17 marzo 2011: in Italia una borghesia ruffiana celebra 150 anni della sua "unità nazionale"

(«il comunista»; N° 120; Aprile 2011)

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 Ci sono momenti in cui la classe borghese dominante sente il bisogno di recuperare credibilità presso il suo "popolo" che sistematicamente inganna e opprime. Le elezioni democratiche sono la cura usuale con cui la classe dominante tenta di convincere il suo "popolo" di essere lui il "sovrano", di scegliere lui la propria "guida politica", di essere "giudice" in grado di delegare all'imprenditoria capitalistica, al ceto politico, burocratico e militare dello Stato, le funzioni dell'amministrazione della cosa pubblica per il "bene del paese". Ma ci sono momenti in cui il giochino delle elezioni e della partecipazione del popolo alle grandi decisioni politiche - si tratti di elezioni politiche o di elezioni amministrative - mostra di essere particolarmente usurato e non dal tempo ma dal fatto di aver dimostrato negli anni di non essere per nulla utile al miglioramento delle condizioni di vita quotidiane e al benessere tante volte promesso alle masse chiamate al voto e mai raggiunto. Allora cade a fagiolo una data "storica" nella quale far cadere una "celebrazione" ufficiale con cui vestire di nobili e alti valori morali la normale meschinità del mercantilismo di una classe dominante indaffarata ad accaparrarsi quanta più ricchezza sociale possibile.

Così il 2011 diventa l'anno in cui celebrare un evento "storico" al quale la borghesia italiana si scopre particolarmente affezionata; affezionata non perché il 1861 sia stato l'anno in cui la rivoluzione borghese italiana - sull'esempio della rivoluzione francese del 1789 - abbia sconfitto la monarchia e girato per sempre la pagina della storia tagliando la testa al re. Il re piemontese è stato, al contrario, il veicolo attraverso il quale la borghesia italiana si accomodava al potere dopo che le milizie garibaldine, i contadini poveri e i lavoratori delle città fecero il grosso del lavoro contro gli oppressori borbonici e austriaci. Il 1861 è l'anno in cui il regno sabaudo, aiutato dai francesi napoleonici, si è allargato  mangiandosi tre quarti della penisola italiana  - in attesa che ulteriori ruffianerie presso i potenti d'Europa gli facilitassero la conquista anche del Veneto e di Roma.

Ci hanno riempito la testa con l'ideologo Mazzini, lo statista e guerraiolo Cavour,  il re piemontese Vittorio Emanuele come padri della patria, e con quello scavezzacollo di Garibaldi che oscillava continuamente tra l'azione rivoluzionaria vera e propria e la sottomissione al re comealla fine decretò il suo "obbedisco" di Teano. Dio e popolo, in un'unica repubblica: questa era la grande idea che Mazzini perseguì per tutta la vita e con la quale tentò addirittura di influenzare nel 1864 l'Associazione Internazionale dei Lavoratori. Engels ricorda in un suo testo del 1871 che Mazzini, nel suo manifesto presentato alla Prima Internazionale, era sintetizzata la classica politica borghese: "la democrazia borghese che offriva diritti politici agli operai, onde poter conservare i privilegi sociali delle classi medie e superiori" (1). E' esattamente quello che la borghesia, non solo italiana, ma di ogni paese, offre da allora al proletariato: "diritti politici" che in realtà non producono alcun cambiamento sostanziale, per conservare i propri privilegi sociali.

La scelta della data non è casuale. Il 17 marzo 1861, a Torino, il re Vittorio Emanuele II assumeva il titolo di Re d'Italia per sè stesso e per i suoi discendenti, "per volontà di Dio e della Patria". Il "Dio e Popolo" del repubblicano Mazzini è diventato "Dio e Patria" del regno sabaudo: differenza formale, ma nella sostanza non c'è nessuna rottura rivoluzionaria. Il Regno di Sardegna, annettendosi la gran parte degli Stati pre-unitari, assume il nome di Regno d'Italia. Ma perché lo Stato italiano assumesse la forma di repubblica dovranno passare altri 85 anni: dovrà passare una terza guerra d'indipendenza conquistando il Veneto, la presa militare di Roma facendola capitale d'Italia, di guerre mondiali, un ventennio fascista e giungere al referendum del 2 giugno 1946 vinto, oltretutto, con un minimo di scarto sui monarchici. L'Italia è unita, e repubblicana. La borghesia dominante italiana  gongola oggi di questa sua impresa e celebra, sui fiumi di sangue che ha fatto scorrere nelle sue guerredi rapina e che fa ancora scorrere nelle sue avventure militaresche (l'ultima è quella in Afghanistan) 150 anni di una unità nazionale che in realtà è continuamente constrastata dalle spinte federaliste e autonomiste che non hanno mai smesso di caratterizzare la storia di una borghesia che ha sempre usato il voltafaccia, rispetto ai suoi compiti storici e rispetto ai suoi alleati, come carattere distintivo.

Non è perciò strano che la borghesia repubblicana di oggi, per rintracciare nel passato atti e momenti storici di cui gloriarsi, si debba rifare ad un passato monarchico che di "glorioso" ha avuto solo ferocia,  nella colonizzazione dell'Etiopia, nel cannoneggiamento delle manifestazioni operaie del 1898, nelle fucilazioni ordinate da Cadorna dopo la rotta di Caporetto, nel sostegno e nella copertura delle bande fasciste lanciate a massacrare gli operai e contadini in lotta e, poi, nella salita al potere del partito fascista che su quei massacri si è costruito i galloni per accedere alle stanze del Quirinale. Un passato che, nonstante il lungo tempo trascorso, la classe proletaria non dimenticherà quando, ripresasi dal profondo rincoglionimento in cui è precipitata, tornerà a calpestare le strade della lotta di classe.

Il proletariato italiano, allora, avrà da celebrare una data di ben altro spessore storico: il 18 marzo 1848, "con le rivoluzioni di Milano e di Berlino - come scriverà Engels nella prefazione del 1893 alla pubblicazione in italiano del Manifesto del Partito comunista - che furono la levata di scudi delle due nazioni situate nel centro, l'una del continente europeo, l'altra del Mediterraneo; due nazioni fino allora infiacchite dalla divisione e dalle discordie intestine, e passate, per conseguenza, sotto il dominio straniero. Se l'Italia era soggetta all'imperatore d'Austria, la Germania subiva il giogo non meno effettivo, benché più indiretto, dello zar di tutte le Russie. Le conseguenze del 18 marzo 1848 liberarono Italia e Germania da cotesta vergogna; se, dal 1848 al 1871, queste due grandi nazioni furono ricostituite e, in qualche modo, rese a se stesse, ciò avvenne, come diceva Carlo Marx, perché gli uomini, che hanno abbattuta la rivoluzione del 1848, ne furono tuttavia, loro malgrado, gli esecutori testamentari" (2).

Suo malgrado, il re sabaudo fu esecutore testamentario della "rivoluzione borghese" rappresentata dallo sviluppo del capitalismo nazionale. Ma la vergogna della soggezione dell'Italia a più grandi potenze, dalla quale fu liberata grazie alla rivoluzione del 1848, dopo il 1871 parigino e il 1917 russo, tornò a caratterizzare una borghesia congenitamente ruffiana e bottegaia. Ha festeggiato i 150 anni di "unità" nelle discordie intestine di fazioni che pur di prevalere sui concorrenti sono disposte a ridividere il Nord dal Sud, se non nella forma statuale, nelle pratiche politiche ed economiche. Ha festeggiato i 150 anni di una "unità" che serve soprattutto per incassare le tasse, ripartire sulle masse proletarie i sacrifici economici e sociali, tenere alto un nazionalismo che oggi serve per mantenere la pace sociale e domani servirà per mandare in guerra i proletari che oggi sono dati per inesistenti ed invisibili.

Alla gogna il 1861, e il 2011 tricolori! come recitava un vecchio articolo di partito che ripubblichiamo qui di seguito.

 

 

Alla gogna, non sugli altari il 1861

("il programma comunista", n. 7 del 1961)

 

Quando finiranno di romperci i timpani (per usare un delicato eufemismo) con le glorie del 1861, con questa gara a chi celebra con maggior patriottismo e più fiorita retorica il centenario della “concordia nazionale”, e alle note dell’inno e al ricordo di un “prestigioso” passato si alzano insieme, dritti come soldatini di piombo di fronte all’emblema della patria, gli uomini di destra di centro e di sinistra, gli ambasciatori di occidente e di oriente, i pennivendoli dell’una e dell’altra sponda, e, sciolte le file, si abbracciano piangendo? Loro sono concordi, certo – nel pasteggiare all’unica greppia dello Stato e sulle spalle dei proletari che la riempiono.

Ma, ai proletari, che cosa dice il ’61. Non è neppure l’anno dell’unità nazionale, traguardo borghese ma, nei suoi limiti, innovatore: è l’anno – guarda un po’ come ci si crogiuola la Repubblica di un secolo dopo! – dell’ultracodina monarchia sabauda divenuta monarchia italiana solo per metà, pavidamente e con le dovute riserve, ben espresse nella vittoriosa decisione del “Padre della Patria” di conservare il titolo di Vittorio Emanuele II, il titolo di un re che ha conquistato al suo trono l’Italia, e vuole, perché ne ha la forza, amministrare il bottino al modo sperimentato dagli avi, sotto l’ombrello di militari, poliziotti e gesuiti, mentre l’imbelle borghesia italiota gli si aggrappa felice di non dover fare neppure la sua rivoluzione r di potersi alleare pacificamente col passato.

E’ l’anno che mette il suggello alla capitolazione dei “capi popolari”, docili strumenti di una monarchia usa a servirsi del coraggio e della generosità del “popolo” e a buttarli via con disprezzo come limoni spremuti non appena raggiunto l’obiettivo: l’anno in cui, sbollita la grande paura dei “rivoluzionari” in camicia rossa lasciati partire sottomano nella certezza che la flotta britannica li avrebbe tenuti d’occhio e che l’ossessione unitaria di Garibaldi e Mazzini avrebbe, al momento giusto, ceduto le armi sull’altare dello stellone sabaudo; l’anno in cui l’esercito, i funzionari al loro seguito, e i grossi borghesi alleati dei grossi nobili accorsi precipitosamente nel Sud lungo i punti di minor resistenza della penisola per raccogliere dalle mani di quelli che soli avevano rischiato la vita la metà inferiore dello stivale, poterono sentirsi finalmente in sella, loro e i transfughi borbonici affrettatisi alla greppia del nuovo padrone mentre gli illusi garibaldini, buoni l’anno precedente ed ora avanzi di galera, erano rinviati precipitosamente a casa o “concentrati” in Piemonte e Lombardia dietro il cordone sanitario dell’esercito e della polizia regi; l’anno di Mazzini in prigione, di Garibaldi rifugiatosi a Caprera prima di assaggiare le pallottole sabaude in Aspromonte e imperial-napoleoniche a Mentana, di Cattaneo che riprende da Napoli la via dell’esilio come già dopo i tradimenti regi e le prove di dabbenaggine dei “capi” popolari nel ’48 e nel ’49.

E’ l’anno del disarmo della “canaglia”, un 1945 avanti lettera: la vil plebe ha versato il proprio sangue, è ora che i “carpetbeggers” aristocratico-borghesi corrano ad incamerare i tesori del Sud “liberato”. Gloria comune di borghesi e proletari, patrimonio collettivo, questo regno nato vuoi dallo sfruttamento delle generose illusioni del “popolo”, vuoi dal ruffianesimo diplomatico giocante sugli aiuti di Napoleone III fin allora e, poco dopo, sugli immeritati appoggi di Bismark per la “liberazione” del Veneto e ancora di Bismark per la “liberazione” di Roma, questo ruffianesimo corteggiante l’Imperatore dei Francesi prima, mendicante aiuti dagli avversari militari di lui più tardi, traffichino sempre? No, gloria e patrimonio comune dei partiti della ricostruzione nazionale, della conciliazione di classe, del rispetto della costituzione, della coesistenza pacifica, queste consorterie celebranti nel ’61 l’anticipo di un presente di abbracci fra nemici di cartapesta e di trionfi di S. M. il Capitale.

I proletari possono guardare al 1848 milanese, al 1849 romano – almeno nei loro primi inizi di battaglia popolare sulle barricate, primi inizi subito repressi dall’azione congiunta dei gallonati “regi” e degli arrendevoli “capi” repubblicani, pochissimi esclusi –; possono guardare a Sapri: ma il ’61 è per essi la beffa più turpe, l’ignobile riso di scherno dei potenti, arrivati senza scosse al traguardo di un festino durato cent’anni e ansioso di ripetersi in eterno.

“Sono convinto – scriveva Pisacane prima di imbarcarsi per la spedizione nel Sud, il 24 giugno 1857 – che i rimedi necessari come il reggimento costituzionale, la Lombardia, il Piemonte ecc. ecc., ben lungi dall’avvicinare l’Italia al suo risorgimento, ne l’allontanano; per me non farei il menomo sacrifico per cangiare un Ministro [intenda chi può, ndr], per ottenere una costituzione [sentite, voi delle Botteghe Oscure?, ndr], nemmeno per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno Sardo: per me, dominio di casa Savoia o dominio di Casa d’Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all’Italia che la tirannide di Ferdinando II. Credo fermamente che se il Piemonte fosse stato retto nella guisa medesima degli altri stati italiani, la rivoluzione sarebbe fatta. Questo mio convincimento emerge dall’altro che la propaganda dell’idea è una chimera, che l’educazione del popolo è un assurdo. Le idee risultano dai fatti, non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero”. Questo era il giudizio anticipato di un proletario sul “glorioso” 1861 e sul trionfale secolo successivo: non abbiamo da cambiarvi una virgola. Sono venuti il “reggimento costituzionale”, il “regno sardo”, l’ “educazione del popolo”, quei rimedi che sono le riforme (di struttura o no), e ministeri sono caduti e risorti; il padrone è rimasto, tanto più saldo in arcioni quanto più le “resistenze popolari” abboccavano all’amo contro il quale l’eroe di Sapri aveva messo in guardia i suoi compagni di classe e di partito.

Tanto in basso sono caduti i “partiti operai” di oggi che i riformisti di cinquant’anni fa, al loro confronto, erano dei… rivoluzionari! Nel 1911, celebrandosi il cinquantenario dello stesso ’61, i socialisti italiani boicottarono le manifestazioni ufficiali facendone oggetto di un vasto attacco classista alla sozza borghesia italiana, allora come adesso in piena euforia demoliberale, allora come adesso esultante dei suoi “miracoli economici”; e non erano solo i giovani de “L’Avanguardia” a muovere questo attacco, ma perfino Turati, nella “Critica Sociale”m che chiarì bene che cinquant’anni prima gli operai avevano dovuto aiutare l’unità nazionale borghese, ma in mezzo secolo (e già allora a battaglia finita) un abisso si era scavato fra gli alleati del momento storico. L’ “Unità” ha ricordato proprio in questi giorni tale “episodio”, solo per correre precipitosamente a fare tutto l’opposto; essa, la teoria del “secondo Risorgimento” italiano antifascista ed antirivoluzionario.

Andatelo dunque a stamburare ad altri, il ’61! E’ la vostra festa, d’accordo. Per i proletari, sarà festa il giorno in cui la rivoluzione comunista confusamente presagita dai Pisacane noti e oscuri, spazzerà via anche il ricordo della beota concordia nazionale  dell’imbelle concordia fra dominati e dominanti, fra oppressi ed oppressori, che si chiama 1861!

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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