A proposito di Medio Oriente e Maghreb

VALUTAZIONI SBAGLIATE DA PREMESSE SBAGLIATE

(«il comunista»; N° 121; luglio 2011)

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Alla complicata e ostica questione del Medio Oriente (1) il nostro partito ha sempre dedicato molta attenzione, con studi e analisi che non sempre si sono rivelate corrette e marxisticamente coerenti.

Per l’incidenza che quest’area ha sui rapporti interimperialistici e sull’economia mondiale, tutto ciò che avviene nel Medio Oriente a livello sociale e politico, oltre che economico, assume immediatamente importanza internazionale.

Il Medio Oriente, dal declino e dal definitivo crollo dell’Impero Ottomano con la prima guerra mondiale, si era già rivelato un’area turbolenta a causa dell’acutizzarsi delle rivalità imperialiste; l’importanza della regione è data, d’altronde, dalla sua stessa posizione geopolitica per il fatto di essere il fianco sud-est degli imperialisti europei e di costituire un’importante via commerciale con l’Oriente attraverso il canale di Suez e il Golfo Persico. La sua importanza non poteva che accrescersi per il fatto che in molti paesi dell’area sono state scoperte notevoli riserve petrolifere. Le spartizioni della vasta regione tra le potenze imperialiste vincitrici della prima guerra mondiale, e della seconda, ha dato vita alla costituzione di regni, emirati, sceiccati e Stati indipendenti, che, in generale, non hanno rappresentato una soluzione che poteva avvenire (ma non è avvenuta) solo attraverso un corso storico sì borghese ma rivoluzionario. L’impianto del capitalismo, condizionato come è stato dagli interessi specifici, ma contrastanti, degli imperialisti europei – e successivamente da quelli degli Stati Uniti e della Russia, cui oggi si sono aggiunti quelli della Cina –, se da un lato ha distrutto nella vasta area il modo di produzione prevalentemente pre-industriale, ha, dall’altro, aumentato la forbice tra uno sviluppo forsennato nei settori di maggior interesse imperialistico (porti, vie di comunicazione, industria estrattiva ecc.) e un sottosviluppo reale in campo agricolo e industriale, oltre che sociale e politico, sottosviluppo nel quale hanno trovato e ancor oggi trovano forza e radici i residui dell’organizzazione sociale di tipo tribale. 

Nel periodo apertosi con la seconda guerra mondiale e il suo dopoguerra, le contraddizioni accumulatesi nei paesi arabi spinsero le giovani borghesie locali a coalizzarsi con le variegate forme di potere residue dal periodo precapitalistico (re, emiri, califfi, sceicchi ecc.), tuttora presenti nell’area, per accaparrarsi fette di potere nazionali all’interno dei forzati rapporti con le potenze imperialiste. Solo da queste ultime potevano giungere i capitali necessari ad uno sviluppo economico a largo raggio, e più si sviluppava il capitalismo nei diversi paesi, più aumentavano le contraddizioni interne in ciascun paese dell’area e più aumentavano i contrasti con le potenze imperialiste della cui pressione e della cui rivalità essi subivano tutte le conseguenze. E’ in questo quadro che alcuni paesi – chi attraverso la lotta politica per l’indipendenza nazionale, come ad esempio l’Egitto, chi attraverso la rivoluzione anticolonialista, come l’Algeria – hanno tentato una strada di sviluppo autonoma, cercando di avviare un corso politico ed economico indipendente; ma è la borghesia che rappresenta il capitale e i suoi interessi nazionali, non viceversa, perciò, al di là dei tentativi di indipendenza economica e politica dalle potenze imperialiste, volenti o nolenti le classi borghesi al potere al Cairo o ad Algeri, a Tunisi, a Teheran o a Damasco, a Riyadh o a Tripoli, è con le potenze imperialiste che devono trattare. Più sviluppo economico capitalistico significa, in sostanza, più sottomissione al capitalismo mondiale, ma significa anche trasformare masse di contadini in proletari, aumentando le contraddizioni sociali che inevitabilmente, oltre un certo limite, fanno esplodere tensioni sociali che non possono più essere dominate. Le rivolte nei paesi arabi di questi mesi trovano le loro cause profonde proprio in quelle contraddizioni e in quelle tensioni sociali, e la loro forza esplosiva la si può misurare non solo per la durata dei movimenti di rivolta, e la loro estensione, ma per il fatto di aver fatto crollare regimi che dominavano da tre o quattro decenni, come è stato finora il caso della Tunisia e dell’Egitto.

Alcuni paesi mediorientali, per il proprio sviluppo economico, hanno potuto contare sul petrolio, ricchezza nascosta nelle viscere di molti deserti dell’area. Il petrolio è stato ed è, nello stesso tempo, la fortuna e la sfortuna delle borghesie dei paesi petroliferi. “Fortuna”, perché il mercato mondiale ha continuamente bisogno di energia, e il petrolio sotto il capitalismo è diventato  fondamentale per produrre energia. “Sfortuna”, perché per estrarlo, raffinarlo, commercializzarlo ci vogliono tecnologie, impianti e mezzi di comunicazione che solo i paesi industrializzati possiedono. La rendita petrolifera poteva e può essere altissima, ma la coltivazione dei campi petroliferi dipende dalla produzione e dalla commercializzazione del petrolio: nel capitalismo è la legge del valore che domina, e chi ha in mano il capitale, vince. E questo fatto è più che sufficiente per aumentare la concorrenza tra gli stessi paesi produttori di petrolio e tra le potenze imperialistiche, acutizzando le contraddizioni sociali negli stessi paesi arabi.

Ma nell’area vi è un ulteriore fattore di tensione, rappresentato da Israele. Nella spartizione delle aree di influenza diretta da parte delle potenze imperialiste europee, Gran Bretagna e Francia in special modo, non raggiungendo una soluzione definitiva (e la tracciatura di confini labili tra un paese e l’altro ne è una dimostrazione), avevano interesse a far svolgere, per proprio conto, il ruolo di “gendarme sul posto” ad un paese dell’area , ad un paese che non fosse straniero e che non dovesse essere presente con un’occupazione militare come nella storia coloniale precedente. La “soluzione” che trovarono gli imperialisti vincitori della seconda guerra mondiale – europei, americano e russo – fu la creazione dello Stato di Israele. Si trattò di impiantare, nei luoghi abitati fin dall’antichità dagli ebrei, una colonia ebrea di provenienza europea incastonata nel mondo arabo che gli imperialisti temevano diventasse incontrollabile: Israele nasce come avamposto coloniale dell’imperialismo in una regione che nessuna potenza imperialistica era riuscita a dominare direttamente e che, perciò, costituendo una specie di “ventre molle” della spartizione imperialista mondiale, spingeva tutte le potenze imperialiste, nonostante l’esistenza di una forte rivalità fra di loro, a condividere la necessità di avere nel seno del mondo arabo un gendarme al loro servizio. Se poi si considera un altro aspetto del “problema ebraico”, va notato che ciò che il nazismo hitleriano tentò di fare (“risolvere il problema ebraico in Europa”) attraverso le deportazioni nei campi di concentramento e di sterminio, riuscì invece alle potenze dell’imperialismo democratico attraverso una sorta di pulizia etnica: dai paesi d’Europa partirono “volontariamente” (come in una specie di auto-deportazione) milioni di ebrei per raggiungere la loro …terra promessa, la Palestina. Nel 1948, l’iniziale colonia ebraica, raggiunto il numero di qualche milione di persone, si costituisce in Stato, ovviamente sulla terra araba, comprata o sottratta con la forza delle armi.

Lo Stato di Israele non è il risultato di una rivoluzione nazionale borghese, non è il risultato di una rivoluzione che ha unito la borghesia araba di religione musulmana e la borghesia ebrea di religione ebraica per abbattere un potere feudale o di dispotismo asiatico che le opprimeva entrambe. E’ nato per decisione di un accordo tra le potenze imperialiste vincitrici della seconda guerra mondiale; perciò l’abbiamo sempre considerato uno Stato-gendarme al servizio dell’ordine imperialistico mondiale con funzioni specifiche di controllo e di deterrenza rispetto agli Stati arabi. Ma questo fatto non lo metteva al riparo dalle conseguenze dei contrasti interimperialistici. C’è stato il periodo di influenza franco-britannica in cui dimostrò il suo ruolo di gendarme anti-arabo in occasione della nazionalizzazione del Canale di Suez da parte dell’Egitto di Nasser, c’è stato il tentativo da parte dell’URSS di sottrarlo all’influenza franco-britannica, ma fallito perché l’URSS sosteneva l’Egitto e non poteva promettere a Israele, che ha sempre avuto fame di terra, territori egiziani; c’è stato il periodo in cui l’influenza franco-britannica viene scalzata dagli Usa che diventano i patrocinatori, e i finanziatori, di Israele a tal punto da condurre Israele ed Egitto a sottoscrivere accordi di pace e, soprattutto, il riconoscimento dello Stato di Israele da parte dell’Egitto. Da questo riconoscimento si avvia un cambiamento importante dei rapporti interimperialistici nella regione: l’URSS perde peso rispetto agli USA che possono intervenire in ogni paese con capitali e forza militare, mentre Israele inizia a cambiare ruolo nella regione: non più solo “gendarme” per conto dell’imperialismo europeo e americano, ma perseguimento più autonomo delle proprie mire di potenza regionale. Naturalmente non si può dimenticare che senza il cospicuo sostegno finanziario, e politico/diplomatico, di Washington, Israele avrebbe un peso molto ridimensionato nell’area nonostante il suo avanzato livello industriale e tecnico negli armamenti, nell’informatica e nell’agricoltura; ciò non toglie che gli interessi specifici della borghesia israeliana vadano a scontrasi con quelli dei suoi più stretti alleati, come d’altra parte succede sempre tra briganti.  

 

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Il nostro partito, come sa chi ci segue da tempo, tra il luglio e l’ottobre del 1982, è andato incontro ad una crisi particolarmente grave che lo mandò in frantumi. Quella crisi, in verità, non esplose all’improvviso; era stata annunciata da altre crisi che avevano aggredito il partito già dal 1979 su varie questioni, come quella della tattica nei confronti delle lotte immediate e degli organismi di lotta proletari indipendenti dal collaborazionismo tricolore, o quella nota storicamente come “nazionale e coloniale”.

Noi ne uscimmo molto ridimensionati, ma politicamente rafforzati grazie ad un tenace e insistente lavoro di bilancio sulla base del quale ci riorganizzammo a livello internazionale. Quella crisi, però, creò un’enorme confusione (2). Diversi gruppi si organizzarono su posizioni differenti o anti-partito; alcuni di essi continuarono a definirsi “partito comunista internazionale”, come ad esempio il nuovo “programma comunista”, ma in generale essi erano uniti da un denominatore comune: assenza totale di un serio e profondo lavoro di bilancio delle crisi del partito. Il gruppo di ex-compagni che si impossessò per via giudiziaria della testata “il programma comunista” teorizzò addirittura che era dannoso fare il bilancio delle crisi di partito, sostenendo che il bilancio si sarebbe potuto fare solo a distanza di vent’anni e oltre. In effetti, stanno per passare trent’anni da quella crisi, e un serio bilancio questo gruppo non l’ha mai fatto. Naturalmente, di per sé “fare il bilancio delle crisi del partito” non vuol dire superare gli errori fatti e riprendere le posizioni corrette; va dimostrato che gli errori sono stati individuati, analizzati, collegati a posizioni teoriche e d’impostazione politica sbagliate e superati attraverso la definizione di una corretta impostazione politica e di un corretto orientamento tattico. Noi abbiamo proceduto su questa strada e siamo certi di aver applicato il giusto metodo che la Sinistra comunista d’Italia, cui ci ricolleghiamo, ha sempre applicato partendo dal principio che un errore tattico o di prassi riporta sempre ad un errore teorico. Perciò, il solo fatto di negare la necessità di un bilancio delle crisi del partito è posizione sbagliata e non dà a nessuno dei pretesi “eredi”, della Sinistra comunista d’Italia, alcun diritto di rivendicare continuità teorica, politica e organizzativa col partito di ieri

Nel n. 3 di quest’anno, in effetti, il nuovo “programma comunista” pubblica un articolo dal titolo: “Medioriente e Maghreb. Le forze proletarie hanno solo seminato la guerra di classe”. Per apparire con una lunga tradizione alle spalle, e per mostrare una continuità con il partito di ieri, questo giornale apre citando un articolo pubblicato trent’anni fa dal titolo: “Dal Libano al Golfo Persico si annuncia una storica svolta: dalle lotte per obiettivi borghesi e democratici alla lotta di classe proletaria” (3). Va detto subito che in questo articolo sono contenute valutazioni che non condividiamo oggi come non condividevamo allora. Ricordiamo – cosa che il nuovo “programma comunista” tace da sempre sulla crisi che ha distrutto il partito di ieri e sulle posizioni sbagliate che il partito aveva preso – che il detonatore della crisi del 1982, come avevamo affermato già allora, è stata la “questione palestinese” o, per meglio dire, la questione “mediorientale” di cui la questione palestinese rappresentava la cuspide. Va detto che il nuovo “programma comunista” tace sulla crisi del partito e nasconde ai suoi lettori il fatto che proprio questo articolo ha giocato un ruolo negativo importante nella crisi del 1982.; e non si trattava solo di un articolo, in verità, ma di posizioni e valutazioni contrastanti che emersero in diversi articoli pubblicati nella stampa internazionale di partito, nel periodico per i paesi arabi intitolato “el oumami” piuttosto che nei giornali “il programma comunista” e “le prolétaire” (4).

L’articolo del “programma comunista” del 1982, inizia citando un brano dell’esiliato Trotsky del 1929, in cui egli dichiara la propria diffidenza nei confronti della democrazia per il fatto che tutti i paesi democratici avevano rifiutato di concedergli il diritto d’asilo, concludendo con una domanda: “Perché dovrei credere che un problema infinitamente più importante, come la lotta tra chi possiede e chi non possiede, possa essere risolto secondo le forme e i riti della democrazia?” (5). Questa citazione, secondo l’autore, serviva per sottolineare quel che per Trotsky era una conferma (la democrazia borghese che afferma il “diritto d’asilo” è cinicamente menzognera perché nove volte su dieci nega questo diritto ai richiedenti asilo) e che invece per i profughi palestinesi, cacciati da Beirut e dal Libano, doveva essere un “duro insegnamento” poiché i paesi cosiddetti fratelli della “famiglia araba”, in realtà, “dopo tanto vociare sulla necessaria distruzione di Israele” si rifiutavano di “muovere anche soltanto un dito in loro aiuto”. I palestinesi che si battevano armi in pugno credevano nella democrazia sotto forma dei diritti sovrani del popoli e del mito della nazione araba, ma in quanto “sbandati in armi” e portatori di “destabilizzazione politica e sociale”, dopo l’invasione israeliana del Libano e il bombardamento di Beirut, sconfitti ma non domati, non li voleva accogliere nessuno. Secondo l’articolo di allora, “questa realtà tragica segna nello stesso tempo una storica svolta nel lungo dramma dell’area medio-orientale. Assai più dell’isolamento in cui le masse palestinesi sono state lasciate durante l’invasione israeliana del Libano, il rifiuto di accogliere i combattenti in uno qualsiasi dei paesi arabi, parallelo al rifiuto non solo del governo libanese e dei falangisti, ma della sinistra socialisteggiante di Jumblatt, di continuare più a lungo ad ‘ospitarli’, sposta tutti i termini di una questione che all’origine era soltanto o prevalentemente nazionale: il problema non è più quello dei rapporti di una ‘etnia’ con lo Stato di Israele; è quello dei rapporti di una massa sradicata e diseredata con tutti gli Stati della regione e con le borghesie alle quali essi appartengono, anche se il nodo di tali rapporti non potrebbe mai essere sciolto definitivamente se rimanesse in piedi lo Stato più potente, agguerrito, aggressivo e direttamente puntellato dall’imperialismo yankee – appunto quello israeliano”. Qui si comincia ad accennare ad  una prospettiva storica diversa dal precedente periodo, in cui tacitamente veniva ammessa la validità della questione “nazionale” palestinese – e perciò la rivendicazione dell’autodeterminazione del popolo palestinese – sebbene venisse giustamente avanzata secondo la classica posizione di Lenin e dell’Internazionale Comunista che pretendeva l’assoluta indipendenza politica e organizzativa del proletariato rispetto alle altre classi sociali. Subito dopo, infatti, nell’articolo del 1982 ripreso dal nuovo “programma comunista”, si afferma: “E’ l’èra delle grandi guerre di classe per la distruzione di ogni Stato borghese, quella cui annunciano l’alba nel Medio Oriente – per una delle tante ironie della dialettica storica – coloro che erano stati i portavoce di interessi, diritti e ideologie nazionali. Salutiamone l’avvento!”.

Dunque, secondo quanto ora affermato, la sconfitta dei combattenti palestinesi in Libano e la loro dispersione in paesi che non li volevano, aprivano oggettivamente una svolta storica, l’èra delle grandi guerre di classe per la distruzione di ogni Stato borghese! Non era la prima volta che i palestinesi venivano sconfitti, massacrati, maciullati, cacciati dalla loro terra e da ogni paese in cui tentavano di stabilirsi; basta ricordare il Settembre nero giordano del 1970,  il massacro di Tall-el Zaâtar siriano-libanese del 1976, oltre agli innumerevoli episodi di Palestina. Che cosa differiva stavolta rispetto alle situazioni precedenti? Esistevano forse organizzazioni indipendenti di classe del proletariato palestinese, o del proletariato di altri paesi in cui i palestinesi potevano organizzarsi? Esisteva forse un partito comunista rivoluzionario, agente nel Medio Oriente, con una certa influenza sulle organizzazioni proletarie palestinesi o di altri paesi? Esistevano organizzazioni di classe del proletariato israeliano e un partito di classe che avesse la possibilità di influenzarle ? Nulla di tutto ciò. Le uniche organizzazioni esistenti, sia di tipo sindacale che di tipo politico, erano in mano alla borghesia, vuoi “socialisteggiante” vuoi reazionaria o alle forze opportuniste legate a Mosca che certo non rappresentava più, dal 1926, il centro internazionale della rivoluzione comunista! Dunque? Chi erano i “portavoce di interessi, diritti e ideologie nazionali” che avrebbero dovuto annunciare “l’alba nel Medio Oriente”, l’apertura dell’”èra delle grandi guerre di classe per la distruzione di ogni Stato borghese”? Le uniche organizzazioni palestinesi combattenti esistenti erano quelle affiliate all’Olp o a qualche altra organizzazione borghese: ci si attendeva quindi da queste, o dalle loro “ali sinistre”, lo scatenamento della guerra di classe? O si pensava che la guerra di classe per la distruzione di ogni Stato borghese potesse essere scatenata dalla cruda spontaneità delle masse, senza organizzazione, senza guida, senza partito di classe che le orientasse e ne prendesse la testa?

Dunque, la svolta nel Medio Oriente in che cosa consisteva? In nulla che si potesse ritenere come un passo avanti fatto nella ripresa della lotta di classe, meno che mai nella ripresa della lotta rivoluzionaria. In realtà, in questo articolo, la prospettiva della distruzione degli Stati borghesi – posta in modo del tutto errato, ma è certo che la rivoluzione proletaria ha per obiettivo la conquista del potere politico che prevede non l’utilizzo ma la distruzione dello Stato borghese – è accompagnata da un forte desiderio che si apra finalmente l’èra delle grandi guerre di classe, che sono poi le rivoluzioni proletarie; è tale l’illusione che movimenti sociali e proletari, ma non di classe, siano sufficienti per aprire effettivamente il periodo rivoluzionario tanto atteso, che si crede di poter attendersi la maturazione dei fattori favorevoli alla rivoluzione proletaria semplicemente dall’aumento quantitativo delle spontanee reazioni delle masse ai continui peggioramenti che subiscono e contro i violenti e ciclici massacri cui vengono sottoposte. La storia dei quasi novant’anni di controrivoluzione che ci separano dall’ultimo periodo storico favorevole alla rivoluzione proletaria mondiale ci dimostra che le classi dominanti borghesi hanno imparato esse stesse, dalle loro sconfitte, ad utilizzare contemporaneamente, in particolare contro il proletariato – che è l’unica classe sociale da cui si possono aspettare il vero pericolo mortale per il loro potere e la loro sopravvivenza – tutti i mezzi e i metodi di corruzione e di divisione possibili, tra i quali certamente primeggiano i mezzi e i metodi democratici, ma sempre più mescolati con le credenze religiose di varia provenienza e con la violenza repressiva di eserciti e polizie.

L’articolo del 1982 continua con dei brani, riportati anche dal nuovo “programma comunista”, con i quali si cerca di dimostrare che la “svolta” non riguarda solo la questione ideologica nazionale ma riguarda anche aspetti molto più ampi, e dice: “Ma la svolta nel Medio Oriente non finisce qui. Dissolto come neve al sole il mito del panarabismo, sta per dissolversi come neve al sole il mito del panislamismo. La guerra fra Iran e Irak sta causando infinitamente più morti e distruzioni, è più implacabile e feroce della fulminea invasione israeliana del Libano (…) ed è una guerra che attinge il lubrificante ideologico indispensabile ad ogni carneficina, oltre che nel nazionalismo, in una fede religiosa tuttavia comune ai due belligeranti e soprattutto in una delle parti spinta agli estremi del fanatismo”. Da questa constatazione, l’articolo rinnova, sotto forma di domanda retorica, la considerazione che le masse “impoverite, bombardate, disperse, maciullate sui fronti di questo ennesimo conflitto interstatalenon potranno non trarre la lezione cheideologie nazionali e ideologie religiose sono parte integrante del sistema che poggia sul loro sfruttamento e lo perpetua”. Ma una lezione del genere la può trarre soltanto il partito di classe che è dotato della dottrina marxista, lezione che il partito ha il compito di importare nelle masse proletarie attraverso la propaganda, l’azione tattica, l’intervento pratico negli organismi proletari esistenti e nel contributo affinché sorgano organismi proletari indipendenti di classe. Sostenere quanto sostiene questo articolo – che il nuovo “programma comunista” riprende senza un filo di critica – significa negare la qualità fondamentale del partito di classe (possesso della teoria marxista e suo utilizzo in tutti i campi della vita sociale) e negare uno dei suoi compiti fondamentali (importare la teoria marxista nelle masse proletarie attraverso l’esperienza storica accumulata nel tempo e la costante azione di orientamento classista).

In realtà, già all’inizio dell’articolo è presente questa trasposizione sulle spalle delle masse dei compiti che sono invece del partito di classe; infatti, vi è scritto che i palestinesi cacciati da tutti gli Stati arabi “non possono non trarre dal calvario di cui sono stati costretti a percorrere fino all’ultima tutte le stazioni, quello che per il grande rivoluzionario russo [Trotsky, ndr] era soltanto una conferma, ma che per loro è un duro insegnamento” (i diritti democratici una pia illusione, e la fratellanza araba una cinica menzogna), e cioè che le forme e i riti della democrazia non possono risolvere la lotta tra capitalisti (chi possiede) e proletari (chi non possiede).

Per il fatto di essere prima di tutto classe per il capitale, il proletariato, senza la presenza del suo partito costituito da una minoranza della sua avanguardia, non potrà mai giungere spontaneamente a tirare tutte le lezioni politiche e storiche dalla lotta che lo oppone alla classe dei capitalisti, perché la sua sopravvivenza quotidiana, e dunque la sua lotta quotidiana, dipende dal rapporto salariato che lo costringe ad essere, per l’appunto, senza riserve, non possidente, nullatenente, e perciò, in quanto salariato, nelle mani del capitale. E’ solo la lotta unita e unificante in quanto proletari, in quanto lavoratori salariati, che si scontrano non solo con un padrone ma con l’associazione dei padroni, e quindi con lo Stato che ne protegge gli interessi sociali, che storicamente pone il proletariato nelle condizioni di darsi obiettivi non più soltanto immediati e quotidiani, ma politici e generali. Il proletariato, come la storia insegna, è in grado attraverso la sua lotta contro i poteri costituiti, e senza la guida del suo partito di classe, anche di ottenere delle vittorie politiche parziali o addirittura di accedere al potere, ma non potrà mai instaurare il suo potere di classe, spezzare lo Stato borghese ed erigere il suo Stato di classe, anche se in un solo paese, durare nel tempo come bastione della rivoluzione internazionale, senza il suo partito di classe.

Con la nascita della teoria marxista, della teoria rivoluzionaria del proletariato nasce il partito di classe, ovverosia il proletariato si costituisce in classe; perciò, il proletariato storicamente è classe dal 1848, dall’apparizione della teorica marxista, ma diventa classe concretamente capace di rivoluzionare da cima a fondo l’intera società per trasformarla in società senza classi, in società di specie, solo quando è guidato dal partito rivoluzionario. Il partito di classe e la classe proletaria non sono la stessa cosa, non sono sovrapponibili o sostituibili: hanno compiti storici diversi. Confondere proletariato e partito proletario significa negare la funzione storica del partito di classe, e quindi la funzione storica del proletariato in quanto classe rivoluzionaria.

Un’ultima osservazione sull’uso fatto dal nuovo “programma comunista” del vecchio articolo del 1982. L’articolo originale termina con questi brani: “Così, per vie accidentate e sanguinose, i fatti materiali della storia del capitalismo preparano il terreno, sgombrandolo dalle scorie di ideologie democratiche, nazionalistiche, perfino religiose, sotto il cui ammasso stentano ancora a farsi luce le forze della sua distruzione: forze di classe, forze proletarie. V’è una sola strada per affrettarne l’avvento e assicurarne la vittoria, riducendone le sofferenze inevitabili: la ripresa su scala generale delle lotte di classe qui da noi, nelle metropoli dell’imperialismo capitalistico”. Il nuovo “programma comunista”, che si è preso la briga di accaparrarsi la “proprietà” dell’articolo apparso trent’anni prima sulla stessa testata, si è preso anche la libertà di non trascrivere il brano finale, che è l’unico che dà dignità all’articolo proprio perché, in un guizzo di lucidità politica, richiama i lettori, e i compagni, alla necessità che riprenda la lotta di classe qui da noi, nelle metropoli dell’imperialismo capitalistico. Il nuovo “programma comunista”, mentre si riconosce perfettamente in tutte le precedenti asserzioni, sbagliate, si rifiuta evidentemente di far suo il richiamo finale.

D’altronde, anche questo taglio, mentre rimane in piedi tutto il resto, ha un suo significato politico ed è collegabile ad un atteggiamento che oscilla tra l’attendismo e l’eclettismo, e che richiama posizioni già espresse in anni precedenti da questo gruppo. Per esempio, nei confronti della “questione curda” quando, nel 1994, si aspettava che “una punta avanzata dell’unica forza politica curda che si batta conseguentemente contro l’oppressore, il PKK, si sprigioni e, spingendosi oltre i limiti della lotta di resistenza nazionale, si ponga all’avanguardia della lotta rivoluzionaria proletaria e comunista per l’abbattimento dell’intero apparato borghese di dominio in tutto il Medio Oriente” (6); posizione che faceva il paio con quella, già emersa all’interno del partito sulla questione “palestinese” negli anni 1980-1982, secondo la quale si doveva puntare sull’ala “sinistra” dell’Olp esattamente per la stessa prospettiva tracciata per i curdi, e che il nuovo “programma comunista” ha ripreso pari pari in questo articolo del 1994. 

Ma torniamo all’articolo del nuovo “programma comunista”, n. 3 del 2011.

Se i certificati di eredità del patrimonio politico e teorico del partito di ieri sono quelli esibiti per mezzo dell’articolo del 1982 citato, vuol dire che il nuovo “programma comunista” non sa proprio che pesci prendere. Da un lato, riprende delle posizioni che inneggiano ad una “svolta nel Medio Oriente” e all’apertura “dell’èra delle grandi guerre di classe per la distruzione di ogni Stato borghese” grazie alla rivolta delle masse palestinesi e arabe, svolta e apertura che si sono rivelate però velleità prodotte dal desiderio di vedere accelerato il processo di ripresa della lotta di classe e rivoluzionaria attraverso movimenti sociali che non potevano rappresentare quel salto di qualità; dall’altro lato, dopo aver descritto sinteticamente la situazione in Tunisia ed Egitto, si ritrova a sostenere che i movimenti di rivolta nei paesi arabi non potevano seguire un corso diverso da quello che hanno seguito e che non potevano porsi obiettivi di classe perché “non esistevano le condizioni oggettive, proprio per il fatto che quelle soggettive, le avanguardie di lotta a cui il partito potesse dare respiro e programma, erano assenti”. Qui è il nuovo “programma comunista” che fa un salto, ma non di qualità, bensì nel vuoto. La posizione è chiara: si nega che vi possa essere una situazione storica in cui un movimento proletario, per quanto parziale e in un’area geografica limitata, sia in grado di esprimere un alto grado di lotta classista pur in assenza del partito rivoluzionario di classe come storicamente è già avvenuto, per esempio nella Comune di Parigi del 1871. Si tende, in effetti, a far combaciare le condizioni oggettive (la lotta sociale e classista del proletariato) con le condizioni soggettive (la presenza, l’azione e l’influenza del partito di classe) della situazione che si sta esaminando, tracciando schematicamente delle separazioni nette tra: ilmovimento di rivolta delle masse in cui è coinvolto il proletariato nel suo moto spontaneo e disorganizzato di opposizione all’oppressione sociale, il movimento proletario organizzato sul terreno della lotta immediata e di classe ma non influenzato in modo determinante dal partito rivoluzionario, e il movimento proletario influenzato e diretto dal partito rivoluzionario. L’articolo del nuovo “programma comunista”, subito dopo, afferma che : “Non ci sono soggetti rivoluzionari sostitutivi del proletariato, né organizzazioni né forme di organizzazione alternative al partito di classe”; “soggetti rivoluzionari sostitutivi”?, e che vuol dire? Il soggetto rivoluzionario per eccellenza è il partito comunista rivoluzionario, il partito marxista, che non si sostituisce alla classe del proletariato (la influenza, la prepara, la guida, ma rimane sempre ben distinto da essa sia organizzativamente  che nei compiti e nelle funzioni) né viene sostituito da organizzazioni o forme di organizzazione alternative (forme sindacali, soviet o altri organismi immediati). Ciò però non significa che tra il partito e la classe non vi debba essere “un grande movimento di associazioni a contenuto economico che comprenda una imponente parte del proletariato”, come affermano inequivocabilmente le tesi di partito del 1951 (7) e che il nuovo “programma comunista” ha bellamente cancellato, avvicinandosi così alla visione tipica di “battaglia comunista” che nega al movimento delle associazioni proletarie a contenuto economico la qualità di condizione indispensabile affinché il partito rivoluzionario abbia la possibilità, influenzandolo “validamente ed estesamente”, di  orientarlo con successo nella prospettiva rivoluzionaria generale. 

Noi non diciamo che le rivolte delle masse arabe di questi mesi costituiscono la prima fase di un graduale e lineare sviluppo del movimento di classe di domani; questo, caso mai, lo ha sostenuto a suo tempo proprio il nuovo “programma comunista” a proposito del movimento curdo. Noi sosteniamo che il proletariato che ha animato i movimenti di rivolta che hanno scosso e stanno ancora scuotendo la vasta area dei paesi arabi del Nord Africa e del Medio Oriente, sta mostrando al proletariato delle metropoli imperialiste – oggi ancora piegato alle esigenze capitalistiche e paralizzato da decenni di riformismo e di collaborazionismo tricolore – che è possibile osare, lottare contro apparati statali che appaiono invincibili, e che questa lotta si può incamminare nella prospettiva rivoluzionaria dell’emancipazione dal lavoro salariato solo se riparte dalla lotta di difesa sul terreno immediato con mezzi e metodi di classe, riorganizzando la lotta e la difesa della lotta con organismi proletari indipendenti dalle politiche e dagli apparati del collaborazionismo tricolore, e se nello sviluppo della sua lotta incontra il partito di classe. Senza questo vitale passaggio, il proletariato, sia dei paesi imperialisti che dei paesi meno avanzati capitalisticamente, non riuscirà ad accumulare quell’esperienza di lotta che gli serve per poter passare alla lotta di classe sul terreno più generale e politico riconoscendo il partito comunista rivoluzionario come sua guida grazie all’opera di costante intervento di quest’ultimo nelle lotte proletarie di difesa immediata. Può succedere che questi passaggi, in situazioni più favorevoli alla lotta di classe, si susseguano rapidamente, mentre oggi, in situazione ancora pesantemente sfavorevole alla lotta di classe, i tempi sono molto più lunghi. E’ certo, però, che il proletariato, se non sarà in grado di acquisire forza di classe sul terreno della lotta di difesa immediata, sarà ancor meno in grado di lottare sul terreno più generale, politico e rivoluzionario e, quindi, lottare per la conquista del potere politico.

Tutto questo ragionamento, ovviamente, non intende portare a dire che il proletariato può anche fare a meno del partito di classe per la propria lotta di emancipazione dal lavoro salariato. Si vuol solo precisare che i compiti del proletariato non possono prescindere dalla contraddizione storica di cui è protagonista: nasce come classe per il capitale, vive, cresce e muore, finché è dominato dal capitalismo, come classe per il capitale; ma, storicamente, spinta oggettivamente a lottare per difendere le proprie condizioni di vita contro la pressione e la repressione capitalistica, la classe del proletariato si è rivelata classe rivoluzionaria, portatrice di una lotta che, liberando se stessa dal giogo del lavoro salariato, in realtà libera l’intera società umana dall’oppressione capitalistica, dalla divisione sociale in classi. E’ quella lotta di difesa immediata che spinge il proletariato ad unirsi in quanto accomunato sotto ogni cielo dalle stesse condizioni materiali nel rapporto di produzione capitalistico; ed è l’esperienza nel corso storico delle lotte proletarie di classe che eleva un’avanguardia politica a costituirsi in partito politico, rappresentando gli interessi storici del proletariato, come classe internazionale, in un programma politico che prevede l’intero percorso da fare per il raggiungimento degli obiettivi storici rivoluzionari e i mezzi rivoluzionari per raggiungerli. Senza il suo partito politico di classe – che è l’unica guida in campo teorico, politico e organizzativo potenzialmente stabile in grado di seguire la rotta rivoluzionaria nonostante tutte le tempeste provocate dalle contraddizioni sempre più acute della società capitalistica e dalle sconfitte del movimento rivoluzionario – senza il suo partito di classe, il proletariato può anche lottare vittoriosamente e giungere al potere in un paese, ma non avrebbe alcuna possibilità di mantenerlo e di farne un bastione per la rivoluzione in tutti i paesi.

Dal punto di vista degli avvenimenti storici, per quello che la storia passata ha effettivamente mostrato, non si può sostenere, come fa il nuovo “programma comunista”, che “i paesi capitalisticamente meno avanzati non ci mostrano affatto la via maestra e il proletariato, anche nei suoi contenuti internazionalisti e internazionali, nella sua immediatezza economica, non può fare dei salti storici senza il partito”. Abbiamo citato la Comune di Parigi per dimostrare che vi sono state situazioni storiche – e si potrebbero ripresentare – in cui il proletariato può fare dei salti storici senza il partito, ma senza il partito non li può rendere stabili, forti e in grado di irradiare la propria influenza sul proletariato di tutto il mondo, come invece è avvenuto per la Comune di Pietrogrado, la rivoluzione d’Ottobre. Il punto non è di stabilire, a priori, quale paese e quale proletariato avrà il primato nel “mostrare la via maestra”: nel 1871, la via maestra è stata  mostrata dal proletariato parigino, di un paese capitalistico avanzato – anche se non il più avanzato, come invece era l’Inghilterra –; nel 1917, la via maestra è stata mostrata dal proletariato russo, di un paese arretrato capitalisticamente che all’ordine del giorno non aveva compiti da rivoluzione “pura” ma da rivoluzione doppia. E domani, il proletariato di quale paese sarà all’avanguardia del movimento proletario e rivoluzionario internazionale? A tutt’oggi non lo possiamo dire, vista la bassissima intensità di lotta classista che caratterizza il proletariato dei paesi imperialisti come dei paesi della periferia dell’imperialismo. Ma le esplosioni sociali che stanno scuotendo i paesi arabi in questi mesi, che stanno interessando il “ventre molle” dell’imperialismo europeo, lasciano presagire che le contraddizioni sociali si stanno acutizzando con maggior forza e tendono a concentrarsi non solo in un paese in particolare, ma in un’area la cui ampiezza comprende molti paesi; l’effetto contagio provocato da queste esplosioni sociali può mettere in movimento i proletari in altri paesi, proletari che nella loro storia hanno avuto esperienze di lotta classista e rivoluzionaria, come in Europa, ed è questo contagio sociale che le classi dominanti borghesi temono come la peste perché intuiscono che dalla violenta reazione proletaria, seppur spontanea e confusa, può riprendere vigore il movimento di classe del proletariato. 

Il punto è che la via maestra è stata storicamente già mostrata dalle lotte, dalle rivoluzioni, dalle sconfitte di un proletariato che, pur maledettamente diviso in nazionalità concorrenti, è internazionale e nella lotta contro l’oppressione capitalistica si mostra sempre più internazionalista, come dimostrato anche dalla spontanea e immediata solidarietà proletaria di questi ultimi mesi, nonostante l’intervento delle forze di repressione e degli eserciti nazionali, ai confini tra Tunisia e Libia, Egitto e Libia, Siria e Libano, Siria e Turchia. 

Imparare non solo dalla crisi economica e sociale della società capitalistica, e non solo delle organizzazioni politiche e sociali che difendono la società borghese e il suo Stato è compito permanente dei comunisti rivoluzionari. Imparare dalle crisi del movimento proletario e rivoluzionario è altrettanto importante; ma imparare dagli errori, e quindi dalle crisi del partito rivoluzionario, è vitale, e lo si può fare solo attraverso i bilanci dinamici degli svolgimenti storici e delle crisi del partito di classe. Tacere gli errori e negare la crisi del partito, che, prima di essere organizzativa, è politica e teorica, significa distruggere ogni possibilità di superare gli errori, di imparare da essi e far tesoro degli insegnamenti tratti per non ricadere nelle deviazioni e nei fallimenti. 

Il nuovo “programma comunista”, come dimostrato anche in questa occasione, è ancora immerso in quegli errori; e del tutto vani risultano i tentativi di mimetizzare la propria intrinseca debolezza politica, e teorica, sotto la bandiera di una testata che ha rappresentato il patrimonio teorico, politico, tattico e organizzativo del partito per tre decenni ma che è stata poi saccheggiata da coloro che non hanno saputo “dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui li iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione” e, per questo, hanno avuto bisogno di una sentenza di tribunale che riconoscesse loro una carpita “proprietà commerciale” per poter esibire negli anni successivi, meschinamente, un “certificato di eredità” della testata del partito di ieri.

 


 

(1) Vista la confusione che spesso si fa, ad esempio in Italia, quando si deve definire l’area geopolitica del Medio Oriente, è utile ricordare che di questa area geografica, oggi, per noi europei occidentali che abbiamo ereditato denominazioni che provengono dalle vecchie definizioni coloniali inglesi e francesi, e dal crollo del vasto Impero Ottomano, fanno parte i paesi che dalla Turchia asiatica (separata dalla Turchia “europea” dagli stretti dei Dardanelli e del Bosforo) vanno fino all’Iran, comprendendolo, (Turchia, Cipro, Libano, Siria, Giordania, Israele, Palestina, Iraq e Iran), tutti i paesi della Penisola arabica (Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Oman, Yemen, Qatar, Bahrain) e l’Egitto. Il Maghreb, invece, che è un’antica denominazione araba, comprende l’area nordafricana ad occidente dell’Egitto, che dal Sahara occidentale va fino alla Tunisia (perciò Sahara occidentale, Marocco, Algeria e Tunisia), mentre la più recente denominazione di Grande Maghreb comprende anche Mauritania e Libia. Sempre nel mondo arabo, l’area ad oriente dell’Egitto e a nord della Penisola araba, veniva definita Mashriq e comprende Libano, Palestina, Siria, Iraq, Kuwait, Turchia del sud e Giordania; più recentemente la denominazione Mashreq (o “non-Maghreb”) allarga l’area a tutta la Penisola araba, all’Egitto e al Sudan. Naturalmente nella definizione Palestina va compreso anche Israele.

(2) Fra i tanti lavori pubblicati nella nostra stampa – il comunista, le prolétaire, programme communiste, el programa comunista – ci si può riferire all’opuscolo “Sulla formazione del partito di classe. Lezioni dalla crisi del 1982-84 del partito comunista internazionale-programma comunista”, del giugno 2006, dove sono raccolti alcuni tra gli articoli principali sul bilancio delle crisi del partito

(3) Vedi “il programma comunista” n. 15, 24 luglio 1982.

(4) Come, ad esempio, l’articolo intitolato “Il proletariato e lo Stato coloniale e mercenario di Israele” pubblicato ne “il programma comunista” n. 7, 5 aprile 1980, nel quale, dopo aver sostenuto che: “La distruzione di questo privilegio [privilegio sionista, ndr], inseparabile dall’oppressione nazionale e religiosa delle popolazioni palestinesi, è la condizione indispensabile per l’unificazione della classe operaia di tutta la regione del Medio Oriente, ma anche della classe operaia delle metropoli imperialiste d’Europa, di Russia e d’America”, si traggono queste prospettive e parole d’ordine: “La rivolta delle masse palestinesi e arabe deve ineluttabilmente scontrarsi con lo Stato di Israele e, per la stessa ragione, con tutti gli Stati arabi attuali, per quanto progrediti si dicano. Da questa lotta nascerà la Repubblica Operaia e Contadina del Medio Oriente che la farà finita non solo con il privilegio ebraico, ma con i privilegi di tutte le classi dominanti della regione. Questa lotta è la lotta della classe operaia del mondo intero”.   

(5) Cfr. L. Trotsky, La mia vita, Oscar Mondatori, settembre 1976, ultimo capitoletto, p. 528. Non se ne comprende il motivo, ma la citazione di Trotsky che abbiamo riportato, e che viene riportata da “programma” del 1982 in corsivo e tra virgolette all’inizio dell’articolo, più oltre viene ripresa, sempre tra virgolette, come fosse sempre di Trotsky, ma modificata in questo modo: “Perché dovremmo credere che un problema infinitamente più importante come quello della lotta fra noi che non possediamo nulla e coloro che, proclamandosi nostri fratelli, possiedono tutto e guai a chi glielo tocca, possa essere risolto secondo le forme e i riti della democrazia?”; è questa versione che cita il nuovo “programma comunista”.

(6) Cfr. Quali prospettive di emancipazione del torturato popolo curdo?, “il programma comunista” n. 1/1994.

(7) Cfr. Partito rivoluzionario e azione economica, aprile 1951, punto 8, in cui si afferma senza ombra di dubbio che “in ogni prospettiva di ogni movimento rivoluzionario generale non possono non essere presenti questi fondamentali fattori: 1) un ampio e numeroso proletariato di puri salariati; 2) un grande movimento di associazioni a contenuto economico che comprenda una imponente parte del proletariato; 3) un forte partito di classe, rivoluzionario, nel quale militi una minoranza dei lavoratori ma al quale lo svolgimento della lotta abbia consentito di contrapporre validamente ed estesamente la propria influenza nel movimento sindacale a quella della classe e del potere borghese.

I fattori che hanno condotto a stabilire la necessità di ciascuna e di tutte queste tre condizioni, dalla utile combinazione delle quali dipenderà l’esito della lotta, sono stati dati: dalla giusta impostazione della teoria del materialismo storico che collega il primitivo bisogno economico del singolo alla dinamica delle grandi rivoluzioni sociali; dalla giusta prospettiva della rivoluzione proletaria in rapporto ai problemi dell’economia e della politica e dello Stato; dagli insegnamenti della storia di tutti i movimenti associativi della classe operaia così nel loro grandeggiare e nelle loro vittorie che nei corrompimenti e nelle disfatte”.

In Partito e classe, serie “i testi del partito comunista internazionale” n. 4, edizioni il programma comunista, Napoli, Aprile 1972, pp. 124-125.

 

 

Partito comunista internazionale

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