Le classi dominanti tremano davanti alle rivolte proletarie nei paesi arabi, oggi, e domani tremeranno davanti alla rivoluzione proletaria e comunista per la quale i proletari dovranno contare sul partito di classse ricostituito sulle basi storiche del marxismo rivoluzionario

(«il comunista»; N° 120; Aprile 2011) - (Supplemento a «il comunista»; N° 119; Dicembre 2010 / Gennaio 2011)

 Ritorne indice

 

 

1.    Il fatto che l’esplosione di queste rivolte, e la loro caratteristica di massa e di durata nel tempo, abbia colto di sorpresa i regimi locali e gli stessi governanti dei paesi imperialisti, soprattutto per quel che riguarda la Tunisia e l’Egitto, e poi in particolare la Libia, ha spinto i poteri borghesi locali a reprimerle con molta ferocia nel tentativo di spezzarne rapidamente la forza d’urto. Ma la repressione e la strage non hanno fermato i movimenti di rivolta e ciò può avere una sola spiegazione: la forza d’urto era rappresentata dalle masse proletarie e contadine povere spinte dalla fame e che si rendevano conto di non avere nulla da perdere (questo è lo stesso spirito con cui i proletari affrontano l’emigrazione nei barconi dei disperati che hanno per meta una costa italiana, greca o spagnola, non sapendo se moriranno nella traversata e che fine faranno se arriveranno vivi sulla costa). La spontaneità con cui hanno reagito a condizioni invivibili, non diretta da partiti, né laici né confessionali, e non indirizzata ad alimentare una chiara prospettiva alternativa al regime contro cui andavano a cozzare, ha generato il movimento pacifico che usava il numero, la massa dei manifestanti come unica arma di pressione attraverso la quale voleva ottenere, all’immediato, un cambiamento della situazione insopportabile, cambiamento individuato semplicemente nella fine del regime al potere, ben sintetizzato dagli slogan: “Bel Alì, vattene!”, “Mubarak, vattene!”. Le capitali imperialistiche d’Europa e d’America hanno atteso che la “situazione si chiarisse” (come sosteneva il ministro degli esteri italiano) per valutare sia la forza di resistenza dei governi al potere, e che fino a quel momento avevano garantito una certa stabilità nei rapporti diplomatici e di affari, sia la forza dirompente dei movimenti di rivolta verso i quali non potevano intervenire proprio per la loro caratteristica indefinita politicamente e non organizzata da partiti con cui “trattare”. In questa attesa hanno espresso una titubanza e una prudenza che sono state più l’espressione di una debolezza di visione politica piuttosto che l’espressione di un’astuzia politica; a dimostrazione del fatto che, per quanto i poteri imperialistici siano forti ed abbiano la possibilità materiale, finanziaria e militare, di strangolare qualsiasi paese se lo trovassero conveniente o necessario, essi non sono in grado di manovrare a loro piacimento i movimenti sociali che si oppongono ai poteri locali costituiti e di indirizzare i cambiamenti sempre a favore dei propri interessi. Hanno, certo, la possibilità di recuperare il controllo della situazione, ripristinando rapporti ed accordi col nuovo personale politico che sostituirà quello decaduto, fin quando i movimenti sociali di rivolta non saranno indirizzati sul solco della lotta di classe e non si caratterizzeranno come movimenti proletari di classe e rivoluzionari.

2.    Il proletariato dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente di cui stiamo parlando, in effetti, pur giovane e combattivo, nella sua tradizione non ha radicata la lotta di classe, la lotta a difesa esclusiva degli interessi di classe, la lotta per la rivoluzione proletaria, come ad esempio il proletariato europeo. Quel proletariato ha nella sua tradizione la lotta anticoloniale, la rivoluzione nazionale borghese, la lotta contro l’oppressione nazionale; ha quindi assorbito, insieme alla consapevolezza che la lotta contro il potere costituito contiene la violenza delle armi, anche le illusioni secondo cui le armi devono servire solo per ottenere “più civiltà”, “più democrazia”, “più libertà”, “più mercato”, insomma più capitalismo, più borghesia.

E quando questo giovane proletariato ha iniziato a porsi il problema dell’organizzazione operaia, anche solo sindacalmente, a parte la parentesi molto breve degli anni del primo dopoguerra e dei primi anni dell’Internazionale Comunista, ha trovato sulla sua strada le forze dell’opportunismo stalinista che ne hanno deviato il corso di sviluppo verso il social-collaborazionismo e verso il nazional-populismo, tagliando di netto la possibilità al primo germogliare della lotta di classe di svilupparsi sullo stesso solco segnato dal movimento comunista rivoluzionario. Il proletariato europeo, da parte sua, pur avendo radicata nella sua tradizione storica la lotta di classe e rivoluzionaria, non solo ha assorbito molto prima dei proletari dei paesi della periferia imperialistica – anche per mezzo delle sconfitte e dell’influenza dell’opportunismo – le illusioni della democrazia e della civiltà borghese, ma subisce il fatto che queste illusioni si poggiano su basi materiali più solide, create appositamente dalla classe dominante borghese, sintetizzabili nelle condizioni salariali e di vita molto più alte di quelle riservate ai proletari dei paesi di giovane e scarsamente sviluppato capitalismo. I proletari dei paesi della periferia dell’imperialismo non godono dei privilegi di cui hanno goduto, e in parte godono ancora – soprattutto i ceti dell’aristocrazia operaia –, i proletari dei paesi imperialisti; anzi, questi ultimi devono quei “privilegi” al bestiale sfruttamento del proletariato dei paesi più deboli da parte dei capitalismi più forti, del cui sfruttamento i proletari dei paesi capitalisti più forti – non opponendosi con la lotta di classe – si sono resi e si rendono oggettivamente complici.

3.    Un altro aspetto che caratterizza la situazione dei proletariati di questi paesi, come di tutti i paesi a capitalismo poco sviluppato, è dato dalla forte spinta all’emigrazione. In un grande continente come l’Africa, a causa delle guerre, delle carestie, della miseria, l’emigrazione maggiore avviene ovviamente tra gli stessi paesi africani; ma quel che preoccupa i paesi imperialisti - e in questo caso soprattutto l’Italia, ma probabilmente anche la Spagna, rispetto alle conseguenze delle sommosse, e del caos che ne è seguito, in Tunisia, Egitto e Libia, e che possono ancora estendersi al Marocco e al Medio Oriente - sono i flussi migratori incontrollati e concentrati in poco tempo di centinaia di migliaia di profughi e di migranti in cerca di lavoro. Queste masse, tendenzialmente disposte a tutto pur di trovare un modo di sopravvivere e di aiutare le proprie famiglie, costituiscono per le borghesie europee un grosso problema sociale, problema che, se non esiste una forte tradizione di oppressione imperialistica e di abitudine politica nell’amministrare questi flussi – come in Inghilterra, in Francia e anche in Germania – provoca allarme per una temuta instabilità politica: l’Italia ne è un esempio. Nonostante la presenza e l’attività “umanitaria” della chiesa nei confronti degli immigrati, e dei “clandestini”, per attenuare le conseguenze della brutale repressione cui sono sottoposti tutti gli immigrati che cadono nelle mani delle polizie italiane, la borghesia dominante italiana continua a manifestare, insieme ad un profondo sentimento razzista, sia in termini di legge che in termini pratici, il tipico atteggiamento del mercante di schiavi: l’immigrato è “accettato”, sempre come schiavo, solo se è buono, forte, resistente ai lavori massacranti, non ha pretese, non si organizza, si piega a qualsiasi condizione disumana di vita e di lavoro, sopporta ogni tipo di vessazione e di sopruso,  non si ribella. Il mito dell’Italia, brava gente è un mito piccoloborghese, falso come solo la piccola borghesia mercantile sa essere.

4.    Le richieste di riforme politiche e sociali che hanno accompagnato questi movimenti di rivolta hanno inevitabilmente il contenuto, e le forme, della democrazia borghese. Solo che, nell’epoca imperialistica che stiamo attraversando, la democrazia borghese ha perso completamente le sue caratteristiche liberali di fine Ottocento/primi Novecento. E se le ha perse nei paesi imperialisti dominanti sul mondo, non le potrà certo ripristinare nei paesi dominati dall’ imperialismo. Questo significa, in poche parole, che le “aperture democratiche” che con ogni probabilità ci saranno dopo la caduta di un Ben Alì, un Mubarak, o un Gheddafi, avranno il sapore di una formalità inefficace, e nello stesso tempo costosa, che i capitalismi nazionali non si possono permettere nonostante le risorse petrolifere e minerarie di cui sono in possesso. E di quelle “aperture democratiche” i proletari potranno usufruire solo in minimissima parte – parliamo di libertà di organizzazione sindacale e politica all’esterno degli apparati controllati dal potere centrale, o di libertà di stampa, di riunione, di sciopero – tutte “libertà” che nasceranno, se nasceranno, già con le ali tarpate, sottoposte a vincoli burocratici di ogni genere e per le quali i proletari dovranno continuare a lottare duramente per avere il “diritto” di esercitarle. Quando parliamo di illusioni piccoloborghesi, diciamo appunto questo: che certe “libertà” vengono promesse ai proletari solo a fronte di una dura e violenta lotta per ottenerle e solo verbalmente perché l’impianto legislativo e burocratico sarà tale da svuotarne l’efficacia. Ciò non toglie che i proletari debbano lottare per ottenerle perché fanno parte delle conquiste elementari di scioperare, manifestare, riunirsi, stampare i propri giornali; ma questa lotta sarà tanto più efficace quanto più sarà inserita nel solco della lotta più decisiva, la lotta di classe in difesa delle condizioni proletarie generali di vita e di lavoro. E’ d’altra parte importante anche per il partito comunista rivoluzionario, per la sua attività di propaganda nei confronti delle masse proletarie, e della società in generale, poter utilizzare le “libertà” di cui abbiamo ora parlato, poiché è interesse del partito rivoluzionario che la sua voce e la sua parola abbiano la più ampia diffusione possibile facilitando, in questo modo, una prima fase di contatto con masse proletarie non abituate alla vita pubblica politica. In questi casi siamo nel campo della vita politica immediata, nel campo in cui il proletariato strappa con la sua lotta ai poteri borghesi centrali la possibilità di organizzare le proprie forze (nei comitati, nelle associazioni, nei sindacati, nei partiti) per difendere meglio e con un orizzonte più vasto i propri interessi immediati. Se i proletariati non imparano a lottare sul terreno immediato per i propri interessi, non impareranno mai a lottare per obiettivi politici molto più generali e decisivi come quelli rivoluzionari. Tutto questo non va inteso, ovviamente, come un appello a lottare “per la democrazia” e “contro la dittatura”; non siamo nel campo dei principi che per noi rimangono invariati: rivoluzione proletaria, abbattimento violento del potere politico borghese, distruzione dello Stato borghese e sua sostituzione con lo Stato proletario, instaurazione della dittatura proletaria esercitata dal solo partito comunista, guerra di classe contro la borghesia sconfitta e tutte le borghesie sue alleate. Va inteso come un sostegno alla lotta proletaria sul terreno immediato sia a carattere economico e sociale che politico, nella prospettiva della lotta di classe. In questa prospettiva è il partito rivoluzionario che lotta contro la democrazia borghese e i suoi meccanismi politici di gestione sociale perché corrompe, e inganna, le masse proletarie rispetto alla soluzione delle contraddizioni sociali e dell’oppressione di classe che subiscono. Sul terreno politico generale e delle prospettive storiche il proletariato può essere influenzato dal partito non solo in situazioni storiche favorevoli alla lotta rivoluzionaria, ma soltanto nei suoi reparti più avanzati, grazie ai quali riuscirà ad estendere la propria influenza sulle grandi masse. Ma il partito rivoluzionario sa che sul terreno immediato, sul terreno della lotta economica e sociale di difesa immediata, le masse proletarie si esprimono, e si organizzano, con i mezzi e i metodi che la classe borghese offre ai proletari al fine di aggiogarli meglio al carro degli interessi borghesi e al fine di convogliare la loro spinta materiale a lottare contro l’oppressione sociale esercitata dalla classe dominante nell’ambito di un controllo sociale in cui la “libera espressione”, la “libera organizzazione degli interessi immediati”, la “libera manifestazione di protesta e di sciopero” abbiano espressione che non scalfisca la struttura economica della società. Sarà infatti la lotta reale del movimento proletario e i ripetuti scontri tra classi che materialmente e oggettivamente lottano per interessi sociali antagonisti, a convincere le masse proletarie che la democrazia borghese, e quindi i suoi metodi e mezzi e i suoi apparati, servono esclusivamente a difendere gli interessi borghesi contro gli interessi proletari. Il partito rivoluzionario potrà ampliare la sua influenza sul proletariato grazie a questo sviluppo materiale della lotta operaia che unirà il suo spontaneo e duro antagonismo sociale con la prospettiva rivoluzionaria nella quale ogni antagonismo sociale verrà abbattuto e superato.

5.    Nella presa di posizione di partito su questi movimenti abbiamo scritto che si sta girando una pagina di storia. In che senso? Nel senso che l’ondata di rivolta che sta scuotendo tutto il mondo arabo e mediorientale ha potenzialità che possono travalicare i confini dei paesi direttamente interessati e contagiare anche strati proletari dei vecchi paesi imperialisti europei dove esiste da tempo un’emigrazione da quegli stessi paesi che si sta ingrossando a causa della crisi in cui sono precipitati in questi mesi. Le grandi preoccupazioni che gli Stati d’Europa e l’Unione Europea stanno esprimendo nei confronti delle conseguenze di queste rivolte e, soprattutto, della rivolta armata in Libia, non riguardano soltanto il problema del prezzo del petrolio, del controllo dei pozzi petroliferi e la difesa degli affari da tempo avviati con i poteri che sono caduti e che stanno cadendo, ma riguardano il tema della fortissima emigrazione, in tempi brevi, di masse proletarie che non hanno nulla da perdere e che sono pronte al sacrificio estremo della vita non a favore di una guerra borghese di rapina, ma semplicemente per sopravvivere sottraendosi al tallone di ferro dei regimi che per decenni le hanno oppresse nel modo più bestiale. Perciò le classi dominanti dei paesi imperialisti, e non solo europei, hanno preferito per tanti anni mantenere buoni rapporti con questi raìs, sostenendoli, difendendoli, legittimando la loro presenza nelle sedi internazionali e sostenendo il loro ruolo non solo di gestori di risorse minerarie vitali per l’economia capitalistica ma anche di controllori dei flussi migratori di masse affamate che premevano inesorabilmente alle porte dei paesi ricchi. La caduta di questi raìs fa vacillare anche il potere dei re, degli emiri e degli sceicchi che governano i paesi del Golfo Persico gonfi di petrolio e di gas naturale, zona strategica di primaria importanza per tutti i paesi imperialisti del mondo e perciò al centro di un’area di fortissimi contrasti interimperialistici. Movimenti di rivolta come quelli cui stiamo assistendo hanno obiettivamente una portata che va al di là delle richieste riformatrici che hanno caratterizzato i loro obiettivi, perché fondano la loro forza d’urto sulle profonde esigenze di sopravvivenza materiale che hanno a che fare con la struttura economica della società capitalistica e con le sue crisi sempre più devastanti.

Questi non hanno la stessa forza che avevano negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso i movimenti anticoloniali e le rivoluzioni che hanno cacciato i vecchi colonialisti francesi, inglesi, belgi, portoghesi (quelli italiani e tedeschi, avendo perso la guerra avevano già perduto anche le colonie). Allora, i movimenti rivoluzionari nazional-borghesi armati avevano dato davvero uno scossone potente alla stabilità politica dei paesi imperialisti colonialisti europei, di cui un proletariato non soggiogato dall’opportunismo stalinista e maoista avrebbe potuto approfittare rilanciando la sua lotta di classe nelle metropoli imperialiste. Ora non siamo allo stesso livello; ma la situazione internazionale di crisi economica e di sviluppo dei contrasti interimperialistici risveglia inevitabilmente, oggi nelle masse dei paesi della periferia imperialistica, domani negli stessi paesi imperialisti, una lotta più elementare, cruda, per la semplice sopravvivenza, base oggettiva della lotta di classe.

6.    Il partito ha quindi una ragione in più, al di là delle sue minuscole forze attuali, per continuare la sua attività di riproposizione dei cardini teorici e programmatici del marxismo, e di critica non solo della società capitalistica e della sua ideologia variamente rappresentata, ma anche e soprattutto delle posizioni falsamente comuniste e rivoluzionarie che in questi ultimi anni si stanno presentando di nuovo sulla scena attraverso iniziative di gruppi politici che pretendono di ricostituire il partito di classe riutilizzando vecchie attitudini opportuniste riguardo i tentativi di aggiornare, ammodernare, innovare il marxismo, il programma politico del partito e, soprattutto, la sua tattica e i suoi criteri organizzativi. Il nostro compito legato alla propaganda e al proselitismo, perciò, non diminuisce ma si carica della necessità di una più ferma e intransigente difesa del marxismo e del bilancio politico che solo la corrente della sinistra comunista ha tratto dalle esperienze storiche delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, ritracciando il solco nel quale soltanto può essere ricostituito il partito formale.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice