttivi dell'industria. Secondo un esperto del governo cinese, commentando con soddisfazione colorata di amaro la notizia che la Cina era diventata il primo esportatore mondiale, "circa l'83% dei prodotti ad alto contenuto tecnolgico e il 75% dei propdotti elettronici esportati sono fabbricati in imprese a capitale straniero" (11).

Le statistiche ufficiali cinesi illustrano chiaramente questo dominio (12). Nel 1986 le imprese a capitale straniero erano all'origine del 5,6% delle importazioni e dell'1,8% delle esportazioni del paese; nel 2007 la percentuale era salita al 57,8% delle importazioni e al 57,1% delle esportazioni; più della metà del commercio estero cinese è in realtà opera delle filiali di aziende straniere! Ma non si tratta che di commercio; nel 1990 le imprese a capitale straniero erano responsabili del 2% della produzione industriale cinese totale. Nel 2007 queste realizzavano il 31% della produzione totale cinese. Senza dubbio questa percentuale è in diminuzione dopo il 2003, anno in cui si è avuto un record (il 36%); ma, considerando che una parte delle imprese a capitale puramente cinese sono in realtà delle sottomarche di imprese straniere, è incopntestabile che l'industrializzazione e soprattutto il progresso del commercio estero cinese dipende per una parte significativa dal capitale internazionale. Le imprese straniere assicurano di fatto il 40% del PIL cinese (13).

Nel corso degli ultimi decenni, le autorità di Pechino hanno deliberatamente fatto appello agli investimenti stranieri, prima nelle cosiddette "zone speciali", poi in tutto il paese, al fine di far decollare la crescita economica dato che la debolezza del capitalismo indigeno non lasciava altre scelte. E' stato seppellito una volta per tutte il vecchio slogan maoista: "la Cina farà da sé"...

A questo proposito, un'altra caratteristica significativa del commercio estero cinese va rilevata per la sua importanza: i "processing exports", cioè l'esportazione di merci prodotte (o assemblate) a partire da parti staccate o componenti importate.

Più della metà del totale delle esportazioni fanno parte di questa categoria, e la sua percentuale sale all'85% per le imprese a capitale straniero; questo tasso è nettamente più elevato per le esportazioni di materiale elettronico e per i beni strumentali che non per il tessile, l'acciaio o la chimica , settori questi ultimi in cui le imprese straniere sono poco presenti. Il capitalismo cinese non controlla quindi che parzialmente, e quasi per niente nei settori detti di "alta  tecnologia", le filiere di produzione di merci esportate in altri paesi. Classicamente, delle imprese a capitale straniero vi importano componenti e parti staccate dai paesi asiatici vicini, per farvi produrre a basso costo da operai cinesi sfruttati bestialmente, merci che poi sono esportate verso i paesi capitalistici sviluppati, compresi vero quelli da cui sono usciti questi capitali.

I media hanno rilevato che la notizia secondo la quale l'economia della Cina avrebbe sorpassato quella del Giappone, non aveva suscitato alcuna agitazione in questo paese. Non è soltanto perché i capitalisti giapponesi sono attirati dal mercato cinese, ma anche e forse soprattutto perché la delocalizzazione di una parte della loro produzione in questo paese ha rappresentato per molti di loro una vera bombola d'ossigeno. I bassi costi di produzione, a cominciare dalla manodopera, ha loro permesso di trovare una scappatoia all'abbattimento dei loro tassi di profitto: "la possibilità di assemblare i loro prodotti in Cina grazie ai bassi costi esistenti ha dato nuovo ossigeno a molte compagnie giapponesi", scrive un quotidiano finanziario (14).

Dopo l'inizio degli anni '90 il flusso di investimenti diretti stranieri in Cina, favorito da sollecitazioni governative, ha conosciuto una forte progressione, al punto che il paese è diventato la seconda destinazione degli investimenti esteri mondiali, dopo gli Stati Uniti. Quasi il 70% di questi investimenti sono stati indirizzati nell'industria e un po' meno del 25% nell'immobiliare (che è da qualche anno il secondo motore della crescita economica cinese). I primi investitori sono, secondo le statistiche ufficiali, Hong Kong, paradisi fiscali, il Giappone, gli Stati Uniti, Taiwan e la Corea del Sud. Hong Kong e i paradisi fiscali (Isole Vergini, Isole Caiman ecc,) sono dei collegamenti protetti utilizzati dai capitalisti di altri paesi o dagli stessi capitalisti cinesi.

L'importanza presa dal capitale straniero nell'economia cinese non è che transitorio, senza dubbio; i capitalisti stranieri di lamentano sistematicamente che dopo aver investito in Cina si ritrovano in qualche anno di fronte a dei concorrenti cinesi per le merci che loro producono. Essi sono nella situazione dei capitalisti britannici del XVIII secolo che hanno finanzitao ed equipaggiato i loro concorrenti, o dei capitalisti americxani che dopo l'ultima guerra mondiale, hanno finanziato il risollevamento degli imperialismi europei e giapponese. L'importanza attuale del capitale straniero nell'economia cinese, però, non può mancare di avere profonde conseguenze anche sulla politica del paese.

 

Dove va la Cina?

 Top

La Cina è presentata dai media come la nuova potenza oggettivamente destinata a strappare agli Stati Uniti il dominio economico mondiale. La Cina, ha la possibilitù reale di riuscire dove hanno fallito i candidati precedenti, Giappone e Russia?

Rispetto a questi ultimi, essa dispone del vantaggio di avere una massa enorme di popolazione, che rappresenta una formidabile riserva di manodopera e, potenzialmente, un gigantesco mercato interno. ma, a dispetto delle sue impressionati performances economiche che abbiamo brevemente illustrato, essa è ancora lontana dall'aver superato una profonda arretratezza economica. Il PIL per abitante può essere considerato come un indice, grossolano senza dubbio, tuttavia significativo dello sviluppo capitalistico di un paese. Quello della Cina si colloca intorno al centesimo posto mondiale (15). Una parte importante della popolazione attiva è ancora occupata nell'agricoltura (più del 40%) e spesso vive al di fuori dei circuiti monetari e del mercato.

Questo significa che rimane ancora un enorme cammino perché la Cina raggiunga il livello delle grandi economie, dei grandi imperialismi che dominano il pianeta. E su questo cammino essa si scontrerà inevitabilmente contro di loro; già ora i suoi bisogni sempre più crescenti di materie prime e di energia la mettono in conflitto con gli imperialismi già solidi, dall'Iran (che è al momento il suo principale fornitore di petrolio) all'Africa e all'America Latina. Per renderew sicure le vie dell'approvvigionamento e più in generale per difendere i suoi interessi, essa è impegnata in un vasto programma di armamento e di modernizzazione di un esercito pletorico ma malamente equipaggiato; le spese militari portano la Cina al secondo posto nel mondo (ma molto lontano da quelle degli USA) (16), provocando l'allarme dei vicini Giappone e India.

Tuttavia, prima di arrivare ad uno scontro militare, il conflitto degli interessi fra le  grandi e meno grandi potenze prende la forma delle pressioni economiche di ogni tipo. Alla metà degli anni Ottanta, per arrestare la crescita economica del Giappone, che sembrava inesorabile, gli USA gli imposero la rivalutazione dello yen in rapporto al dollaro, ossia un abbattimento della competitività delle sue merci (accordi detti "dell'Hotel Plaza"). Il Giappone, nel cui territorio sono diffuse le basi militari americane e la cui "sicurezza" è assicurata dalle forze armate statunitensi, motivo molto concreto della sua sottomissione politica agli Stati Uniti, fu costretto ad obbedire.

Oggi, come ieri, le autorità americane vorrebbero obbligare il nuovo rivale potenziale, la Cina, a rivalutare la sua moneta. Ma esse non dispongono della leva politico-militare che avevano usato nei confronti del Giappone: la Cina è militarmente indipendente dagli Stati uniti. Di più, a differenza del Giappone, abbiamo visto che le imprese esportatrici cinesi sono in realtà parti di filiali e di succursali di marcgi americani: se lo yuan cinese aumenta, i telefonini Apple aumenteranno di prezzo e sarà più difficile venderli. I capitalisti americani non sono perciò tutti egualmente d'accordo nel fare pressione sul governo cinese perché lasci che la sua moneta si rivaluti. Infine, la posizione finanziaria ed economica degli Stati Uniti è più debole oggi di quello che era trent'anni fa, e quindi sono più deboli anche le sue leve economiche: gli USA hanno bisogno che la Cina continui ad acquistare i buoni del tesoro americano e a finanziare il suo debito. Per conseguenza, non sarà per nulla facile agli USA riproporre verso la Cina la stessa politica che ebbero verso il Giappone.

Sia quel che sia, le contraddizioni, gli scontri di interessi e le crisi fra questi due paesi sono destinati ad acutizzarsi. E' difficile ora dire di più; ma quel che è sicuro, è che gli Stati Uniti, il nemico n° 1 della rivoluzione mondiale come l'abbiamo chiamato nei testi di partito, non abdicheranno mai al loro posto di dominatori del mondo; allo stesso modo, i capitalisti americani no n abdicheranno mai dalla loro posizione di classe dominante. nell'un caso e nell'altro, è solo con la violenza rivoluzionaria che potranno essere detronizzati...

 

La borghesia crea innanzitutto i propri affossatori

 Top

I capitali stranieri sono evidentemente attirati in Cina grazie ai bassi salri che permettono di produrre merci molto competitive sul mercato mondiale e intascare giganteschi profitti. Secondo i dati di Eurostat, una decina d'anni fa, il salario lordo mensile di un operaio in Cina era di 100 euro (contro 1.500 euro in Francia, 1.300 circa in Italia). Dopo gli scioperi di quest'estate il governo cinese ha annunciato di alzare il salario minimo a 117 euro (137 a Shangai); la direzione della Honda-China ha accordato un rialzo del 24% dei salari, portandoli a 237 euro (gli scioperanti non ripresero il lavoro se non dopo essersi scontrati con i sindacati ufficiali). Alla Foxconn dove i salari giravano intorno al minimo (100 euro al mese per 6 giorni di lavoro la settimana), la direzione avrebbe promesso, secondo la stampa internazionale, di alzarli a 245 euro; in realtà, questo aumento sarà dato solo agli operai che saranno riusciti per un periodo di 3 mesi ad aumentare in modo importante la loro produttività: nessun dubbio che non ce ne saranno molti... L'aumento reale dei salari è nettamente più ridotta, poiché essi passano da 100 a 130 euro. Ma di fronte a questi rialzi, il gruppo Foxconn ha annunciato di andare a spostare il 20% della sua forza lavoro salariata a Shenzen, nel nord del paese dove il salario minimo è di 101 euro!

Questi aumenti di salario, provocati dalla lotta operaia, avrebbero spinto certe multinazionali a prendere in esame la delocalizzazione della produzione in altri paesi (per sempio, dopo qualche tempo, l'americana Nike tende a disimpegnarsi dalla Cina per andare in Vietnam) o, come la Foxconn, all'interno del paese dove i salri sono molto più bassi che nelle regioni costiere.

Ma, a dispetto di questi aumenti, d'altronde non molto superiori all'inflazione, i salri restano ad un livello molto basse e sono sempre attraenti per la voracità dei  capitalisti sempre alla ricerca di proletari da sfruttare. Non bsiogna perciò attendersi che i capitalisti abbandonino la Cina, al contrario, continueranno ad investire e ad impiantarsi in un paese ufficialmente "socialista" e diretto da un partito sedicente "comunista", paese che in realtà è un vero paradiso dello sfruttamento capitalistico.

Torniamo al caso Foxconn. Questa impresa di Taiwan è il più grande produttore mondiale di componenti per apparecchi elettronici, cellulari ecc. Essa impiega 900.000 lavoratori salariati in Cina, di cui dai 300 ai 400 mila a Shenzen, città del sud della Cina. Situata non lontano da Hong Kong, questa vecchia e piccola città di pesactori era stata scelta per questa ragione per ospitare nel 1979 la prima "Zona Economica Speciale" in cui i capitalisti stranieri potevano liberamente investire. Il successo di questa operazione ha fatto sì che la città conti ora più di 1 milione e mezzo di abitanti, che con l'hinterland passa i 7 milioni di abitanti (il più forte aumento di popolazione di tutta la Cina).

Reclutati fra i giovani "lavoratori migranti" venuti dalla campagna, concentrati in giganteschi stabilimenti, gli operai di Fxconn sono sottoposti ad uno sfruttamento bestiale: fino a 10 ore di lavoro al giorno, 6 giorni la settimana (quando non devono lavorare obbligatoriamente di domenica) e con una disciplina da caserma. La maggior parte di loro, a causa di questo regime di sfruttamento, si esaurisce nel giro di qualche mese, e viene rimpiazzata da altri. La Cina è in effetti una riserva quasi inesauribile di mano d'opera a basso costo proveniente dalle campagne dove vivono ancora in condizioni di pura sopravvivenza centinaia di milioni di persone. In caso di rallentamento economico, i lavoratori migranti vengono licenziati e rinviati alle loro case d'origine: ufficialmente, i lavoratori colpiti da questo regime  nel periodo di più forte crisi sono stati 24 milioni!

Lo sviluppo accelerato del capitalismo in questi ultimi decenni a creato in Cimna una classe operai numerosissima, forte di decine di milioni di persone.Secondo le statistiche ufficiali, al momento delle riforme del 1978 vi erano 53 milioni di lavoratori occupati nell'industria; nel 2003 (ultime cifre ufficiali), ve ne erano 89,5 milioni. Secondo uno studio americano (17), questa cifra sarebbe salit a 111 milioni nel 2006 (contro 325 milioni occupati in agricoltura). Per comparazione, nello stesso anno, il numero degli occupati nell'industria neglòi Stati Uniti era di 14 milioni. ben inteso, tutti coloro che lavorano nell'industria non sono solo operai; vi sono i quadri, i guardiani ecc. , ma i proletari costituiscono indubbiamente la grande maggioranza dei salariati. D'altra parte la classe operaia, in senso marxista del termine, non si limita agli operai di fabbrica, anche se questi ultimi hanno un posto e un ruolo determinante; vi sono proletari nelle categorie classificate nel settore dei "servizi", o del "terziario", nel commercio, nei trasporti ecc., ed anche nelle categorie appartenenti all'agricoltura, come gli operai agricoli (i nostri vecchi braccianti). Tutto questo permette di concludere che la classe operaia cinese è la più numerosa del mondo.

Raggruppando questi proletari in gigantesche concentrazioni industriali, sottomettendoli a condizioni di sfruttamento bestiali, il capitalismo crea nello stesso tempo le condizioni della loro lotta di resistenza imemdiata. Gli scioperi di cui la stampa internazionale ha parlato quest'estate (e che probabilmente non sono che la punta dell'iceberg) sono un primo esempio. Lo sviluppo accelerato delle forze produttive cinesi negli ultimi decenni, ivi compreso lo sviluppo della più importante fra di esse: la classe operaia, traina anche lo sviluppo di ogni tipo di contraddizioni, a cominciare da quelle sociali, il fossato sempre più profondo tra proletari e capitalisti. La Cina non ha la possibilità, come l'hanno avuta le "fabbriche del mondo" britannica e americana, di anestetizzare i suoi proletari concedendo loro alti salari e condizioni di vita superiori a quelle degli operai di latri paesi, poiché è sul loro supersfruttamento che si fonda la sua crescita economica.

Le risorse dello Stato cinese sono utilizzate a fondo per accelerare l'industrializzazione e mantenere la crescita ad un ritmo elevato, anche per ragioni sociali: le autorità cinesi stesse hanno affermato che una crescita inferiore al 6% metterebbe in pericolo la pace sociale! Ma questa crescita accelerata sbocca inevitabilemnte nella sovraproduzione - sovraproduzione non in rapporto ai bisogni della popolazione che sono enormi, ma in rapporto al mercato; il giagntesco piano di sostegno all'economia nella crisi attuale non fa che aggravare le cose su questo piano. Un rapporto del 2009 della Camera di Commercio Europea in Cina dava qualche dato a propristo di questa sovraproduzione in alcuni settori dell'industria (18). Prendiamo l'esempio più lampante, quello dell'acciaio; quel rapporto indicava che alla fine del 2008 le capacità di produzione erano di 660 milioni di tonnellate per un mercato di 470 milioni di tonnellate; e durante l'anno 2009, nuove acciaierie venivano messe in cantiere corrispondenti ad una futura produzione supplementare di 58 milioni di tonnellate... Questa sovraproduzione, che colpisce gravemente il settore immobiliare, non potrà essere contenuta grazie agli interventi dello Stato. Anche se  può essere differita di qualche tempo, la crisi colpirà inevitabilmente la Cina, con una forza ben più potente che nel 2008. Come dappertutto, saranno i proletari che ne faranno le spese, insieme ad una massa di piccoloborghesi arricchiti attraverso varie speculazioni (più di 20 milioni di persone giocherebbero i loro soldi in Borsa) che si vedrebbero brutalmente rovinati e proletarizzati.

Prima di riuscire a diventare la prima potenza economica mondiale, la Cina diventerà inevitabilmente una delle arene più importanti e più violente della lotta di classe nel mondo. Non è un caso che la Cina è il paese in cui la pena di morte è la più diffusa (19): l'ordine capitalista non può non passare attraverso la repressione e il terrore che essa provoca, anche quando la lotta proletaria è assente; più le tensioni interne sono grandi e più forte è questa repressione. Non abbiamo dubbi sul fatto che la classe operaia cinese sarà domani la degna erede dei combattenti proletari del 1926-27 e che dovrà vendicare.

potrà farlo a condizione che riesca a ritrovare le sue armi di classe, il marxisme e il programma comunista autentico, e che sia in grado di costituyire il suo partito di classe. Questo non sarà né automatico, né rapido; è d'altra parte un problema che si pone non soltyanto alla classe operaia cinese ma ai proletari del mondo intero e che non potrà essere risolto che internazionalmente.

 (continua)

 


 

(1) Se si utilizzasse il PIL a "Parità di Potere d'Acquisto" (PPA: cifre rettificate per tener conto delle differenze di prezzo all'interno dei differenti paesi), la Cina avrebbe superato il Giappone già dal 2001. Queste cifre sono delle stime che non bisogna prendere alla lettera. E' così che nel 2007, la Banca Mondiale, che dà queste cifre, ha scovato un "errore di calcolo" nella sua stima del PIL cinese a PPA, ed ha quindi fornito una nuova stima, inferiore del... 40% rispetto alla cifra anteriore. Questa nuova stima corrispondeva a ciò che si auguravano i cinesi interessati a beneficiare dello status di "paese in via di sviluppo".

(2) Il governo di Pechino ha rifiutato questa affermazione, perché lo metterebbe in posizione molto delicata nei negoziati sul clima.

(3) Cfr. International Herald Tribune, 20-21/2/2010.

(4) Cfr. K. Marx, "British Commerce", New York Daily Tribune, 3/2/1858. Una traduzione in francese la si trova nel nostro Programme Communiste, con originale inglese a fronte, nel n. 64, ottobre 1974, dalla quale abbiamo tratto la traduzione in italiano pubblicata in questo stesso numero.

(5) Queste stime storiche variano a seconda delle fonti, soprattutto sui dati della Russia che è talvolta collocata dopo la Francia.

(6) Si veda a questo proposito il resoconto di una Riunione Generale di partito: "La Cina, sulla strada di superpotenza capitalista", in "il programma comunista" n. 14, 14 luglio 1979.

( 7) Questo "valore aggiunto" è uguale al valore dei beni prodotti meno il valore dei "consumi intermedi" più il margine commerciale. Poi vi si innestano, o meno, calcoli di PPA.

(8) A cominciare dal "Filo del tempo" intitolato Sua Maestà l'Acciaio, pubblicato in "battaglia comunista" n. 18 del 1950, e proseguendo nei resoconti di molte RG sul Corso dell'imperialismo.

(9) I dati sono della World Steel Association, disponibili on line su www.worldsteel.org.

(10) Da luglio 2008, il governo ha deciso un aumento dei diritti di dogana sulle merci importate per stimolare i costruttori stranieri a sviluppare la loro produzione locale.

(11) Secondo il Quotidiano del Popolo, 11/1/2010, cfr. il sito di seguito descritto

http//french.peopledaily.com.cn/Economie/6864541.html.

(12) Le statistiche ufficiali in materia sono consultabili on line su www.fdi.gov.cn.

(13) Quest'ultimo dato è proposto dal North Carolina Department of Commerce, International Trade Division (2009).

(14) Cfr. Financial Times, 23/8/2010.

(15) Secondo le stime del FMI, si situa in mezzo tra Capo Verde e Congo. Cfr. Financial Times, 11/6/2010.

(16) Lo SIPRI dava per il 2007 un dato di spese militari cinesi di 100 miliardi di dollari, contro 661 miliardi per gli Stati Uniti. Cfr. Financial Times, 11/6/2010.

(17) Cfr. "Manufacturing in China", Monthly Labor Review, aprile 2009. Le statistiche cinesi ufficiali sommano l'impiego industriale urbano, l'impiego nelle "imprese industriali rurali" e l'impiego industriale nelle imprese informali.

(18) Cfr. Financial Times, 30/11/2009.

(19) Amnesty international stima a "molte migliaia" il numero delle persone giustiziate in Cina, ciò che sarebbe più di tutti gli altri paesi del pianeta messi insieme! Le autorità conesi non danno cifre. Cfr. www.amnesty.org/fr/death-penalty/death-sentences-and-executions-in-2009. Sono invece gli Stati Uniti che detengono, da molto tempo, il numero record delle persone imprigionate.

   

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice