Contro ogni deviazione opportunistica, contro il potere borghese e il suo Stato, per la rivoluzione proletaria e comunista

90 anni fa, a Livorno, nasceva il Partito Comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale Comunista

(«il comunista»; N° 119; Dicembre 2010 / Gennaio 2011)

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“Il processo di formazione del Partito Comunista in Italia presenta, rispetto alla Germania e alla Francia, caratteristiche non solo diverse, ma opposte, e per ragioni che sarebbe antistorico ridurre ai soli meriti (peraltro decisivi) di chiarezza, continuità e intransigenza della Frazione Comunista Astensionista”, così inizia il terzo capitolo del terzo volume della “Storia della Sinistra comunista” (1) intitolato “Verso il Partito Comunista d’Italia, Sezione dell’Internazionale Comunista”. E continua: “Rispetto a Halle e Tours (2), Livorno appare infatti capovolto non solo perché la nascita della sezione italiana della III Internazionale avvenne sulla base di una netta rottura, oltre che con il riformismo, anche e soprattutto con quel centro massimalista in cui i bolscevichi avevano per primi ravvisato uno dei maggiori ostacoli alla soluzione rivoluzionaria della crisi post-bellica, non essendo il frutto né di uno spostamento dell’ala comunista del movimento operaio verso posizioni compatibili con quelle di una parte del centro (come in Germania), né di uno spostamento della maggioranza centrista verso posizioni accettabili da un’esile ed eterogenea ala sinistra (come in Francia). Appare capovolto anche perché la scissione non scaturì da una decisione maturata in sede di congresso, dunque in extremis e per un concorso di fattori contingenti, ma fu la sanzione finale di un processo non breve, tutto orientato verso quello sbocco e, appunto perciò, venutosi ad incrociare con una serie di favorevoli fattori esterni”.

Ecco la prima caratteristica politica e programmatica della scissione di Livorno: la preparazione politicamente e organizzativamente voluta della netta e decisa separazione tra le forze politiche della rivoluzione proletaria e comunista rispetto a tutte le altre forze del socialismo riformista, sindacalista, massimalista che allora dirigevano e influenzavano in maniera determinanate il movimento operaio in tutti i paesi in cui esso esisteva in modo organizzato. La storia del movimento sociale proletario e del movimento politico socialista aveva radicato le correnti politiche più importanti nell’Europa occidentale, e in particolare nei paesi, come scrive Lenin nel testo del 1913 “Tre fonti e tre parti integranti del marxismo” (3), nei quali l’umanità ha creato il meglio durante il secolo XIX: la Germania, con la filosofia classica hegeliana, l’Inghilterra, con l’economia capitalistica, la Francia con l’utopismo socialista e il movimento sociale del proletariato. Il marxismo, la sua dottrina, è la “continuazione diretta e immediata della dottrina dei più grandi rappresentanti della filosofia, dell’economia politica e del socialismo” (sempre Lenin), ma, nello stesso tempo è il superamento dialettico di quelle dottrine nella dottrina della lotta di classe: attraverso di essa il marxismo esprime una concezione generale del mondo che si basa sul materialismo storico e dialettico e sul socialismo scientifico, teoria e programma del movimento operaio di tutti i paesi del mondo civile (ancora Lenin).

Ma riprendiamo la traccia dalla nostra Storia della Sinistra comunista. Alcuni fattori oggettivi caratterizzavano la situazione in Italia, rispetto a Germania e Francia, in modo più “favorevole” per il movimento operaio e di cui il movimento politico del comunismo rivoluzionario – rappresentato dalla corrente di sinistra, operante in modo distintivo fin dalle battaglie contro il “culturalismo” nel 1912, poi organizzatasi, sul solco delle grandi battaglie di classe contro il riformismo e l’interventismo in guerra e contro il virus della democrazia parlamentare, in piena continuità e intransigenza teorica nella Frazione Comunista Astensionista (4) – seppe far tesoro nella necessaria, cosciente e voluta rottura non solo con le correnti della destra riformista e antirivoluzionaria, ma anche con le più insidiose correnti del massimalismo centrista, rivoluzionarie a parole e riformiste nei fatti. Questi fattori oggettivi si possono sintetizzare così: la lotta di classe in Italia non era scomparsa nemmeno durante la guerra del 1915-18 e riprese con grande vigore nel biennio successivo alla fine della guerra, ma contro di essa non ci fu la feroce repressione di cui fu vittima in Germania lo spartachismo, repressione che giungerà negli anni successivi, col fascismo;  non ci fu nemmeno, come scrive la nostra “Storia della sinistra comunista”, “la spaventosa emorragia umana imposta da un ciclone prolungatosi per quattro anni e il senso se non di euforia, certo di rilassamento, seguito nella classe operaia al ‘cessate il fuoco’ ”. In Italia, a differenza della Francia, mancavano le tradizioni radicali e giacobine che invece pesavano molto sul movimento comunista in Francia col loro fondo interclassista che in funzione antifeudale aveva avuto senso storico ma che in funzione anticapitalistica rappresentava un poderoso intralcio; in Italia, inoltre, le tradizioni secondinternazionaliste, quindi socialimperialiste, avevano un peso ben minore di quanto non lo avessero in Germania, dove invece esse si diffusero e radicarono in tutti i campi, della teoria come della prassi parlamentare e sindacale, dell’organizzazione immediata come del partito. In Italia, il potere borghese stesso uscì dalla guerra molto più instabile che non in Francia e in Germania, mentre i settori d’avanguardia del movimento operaio esprimevano una ricettività al programma rivoluzionario migliore e una resistenza all’influenza del comunismo rivoluzionario meno forte che negli altri due paesi.

Un altro fattore oggettivo, al contrario, ebbe in Italia un peso più negativo che in Francia e Germania. Si tratta della traiettoria del centrismo politico.

In Francia, la destra della SFIO (i Blum, i Faure) (5) e, in Germania, la destra degli Indipendenti (i Kautsky, gli Hilferding), quindi i rappresentanti della destra riformista e antirivoluzionaria, furono dichiaratamente e pubblicamente gli avversari della rivoluzione proletaria e coloro che resistettero a parole e nei fatti alle “imposizioni” dell’Internazionale Comunista, rivelando così agli occhi delle masse proletarie di essere forze che non avrebbero mai potuto essere guadagnate alla causa della rivoluzione. Di fronte ad esse, la maggioranza “centrista” se, da un lato, tendeva a non fare la stessa campagna antibolscevica dei destri, dall’altro lato non voleva scindersi da essa per mantenere “unito” il partito, rimandando ad un congresso straordinario la definizione delle differenze tra di loro e la discussione sull’accettazione dei famosi “21 punti” delle condizioni di ammissione all’Internazionale Comunista. Da questi congressi tutto ci si poteva aspettare, meno che scindessero veramente, in forma chiara e netta, le forze che incondizionatamente sostenevano il programma della rivoluzione proletaria definito nel II congresso del 1920 dell’Internazionale Comunista, facendo proprie le 21 condizioni d’adesione, dalle forze che invece non intendevano accettare questa o quella tesi, questa o quella “condizione di adesione”, mettendo in discussione di volta in volta una o l’altra decisione dell’Internazionale e affossando, così, in un verbalismo rivoluzionario le possibilità reali della preparazione rivoluzionaria non solo del partito comunista ma dello stesso proletariato che il partito aveva il compito di guidare nella rivoluzione per la conquista del potere spezzando e abbattendo lo Stato borghese.

In Italia, la chiarezza politica e, quindi, l’efficienza pratica scaturirono sì da un congresso, quello di Livorno, ma da un congresso che, in realtà, ratificava una scissione che era “già in atto e come tale non solo accettata ma voluta dalla frazione comunista, nei termini ed alle condizioni ritenute inderogabili dall’Internazionale” (6). Il centrismo in Italia, però, assunse un ruolo diverso che in Francia e in Germania: sostituendosi alla destra riformista, quanto più ci si avvicinava al congresso straordinario del PSI di Livorno, tanto più assumeva sulle posizioni della destra il compito di polemizzare con l’Internazionale soprattutto nel mettere in primo piano la necessità, per la rivoluzione, di accumulare capacità tecniche ed esperienza organizzativa dei dirigenti sindacali e degli amministratori comunali riformisti, come se la rivoluzione fosse una “questione di organizzazione”. In questo modo, le dichiarazioni di formale accettazione dei principi della rivoluzione e della dittatura proletaria venivano condizionate, nella loro applicazione, da meccanismi caratteristici della democrazia borghese. Così, in Italia, fu relativamente più facile percepire e denunziare il processo obiettivo di meccanica sociale per cui l’intransigenza rivoluzionaria del centrismo serratiano (7), che accettava i principi della rivoluzione e della dittatura proletaria ma non ne derivava un indirizzo di azione con essi coerente (ossia un indirizzo che escludesse ogni ipotesi di conquista del potere, e del suo esercizio, nelle forme della democrazia parlamentare), era inevitabilmente obbligata a retrocedere dalla posizione idealmente rivoluzionaria ad una prassi direttamente o indirettamente collaborazionista con la borghesia. La necessità per i comunisti rivoluzionari di rompere non solo con la destra riformista ma anche con la tendenza centrista era perciò più evidente, sebbene per il loro passato “massimalista” i serratiani potessero apparire meno inclini a cedere al collaborazionismo.

Questi fattori non bastano però a spiegare l’eccezione che fu allora Livorno 1921, rispetto ad Halle e a Tours, e agli altri congressi di costituzione dei partiti comunisti; senza il peso determinante della Frazione Comunista Astensionista nel processo di decantazione delle forze destinate a costituirne il nerbo, il Partito Comunista in Italia, sezione dell’Internazionale Comunista, non si sarebbe caratterizzato così fortemente in tutti i campi d’attività del partito di classe, dalla teoria ai principi, dai fini al programma alla tattica e all’organizzazione. La stessa Frazione comunista astensionista (il cui riferimento storico è il Soviet di Napoli) ha radici profonde, esattamente nel corso storico della corrente della sinistra rivoluzionaria che in Italia prende corpo dal 1910 in poi, corrente che, nel periodo immediatamente precedente la guerra mondiale 1914-1918, poggiò su basi teoriche sicure e svolse in un’incessante battaglia pratica la lotta contro il duplice revisionismo riformista e “sindacalista”, rimettendo ordine in concetti fondamentali come il rapporto fra partito e organizzazioni economiche immediate, programma massimo e rivendicazioni minime, centro dirigente del partito e organismi periferici, socialismo e cultura, socialismo e religione (e chiese costituite), socialismo e massoneria, o come le questioni scottanti dei blocchi elettorali, dei limiti dell’azione parlamentare, dell’atteggiamento del partito di fronte all’irredentismo, e via elencando.

Lo scoppio della prima guerra mondiale non solo non incise sulla combattività dell’estrema sinistra, ma la rinvigorì e le diede un carattere d’urgenza insieme lucida e appassionata. I testi contenuti nel volume citato della Storia della Sinistra comunista (8) provano come, di fronte al tentennante e teoricamente insufficiente “neutralismo” della Direzione del PSI e ai paurosi sbandamenti di una destra intollerante di ogni disciplina alle direttive centrali del partito, la Sinistra comunista abbia difeso su tutti gli organi di stampa e nelle riunioni del partito “adulto” e della federazione giovanile, le stesse tesi che la sinistra internazionale di Zimmerwald e Kienthal proclamò e sostenne nella drammatica fase del fallimento della II Internazionale, e lo abbia fatto malgrado l’assenza di legami diretti al di sopra dei confini di Stato. Si deve alla continuità di questa battaglia teorica e pratica se, fin dai primi giorni di “pace”, la sinistra poté, sia nella stampa centrale e nelle riunioni nazionali di partito, sia attraverso il suo combattivo organo “Il Soviet” di Napoli, lanciare una rovente offensiva tanto contro la destra apertamente e francamente riformista e democratica, quanto contro l’equivoco e ancor più pericoloso “centro” massimalista, roboante e confuso nelle sue velleità rivoluzionarie come restìo a separarsi dalla destra e ad abbracciare senza riserva il programma della Terza Internazionale mediante il rifiuto irrevocabile e definitivo del metodo legalitario.

Di fronte ad una situazione internazionale e nazionale che vedeva da un lato le masse proletarie scendere sul terreno della lotta aperta contro l’avversario di classe carico dei cruenti allori dell’immane carneficina bellica, e dall’altro il partito socialista rincorrere il fantasma di successi elettorali sacrificando ad essi la preparazione rivoluzionaria del proletariato ad una presa del potere che la corrente del “Soviet” non credette mai vicina, ma che sapeva non sarebbe mai stata possibile perdurando l’equivoco di un partito rivoluzionario a parole e legalitario nei fatti; di fronte a questa situazione, la Sinistra comunista vide nella rivendicazione dell’astensionismo elettorale – su basi non solo diverse, ma opposte a quelle proprie dell’ideologia anarchica o sindacalista – il più efficace catalizzatore del processo di separazione sia dai riformisti che dai falsi rivoluzionari massimalisti. Ma questa rivendicazione di carattere “strumentale” fu ben lungi dal costituire il tratto distintivo e il contenuto vero della corrente di estrema sinistra e, nella lotta di questa, le elezioni del 1919 furono l’ultimo pensiero. I punti fondamentali, per quella che allora si chiamò la “Frazione Comunista Astensionista”, erano e saranno il tema delle roventi battaglie di Bologna 1919, Mosca 1920, Livorno 1921 (9):

 

1. Affermazione delle basi teoriche del marxismo rivoluzionario e della sua prospettiva del trapasso dal potere capitalistico a quello operaio e, per ulteriore svolgimento storico, dall’economia privata al socialismo e al comunismo.

2. Affermazione che la dottrina e il programma della Terza Internazionale di Mosca non erano un risultato nuovo ed originale della Rivoluzione russa, ma si identificavano con i canoni marxisti del punto precedente.

3. Affermazione della necessità che il nuovo movimento successivo al fallimento della Seconda Internazionale nascesse razionalmente e internazionalmente attraverso una spietata selezione e scissione dagli elementi revisionisti e socialdemocratici.

4. Posizione presa dalla Sinistra contro molteplici erronee e demagogiche enunciazioni dei massimalisti del tempo e contro la loro ridicola prospettiva dell’atto rivoluzionario in cui in realtà non credevano (lo “sciopero espropriatore”!); ed anche contro la prematura proposta di formare artificiosamente i soviet e la non meno erronea costruzione propria degli ordinovisti di Torino che vedevano la società nuova già costruita cellula per cellula nei consigli industriali di fabbrica.

5. Dimostrazione che, malgrado i banali riferimenti all’astensionismo degli anarchici, i comunisti respingevano e consideravano anti-rivoluzionarie tutte le correnti posizioni anarco-sindacaliste, specie in quanto rifiutavano la dittatura statale da parte del partito politico di classe.

6. Giudizio sullo svolgimento politico italiano, che non consisteva nella proposta bruta di scatenare illico et immediate la rivoluzione armata, appunto perché fase storica pregiudiziale a questa avrebbe dovuto essere la costituzione del vero Partito comunista e un’adeguata conquista della sua influenza sull’avanguardia del proletariato; e previsione che la prospettiva ottima per la conservazione del potere borghese in Italia era la persistenza dei partiti proletari in una posizione indefinita tra la preparazione dei mezzi rivoluzionari e l’uso dei mezzi legalitari, e il tentativo – che a distanza di decenni ha finito per trionfare – di attirare una larga schiera di pretesi esponenti della classe operaia prima nel parlamento, poi nella macchina governativa statale.

 

Di là dalla polemica sull’astensionismo, saranno questi gli stessi punti-chiave del II Congresso dell’Internazionale nel 1920, i punti sui quali si batteranno insieme Lenin, il partito bolscevico e quella Sinistra che scioccamente gli storici dissero e dicono “italiana”.

A Livorno ci si arrivò nel corso di una tenace e prolungata battaglia di classe non tanto per “raddrizzare” un partito, il PSI, che aveva già dato prove concrete di non sapersi e volersi sbarazzare delle correnti riformiste e anti-rivoluzionarie, quanto per scindere, nella chiarezza teorica, programmatica, politica e d’azione, i comunisti rivoluzionari da tutti gli altri, indirizzati a costituire nel modo più solido teoricamente e ferrato politicamente il partito della rivoluzione proletaria.

Le vicende storiche spinsero tre forze, di origine e formazione differenti, a convergere su di un’unica piattaforma politica che era quella delle Tesi e delle Condizioni di ammissione del secondo congresso dell’Internazionale Comunista. Le forze erano: la Frazione comunista astensionista del Soviet; il gruppo torinese derivante dall’Ordine Nuovo; l’esile, a tutta prima, poi cospicua, estrema sinistra del massimalismo. Ma nessun mercanteggiamento avvenne fra l’una e l’altra e, se la prima rinunziò alla pregiudiziale tattica, quindi secondaria, dell’astensionismo (come era già pronta a fare nel 1919), il secondo abbandonò tutte le sue posizioni di principio e la terza fece proprie quelle propugnate in lunghi mesi unicamente dal “Soviet”, prime fra tutte le tesi sul ruolo centrale del Partito nella rivoluzione e della dittatura comuniste e l’esigenza della centralizzazione e della disciplina. Prendiamo la mozione e il programma di Livorno: in essi non v’è nulla che anche soltanto arieggi l’ordinovismo; tutto rivela l’impronta della Sinistra comunista, che è poi quella bolscevica e  quella a cui noi ci ricolleghiamo direttamente. Su quella traccia le tre componenti – che da Livorno a tutto il 1922 restarono indistinguibili (a parte l’ordinovista A. Tasca, tutti gli altri ex Ordine Nuovo si batterono senza riserve per il programma della Sinistra, ma eccedettero addirittura in intransigenza, tanto da giustificare, entro un certo limite, l’accusa moscovita di infantilismo) – si mossero in completa sintonia. Le basi per il partito comunista rivoluzionario in Italia furono date, indiscutibilmente, dalla corrente della sinistra comunista che faceva riferimento al “Soviet” di Napoli: tutto il lavoro di preparazione teorica, programmatica e tattica fu compiuto dal “Soviet” di Napoli e da quello che in pratica ne è il derivato su scala nazionale, “il Comunista” di Imola (10). E’ stato un lavoro impostato in modo univoco secondo una prospettiva che non consente dubbi: la scissione era considerata tanto inevitabile quanto salutare, e non sarà condizionata da valutazioni contingenti di maggioranza o minoranza, ma ubbidirà a criteri oggettivi più rigidi di quanto non si augurava Mosca stessa. Nessuna eccezione venne né verrà in seguito invocata: si voleva e si chiedeva invece l’applicazione integrale delle regole, non per “purezza ideale” ma per solidi motivi di efficienza pratica; d’altra parte, per il marxismo non esiste efficienza pratica che non rispecchi una coerenza teorica.

La ragione di tutto ciò va cercata nella forza di attrazione esercitata dalla tradizione decennale di lotta contro le deviazioni riformiste, centriste e revisioniste che solo la nostra corrente poteva vantare, e dalla solidità di un inquadramento teorico che aveva trovato completa espressione nelle Tesi votate dalla conferenza nazionale dell’8-9 maggio a Firenze e negli interventi di Amadeo Bordiga al II congresso dell’Internazionale (11), gettando così le basi della fondazione non formale ma reale del Partito. La nostra corrente, d’altra parte, era l’unica che possedeva una rete nazionale fortemente centralizzata (12), mentre il gruppo dell’Ordine Nuovo, soprattutto nella seconda metà del 1920, scomparve come entità politica caratterizzata da un preciso orientamento e da una fisionomia inconfondibile. Dunque, in virtù di un’influenza teorica, politica e, quindi, anche organizzativa, la Frazione comunista del PSI, detta anche di “Imola” – formata da quelle tre correnti – si presentò a Livorno con un programma nello stesso tempo generale e di azione e che non era concepito come piattaforma intesa a riunire il massimo possibile di consensi in sede di congresso, ma come base prefissata di impostazione programmatica e di inquadramento pratico del nuovo partito, non suscettibile di modifiche, attenuazioni o concessioni agli umori di assemblee arroventate da polemiche recenti o antiche.

Non era dunque il responso di un congresso quel che avrebbe dovuto dare la soluzione del problema della costituzione del partito comunista in Italia; la soluzione risiedeva, da un lato “in tutte le esperienze e la preparazione politica della Sinistra” del Psi, dall’altro “e più ancora nel contenuto del programma d’azione della III Internazionale”. Incontestabilmente nostra fu quindi la formula, usata a nome di tutta la Frazione da Amadeo Bordiga nell’articolo dal titolo Verso il Partito Comunista:

Antidemocratici anche in questo, non possiamo accettare come ‘ultima ratio’ la espressione aritmetica della consultazione di un partito che non è un partito. Il riconoscimento della giustezza della opinione espressa dalla maggioranza comincia là dove comincia la omogeneità di programma e di finalità; non lo accettiamo nella società divisa in classi, non nel seno del proletariato dominato necessariamente dalle suggestioni borghesi, non nel seno di un partito che comprenda troppi elementi piccolo borghesi, ed oscilli storicamente tra la vecchia e la nuova Internazionale e non sia quindi nella sua coscienza e nella sua pratica il partito di classe di Marx” (13).

La conclusione che si trarrà a Livorno, “della immediata uscita dal Partito e dal Congresso appena il voto ci avrà posto in minoranza”, era scontata in anticipo, ma non idealizzata, insieme alla duplice convinzione, tutta nostra, che in seguito, in seno al centro massimalista, si sarebbe prodotta una crisi tanto più feconda quanto più ci si fosse attenuti a criteri di massima selezione politica dei quadri del partito e di ferma volontà di agire soltanto sulla loro base ai fini di un allargamento della propria influenza. Dalla rottura col centro massimalista dipendevano le sorti future del partito, e, con esso, dell’intero proletariato italiano. E’ qui il nodo che fa di Livorno un caso internazionalmente unico ed esemplare.

 

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Gli argomenti e i brani che abbiamo ripreso dalla Storia della Sinistra comunista mettono in evidenza il fatto che il partito comunista, il partito rivoluzionario del proletariato, in Italia è nato adulto, con radici che affondavano nelle battaglie di classe in difesa del marxismo, e quindi della teoria della rivoluzione comunista, contro le diverse varianti dell’opportunismo, dall’anarchismo al sindacalismo, dal riformismo al revisionismo al centrismo massimalista. Le vicende storiche che hanno caratterizzato l’Italia borghese, e l’Italia proletaria, nel quadro dello sviluppo capitalistico europeo e mondiale e nel quadro del corso storico del movimento proletario e del movimento marxista, hanno permesso alla corrente politica che si identificherà come corrente di sinistra comunista, non solo di nascere e svilupparsi ma di radicarsi saldamente in una battaglia di classe che aveva necessariamente respiro e orizzonte internazionale, e che si  vide rappresentata nella sua massima espressione di coerenza e di efficacia da un gigante teorico come Lenin. Non deve stupire, perciò, che le posizioni su cui si rafforzò la Sinistra comunista in Italia collimavano perfettamente sul piano della teoria, dei principi, dei fini, del programma e del piano d’azione rivoluzionario con quelle espresse da Lenin. Il marxismo era la stessa base teorica da cui discendono coerentemente principi, fini, programma e piano d’azione rivoluzionario che non contraddicono la stessa base teorica.

Livorno rappresenta, nell’Occidente capitalistico sviluppato, il punto più alto raggiunto dal movimento rivoluzionario e comunista ed esso, proprio per questa specifica qualità, svolge storicamente – dopo la caduta rovinosa e degenerata della Terza Internazionale nell’opportunismo e nello stalinismo – il ruolo insieme di punto d’arrivo e di partenza per il partito comunista senza particolarità nazionali, quindi per il partito di classe internazionale che doveva rinascere dalla distruzione operata dallo stalinismo. Qui noi troviamo la ragione di un riferimento storico imprescindibile cui rimanere saldamenti collegati, poiché la possibilità di ricostituire il partito di classe su basi teoricamente solide e su bilanci dinamici non solo delle rivoluzioni, ma soprattutto delle controrivoluzioni, è data solo dalla restaurazione teorica del marxismo e dalla riconquista di un metodo per portare avanti le battaglie di classe che la Sinistra comunista d’Italia è stata, unica corrente marxista al mondo, in grado di attuare.

Lo stalinismo ebbe ragione della Terza Internazionale, con effetti molto più devastanti per la ripresa della lotta rivoluzionaria, di quanto non ebbe il kautskismo; esso utilizzò con grandissima efficacia controrivoluzionaria, stravolgendolo e corrompendolo col suo nazionalismo, lo stesso movimento comunista internazionale lanciato nella gigantesca guerra di classe contro le borghesie di tutto il mondo sulla base di una rivoluzione proletaria – l’Ottobre 1917 – vittoriosa e gravida di insegnamenti per la rivoluzione comunista mondiale grazie ad una formidabile guida politica, il partito bolscevico di Lenin. La Sinistra comunista d’Italia ebbe la forza di dare un contributo, che si rivelerà essenziale e vitale per il movimento comunista internazionale successivo alla degenerazione stalinista dell’Internazionale di Mosca, in termini teorici, programmatici e tattici di grandissima rilevanza. La rilevanza è determinata dal fatto che, a differenza del grande rivoluzionario che fu Trotsky e delle sue battaglie in difesa del marxismo e della rivoluzione proletaria in Russia, non cedette alle illusioni immediatiste e democratiche come invece successe al capo della gloriosa Armata Rossa. La strenua difesa dell’invarianza del marxismo, professata dalla Sinistra comunista d’Italia, e portata fino in fondo, ossia, oltrepassando la lettera del programma, andando fino alla definizione delle tattica comunista e dei criteri organizzativi, fu il fronte sul quale la Sinistra comunista continuò nel tempo – nonostante l’infimo numero a cui si ridusse a causa della vittoria controrivoluzionaria – a dar battaglia, non indietreggiando di un solo passo!

Come molte volte abbiamo ripetuto nel trentennale corso di sviluppo del partito di ieri e, dopo la crisi esplosiva che lo mandò in pezzi nel 1982-84, nel quasi trentennale corso di sviluppo del partito di oggi, la Sinistra comunista d’Italia è sempre stata marxista, perciò internazionalista ed internazionale. Tutte le sue Tesi, il suo programma, le sue posizioni politiche e i suoi criteri di intervento e di organizzazione hanno sempre avuto, fin dalle origini, carattere internazionale, combattendo fin dall’inizio l’opportunismo più abietto, quello che identifica il socialismo e il comunismo come teorie che giustificano il nazionalismo e “pretendono” di essere applicate secondo criteri nazionalisti.

Non per nulla è proprio la teoria staliniana (ma con Stalin vogliamo indicare una larga corrente opportunista che si impose con la forza dello stato russo sulla corrente marxista del partito bolscevico e dell’Internazionale Comunista) del “socialismo in un solo paese” che caratterizza da allora in poi il nazionalcomunismo attraverso il quale il proletariato verrà piegato sistematicamente alle esigenze di pace e di guerra del capitalismo e dei poteri borghesi imperialisti e i partiti comunisti trasformati in partiti operai borghesi (per dirla con Lenin), in partitacci controrivoluzionari più fetenti dei partiti socialisti della seconda Internazionale (per dirla con Bordiga).

Il fatto che la Russia di Stalin non esista più oggi, ma esistono e prolificano partiti eredi del nazionalcomunismo antifascista, dimostra che l’opportunismo, nel cambiare pelle, è costantemente un nemico del proletariato e della sua lotta di emancipazione dal capitalismo; di più, caratterizzandosi come democratico e popolare, l’opportunismo post-stalinista mostra ancor più vistosamente che la sua esistenza, pur nelle continue mimetizzazioni da teatro, è possibile soltanto perché la classe dominante borghese lo alimenta, lo protegge, lo paga affinché continui la sua opera di deviazione delle masse proletarie dalla via dell’aperta e dichiarata lotta di classe anticapitalistica.

Livorno 1921 significa anche capacità di valutare le situazioni leggendo i reali corsi di sviluppo delle forze sociali e politiche nell’inevitabile e sempre presente lotta fra le classi, lotta che per lunghi periodi il proletariato può anche disconoscere cedendo, soprattutto dopo profonde sconfitte come nel periodo a cavallo degli anni trenta del secolo scorso, su posizioni conservatrici e conciliazioniste, ma che la borghesia non smette mai di condurre contro le condizioni di vita e di lavoro proletarie allo scopo di mantenere le classi salariate succubi delle leggi e del dominio del capitale.

Il Partito Comunista d’Italia si costituisce quando in Italia, dopo la fine della prima guerra imperialista, il periodo più critico per la borghesia sta passando e le permette di riprendere in mano le redini del suo potere per dedicarsi con tutte le forze al controllo sociale che le stava sfuggendo. Ma se il PCd’I si costituisce in “ritardo” rispetto alla situazione più favorevole alla lotta rivoluzionaria è proprio a causa della recidiva riformista e massimalista che infestava il PSI e che paralizzava in buona parte il movimento di classe delle masse proletarie; un PSI che aveva ancora molta influenza sul proletariato, soprattutto attraverso la sua direzione massimalista (declamazioni rivoluzionarie, ma pratiche riformiste e parlamentari; sostegno, a parole, della rivoluzione bolscevica e di adesione alla Terza Internazionale, con la  riserva di agire, in Italia, secondo proprie e autonome valutazioni e non secondo le direttive dell’Internazionale ecc.), e che facilitò il recupero da parte borghese, nei due anni successivi alla fine della guerra, della fiducia nelle proprie forze, tanto da affidare – mentre si dilettava a far giocare i socialisti il ruolo di migliori difensori della democrazia e del parlamento borghese – alle squadre fasciste il compito di intimidire e terrorizzare i proletari spinti invece alla lotta per il potere politico, a partire dalle campagne per poi giungere nelle città industriali. Il fatto che il PCd’I sia stato costituito “in ritardo” rispetto alla situazione sociale favorevole alla lotta rivoluzionaria, ha spinto alcune tendenze – come ad esempio quella attualmente conosciuta come “Tendenza comunista internazionalista”, ex Bipr, ex “partito comunista internazionalista-battaglia comunista” – che insistono nel volersi richiamare alla Sinistra comunista ma che in realtà si richiamano ad essa solo come “facciata del passato”, è un fatto storicamente spiegabile e che noi per l’appunto abbiamo spiegato con metodo marxista (vedi la citata Storia della Sinistra comunista) e non col metodo borghese del volontarismo barricadero che tende a segregare la teoria in una specie di limbo per soli intellettuali, negando perciò alla teoria marxista il suo contenuto fondamentale, il metodo del materialismo storico col quale spiegare e valutare i fatti sociali e storici, grazie al quale il partito di classe, che ne incarna la visione e le prospettive storiche, è la guida per la preparazione rivoluzionaria del proletariato e del partito stesso.

I tempi storici non si fanno ingabbiare dal volontarismo di militanti che si illudono di ridurre i fatti sociali ad una competizione fra volontà di individui dotati intellettualmente e/o potenti economicamente, né tanto meno dall’eclettismo di militanti che credono di poter separare la teoria del partito dalla sua azione, dimostrando in questo modo di essere lontani anni luce dal marxismo; militanti che credono che la “politica” non sia l’applicazione di linee teoriche e programmatiche definite e calate nelle situazioni storiche di cui vanno letti materialisticamente i rapporti di forza fra le classi e la maturazione dello scontro tra di esse, ma l’attenzione ai problemi quotidiani e contingenti dei proletari come se, dai problemi quotidiani, i proletari potessero comprendere quale via imboccare per la propria emancipazione. In un verso o nell’altro, le diverse tendenze che deviano dal solco tracciato da Livorno 1921, si ritrovano accomunate nell’accusare la Sinistra comunista d’Italia di non essere stata una forza “politica” ma di essere stata soltanto una forza “teorica”, identificando in questa debolezza un supposto “vizio d’origine”. Ciò che queste tendenze non arriveranno mai a capire è che se si riconosce ad un partito, quello bolscevico di Lenin, ad esempio, o quello d’Italia del 1921, solidità nella teoria gli si riconosce necessariamente anche forza politica perché la teoria marxista contiene, come un monolito, principi, fini e programma da cui discendono coerentemente le linee politiche e le norme tattiche generali. Il partito marxista non inventa la sua politica a seconda del periodo storico, né si fa dettare dalla situazione contingente il tale o tal altro piano tattico con il quale dirigere la propria azione nelle diverse situazioni. Il partito marxista, essendo la teoria su cui si basa il bilancio storico della lotta fra le classi fino allo scontro decisivo per l’abbattimento dello stato borghese e la distruzione del modo di produzione capitalistico al quale sostituire il modo di produzione comunistico, conoscendo già il necessario sviluppo storico della lotta fra le classi e il suo reale sbocco,  trae dalla teoria tutte le indicazioni che servono perché la lotta di classe del proletariato giunga al suo traguardo finale vittoriosamente e prevede il comportamento materiale delle classi sociali nel corso della lotta di classe e nei modificabili rapporti di forza fra le classi, in senso favorevole o sfavorevole alla rivoluzione. Le categorie: teoria – principi – fini – programma – tattica, che separiamo per comprendere meglio la differenza dei piani in cui si pongono i diversi problemi sociali e della lotta di classe, servono per inquadrare meglio la visione necessariamente dialettica dello sviluppo della società e dello scontro fra le classi, e per inquadrare meglio l’azione del partito verso la società e, in particolare, verso il proletariato. Se, da questa separazione concettuale si passa ad una separazione fisica, alzando barriere tra teoria e prassi, tra teoria e programma, tra teoria e principi, tra principi e fini ecc., si abbandona il metodo dialettico marxista e si abbraccia il metodo borghese secondo il quale l’ideologia è una cosa, e la pratica reale un’altra!

Una volta costituito su basi programmatiche certe e intangibili, con un’organizzazione che poggiava sulla tradizione decennale delle battaglie di classe della Sinistra comunista, il Partito comunista di Livorno doveva affrontare il difficile compito di condurre a termine il trapasso dalla vecchia alla nuova organizzazione; tale compito venne assolto nei primissimi mesi del 1921, “nonostante il doppio ostacolo del ripetersi delle scorrerie fasciste alla periferia e del perdurare delle angherie poliziesche al centro”. Per avere un’idea della situazione basti ricordare qualche fatto: il 9 febbraio era stata incendiata la sede del secondo quotidiano del partito “Il Lavoratore” di Trieste e arrestata quasi tutta la sua redazione; il 27 febbraio, a Firenze era stato assassinato Spartaco Lavagnini, segretario regionale comunista del Sindacato ferrovieri e direttore del periodico locale “Azione comunista”; tale assassinio fu seguito da numerosi altri fatti di violenza e di sangue che portarono anche all’assassinio di un altro giovane dirigente comunista, Ferruccio Ghinaglia, il 21 aprile, a Pavia; intanto il 20 e 21 marzo forze di polizia protette da un reparto di bersaglieri perquisivano e occupavano la sede centrale del partito a Milano (il casello daziario o “Palazzina” di Porta Venezia, sede dell’organo centrale del partito, “Il Comunista”) arrestando un gruppo di militanti soprattutto della Federazione giovanile, sequestrando parecchio materiale di propaganda e di lavoro; la sede fu restituita al partito oltre due mesi dopo, il 29 maggio. Il nerbo della direzione del partito doveva così migrare da una via all’altra di Milano servendosi di mezzi di fortuna per riprendere e mantenere i contatti con le sezioni, sottoposte egualmente alle incursioni delle squadracce nere, e impartire loro le necessarie direttive in ogni campo di attività. Per i comunisti era ovvio non cadere nel vittimismo: la fase che si stava attraversando era una fase di guerra civile, e andava affrontata con preparazione e consapevolezza politica senza farsi prendere dal panico o, peggio, senza abbandonarsi a piagnistei e manifestazioni di ravvedimento. Tutti, nemici compresi, dovevano sapere (vedi il comunicato del Comitato Esecutivo del 23 marzo, pubblicato nell’Ordine Nuovo) che “è assicurato il pieno funzionamento politico e amministrativo del partito, e ciò in qualunque attività, legalmente o illegalmente, con o senza il beneplacito del governo borghese […] e altrettanto deve dirsi per gli organi della Federazione giovanile”. La risposta del partito comunista guidato dalla Sinistra non è mai stata quella di invocare il ristabilimento di “metodi di lotta civili” e di rivendicare il rispetto delle leggi da parte di un avversario che dimostrava coi fatti di aver rotto con la legalità borghese non tanto per aver eretto ad unica regola l’azione “extra-legale” o “illegale” tout court sotto la diretta protezione dello Stato democratico, delle sue forze di polizie e dell’esercito, quanto per il fatto di utilizzare con estrema disinvoltura tutti i mezzi democratici esistenti,  a seconda delle convenienze del momento e, comunque, in contemporanea alle “spedizioni punitive” e alla serie numerosissima di atti criminali. Le ragioni di vita del partito comunista, in quanto organo della preparazione rivoluzionaria all’abbattimento della presente società con tutti i suoi “valori”, le sue “leggi”, le sue “garanzie”, non potevano essere dettate dal rispetto delle istituzioni borghesi e delle sue leggi, a partire dallo Stato, dal parlamento, dalla “contrapposizione pacifica e democratica” tra forze egualmente “legittimate” a concorrere alla guida del governo. L’obiettivo era sempre quello di spezzare lo Stato borghese con i metodi rivoluzionari, i soli in grado di attuare il compito rivoluzionario per eccellenza  della lotta politica del partito di classe, e in quanto tale non poteva dipendere da metodi e mezzi che rispondevano ai principi della democrazia borghese.

La valutazione e l’azione che il Partito comunista d’Italia, guidato dalla Sinistra, adottò fin dai suoi primi passi nei confronti del nuovo fenomeno storico del fascismo sono di basilare importanza e costituiscono un nodo vitale per l’azione del partito, allora e per il futuro, non solo a livello “italiano” ma a livello internazionale. Come ricordato sopra, e come si può approfondire nella Storia della Sinistra comunista (13), il “movimento fascista” e la sua offensiva armata si presentano e si scatenano non tanto perché l’abbattimento dello Stato borghese attraverso la rivoluzione proletaria fosse imminente, quanto perché lo Stato democratico, passato il biennio post-guerra di pericoloso avanzare della marea proletaria, aveva la possibilità oggettiva di approfittare della situazione creatasi con il riflusso delle agitazioni operaie dopo la sconfitta del movimento di “occupazione delle fabbriche” dell’autunno del 1920, per colpire alle spalle un proletariato inerme e senza guida politica, senza inquadramento “militare” adatto ad affrontare la “legale” repressione statale e le “illegali” azioni armate dei fascisti. In questa situazione di estrema debolezza del movimento operaio italiano in cui l’aveva portato il riformismo politico e sindacale e il massimalismo sparafucilista ma sostanzialmente legalitario (movimento operaio non ancora definitivamente vinto e perciò potenzialmente ancora pericoloso nel futuro prossimo), il fascismo è stato il metodo scovato dalla classe dominante borghese per colpire con la controrivoluzione preventiva un movimento operaio non domato. Le squadre fasciste venivano impiegate dalla classe dominante borghese, e sotto la protezione dello Stato democratico, non in uno scontro aperto e frontale con il proletariato organizzato; non vi è mai stato nulla di “eroico” e di “glorioso” nelle spedizioni fasciste che avevano invece il compito di colpire vigliaccamente alle spalle ed è per questa ragione che iniziarono le loro scorribande nelle province agricole del Val Padana dove i braccianti erano stati protagonisti di memorabili lotte classiste ma, per la loro oggettiva dispersione nel vasto territorio, poteva essere colpiti isolatamente. Alla repressione statale, alle spedizioni armate fasciste, il potere borghese democratico aggiunse una politica di riforme in parte realizzate – e che il fascismo successivamente riorganizzerà e amplierà in una intelligente politica sociale – che fecero da base all’azione e alla propaganda riformista delle forze opportuniste del PSI.

Il Partito comunista d’Italia, guidato dalla Sinistra, espresse con grande lucidità e determinazione la propria prospettiva di lotta: lotta contro lo Stato borghese democratico e lotta contro il movimento fascista, rifiutandosi, come è doveroso per ogni partito proletario degno di questo nome, di lottare per la legalità democratica contro l’illegalità fascista. Riconosciuta l’azione illegale delle squadre fasciste come un ulteriore mezzo della guerra di classe condotta dal potere borghese contro il proletariato, e riconosciuto il movimento fascista non come espressione di classi pre-borghesi (come teorizzato da Gramsci) ma della borghesia più sviluppata, i comunisti non persero tempo ad inseguire l’impotente politica delle riforme democratiche, ma proiettarono il massimo sforzo nella preparazione teorica, politica, pratica e anche militare degli strati più avanzati del proletariato italiano per contrastare con efficacia nel presente la reazione fascista e per allenare il proletariato alla guerra rivoluzionaria futura (14), portando nelle sedi internazionali del movimento comunista mondiale questa loro esperienza e questo fondamentale contributo (vedi, ad esempio, il Rapporto Bordiga sul fascismo al IV e al V congresso dell’Internazionale Comunista).

Un’altra considerazione è necessaria, pur non ripercorrendo passo passo in questo articolo tutti gli eventi di quegli anni cruciali, e per i quali rimandiamo, come già detto, alla Storia della Sinistra comunista. Il fascismo prenderà saldamente il potere nelle proprie mani, in Italia, nel 1924, quattro anni abbondanti dopo l’inizio delle sue azioni armate contro le sedi delle Leghe, delle Camere del Lavoro, dei sindacati, dei comuni amministrati dai socialisti, del partito socialista, degli anarchici e poi del partito comunista. Il fatto stesso che l’offensiva controrivoluzionaria abbia impiegato tanto tempo a raggiungere gli obiettivi più importanti del grande capitale – fare tabula rasa delle organizzazioni di un proletariato influenzato dal “bolscevismo” – e che per farlo abbia dovuto ricorrere alla forza dello Stato centrale; che ogni volta ci siano volute le forze di polizia e l’esercito per spianare agli squadristi fascisti la strada e per coprire loro la retroguardia e le ritirate, dimostra che, nonostante la sconfitta dell’occupazione delle fabbriche nell’autunno del 1920 e l’euforia per le “vittorie” nelle elezioni amministrative del maggio 1921 (“I proletari d’Italia hanno seppellito sotto una valanga di schede rosse la violenza fascista” gridava dalle sue colonne l’Avanti!), i proletari si batterono con grandissima decisione e spirito di lotta tanto più ammirevoli quanto più furono abbandonati dal PSI e dalla CGL, che non fecero nulla per difenderli sul piano organizzativo e militare e che, anzi, completarono la loro opera di pervicace disfattismo borghese non solo attraverso un’insistente propaganda del legalitarismo democratico, ma soprattutto attraverso un vero e proprio disarmo politico, morale e pratico di fronte ad un nemico in pieno assetto di guerra!

I proletari italiani scrissero in quegli anni pagine di autentico eroismo; la loro fu una resistenza, e talvolta una controffensiva, spontanea ma densa di sforzi organizzativi locali; pagine che la storia ufficiale, mutuata dalla controrivoluzione staliniana, non scriverà mai perché fu una storia soltanto rossa. L’assenza di un’organizzazione centralizzata con obiettivi e metodi omogenei e univoci determinò l’impossibilità del proletariato italiano di avanzare sul cammino rivoluzionario con esperienze fertili per le lotte successive; soltanto il Partito comunista d’Italia, guidato dalla Sinistra, cominciò un’opera che avrebbe dovuto essere iniziata molto tempo prima e che il massimalismo centrista, di fatto, impedì, preparando al potere borghese condizioni di estremo favore per la sua opera di repressione e di annientamento del movimento proletario in Italia. Quando il movimento proletario iniziò finalmente ad avere, in Italia, una guida decisa, solida teoricamente e tesa politicamente e praticamente alla sua preparazione rivoluzionaria, come il Partito comunista d’Italia, guidato dalla Sinistra, era purtroppo tardi. Lenin ammonisce che, quando le condizioni per sferrare l’attacco rivoluzionario al potere sono presenti, e tra queste condizioni vi è una adeguata preparazione rivoluzionaria del partito e degli strati più avanzati del proletariato, anche solo pochissimi giorni sono decisivi e che, se il partito non sa approfittarne, lo svolto rivoluzionario può essere rimandato di anni; l’esempio è dato dall’Ottobre russo 1917. In Italia, nel 1921 e negli anni successivi, era passata l’occasione storica per lo scatenamento rivoluzionario, ciò non di meno il partito comunista si doveva impegnare, e si impegnò, a svolgere fino in fondo il suo compito nella consapevolezza che il periodo storico rivoluzionario apertosi con la vittoriosa rivoluzione in Russia avrebbe potuto ripresentare una situazione favorevole alla lotta rivoluzionaria (come in effetti la ripresentò nel 1923 in Germania e nel 1926-27 in Cina e in Inghilterra, occasioni non colte soprattutto a causa delle deviazioni opportuniste che avevano cominciato a erodere le salde barriere teoriche e politiche dell’Internazionale Comunista già in quegli anni).

Gli avvenimenti di quegli anni dimostravano che il conflitto sociale non era fra “democrazia” e “antidemocrazia”, fra un metodo di governo borghese ed un metodo di governo borghese alternativo, ma fra tutta la classe borghese dominante e tutto il proletariato. La controrivoluzione, soprattutto se armata, può e deve essere combattuta e vinta solo con metodi rivoluzionari, non ci sono altre strade, e la storia lo ha tragicamente confermato. Nel 1924, in un articolo della nostra corrente, pubblicato ne “Lo Stato operaio”, n. XVII del 22 maggio, prendevamo netta posizione: “Le condizioni della lotta proletaria al principio del 1921 erano state ormai compromesse dalle insufficienze del partito socialista, tanto che non appariva possibile una offensiva rivoluzionaria da parte di un partito, come il nostro, di minoranza. Ma l’azione del partito poteva e doveva prefiggersi di ottenere la maggiore efficienza nella resistenza del proletariato alla sferrata offensiva borghese e, attraverso tale resistenza, conseguire il concentramento della forza operaia nelle migliori possibili condizioni, intorno alla bandiera del partito, il solo che possedesse un metodo capace di garantire la preparazione di una riscossa” (15). Anche la controrivoluzione è maestra, come ricordavano Marx e Lenin, e come la Sinistra comunista sottolineava in quel periodo sfavorevole all’offensiva rivoluzionaria: la controrivoluzione armata può essere combattuta e battuta solo con metodi rivoluzionari; gli altri metodi, legati alla difesa della “democrazia” e alla collaborazione bloccarda tra le classi, invece di preparare il proletariato a resistere nel tempo e a sferrare la controffensiva al momento più favorevole nelle condizioni migliori possibili, lo disarmano non solo politicamente ma anche materialmente. Il fascismo era la chiara dimostrazione che la classe dominante non aveva più la possibilità di utilizzare l’inganno democratico, ma doveva passare brutalmente alla violenza cruda e dichiaratamente antiproletaria. Era, dunque, altrettanto chiaro che la posta in gioco era: o dittatura controrivoluzionaria della borghesia, o dittatura rivoluzionaria del proletariato. Il giovane partito comunista era pronto ad accettare la sfida ma con la consapevolezza che il proletariato non poteva essere mandato allo sbaraglio senza adeguata preparazione politica e militare; perciò la parola d’ordine era di resistere ma sullo stesso terreno del violento scontro di classe, senza illusioni legalitarie e democratiche, difendendosi con gli stessi metodi del nemico di classe, con le sue stesse armi, rispondendo colpo su colpo, organizzazione contro organizzazione. Non c’era da “cambiare governo”, c’era da allenarsi all’aperta guerra di classe e in questa preparazione non poteva e non doveva mancare la lotta di resistenza quotidiana contro l’attacco capitalistico alle condizioni di vita e di lavoro delle masse proletarie. Non a caso la classe borghese dominante attaccava il proletariato sui due fronti contemporaneamente: sul fronte della repressione armata, sia legale che illegale, e sul fronte delle condizioni di lavoro e di vita proletarie peggiorandole  pesantemente sul piano dei salari, dell’intensificazione dello sforzo lavorativo, dell’allungamento della giornata di lavoro, della crescente disoccupazione. Ma su entrambi i fronti di lotta il proletariato italiano, e il partito di classe, trovavano un enorme ostacolo: l’opportunismo del PSI, delle sue correnti riformiste e massimaliste, che aveva ancora sulla maggioranza del proletariato una tenace influenza. Allora si capisce il dramma che si presentò al Partito comunista d’Italia quando dall’organo centrale dell’Internazionale Comunista venne imposta la tattica del fronte unico politico, poi svoltasi addirittura nella tattica della fusione con quel PSI da cui con tante battaglie di chiarificazione teorica, politica, programmatica, tattica e d’azione i comunisti italiani si erano finalmente scissi.

Le condizioni generali di difficile proseguimento della lotta rivoluzionaria in Europa sull’onda della vittoriosa rivoluzione bolscevica in Russia, contribuirono a rafforzare la ripresa del controllo sociale e politico da parte delle classi dominanti borghesi; non è un azzardo sostenere che l’opera sistematicamente disfattista dell’opportunismo riformista e massimalista sul proletariato in Germania, in Italia, in Ungheria, in Francia ha di fatto salvato il potere borghese in uno svolto storico che aveva dato al proletariato europeo la possibilità di abbatterlo incendiando il mondo intero in una lotta per la vita o per la morte. Perciò, assieme alla battaglia in difesa della teoria del marxismo rivoluzionario, la Sinistra comunista d’Italia si è battuta sempre contro ogni anche piccolo cedimento all’opportunismo, non solo sul piano politico generale ma, soprattutto, sul piano tattico e organizzativo poiché la storia ha insegnato che la saldezza teorica e programmatica del comunismo rivoluzionario è soprattutto da questi piani che viene corrosa e distrutta. Lo stalinismo, con la sua teoria del “socialismo in un solo paese” ne è la più fulgida dimostrazione storica.  

 

(1 – continua)

 

 

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