Fascismo: politica sociale e sindacalismo fascista

(Riunione Generale di Partito, Milano 10-11 dicembre 2011)

(«il comunista»; N° 125; maggio 2012)

 Ritorne indice

 

 

Nel dicembre scorso si è tenuta la prevista riunione generale di partito il cui tema centrale era dato dal titolo di questo resoconto. Un breve rapporto sulla situazione internazionale, dal punto di vista economico e sociale, ha aperto i lavori. Su questo specifico tema rimandiamo i lettori agli articoli apparsi nella nostra stampa, dal 2007 in avanti (1).

Il rapporto principale, di cui diamo qui un resoconto esteso, dopo aver richiamato, per sommi capi, la situazione che si era determinata in Italia alla fine della prima guerra mondiale col famoso “biennio rosso” 1919-1920 (per un suo approfondimento rispetto al movimento operaio, all’azione opportunistica del PSI e alla battaglia della Sinistra comunista contro l’opportunismo e per la formazione del partito di classe, è bene rifarsi alla Storia della Sinistra comunista, voll. II e III), è entrato nel vivo della formazione dell’organizzazione politica fascista – dal movimento nato a Milano e conosciuto come sansepolcrismo, alla costituzione del PNF, alla presa del potere nell’ottobre 1922 e fino alla Repubblica sociale italiana di Salò – dedicandosi in particolare alla sua politica sociale. Il filo conduttore del rapporto è stato quello di dimostrare come il fascismo ebbe fin dalla nascita l’obiettivo non solo di distruggere la forza organizzata del proletariato italiano (sindacati, camere del lavoro, leghe contadine, cooperative rosse, partito socialista e comunista), ma anche quello di attirare le masse proletarie sul terreno della ricostruzione nazionale postbellica e della difesa dell’economia nazionale (compito ereditato pari pari dalla democrazia antifascista e post-fascista al tempo della seconda guerra mondiale e del secondo dopoguerra). A questo scopo, il fascismo usò all’inizio e demagogicamente parole e atteggiamenti di sostegno e solidarietà con il movimento operaio contro il rincaro dei prezzi e l’immiserimento in cui precipitavano le masse in un paese uscito distrutto dalla guerra, ma utilizzò nello stesso tempo sia le incursioni squadristiche contro i proletari, cominciando da quelli meno concentrati come i braccianti agricoli, e le sue organizzazioni, sia gli appelli alla ricostruzione della Patria, della Nazione e dell’economia nazionale, sia il lancio di rivendicazioni operaie immediate che provenivano dal bagaglio di lotta dei socialisti, mettendo il lavoro al centro della sua propaganda verso il proletariato. L’obiettivo politico del fascismo, inizialmente del tutto confuso e condizionato da una reazione immediatista dei ceti di piccola e media borghesia alla loro rovina sociale, si andò sempre più precisando come la risposta della grande borghesia al crescente movimento eversivo delle masse proletarie, risposta basata sulla repressione più brutale dei proletari in lotta e data nelle nuove forme del collaborazionismo interclassista e della riorganizzazione centralizzata della rete di interessi capitalistici messa in serio pericolo dal montare delle lotte operaie e da un movimento operaio che premeva vigorosamente in tutti i paesi europei, galvanizzato dalla vittoria rivoluzionaria del bolscevismo in Russia. 

Fin dalla dichiarazione del Programma di San Sepolcro (marzo 1919) Mussolini afferma: “Noi dobbiamo andare incontro al lavoro. (...) Bisogna perciò accettare i postulati delle classi lavoratrici: vogliono le otto ore? Domani i minatori e gli operai che lavorano di notte imporranno le sei ore? Le pensioni per l’invalidità e la vecchiaia? Il controllo sulle industrie? Noi appoggeremo queste richieste, anche perché vogliamo abituare le classi operaie alla capacità direttiva delle aziende, anche per convincere gli operai che non è facile mandare avanti un’industria e un commercio. (...) Democrazia economica, questa è la nostra divisa” (2). Questo piccolo saggio dà già un’idea di come il fascismo, cavalcando le richieste operaie fatte proprie dal Partito socialista, le intendeva utilizzare a favore della ricostruzione economica nazionale, impostando un vecchio/nuovo modo di far collaborare operai e imprenditori per il raggiungimento di quell’unico obiettivo. Il discorso di Mussolini a Piazza San Sepolcro, in cui sostiene che bisogna accettare e appoggiare le richieste delle classi lavoratrici, fossero anche le otto o le sei ore, giunge in un periodo in cui la classe proletaria, finita la guerra, aveva ripresa a lottare con grande vigore mettendo in serissimo pericolo il potere borghese che, uscito dalla guerra frastornato e indeciso, dava segni evidenti di instabilità il che però non gli impediva di contrastare le lotte operaie con la repressione più dura, come ad esempio contro i ferrovieri in sciopero ai primi di febbraio 1919 a Trieste; sta di fatto che le lotte classiste dei proletari italiani, nonostante fossero guidate dagli opportunisti della CGdL, riuscivano ad ottenere dei risultati importanti, come ad esempio i metallurgici ai quali, il 5 febbario, vennero riconosciute le otto ore (un mese e mezzo prima del discorso di Mussoli a Milano) e per le quali si battevano i ferrovieri, i tessili, gli edili e molte altre categorie in tutta Italia e da lungo tempo (3). Non si può infatti comprendere bene il fenomeno del fascismo italiano se non si tiene conto dei rapporti di forza tra la classe dominante borghese e il proletariato in Italia, e dell’influenza che il riformismo – e in particolare il massimalismo alla Serrati – aveva ancora in buona parte del proletariato italiano: dalle tradizioni mercantili compromissorie e della radicata viltà della borghesia italiana, all’esperienza  democratica e opportunista delle forze riformiste rappresentate nel Partito Socialista non solo da Turati e Treves (che capeggiavano la destra riformista) ma anche da una direzione che, dopo essersi posizionata nel tentennante neutralismo del “non aderire né sabotare” la guerra imperialista, imboccò la strada del massimalismo parolaio, autoproclamatosi “comunista”, facile all’effimero entusiasmo per la rivoluzione russa e la presa bolscevica del potere, ma legato saldamente al riformismo come dimostrato anche dall’accettazione dell’autonomia del gruppo parlamentare e del sindacato CGdL e dal sovversivismo inconcludente ben espresso da parole d’ordine disorientatrici come quella dello “sciopero espropriatore” o la pretesa di costituire a freddo i soviet redigendone lo...statuto (4); dalle tradizioni classiste di ampi settori del proletariato (i ferrovieri, i metallurgici, i braccianti ecc.) alle battaglie di classe, sul piano teorico come su quello pratico, della corrente del marxismo di sinistra che si caratterizzerà in seguito come Sinistra comunista d’Italia (che scioccamente gli storici dissero e dicono “italiana”).

Uno sguardo alla situazione internazionale in quegli anni è necessario, e per una appropriata e sintetica analisi ci rifacciamo a quanto scritto nel primo capitolo del II volume della nostra Storia della Sinistra comunista (5):

 

“Finita col 1918 la prima guerra mondiale, nei fulgidi anni 1919-20 il terrore del grandioso verbo rivoluzionario fece tremare il mondo borghese. Negli anni 1914, 1915, 1916 e parte del 1917, la corrente pubblica opinione, formata allora come oggi dalla pubblicità delle gazzette, poi arricchitasi di ulteriori mezzi di fabbricazione a basso costo della Beozia popolare, non si fermava tanto sul risultato che la filantropica civiltà capitalistica avesse generato il massacro generale, quanto sul fatto che lo spettro levatosi dal 1848 su tale miserabile civiltà e cultura – il socialismo rivoluzionario, che aveva affidato la palingenesi alla classe dei senza patria – nelle brevi ore dell’agosto 1914 si fosse afflosciato naufragando nel conformismo sciovinista.

“Ma dalla fine del ’17 l’inatteso incendiarsi di una nuova striscia di polvere partita dall’Ottobre di Pietrogrado e di Mosca aveva risollevato più tremendo il fantasma che turbava i sonni dei privilegiati, dei conformisti, dei possidenti. Dopo un periodo di confusione, per capi politici e mestatori gazzettieri, nello sforzo di comprendere la tragedia della storia che aveva per teatro la Russia, e dopo il vano lancio delle spiegazioni più insulse e deformi che misuravano degnamente il grado di intelligenza e di sapeinza della classe dominante, una luce abbagliante si era riaccesa e faceva tremare le vene e i polsi dei conservatroi. Il loro terrore era che alla guerra generale degli stati, che aveva fatto la sua travolgente apparizione spegnendo le fiamme della lotta tra le classi, succedesse come nuova fase storica non la pace fra gli stati, ma un nuovo incendio di guerra di classe, di guerra civile, che dalla Russia si rovesciasse sull’Europa ed oltre.

“Tutti i fatti di quell’epoca ardente contenevano questo monito, e vana riusciva la prassi secolare della falsificazione ufficiale delle notizie. I fatti, innegabili quanto ineluttabili, portavano con sé la forza del vaticinio, fiamma inestinguibile di tutte le rivoluzioni avanzanti. E, per la prima volta nella storia del genere umano, il vaticinio non veniva da un profeta ispirato, ma dalla dottrina completa e luminosa di un movimento storico, che in alto si sognava di aver sepolto, e per sempre. Ardua, difficile ed elevata, la teoria del partito rivoluzionario era nell’epoca d’oro in cui – non per virtù di una banda di profeti in seconda o di sottoprofeti – appare come luce spontanea nella testa ‘delle masse’, ossia di quelli che non sanno, non hanno scuola, non hanno cultura, e per questa loro felice condizione non sono appestati dai fumi di civiltà corrotte e in decomposizione.

“Il movimento comunista internazionale fu in quella fase al suo vertice. Vittoria nella battaglia insurrezionale in Russia contro tutta la gamma dei partiti piccolo-borghesi, avversari classici, e socialdemocratici, traditori classici; poi vittorie militari contro le orde bianche controrivoluzionarie mantenute prima dai tedeschi – sventrati con la supermanovra rivoluzioanria di Brest-Litovsk –, poi dagli alleati della Intesa. E, nello stesso tempo, riaffermazione e levata in alto della dottrina del partito proletario mondiale, che era servita di vitale ossigeno alla formazione del partito bolscevico e che lo stesso aveva rivendicata nella sua lucente interessa contro le ignominie dei revisionismi e dei patrioti leccapiedi del 1914. (...)

“La massa proletaria ignorante si levava a guardare con disprezzo tutta la sapeinza della borghesia e le sue pose intellettuali. A distanza da quel tempo splendido, ma facendo tesoro di quelle lezioni della storia, abbiamo potuto rivendicare la tesi che la punta avanazata della conoscenza della specie è data dalla teoria della lotta sociale come la scopre il partito della classe rivoluzionaria; e qui è il primo incontro dell’uomo con la verità. Allora, nella nostra azione di comunisti di tutto il mondo, era l’intuizione di questa formulazioen del problema della conoscenza, contenuta in una delle soluzioni di millenari enigmi date un secolo addietro dal marxismo. Questo il senso (...) della teoria che trova le masse, e delle masse che fanno con la loro lotta pratica nascere la teoria nuova, originale, prima nella storia. (...)

“In Russia era in corso la fase conclusiva della guerra civile che, sotto la inflessibile guida politica e militare di Lenin e Trotsky, con l’integrale mobilitazione di un partito pronto ad ogni sacrificio e persino olocausto, di un proletariato capace di ogni abnegazione, e di tutte le pur modeste risorse materiali disponibili, doveva non solo definitivamente ributtare gli orgogliosi corpi di spedizione anglo-franco-nipponici, ma riconquistare l’Ucraina e liberare da un memorabile assedio Pietrogrado, culla delkl’Ottobre bolscevico. Nel fuoco di quella ciclopica battaglia erano nate (novembre 1918) le pagine sferzanti de Il rinnegato Kautsky e la rivoluzione proletaria, era salito il grido dei manifesti e delle tesi programmatiche del congresso costitutivo dell’Internazionale comunista (marzo 1919), e ben presto se ne sprigioneranno come faville da un’incudine i capitoli di Terrorismo e comunismo (maggio 1920).

“Malgrado i terribili rovesci tedesco e ungherese in un semestre nell’arco del quale si può dire che non passò giorno senza che nelle vie e nelle piazze di innumerevoli città del Centro Europa i proletari si battessero contro il nemico di classe, il poderoso fermento sociale del dopoguerra in Occidente non accennava a placarsi. Non ne erano immuni i ‘vincitori’ del conflitto imperialistico: in Italia, vittoriosa e vinta, le violente agitazioni per il caro vita si erano appena chiuse (6) solo per cedere il passo ad una fulgida annata di purtroppo mal dirette – o non dirette affatto – lotte economiche; in Inghilterra, gli scioperi toccavano cifre- record interessando due milioni e mezzo di operai d’industria e provocando la ‘perdita’ di 34 milioni di giornate lavorative (...); negli Stati Uniti si stava per accendere la gigantesca fiammata da cui, fino al gennaio 1920, sarà investita l’industria siderurgica, mentre nella stessa Francia, svenata e tuttavia ebbra di vittoria, andavano maturando le condizioni dalle quali nel 1920 si sprigionerà la scintilla del grande sciopero ferroviario. E non ne erano immuni i ‘neutrali’, pasciutisi... imparzialmente (cioè vendendo armi ai due blocchi belligeranti) al cinico banchetto del massacro: la Spagna in primo luogo, la stessa Svizzera e gli stati scandinavi in secondo.

“Il proletariatio si batteva con stupenda generosità, e se in Italia come poi in Francia il vecchio apparato statale democratico mostrava di saper reggere all’urto mobilitando l’intero arco dei suoi strumenti legali di attacco e di difesa e, ove non bastasse, creandone di nuovi coi relitti sbandati e riottosi delle armate di guerra, nel principale teatro degli scontri di classe, nel Centro Europa e segnatamente in Germania, la borghesia, impotente a superare la crisi, aveva dovuto affidare la turpe bisogna di imrigliare e poi massacrare gli operai agli stessi uomini della socialdemocrazia che nel 1914 li avevano trascinati al macello, affidando loro il compito di salvare per la seconda volta il regno del caputale in veste di sbirri e di boia, come mel gennaio e nel marzo a Berlino, o di ‘compartecipanti al potere’ come nelle repubbliche sovietiche di Budapest e Monaco” (...).

“L’emorragia era stata, nel primo semestre del 1919, spaventosa (...); essa aveva falciato il fiore dell’avanguardia rivoluzionaria europea. Ma tale era la violenza del terremoto dal quale era scosso il sottosuolo della società borghese, che sempre nuove leve proletarie ne balzavano fuori a colmare i terribili vuoti. La vera tragedia, più ancoras dell’olocausto, era che la spietata lezione tardasse ad essere appresa (...). Non era soltanto il persistere di tradizioni democratiche e sbracatamente parlamentari (si pensi alla Francia e al suo partito socialista, fresco per giunta di ‘union sacrée’), quello che frenava il rpocesso di acquisizione in senso positivo del bilancio bellico e post-bellico, e la sua messa a frutto per un riarmo teorico e pratico completo del movimento operaio: ero lo spesso diaframma interposto fra ‘volontà’ e ‘coscienza’, fra slancio istintivo delle masse e costituzione in partito rivoluzionario, dal ‘centrismo’ – nemico numero uno per Lenin in tempo di guerra come in tempo di pace. (...) Per la Sinistra, la scena mondiale, particolarmente nel Centro Europa, non ammetteva facili ottimismi. Essa, come Lenin e i bolscevichi, aveva individuato la causa prima delle sanguinose sconfitte di Berlino, Monaco e Budapest, nella ‘fisima dell’unità proletaria’, nell’errore ‘di aver creduto nella conversione a sinistra dei maggioritari’ (...) Il partito tedesco non risuciva a trarre dall’isolamento in cui la storia l’aveva posto una ragione di forza; sognava riaccostamenti, seppur cauti e termporanei ai falsi cugini; maturava già allora il primo germe di ‘espedienti tattici’ rovinosi destinati a passare di contrabbando nell’Internazionale degli anni venturi. In Italia, il fascino maliardo della ‘unità’, esercitato da un partito che, aderendo all’Internazionale dopo aver ‘salvato l’onore’ durante la guerra, poteva presentarsi a Mosca e ai proletari con una parvfenza di ‘carte in regola’, da un lato privava le masse in movimento di una guida politica sicura perché omogenea, dall’altro ritardava il processo di enucleazione di una corrente genuinamente comunista. In Germani, la stessa antica fisima serviva agli indipendenti per paralizzare dall’esterno il partito di Liebknecht, Luxemburg, Jogisches. In Francia era l’arma preferita dei Longuet, lo schermo dietro il quale la SFIO tentava di mutar pelle per non perdere il vizio parlamentare, democratico e riformista. Il ‘reagente’ dell’astensionismo da una parte, la massima rigidità nelle condizioni di ammissione [all’IC, NdR] dall’altra per impedire che, attraverso le maglie di condizioni ‘elastiche’, il riformismo ‘cacciato dalla porta rientrasse dalla finistra’, uniti alla rivendicazione di un programma unico imperativo per tutti e non soggetto a discussioni votazioni, era per la Sinistra un comandamento dettato dalla confusione, dal ritardo, dalle mille manovre, in mezzo ai quali si svolgeva la maturazione delle condizioni soggettive dell’attacco rivoluzionario – quindi del partito. E si basava sul bilancio di lunghe battaglie e di dolorose esperienze qui in Europa.”

 

Qui in Europa

 

“lo stato democratico aveva alle spalle un secolo di esperienza nel maneggio alterno della mano pesante e del guanto di velluto, l’infezione parlamentare aveva avuto il tempo di completare la sua opera devastatrice nelle organizzazione operaie, e i grandi ‘successi’ pratici, le ‘conquiste’ economiche e ‘sociali’, avevano infine relegato nel museo degli oggetti venerati ma inutili (...) le armi della teoria lasciate arrugginire in nome dell’ ‘azione’. Era oggettivamente concepibile trasportare “le particolari risorse tattiche dell’arsenale di battaglia e di vittoria dell’Ottobre, che non ne costituivano e non ne potevano costituire l’insegnamento universale e perenne”?

 

Noi, la Sinistra comunista, lo negammo. Le condizioni speciali della situazione

 

“come quella della Russia prerivoluzionaria, dove gli istituti democratici stavano appena nascendo ed erano effettivamente per la stessa borghesia in ascesa  l’arena di una lotta eversiva; dove i confini tra i partiti accomunati dalla lotta contro lo zarismo erano ancora tenuti e oscillanti; dove la ‘doppia rivoluzione’ covante nelle viscere dell’impero ancora feudale ma già permeato di capitalismo irrompente dall’esterno metteva in moto tutti i ceti e ne modificava quasi di giorno in giorno gli schieramenti”,

 

non potevano essere confuse con le condizioni storiche di sviluppo capitalistico, e quindi di dominio politico della borghesia, dell’Occidente, e dell’Europa in particolare. Lo schema tattico applicato dai bolscevichi nella Russia zarista non poteva essere trasferito pari pari in Europa occidentale. Nella situazione della Russia prerivoluzionaria

 

“i bolscevichi avevano potuto esperire le agili, e di volta in volta diverse, manovre di utilizzo o boicottaggio dell’istituto parlamentare, di accostamento o distacco dai menscevichi e perfino da ali socialrivoluzionarie estreme, di lenta edificazione o brusco ripudio di tappe ‘intermedie’, senza mai bruciarsi le ali e perdere la bussola di una direttiva lungamente maturata nell’opera di restaurazione della dottrina marxista cui Lenin  aveva dedicato il meglio delle sue stupende energie: ad essi era stato possibile distruggere alle proprie spalle i ‘ponti’ via via costruiti, ed emergere infine soli al timone della dittatura proletaria e comunista esaurendo nel giro finale di pochi mesi tutte le chances di combinazioni e manovre, e liquidando poco dopo anche l’ultimo legame col passato – la collaborazione coi socialrivoluzioanri di sinistra. (...) E, anche così, l’agilità della tattica e il ‘realismo’ spregiudicato delle soluzioni contingenti non erano stati che l’aspetto secondario della loro lotta”.

 

Noi, la Sinistra comunista,

“ci battemmo contro le facili acquisizioni di gruppi, ali e partiti interi, sia pure accolti in senso all’Internazionale nella generosa illusione di plasmarli e disciplinarli mediante un sovrumano sforzo di volontà; contro le manovre equivoche e le parole d’ordine mal definite, suscettibili è vero di guadagnarci seguaci occasionali ma sicuramente destinate ad alienarci militanti veri, e a disorientare le celebri, corteggiatissime masse; ci battemmo per una selezione molto più radicale, severa a costo d’essere dolorosa. Era una via lunga e difficile (e, nella stratta dell’assedio convergente del nemico esterno e del nemico interno, i bolscevichi si illusero che una via più breve o facile esistesse), ma non eravamo noi a ‘sceglierla’: era la storia ad imporcela. O la seguivamo con coraggio, o tutto, alla lunga, sarebbe andato – come andò – perduto: la visione teorica, l’obiettivo finale, la tattica ad essi conforme, la organizzazione che è salda e disciplinata se è saldo il programma ed invariabile e noto a tutti il cammino”.

 

Questo il senso della nostra battaglia nel 1919- 1920 per l’astensionismo e per le “barriere insormontabili” da opporre a rigurgiti opportunistici; questo il senso della nostra successiva battaglia contro i fronti uniti politici con frazioni socialiste notoriamente e irrevocabilmente passate al nemico, contro le parole d’ordine disorientatrici del “governo operaio” o del “governo operaio e contadino”, contro quella “bolscevizzazione” che preludeva al regno tristemente “monolitico” del knut staliniano. Questo il senso delle nostre grida di allarme contro una concezione del percorso storico futuro e della tattica ad essa conseguente, non rettilinea ma contorta ed indiretta, che finiva per posare la vittoria rivoluzionaria dei paesi capitalistici d’Europa al termine di una serie di tappe spurie ed equivoche, di cui la storia ha poi dimostrato che non costituivano un vantaggio per la classe rivoluzionaria, ché anzi nella loro vana attesa e manovra sterile, al danno della rivoluzione mancata si aggiungeva quello della distruzione totale dell’organizzazione rivoluzionaria di classe, del partito comunista. Ma la battaglia della Sinistra comunista non fu mai confinata nel campo della polemica teorica o delle dichiarazioni politiche; la battaglia della Sinistra comunista in campo teorico, programmatico, di impostazione politica e tattica generale è sempre stata fortemente collegata alla battaglia pratica sul terreno della lotta proletaria di difesa immediata, sia in campo strettamente sindacale che sul terreno della lotta sociale più ampia a difesa delle organizzazioni proletarie dalla repressione legale delle forze dello Stato e dagli attacchi, sempre protetti dalle forze dello Stato, delle squadre fasciste.

E’ nel famoso “biennio rosso” italiano, in cui sono maturate anche le condizioni per la costituzione formale del partito comunista grazie alla più che decennale battaglia teorica e politica della corrente di sinistra, che la stessa borghesia si è giocata una gran parte delle chances per non essere disarcionata dal potere. E un notevole e, infine, decisivo aiuto, la borghesia italiana lo ha trovato proprio nelle forze del vecchio opportunismo riformista e del nuovo centrismo massimalista il quale, usando una fraseologia estremista e pseudo-rivoluzionaria ma poggiando su atteggiamenti sostanzialmente democratici e anti-rivoluzionari, ha funzionato come bussola impazzita disorientando le masse proletarie in lotta offrendole, inermi, alla repressione statale e alla soldataglia fascista. In Italia, in questo biennio, la situazione sociale e politica era gravida di forti scosse potenzialmente rivoluzionarie grazie ad un proletariato che lottava con sempre maggiore decisione non solo contro il padronato ma anche contro lo Stato: ogni sua lotta tendeva a travalicare le rivendicazioni di settore ed economiche per diventare lotta politica più generale. Ma questa attitudine del proletariato italiano non era comparsa all’improvviso dopo la guerra; essa poteva contare su una tradizione di lotta che veniva da lontano, dalle lotte dell’ultimo decennio dell’Ottocento (i fasci siciliani del 1892-93, le lotte per la terra, il pane, il lavoro contro gli agrari, i municipi e le tasse del 1893-94, i moti per il pane e il lavoro del 1897-98 e le famose giornate di Milano del 1898 quando le manifestazioni operaie vengono prese a cannonate dalle truppe del generale Bava Beccaris) alle lotte dei primi del Novecento (gli scioperi generali del 1904, del 1906, 1907 e 1908, gli scioperi contro la guerra libica fino alla famosa “settimana rossa” del giugno 1914 contro la guerra, e gli scioperi nel 1916 e 1917, durante la guerra, contro la guerra) che non smisero, per l’appunto, nemmeno durante la guerra.

L’Italia usciva dalla guerra mondiale, nonostante la “vittoria”, completamente sconvolta in tutto il suo tessuto economico e sociale in misura più profonda degli altri paesi europei, e come ovviamente le vinte Germania e Austria-Ungheria. La guerra aveva investito la fragile attrezzatura dell’economia italiana con la furia di un uragano: se da un lato l’apparato industriale si era andato sviluppando proprio sotto la spinta delle necessità di guerra (siderurgia e meccanica in particolare), dall’altro lo Stato “aveva messo a disposizione del capitale privato tutta una legislazione di protezione e di privilegio, coartando la manodopera, assegnando materie prime a prezzi di calmiere, assicurando profitti, privative e immunità, purché una produzione sempre crescente fosse assicurata. Attraverso l’economia di guerra i grandi trust (Ilva, Ansaldo, Montecatini, Fiat ecc.) hanno intrecciato i più stretti legami con lo Stato, con le commesse affidate dallo Stato, con le esenzioni fiscali e i premi di produzione, le privative e le sovvenzioni: si avvia quella compenetrazione tra capitale finanziario e Stato italiano che sarà uno dei fattori determinanti la crisi del dopoguerra e una delle molle più potenti del fascismo e della politica del fascismo” (7). Oltre ad un indebitamento colossale dello Stato, col quale si sono affrontate le enormi spese di guerra,  finita la guerra si registrano un’inflazione altissima, la svalutazione della lira,i  prezzi che rincarano di continuo, aziende in crisi e fallimenti, l’aumento progressivo della miseria delle classi proletarie e della disoccupazione. A tutte queste conseguenza della guerra guerreggiata, che si presentano come fossero il proseguimento della guerra, la borghesia italiana risponde con una forte instabilità politica, quell’instabilità che poteva rappresentare l’occasione per l’assalto rivoluzionario da parte del proletariato e che, invece, in assenza di un partito rivoluzionario marxista solido teoricamente e programmaticamente e ben radicato nelle masse salariate, fu in qualche modo tamponata dalle forze del riformismo che, se in Germania svolsero direttamente la funzione dell’aguzzino del proletariato assassinando i capi rivoluzionari Luxemburg e Likbenecht, in Italia contribuirono a paralizzare e disorientare il proletariato in lotta in attesa che la classe borghese riprendesse fiducia in se stessa e trovasse la “soluzione politica” più adeguata che sarà poi il fascismo mussoliniano (che metterà al servizio del grande capitale la conoscenza “dal di dentro” del movimento operaio e del partito socialista, le sue linee “di forza” e, soprattutto, le sue linee di debolezza).

              

Il 1919 è l’anno in cui, da una città all’altra, si susseguono scioperi, veri e propri moti, scontri con le forze di polizia; arresti, morti e feriti sono la norma negli scontri e nelle manifestazioni, le “lotte contro il carovita” è il nome che prendono i moti violenti che scoppiano nelle principali città e che coinvolgono non soltanto la classe proletaria e il  contadiname povero ma anche strati di piccola borghesia urbana e rurale rovinati dalla guerra: il disagio economico si diffonde a gran velocità, i prezzi dei generi di prima necessità salgono in modo vertiginoso e insostenibile, tanto che gli aumenti di salario che gli operai in lotta riescono a strappare si rivelano sempre più irrisori. Passano i mesi, e la tensione sociale aumenta ed aumenta la violenza della repressione alla quale reagiscono con violenza gli operai in sciopero; naturalmente, verso di loro accorrono sistematicamente deputati socialisti e capi confederali come pacificatori, ma che sempre più spesso vengono accolti col grido di “pompieri!”. Il 16 giugno scoppia lo sciopero dei metallurgici di Dalmine che occupano la fabbrica, segnando in questo modo un metodo di lotta che nel settembre dell’anno successivo si diffonderà in molte fabbriche del nord d’Italia e che diventerà il mito dell’ordinovismo. Mussolini coglie l’occasione per intervenire e tenere un discorso che diventerà famoso. E’ utile richiamare questo episodio con le parole della nostra Storia della sinistra comunista (8):

 

“L’abile politicante si pone a favore delle rivendicazioni operaie, approva lo sciopero, fa l’apologia di un movimento sindacale legato al partito fascista. Solo un ‘esperto’ dei movimenti dei lavoratori poteva essere utile alla borghesia nell’organizzare la propria dittatura per scongiurare la minaccia di quella rossa. Il discorso illustra il nuovo sindacalismo nero. E sviluppa il programma di San Sepolcro del 23 marzo. Non solo esso vale quello della confederazione riformista, ma ha vari spunti che saranno propri di non schiette correnti di sinistra come quella dell’Ordine Nuovo: suffragio universale, soppressione del Senato, costituente (eventualmente repubblicana), giornata di otto ore, partecipazione degli operai alla gestione delle aziende, imposta progressiva con carattere di espropriazione delle ricchezze; celebre frase demagogica del ‘paghino i ricchi!’ “.

 

Nascerà in seguito la teoria delle Corporazioni, termine ripreso dalle vecchie corporazioni medievali ma inserito nella moderna struttura produttiva capitalistica, attraverso le quali il fascismo intendeva non solo riorganizzare la produzione nazionale ma renderla più efficiente ed efficace grazie, appunto, alla collaborazione interclassista tra operai e padroni. Il metodo politico che utilizzò per giungere a questo obiettivo non poteva essere che utilizzare tutti gli strumenti che la situazione reale offriva, e cioè la delusione delle masse di soldati, sottoufficiali e ufficiali tornati dalla guerra senza lavoro e di che sopravvivere (bacino in cui pescare gli aderenti alle squadre fasciste), il bisogno della borghesia di combattere legalmente e illegalmente il pericolo rivoluzionario costituito dalle masse proletarie in lotta già durante la guerra, e soprattutto a guerra finita, galvanizzate dalla vittoriosa rivoluzione bolscevica e poi dall’Internazionale Comunista (al quale bisogno il fascismo rispondeva con le azioni squadristiche protette dalla guardia regia e dallo Stato), ma anche il bisogno della borghesia di superare il periodo di enorme instabilità politica del dopoguerra (i governi Nitti e Giolitti, non davano certezza alla borghesia dominante da questo punto di vista) con un “governo forte” (9). Il fascismo fu la risposta sia al pericolo rivoluzionario costituito da un proletariato che stava dimostrando grande combattività e tenacia, sebbene diretto da vertici riformisti (e rivoluzionari a parole), sia all’inconsistenza governativa dell’epoca: per far questo il fascismo non solo aveva la necessità di centralizzare al massimo il potere politico, ma anche di assicurarsi un forte controllo sociale. La democrazia parlamentare servì a Mussolini come tribuna delle gesta fasciste, mentre il nucleo dell’azione fascista restava la repressione del movimento proletario e il processo centralizzatore e dittatoriale del potere politico (il che significava, per il “bene nazionale”, andare contro anche gli interessi particolari di determinati gruppi di capitalisti) grazie al quale applicare la sua politica sociale che, in buona misura, non farà che riprendere le vecchie richieste riformiste del Psi.

Ma torniamo agli anni 1919-1920, anni del dopoguerra in cui, dopo una consistente flessione degli iscritti alla CGdL (nel 1918 erano 201.000 contro i 384.000 del 1911), la pressione operaia è tale che nel 1919 gli iscritti diventano 1.159.000 e nel 1920 toccano la cifra di 2.150.000. Il bisogno di organizzare la difesa dagli attacchi continui del padronato, sia industriale che agrario, alle condizioni di esistenza proletarie e dalla repressione sistematica delle lotte operaie, si accompagna strettamente ad un progressivo aumento degli scioperi sia nell’industria che tra i lavoratori agricoli. Nel 1913 si sono avuti 810 scioperi nell’industria con 384.700 scioperanti, poi calati di molto negli anni della guerra mondiale; ma nel 1919 l’esplosione della lotta sociale porta gli scioperi nell’industria alla formidabile cifra di 1.663 con 1.049.000 scioperanti, mentre in agricoltura gli scioperi, che nel 1918 erano quasi del tutto scomparsi, nel 1919 sono 208 con 505.000 scioperanti. Nel 1920 la pressione delle lotte operaie è ancora fortissima: 1.881 scioperi con 1.268.000 scioperanti nell’industria e ben 189 scioperi con 1.046.000 scioperanti nell’agricoltura. E non scendono in sciopero solo gli operai e i braccianti, ma anche i lavoratori cosiddetti “a reddito fisso” come i maestri, i magistrati, i tecnici e perfino i poliziotti (10). Dal 1921 in poi la pressione operaia cala, inevitabilmente, a cominciare dalla campagna (da qui l’azione fascista inizia le sue gesta, sfruttando l’obiettiva dispersione in cui vivono e lavorano i braccianti).

Il giugno-luglio del 1919 è caratterizzato da un moto sociale che attraversa tutta l’Italia e nel quale si confondono le azioni di sciopero degli operai d’industria e dei braccianti con le lotte contro il caro-vita che hanno coinvolto larghi strati di piccola e media borghesia rovinati dalla guerra. Una delle caratteristiche di questi moti è data dal fatto che le Camere del Lavoro, le sedi delle Cooperative e delle Società di Mutuo Soccorso, diventano dappertutto i luoghi dove gli operi si organizzano chiedendo ai propri dirigenti di guidare il loro movimento, prendere provvedimenti contro i padroni esautorando i prefetti e i vari rappresentanti dello Stato, facendo invece conto sulle “guardie rosse” che si stavano spontaneamente formando; i moti di piazza provocano assalti ai negozi mentre gli scontri con le forze dell’ordine sono quotidiani; si assiste in molte città alla consegna da parte dei commercianti delle chiavi dei propri negozi, accettando di abbattere i prezzi del 50 % e oltre o consegnando direttamente le loro merci affinché la popolazione operaia possa nutrirsi; si assite, nello stesso tempo, in diverse città, alla fraternizzazione tra scioperanti e soldati, e alle volte con gli stessi carabinieri e poliziotti, cosa che mette in seria difficoltà il governo Nitti e i prefetti nel gestire la forza pubblica per reprimere gli scioperi e i tumulti. Tittoni, allora ministro del governo Nitti, infatti scriveva: “Nei gravi tumulti scoppiati in varie parti d’Italia – citato da uno scritto di Tasca riportato nel libro di Del Carria (11) – rimasi impressionato che, per riunire le forze sufficienti a fronteggiarli, occorresse far venire guardie e carabinieri dalle regioni immuni che rimanevano così sguarnite... Più volte ebbi a domandarmi che cosa avrebbe potuto fare il governo se un movimento di rivolta fosse scoppiato contemporaneamente in tutta la penisola”. Il timore per un movimento insurrezionale da parte proletaria era condiviso anche dal segretario della CGdL, Ludovico d’Aragona, riformista di destra del PSI, il quale, delegato dalla CGdL alla conferenza internazionale di Southport delle organizzazioni operaie nella primavera 1919, che decise lo sciopero generale in tutti i paesi a sostegno della rivoluzione russa contro l’intervento militare straniero (al quale la CGdL aderì), così illustrava la situazione italiana: “Non ci sorprenderà affatto se un movimento rivoluzionario scoppia da noi. I risultati non potranno essere decisivi, ma l’insurrezione è inevitabile” (12). Ed è esattamente contro questo previsto pericolo che tutte le forze della conservazione sociale si mobiliteranno ognuna con le proprie caratteristiche e con le proprie “armi”, dal pacifismo democratico al rivoluzionarismo a parole, dal riformismo di destra al nazional-fascismo mussoliniano, per impedire che le masse non solo imboccassero decisamente il cammino della rivoluzione anticapitalistica, ma che trovassero alla loro testa un partito di classe solido e intransigente  dal punto di vista teorico e ben radicato nelle organizzazioni immediate proletarie.

Di esempi se ne potrebbero portare a centinaia, ma basta riferire quanto affermato dagli stessi opportunisti per tracciare la linea del fronte antioperiao e antirivoluzionario, che riprendiamo dal libro di Del Carria come in precedenza, riportando citazioni da varie fonti: “Sotto la spinta delle masse popolari, le Camere del Lavoro erano divenute i centri di organizzazione e di direzione della battaglia; ed esse facevano capo tutti i comitati che si venivano costituendo e non di rado gli stessi commercianti si rivolgevano ad esse per averne direttive e protezione. Ma il Comitato direttivo della Confederazione del Lavoro, riunitosi il 7 luglio, cioè più di una settimana dopo che il moto era scoppiato [il moto contro il caro-vita, NdR], approvava una mozione con la quale esortava i lavoratori ‘a non lasciarsi trarre in inganno da aspettative illusorie riguardo all’azione intesa a stabilire per le merci prezzi di imperio, al disotto del costo di produzione’ e invitava il Governo ad adottare lui le misure opportune per combattere sul serio il carovita” (13), e questo spiega bene l’atteggiamento della CGdL, ma il PSI che fa nel frattempo? Il 4 luglio, quindi 3 giorni prima della mozione approvata dal direttivo della CGdL, il segretario del PSI, Lazzari, emetteva un comunicato nel quale affermava che “il partito non può esere con la folla esasperata per fiancheggiare l’impulso spontaneo e guidare le iniziative verso una possibile soluzione” (14); il movimento fascista mussoliniano, da parte sua, approfitta demagogicamente, come è sua natura, della situazione per affermare con un ordine del giorno dei Fasci di Combattimento la “illimitata solidarietà con il popolo delle varie province d’Italia insorto contro gli affamatori, plaudendo all’iniziativa della requisizione popolare e impegnando i fascisti a indire e fiancheggiare risolutamente le manifestazioni di energica protesta contro le forme più ripugnanti di disfattismo delle classi parassitarie della nazione” (15). Dunque, “le Camere del Lavoro funzionarono per alcuni giorni da organi amministrativi, ma non vi fu da parte dei socialisti il menomo tentivo di dare al moto uno sbocco veramente rivoluzionario, fecero, anzi, piuttosto da freno” (16); analogamente, per il caso di Savona, dove il 7 luglio “migliaia di operai impongono la riduzione del 50%, stabilita dal prefetto solo per le verdure, anche per tutti gli altri generi alimentari, per le calzature e per i tessuti” e “la ressa ai negozi si trasforma nel pomeriggio in un saccheggio che viene bloccato da gruppi di operai che formano una ‘Guardia Rossa’ “ (17), avviene un riconoscimento dal giornale borghese L’Indipendente che scrive : “nella nostra qualità di consumatori non possiamo dir male di questo Soviet, che d’altronde opera d’accordo con l’autorità del Sottoprefetto, il quale non avendo guardie disponibili per contenere i violenti ha accettato la gratuita e simpatica collaborazione dei proletari organizzati... i nuovi pionieri dell’ordine”! (18). 

L’azione nefasta delle forze opportuniste, dai riformisti di destra alla Turati ai riformisti di sinistra alla Serrati (i famosi “massimalisti”), ai capi sindacali della CGdL, sarà decisiva proprio in questo biennio: la classe proletaria dell’industria e dell’agricoltura, che sta dimostrando di essere scesa in campo non semplicemente per rivendicare aumenti di salario ma per affrontare coraggiosamente, in un crescendo continuo, la spietata repressione borghese che vede l’utilizzo contemporaneo di carabinieri, polizia e soldati (non c’è sciopero che non conti morti, feriti, arresti) e l’uso di mitragliatrici e perfino aerei (come il 9 luglio 1919 a Brescia), non può contare su una sicura e ferma guida del partito poiché il Partito socialista italiano, intossicato di democratismo e di parlamentarismo, tutto fa fuorché prendere la testa delle lotte operaie indirizzandole verso gli obiettivi rivoluzionari che, a parole, la sua direzione continua a proclamare essere ben presenti (la sua adesione all’Internazionale Comunista è sfruttata a questo scopo, ma è di fatto uno specchietto per le allodole), ma che in realtà sono confusi e sommersi negli obiettivi realmente perseguiti, e cioè la “conquista del potere” attraverso il metodo democratico, primo fra tutti le elezioni e il parlamento. La direzione del PSI, infatti ha continuato a mescolare dichiarazioni dai toni “sovversivi” ad azioni disfattiste e demoralizzanti rispetto alle lotte operaie tese a rompere con le chiacchiere riformiste e a dirigersi verso lo scontro decisivo con lo Stato borghese. Essa attese il riflusso delle lotte di luglio contro il caro-vita per emanare una sua dichiarazione, l’11 luglio, sui moti e sulla situazione economica (19) agitando, dopo aver abbandonato il proletariato alla sua spontaneità, la parola d’ordine della “lotta finale del proletariato che porti alla conquista del potere economico”. In questa Dichiarazione si può infatti leggere che la Direzione del PSI, riconoscendo “giustificato questo accendersi di ire del popolo contro tutti gli affamtori e speculatori esosi”, approvando ed additando ad esempio “i compagni e i lavoratori che guidarono e disciplinarono, coordinandole, le agitazioni”, constatando con gioia che “dovunque i soldati [...] non si prestarono a fratricida opera di repressione”, essa denunciava il disagio attuale come conseguenza della situazione generale e riaffermava “la assoluta incapacità della borghesia a risolvere questo problema, ed esortava il proletariato a costituire comitati di classe (consigli di lavoratori) per l’offensiva a fondo: “La loro azione sarà svolta esclusivamente sul terreno della lotta di classe, e sarà informata al proposito che una prossima lotta finale del proletariato porti alla conquista del potere economico, e che questo, sulla base della dittatura, sia affidato interamente agli organismi delle classi lavoratrici”. 

 

Il 20-21 luglio 1919 si tiene lo sciopero generale contro l’intervento delle truppe straniere contro la Russia rivoluzionaria, quello sciopero “internazionale” che la conferenza di Southport aveva unanimemente deciso, ma che viene sabotato dalla CGT francese e dalle Trade Unions britanniche; questo sciopero, in Italia in particolare, prende le caratteristiche di una processione pacifica e semplicemente dimostrativa, nulla di più. Alle delusioni cocenti per l’impotenza dimostrata dal PSI negli scioperi e nelle lotte contro il caro-vita, e per l’azione disfattista dei capi della CGdL, si accompagna la demoralizzazione per uno sciopero generale e internazionale che avrebbe potuto essere una vera dimostrazione di forza del movimento proletario in Italia e in Europa, e che invece fu trasformato in una specie di “marcia della pace”. Abbiamo visto come la direzione massimalista del PSI abbia abbandonato i moti contro il caro-vita alla mercé non tanto delle forze statali di repressione, “quanto del sabotaggio politico dei bonzi sindacali (l’esperienza sarà preziosa un anno dopo, durante l’occupazione delle fabbriche, per un altro governo democratico), e così mettere a nudo la propria rassegnazione passiva, la propria vocazione capitolarda di fronte al riformismo” (20). Vediamo ora come i riformisti vedevano la situazione.

Prendiamo le parole di Nenni che descrivono bene, naturalmente con le parole di un riformista venduto da sempre alla borghesia, il momento di forte preoccupazione da parte borghese (21):

“Calmata l’agitazione per il caro-vivere, l’attenzione pubblica si rivolgeva allo sciopero generale, preannuciato per il 20-21 luglio. Questo non dette i risultati attesi.

“Si può dire che l’Italia visse alla vigilia di questo sciopero giornate di una emozione senza precedenti. Tutto ciò che era stato detto negli ordini del giorni della Direzione del Partito e della stessa Confederazione, il linguaggio della stampa, l’allarme dell’opinione pubblica, tutto pareva preludere ad avvenimenti decisivi. Lo stesso Governo era preoccupatissimo. Ligio ai sistemi della scuola giolittiana dalla quale proveniva, l’on. Nitti e i suoi ministr tentarono tutte le vie della corrusione e della intimidazione, agendo segnatamente sui ferrovieri. All’ultimo momento furono mobilitate tutte le forze armate dello Stato, mentre la stampa sfruttava ampiamente i due insuccessi iniziali dello sciopero: la defezioni dei ferrovieri (o meglio di parte dei dirigenti del Sindacato Ferrovieri) e la defezione della francese Confédération Générale du Travail, la quale rinunciò allo sciopero.

“Le speranze delle più accese avanguardie proletarie e le preoccupazioni della borghesia risultarono il 20 e il 21 sproporzionate non solo alle intenzioni dei dirigenti dello sciopero, ma allo spirito delle masse già avvilite per l’insuccesso dei moti del caro-vita. Germinato in una eccezionale atmosfera d’irritazione e di tensione, los ciopero riuscì compatto, ma assunse fin dal primo giorno un aspetto festivo, pittosto che rivoluzionario. Se nelle maggiori categorie non fece difetto la compattezza, da nessuna parte però vi fu fervore ed entusiasmo. Perfino i comizi furono poco affollati ed in genere le masse dimostrarono una grande apatia, ciò che, svanito l’incubo della vigilia, indusse molti borghesi a considerare con mutato spirito le cose. E’ un fatto che da quel momento cominciarono a prendere forma i disegni della borghesia”. Quest’ultima “dopo essere stata neutralista nel 1915, disfattista durante la guerra e dopo l’armistizio, trovò che poteva essere un eccellente affare servirsi degli ex-combattenti, come di una trincea di copertura per i propri interessi e per la difesa dei mal conseguiti guadagni. Ad un tratto i suoi sentimenti verso i d’Annunzio, i Marinetti, i Mussolini – tipici esponenti dell’avventuroso piccolo borghese italiano – mutarono radicalmente. Industriali, banchieri, agrari, questi ultimi specialmente, cominciarono a considerare la possibilità e la convenienza di cercare, all’infuori del Governo, la via della difesa ad oltranza dei loro privilegi. Non si può a questo momwento parlare di una vera e propria azione extra-legale della reazione, ma se ne possono osservare i primi sintomi”.

Che cosa avrebbe dovuto essere realmente lo sciopero generale contro l’intervento militare delle truppe dell’Intesa contro la Russia rivoluzionaria secondo la Direzione del PSI? Avrebbe dovuto essere un decisivo punto di passaggio nell’avanzare del movimento rivoluzionario in Italia, per scatenare la tanto agognata “lotta finale del proletariato”? Nemmeno per sogno.

E’ ancora Nenni che ci svela la posizione della Direzione del PSI: “in un appello ai ‘compagni dei Governi comunisti di Russia e d’Ungheria’, [la Direzione del Partito] aveva cura di ristabilire i limiti della manifestazione: Lo sciopero generale del 20-21 corr. non doveva, per volontà nostra, avere altro carattere che quello di solidarietà con voi, compagni, che con lo strumento della dittatura proletaria traducete in atto l’ideale nostro di redenzione umana [...]. Non era l’inizio della nostra battaglia. Doveva, tutt’al più, esserne il preannuncio” (22); l’uso demagogico della grande parola d’ordine della dittatura proletaria è qui evidente, coperto come al solito dall’adulazione verso i bolscevichi che dopo aver vinto la rivoluzione tenevano testa nella guerra civile sia alle guardie bianche guidate da Kolciak, Denikin, Wrangler ecc. all’interno che all’intervento militare dell’Intesa che attaccava dal Baltico, dal Mare Artico, dal Mar Nero e dal Pacifico, tutto per ingannare più efficacemente i proletari italiani che nella Russia rivoluzionaria vedevano non tanto l’ideale romantico della “redenzione umana”, quanto l’esempio concreto che la lotta proletaria a carattere rivoluzionario, se condotta dal partito di classe rivoluzionario, poteva farla finita con i capitalisti e i loro servi.

Nonostante i magri risultati degli scioperi economici e delle lotte sociali fino a quel momento sostenute nelle strade e nelle piazze di tutt’Italia e la loro repressione sistematica, le agitazioni operaie non terminano; anzi, vanno assumendo un’estensione ancora più grande: al principio di agosto infatti si registra una nuova ondata di scioperi (“Nel principio di agosto erano in sciopero 200 mila metallurgici, i tipografi a Roma e a Parma, i tessili nel comasco, i capitecnici e gli assistenti nel milanese, i marittimi a Trieste, i contadini nel novarese” (Nenni), e dal 9 agosto lo sciopero dei metallurgici diventa generale in tutto il “triangolo industriale” italiano, Lombardia-Piemonte e Liguria, estendendosi anche in Emilia Romagna e in Toscana, sciopero che durerà fino al 27 settembre e che riuscirà ad ottenere gli aumenti salariali richiesti).

La borghesia, pur nella situazione di instabilità politica del dopoguerra, non dimentica le sua esperienze di dominio e le lezioni che ha tratto più volte dalle situazioni di crisi sociale, e sa di dover bilanciare le azioni di repressione violenta delle lotte operaie con l’azione sul terreno della democrazia, e a questo scopo si serve delle forze opportuniste che mantengono ancora una decisiva influenza sul proletariato, cosa che le ha consentito di ingannare a lungo le masse proletarie mantenendole nella sudditanza che permette il loro massimo sfruttamento sia in tempo di pace che in tempo di guerra. Dunque, la borghesia è sempre pronta a giocare la carta democratica, e la usa anche in pieno periodo di moti sociali. D’altronde, verificato che il riformismo socialista ha ancora una forte influenza sulle masse proletarie, nonostante la loro spinta a superare i confini delle rivendicazioni economiche e democratiche per lanciarsi sul terreno dello scontro rivoluzionario per il potere politico centrale, sa che può contare sull’azione disfattista e disgregatrice delle forze proletarie che il riformismo è storicamente chiamato a svolgere. Nello stesso tempo altre forze sociali stavano organizzandosi e rafforzandosi. Da un lato, il fascismo mussoliniano, foraggiato e sostenuto dalla grande borghesia, che si propone come l’organizzazione degli sbandati della guerra, capace di difendere gli interessi di sopravvivenza di coloro che hanno “dato il proprio sangue per difendere la patria nelle trincee” e, soprattutto dopo l’impresa dannunziana con cui reparti di truppe regolari e nuclei di volontari occupano il 12 settembre Fiume, si presenta come uno dei fattori di disgregazione di uno Stato liberale che non solo non ha il controllo sociale ma nemmeno il controllo del suo esercito, paventando la possibilità di un colpo di stato militare. Dall’altro lato, il Partito Popolare Italiano, fondato nel gennaio 1919 dal sacerdote democristiano Don Sturzo e che, per programma, aveva la tutela della famiglia, la libertà dell’insegnamento, l’autonomia degli enti locali, la riforma elettorale basata sulla proporzionale (come volevano anche i socialisti), la libertà e l’indipendenza della chiesa nella piena esplicazione del suo magistero spirituale, il riconoscimento giuridico e la libertà di organizzazione sindacale con rappresentanza paritetica agli altri sindacati, la difesa della piccola proprietà rurale, la colonizzazione dei latifondi ecc. Insomma quel che, per i democristiani,  non era stato possibile ottenere dal papa rigido e ultraconservatore Pio X, lo era divenuto con Benedetto XV, più “politicante” e disposto a lasciare ai cattolici una certa libertà in campo politico. 

L’asso nella manica del governo Nitti non poteva dunque che essere: indire le elezioni, che a causa della guerra erano state sospese. Vengono fissate, infatti, per il 16 novembre 1919. Ma prima di esse, dal 5 all’8 ottobre, si tiene a Bologna il XVI Congresso nazionale del PSI, che avrebbe dovuto incentrarsi soprattutto nel punto centrale dell’ordine del giorno (Indirizzo e mezzi di azione del partito di fronte all’attuale situazione nazionale e internazionale), punto che invece verrà limitato in tempi più ridotti togliendo in questo modo quel dibattito che sarebbe servito, secondo le proposte della Sinistra, a chiarire maggiormente le diverse posizioni di fronte ai gravi problemi del momento. Messo in discussione il programma riformista e tendenzialmente pacifista del 1892 su cui si basava ancora l’azione del partito, l’aspro dibattito, in cui la Sinistra interviene, in continuità con l’azione svolta ben prima del congresso per preparare nella chiarezza teorica e politica l’esclusione dal partito della tendenza riformista di destra e di tutti coloro che ammiccavano da posizioni falsamente estremiste (come era il caso dei massimalisti e dei cosiddetti “unitari”) con i riformisti e con la tattica elezionista e parlamentare, produce la formulazione di un nuovo programma “sostanzialmente compatibile con le tesi” dell’Internazionale di Mosca il quale, assieme all’esplicita adesione all’Internazionale Comunista, formano di fatto una specie di tenaglia in cui imprigionare la frazione comunista. La forza delle ganasce di questa tenaglia, in verità, va cercata nell’Internazionale prima di tutto che faticherà non poco ad accorgersi dell’inganno del massimalismo italiano; deve passare ancora un anno perché la doverosa rottura con le tendenze antirivoluzionarie si produca e nasca finalmente, non si basi fittizie ma nella chiarezza teorica, politica e d’azione più ferma possibile, il “Partito Comunista d’Italia sezione dell’Internazionale”. Livorno, gennaio 1921, la scissione avviene e, in ottemperanza e disciplina verso l’Internazionale, non con l’intransigenza voluta dalla Sinistra comunista, in ogni caso con la rottura più profonda mai realizzatasi in Europa con l’opportunismo socialdemocratico. Ma sappiamo che l’Internazionale successivamente ricadrà nell’errore di utilizzare degli espedienti tattico-politici , come ad esempio la fusione tra i tronconi massimalisti del PSI e il PCd’I, nell’illusione di rafforzare l’organo-partito e di poter condurre le masse proletarie alla lotta rivoluzionaria con più probabilità di successo. Come di fronte alla tattica parlamentarista, così di fronte alla tattica delle fusioni organizzative (e, ancor  peggio, dell’ammissione nell’Internazionale dei partiti “simpatizzanti”) con le tendenze dalle quali ci si era finalmente e definitivamente separati, cogliendone anche la insidie più nascoste, la Sinistra comunista condusse una lunga e solitaria battaglia di intransigenza, nella certezza che tali espedientismi avrebbero portato l’Internazionale, e quindi i partiti ad essa aderenti, alla degenerazione opportunista. La grande battaglia contro non solo la teoria e l’impianto programmatico e politico, ma anche contro il metodo della socialdemocrazia, battaglia che ha visto il bolscevismo, nel decisivo ventennio del Novecento appena iniziato, agire potentemente, trova in Occidente una sola forza politica all’altezza del compito, la Sinistra comunista d’Italia, purtroppo non decisiva per l’influenza sul movimento proletario internazionale, e quindi sulla stessa Internazionale, come avrebbe potuto esserlo una Sinistra comunista di Germania, o di Francia.

A Bologna, il massimalismo vince e consuma quella che sarà la vera sconfitta del proletariato italiano.

Torniamo alle parole della nostra Storia della Sinistra comunista: “L’alternativa della storia fu quella di Bologna: rovesciare energie di masse proletarie nello sfogatorio elettorale e parlamentare, anziché rovesciarle nella non lontana battaglia da dare alle forze unite del fascismo e dello stato borghese democratico, aspetti della stessa vergogna storica. (...) Solo una dittatura rossa può uccidere una dittatura nera” (23). “La scissione”, chiesta, voluta e preparata a Bologna “venne, ma solo a Livorno nel gennaio 1921. La guerra civile venne; ma fu perduta dalle falangi rosse.

Quale la causa? Il colossale errore di volersi salvare dalla sconfitta influendo sul maneggio elettorale e parlamentare dello stato. Chi tagliò i garretti e l’anima al proletariato in marcia?. Il fascismo forse? E forse perché seppe rompere nelle mani del proletariato l’arma di cartapesta a cui l’opportunismo riformista e centrista tipo seconda Internazionale e seconda e mezzo volle affidarlo? No, per dio, l’alea storica favorevole alla rivoluzione fu stroncata dalla decisione di ricorrere al mezzo legale quando la terra e l’aria ardevano di combattimento spietato. La causa del proletariato italiano fu uccisa dalla fede nella democrazia, e non allora soltanto; fu compromessa una situazione feconda per sceglierne una torbida e reazionaria che non fu quella del ventennio fascista, ma è quella di oggi, tutta nutrita di un cinismo e cretinismo parlamentare, di cui neppure la frazione Turati-Treves di tanti anni prima aveva dato paragonabili esempi” (24).

 

(1 - continua)

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice