Sotto il mito dell’Europa Unita covano gli antagonismi  fra le singole potenze imperialistiche e maturano, inesorabilmente, insanabili contrasti che porteranno verso la terza guerra mondiale se la rivoluzione proletaria non la fermerà prima

(«il comunista»; N° 126-127; ottobre 2012)

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Quando l’euro diventò la moneta comune dell’Unione Economica e Monetaria Europea (UEM), unico mezzo di pagamento corrente negli undici paesi dell’Unione Europea (1) che concordarono questo cambiamento, era il 1° gennaio del 2002. Successivamente vi furono ammessi altri piccoli paesi dell’Est Europa portando il totale dei paesi “dell’euro” a 17. Svezia, Danimarca e Regno Unito, che fanno parte dell’UE, continuano invece a battere moneta propria.

All’epoca, la Commissione Europea giustificò così il passaggio dalle monete nazionali alla moneta comune, chiamata appunto euro: i 40 anni seguiti alla seconda guerra mondiale attraverso la Comunità Europa del Carbone e dell’Acciaio (CECA) istituita nel 1951, la Comunità Economica Europea (detta anche Mercato Comune Europeo) e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (detta anche Euratom) istituite nel 1957 dai 6 paesi euro-occidentali definiti “fondatori” dell’Unione Europea (2), avevano fatto raggiungere a questi paesi “un alto grado di sostenibile convergenza economica”. Il mito dell’Europa Unita (ancora negli anni Venti del secolo scorso si parlava di Stati Uniti d’Europa) sembrava finalmente aver trovato le basi perché il progetto di integrazione europea, come soluzione pacifica dei contrastanti interessi economici dei diversi paesi imperialistici europei, potesse effettivamente trovare una sua realizzazione superando “per sempre” gli antagonismi economici, politici, e quindi militari, che portarono alla seconda guerra mondiale, la più devastante che la storia d’Europa abbia conosciuto nei secoli.

Oggi, di fronte ad una crisi di sovraproduzione capitalistica che ha messo in ginocchio alcuni paesi dell’Unione Europea – Grecia, Portogallo, Irlanda – e sta mettendo in seria crisi altri grandi paesi come la Spagna e l’Italia, non solo l’integrazione politica si dimostra, nei fatti, una chimera mentre si evidenzia sempre più la tendenza da parte dei paesi imperialisti più forti ad asservire gli altri, e la Germania in testa a tutti, ma la stessa integrazione economica, apparsa finora come strada che avrebbe portato prima o poi agli ... Stati Uniti d’Europa, si dimostra sempre più un cammino nel quale l’economia più forte – ancora una volta la Germania – detta le condizioni dei rapporti infraeuropei assumendo il ruolo di referente determinante a livello mondiale. Non a caso, a proposito del debito pubblico, per misurare il rischio finanziario e l’affidabilità dello Stato che emette nuovi titoli obbligazionari (ad esempio, i BTP) di restituire alle scadenze il debito contratto con gli investitori, viene utilizzato il differenziale (il famoso spread) tra il tasso di rendimento del titolo emesso da uno Stato e quello del titolo obbligazionario tedesco con la stessa scadenza; il titolo tedesco è preso a riferimento per il semplice motivo che i titoli dello Stato tedesco sono ritenuti, dagli investitori internazionali (i cosiddetti mercati), i più affidabili essendo l’economia tedesca, finora, l’economia europea più forte e stabile. Ed è proprio in un periodo di crisi economica profonda, come quello che si sta attraversando, che i rapporti di forza fra gli Stati, per quanto alleati, emergono nella loro crudezza dimostrando che a guidare la politica dei governi sono gli interessi imperialistici (economici, finanziari e di supremazia politica) di cui ogni Stato è il rappresentante e il difensore nazionale.

 

Le alleanze tra paesi imperialisti sono sempre temporanee e pronte a saltare come le alleanze tra briganti

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A guerra mondiale finita la grande parola delle classi dominanti borghesi europee fu: “integrazione politica contro conflitto militare”, integrazione da raggiungere attraverso una convergenza economica di grado sempre più alto grazie alla quale aprire la strada ai mitici Stati Uniti d’Europa. Lenin, prima, e la nostra corrente di Sinistra comunista con lui, hanno sempre criticato fortemente questa illusione prodotta dall’ideologia borghese liberale e fatta propria dalle correnti socialdemocratiche e riformiste del socialismo novecentesco, in quanto vero e proprio inganno politico in cui far cadere le grandi masse proletarie per portarle, in realtà, ai più alti sacrifici economici in tempo di pace e al massacro nelle guerre imperialiste. Parlare di Stati Uniti d’Europa dimenticando che il capitalismo, diffuso in tutto il mondo, ha raggiunto lo stadio imperialistico da un secolo, significa parlare a vanvera. “Il capitale è divenuto internazionale e monopolistico. – sostiene Lenin nel 1915 – Il mondo è diviso fra un piccolo numero di grandi potenze, vale a dire fra le potenze che sono meglio riuscite a spogliare e ad asservire su grande scala altre nazioni” (3). Quindi, precisa Lenin, “dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della divisione del mondo da parte delle potenze coloniali ‘progredite’ e ‘civili’, gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero impossibili o reazionari” (4). Precisazione non marginale: impossibili o reazionari; dunque, o i rapporti di forza fra i paesi imperialistici, a livello mondiale, nel loro svolgersi impediscono, proprio per l’acutezza dei contrastanti interessi, la formazione di un’alleanza così forte tra i paesi europei da produrre la necessità non solo economica ma politica e militare di un unico Stato, federale o centralizzato che sia – e quindi gli Stati Uniti d’Europa sono impossibili –, oppure le stesse ragioni in termini di rapporti di forza mondiali fra le potenze imperialistiche, magari in seguito ad una guerra che vedrebbe una potenza imperialistica in particolare primeggiare in Europa su tutte le altre (ad esempio la Germania... come tentò di fare nel secondo conflitto mondiale), abbinate alla necessità di fronteggiare una forte ascesa del movimento proletario rivoluzionario a livello europeo e mondiale, renderebbero possibile la formazione degli Stati Uniti d’Europa, ma questi non potrebbero essere che reazionari!

Le tendenze socialdemocratiche, riformiste e pacifiste del movimento operaio nell’Ottocento e nel Novecento, sull’onda delle questioni nazionali irrisolte e delle guerre degli Stati per il dominio sull’Europa e sul mondo, prospettavano la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa sull’esempio degli Stati Uniti d’America, propagandando l’illusorio superamento in regime capitalistico delle guerre fra gli Stati e un illusorio sviluppo del progresso economico e civile che per motore storico continuava ad avere l’accumulazione capitalistica sempre più allargata. Contro questa visione hanno sempre combattuto Lenin e i marxisti rivoluzionari in ogni tempo ed hanno sempre sostenuto che «una federazione di Stati europei capitalistici avrebbe rappresentato, una volta attuata e se attuata, il centrale nemico contro cui il proletariato europeo avrebbe dovuto dirigere il suo sforzo rivoluzionario per strappargli il potere», che «la rivoluzione europea socialista non potrebbe essere vincitrice, nel quadro di una Europa divisa in autonome potenze, se non quando il potere borghese fosse stato travolto in alcune almeno delle più avanzate e più grandi» e che «il potere rivoluzionario che si fosse attuato in un primo Stato o in una parte d’Europa non potrebbe tenere rapporti ed avere alleanze che con i partiti operai in lotta contro i governi degli Stati capitalistici senza assurde fasi storiche di convivenza» (5).

Nella Prima e ancor più nella Seconda guerra mondiale, il proletariato è stato trascinato dalle forze dell’opportunismo socialdemocratico e stalinista a sostenere le rispettive borghesie nazionali contro le direttive classiche del marxismo rivoluzionario fatte proprie dal partito bolscevico di Lenin, dall’Internazionale Comunista nei suoi primissimi congressi e dalle correnti della sinistra rivoluzionaria che combatterono contro il tradimento dei partiti socialisti. La sconfitta della rivoluzione bolscevica in Russia e del movimento comunista internazionale, come il continuo ripresentarsi sulla scena delle crisi economiche e delle guerre fra gli Stati, per i marxisti non è mai stato motivo di rigettare l’impostazione marxista del socialismo e della storica fine del capitalismo, poiché le contraddizioni profonde del modo di produzione capitalistico sono destinate ad acutizzarsi e ad esplodere, mettendo in movimento la forza dirompente delle gigantesche masse proletarie del mondo, nonostante i più diversi tentativi che le classi borghesi dominanti attuano per allontanare nel tempo la loro catastrofica fine. All’appuntamento storico con la crisi rivoluzionaria il proletariato dovrà incontrare il partito rivoluzionario di classe, organo decisivo della rivoluzione e del suo svolgimento vittorioso, partito che risponderà al suo compito storico alla condizione di non aver mai sostituito il marxismo con le sue basi teoriche, il suo programma e la strategia rivoluzionaria che ne discende con l’ideologia borghese, il suo programma e la sua strategia di conservazione sociale.

Perciò, per i marxisti, è vitale rifarsi sistematicamente all’esperienza storica della lotta fra le classi, classi che scompariranno solo con la fine della società capitalistica fondata sul consumo della produzione e il suo superamento nella società fondata sulla produzione per il consumo: modo di produzione volto a soddisfare i bisogni di vita della specie contro modo di produzione volto a soddisfare i bisogni del mercato, questa è la bandiera.

Si dirà: a novantacinque anni dalla rivoluzione d’Ottobre, a ottantacinque anni dalla sconfitta del movimento comunista rivoluzionario internazionale, a settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, le cose nel mondo sono molto cambiate sia sul versante dello sviluppo economico sia sul versante delle condizioni di vita dei popoli che, nei paesi capitalistici sviluppati e in quelli capitalisticamente emergenti, sono migliorate rispetto alle condizioni di un secolo fa. Inoltre, riferendosi al brano citato da Lenin, si è sviluppata enormemente l’esportazione di capitale, investito massicciamente nella gran parte dei paesi del mondo; la potenza economica e finanziaria non è più rappresentata da un pugno di Stati imperialistici che dominano il mondo e non esistono praticamente più le colonie; tramontate le potenze coloniali di un tempo, la strada dello sviluppo economico si è aperta a paesi un tempo sotto il dominio coloniale o semicoloniale delle potenze europee, Inghilterra e Francia in testa, mentre le potenze europee, ridimensionate nell’arco di due guerre mondiali dallo sviluppo vorticoso degli Stati Uniti d’America e del Giappone, si sono indirizzate verso rapporti economici e commerciali infraeuropei meno conflittuali iniziando il cammino verso la tanto ambita “integrazione europea”.

Non esistono più le colonie? Un cambiamento c’è stato, è vero. Le lotte anticoloniali che hanno caratterizzato gli anni del secondo dopoguerra, in Asia e in Africa, fino al 1975 quando Angola e Mozambico si sono scrollati di dosso l’arcigno dominio portoghese, hanno effettivamente segnato la fine del vecchio colonialismo europeo che, oltretutto, fortemente indebolito in seguito allo sforzo bellico, ha dovuto via via togliere gli artigli dalle proprie colonie; ciò è valso soprattutto per l’Inghilterra e la Francia, mentre per la Germania, il Giappone e, in buona sostanza, anche per l’Italia, l’indebolimento va ascritto soprattutto alle massicce distruzioni di guerra e alla sconfitta militare nella seconda guerra mondiale, sebbene le distruzioni di guerra siano state nello stesso tempo il punto di partenza di un ringiovanimento generale dei rispettivi capitalismi nazionali. Il vecchio colonialismo europeo, però, è stato sostituito da una nuova forma di colonialismo: le spedizioni militari e l’occupazione militare delle colonie sono state in buona parte sostituite dagli investimenti di capitale. Il dollaro divenne l’arma principale con cui le colonie “decolonizzate” venivano tenute in ostaggio, e dietro il dollaro, la sterlina inglese, il franco francese e, molto tempo dopo, il marco tedesco. La nuova divisione del mondo, seguita alla seconda guerra imperialistica, veniva tracciata secondo le linee di forza delle potenze imperialistiche che investivano di più all’estero e che, naturalmente, difendevano i propri investimenti sia con il ricatto finanziario sia con le missioni militari. E’ noto che, per diversi decenni dalla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti d’America, prima economia mondiale, sono stati “padroni del mondo”, surclassando di gran lunga Inghilterra, Francia e Germania messe assieme. Di fronte ai nuovi padroni del mondo si ergeva l’Urss che concordava con gli Usa un patto di spartizione economica e di controllo politico soprattutto dell’est europeo e dell’Asia, in una specie di condominio mondiale (basato anche sulla rispettiva dotazione di arsenali nucleari che giustificavano un “equilibrio del terrore”), e che, in mancanza di una potenza economico-finanziaria come quella statunitense, metteva in campo la sua forza militare con la quale garantiva il controllo dei paesi dell’Europa dell’est dopo essersi accaparrata una parte della sempre temutissima Germania. Gli Stati Uniti d’America, da parte loro, si assicuravano la colonizzazione finanziaria dei paesi dell’Europa occidentale, e del Giappone, rovinati dalle devastazioni belliche e bisognosi, per la stessa ricostruzione postbellica, di un gigantesco flusso di capitali di cui all’epoca soltanto gli Usa disponevano; e, nel giro di un quindicennio dopo la fine della guerra mondiale, andavano a sostituire Inghilterra e Francia in una buona parte delle loro ex colonie in Africa e in Asia, affondando i propri artigli foderati di dollari soprattutto nei paesi produttori di petrolio.

L’Europa uscita dalla seconda guerra imperialistica non presentava una situazione diversa da quella descritta da Lenin nel 1915 per il capitalismo in generale: “In regime capitalistico non è possibile un ritmo uniforme dello sviluppo economico né delle singole aziende, né dei singoli Stati. In regime capitalistico non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto in tanto l’equilibrio spezzato, all’infuori della crisi nell’industria, e della guerra nella politica” (6). Solo che l’equilibrio, spezzato prima della guerra e conseguente alla guerra stessa, veniva “ristabilito” dalle potenze imperialistiche che nella guerra e dalla guerra ne uscivano più forti, Usa e Urss, e in tale “equilibrio” va letto anche un obiettivo che accomuna le classi dominanti borghesi di ogni paese, quello di assicurarsi il controllo sociale del proletariato con i più diversi mezzi: la pressione economica e l’accresciuto dispotismo in fabbrica e nella vita sociale, l’illusione democratica e il terrorismo della dittatura militare, la propaganda religiosa e l’opera capillare e insistente delle forze opportuniste del collaborazionismo sindacale e politico, la repressione delle lotte operaie e dei movimenti di protesta non controllati o diretti da queste forze ecc. Quindi, il “condominio russo-americano” sul mondo – di cui il nostro partito trattò fin dalle sue origini – serviva non solo per spartire le zone di influenza fra “le potenze che sono meglio riuscite a spogliare e ad asservire su grande scala altre nazioni”, come affermava Lenin, ma anche per dividersi il compito di controllare strettamente il proletariato in modo che le sue inevitabili ribellioni sociali non sfociassero nella ripresa della lotta di classe e nella rivoluzione anticapitalistica. Avvisaglie di questa potenzialità  si erano materializzate già durante la guerra, ad esempio con gli scioperi operai italiani nel marzo del 1943, con la resistenza proletaria nel ghetto di Varsavia nel 1944, e successivamente con l’insurrezione proletaria di Berlino nel 1953. Il proletariato europeo, nonostante la tremenda sconfitta del suo movimento rivoluzionario negli anni Venti, nonostante l’affossamento della dittatura proletaria rivoluzionaria in Russia da parte della controrivoluzione staliniana e la degenerazione dell’Internazionale Comunista, incuteva ancora una grande paura alle borghesie d’Europa che, a poco più di vent’anni di distanza dai dieci giorni che sconvolsero il mondo, non avevano dimenticato di quale forza dirompente fosse capace il proletariato se organizzato sul terreno di classe e guidato dal suo partito politico rivoluzionario.

La differenza tra le singole potenze imperialistiche europee non è scomparsa con la ripresa economica e la ricostruzione postbellica; anzi, si è ancor più acutizzata, come d’altra parte è normale per ogni singola azienda, e per ogni singolo Stato, in regime capitalistico, perché la concorrenza non sparisce, ma si fa più forte e perché l’anarchia della produzione, caratteristica del capitalismo, si sviluppa sempre più fino a scontrarsi, in cicli successivi, nelle crisi di sovraproduzione. La tendenza dei singoli capitalismi nazionali, e delle singole potenze imperialistiche che ne rappresentano gli interessi, a spartirsi il mercato - dunque i territori economici e quindi la loro colonizzazione - è tendenza oggettiva del capitalismo e tale spartizione non può avvenire che secondo la forza reale (economica e politica, certo, e militare) di ogni paese, di ogni Stato capitalistico, forza che può essere misurata solo attraverso la guerra – la guerra commerciale, la guerra monetaria, la guerra finanziaria, la guerra guerreggiata.

«L’origine e la causa delle guerre – si legge in un articolo di Bordiga del 1950 (7) – non sono in una crociata per principi generali e per conquiste sociali. Le grandi guerre moderne sono determinate dalle esigenze di classe della borghesia, sono l’indispensabile quadro in cui può attuarsi l’accumulazione iniziale e successiva del capitale moderno». E, ritracciando il filo ininterrotto che lega la posizione di oggi al marxismo classico, Bordiga sintetizza così il corso storico borghese: «Rileggiamo la drammatica apologia del nostro nemico, nel Manifesto: La borghesia lotta senza posa; dapprima contro l’aristocrazia, poi contro le parti di se stessa i cui interessi contrastano al progresso dell’industria; sempre poi con le borghesie straniere! Rileggiamola nel Capitale: La scoperta delle contrade aurifere e argentifere dell’America, la decimazione e la schiavizzazione dei popoli indigeni sepolti nel lavoro delle miniere, le conquiste e le depredazioni nelle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una specie di parco commerciale per la caccia alle pelli nere, ecco gli idilliaci processi di accumulazione primitiva che segnano l’aurora dell’epoca capitalistica. Subito dopo scoppia la guerra mercantile; essa ha per teatro il mondo intero: cominciata con la rivolta dell’Olanda contro la Spagna, essa assume gigantesche proporzioni nella guerra antigiacobina dell’Inghilterra, si prolunga fino ai nostri giorni in spedizioni da pirati come le famose guerre dell’oppio contro la Cina.

«A questo fondamentale periodo segue quello che finisce con una frase famosa: la violenza è la levatrice di ogni antica società, gravida di una società nuova. La violenza stessa è una potenza economica! I vari momenti dell’accumulazione primitiva si ripartiscono in su le prime, seguendo un ordine più o meno cronologico, in Portogallo, in Spagna, in Olanda, in Francia e in Inghilterra, fino a che quest’ultima nell’ultimo terzo del XVIII secolo li combina tutti in un complesso sistematico che comprende nello stesso tempo il regime coloniale, il credito pubblico, la finanza moderna ed il sistema protezionistico». Nella visione dei marxisti, l’obiettivo centrale dell’assalto rivoluzionario non poteva che essere il colosso britannico proprio perché rappresentava non solo il primo modello universale della schiavitù capitalistica, ma anche perché rappresentava il centro più potente della conservazione borghese. Ed è scorrendo il reale sviluppo storico delle potenze capitalistiche e imperialistiche che nell’articolo si conclude: «Il marxismo non è codificato in versetti; dove il suo fondatore scrisse nel 1867 Inghilterra dobbiamo nel 1949 leggere Stati Uniti d’America». Dal 1949 è passato un altro ciclo storico, tre generazioni, e anche se gli Usa, oggi 2012, non hanno più l’agilità e la forza universale del 1949, restano pur sempre la prima economia del mondo e il principale nemico della rivoluzione proletaria e comunista. Vale per noi la stessa direttiva di ieri: «giammai potremmo scegliere la parte dove sta l’Inghilterra!», e quindi «giammai potremmo scegliere la parte dove stanno gli Stati Uniti d’America!», senza dimenticare che questa direttiva fa parte integrante della tesi marxista generale scritta a chiare lettere già nel “Manifesto” del 1848, e cioè che «ogni partito proletario ha un compito nei limiti nazionali poiché tende anzitutto ad abbattere la propria borghesia. La guerra non solo non è motivo per concedere alla classe dominante una tregua interna, e tanto meno per passare al suo servizio contro lo Stato nemico, ma, come teorizzò Lenin, conduce per via tanto più diretta alla possibilità della rivoluzione, quanto più è rovinosa per la borghesia della nostra patria» (8).

 

Europa, tra ambizioni di integrazione politica e scontro di interessi imperialistici

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Si dirà: in Europa, fino alla guerra anglo-americana nei Balcani del 1991-92 alla quale partecipò una coalizione di molti paesi europei contro la Serbia per spartirsi una Jugoslavia che stava andando in pezzi, non vi è stata per quasi cinquant’anni una guerra in Europa per una diversa spartizione imperialistica dell’Europa stessa e del mondo. Con l’implosione dell’impero russo, dovuta soprattutto agli effetti di una crisi economica e politica provocata dalla pluridecennale pressione economica e finanziaria delle potenze occidentali (Germania in testa a tutti), pressione che ha permesso alla crisi euro-occidentale di riversarsi sulle più deboli economie euro-orientali, si è sono avute conseguenze che, in un certo senso, ci sarebbero state solo con una guerra mercantile, per riprendere le parole di Marx: non c’è stato bisogno di scontri armati, scontri che, d’altra parte, non erano ancora maturi e che sono stati rimandati nel tempo. Già nel periodo 1988-90, i più grandi paesi dell’Europa dell’Est, Germania orientale, Polonia e Ungheria si erano praticamente staccati dalla presa politica e militare soffocante di Mosca; la Germania occidentale, nel 1990, riunifica a sé  la Germania orientale, mentre Polonia e Ungheria, seguite dalle altre ex-democrazie popolari, iniziavano un tragitto politico che le avrebbe portate in grembo all’Unione Europea e nella Nato.

L’Unione Europea, dunque, nata nel 1993 su iniziativa soprattutto di Germania, Francia, Regno Unito, Belgio e Italia, continua negli anni succesivi ad essere un traguardo per un numero sempre crescente di Stati. L’illusione di raggiungere prima o poi il traguardo degli Stati Uniti d’Europa viene così alimentata; ma il percorso è molto accidentato ed ogni anno nascono diatribe sulle più diverse questioni, ultima in ordine di tempo la questione del debito pubblico dei singoli paesi membri e il pericolo di bancarotta per alcuni di loro come nel caso del Portogallo, dell’Irlanda e della Grecia per i quali gli interventi di salvataggio con adeguati prestiti da parte della BCE hanno sempre dovuto passare per il benestare della Banca Centrale Tedesca. Gli effetti dell’attuale crisi, inoltre, hanno talmente scosso la fiducia tra i paesi membri che per la prima volta, a dieci anni di distanza dall’introduzione dell’euro come moneta unica, è emersa la possibilità che alcuni paesi, come ad esempio la Grecia, sottoposti a misure d’austerità intollerabili sia per le grandi masse  sia per la stessa economia nazionale, prendessero in considerazione l’uscita dall’euro e il ritorno a battere moneta nazionale come in precedenza, pensando così di potersi svincolare dagli obblighi soffocanti imposti dalle politiche dei paesi imperialisti più forti (leggi Germania, ma anche Francia, Belgio, Olanda) interessati sì a salvare l’alleanza nell’Unione Monetaria Europea ma  a condizione di non perderci troppo.

Ciò nonostante, gli europeisti stanno puntando verso una più forte integrazione economica degli attuali 25 paesi membri che dovrebbe precedere l’integrazione politica, i mitici Stati Uniti d’Europa. Come dire che l’accordo tra capitalisti e tra potenze è sempre possibile, basta che lo “si voglia” e che se ne vedano i vantaggi “per tutti”. Ma, a dispetto di questo idilliaco futuro, si ergono i problemi veri che provengono dalla storia stessa del capitalismo e della formazione degli Stati borghesi. L’Europa è stata la culla del capitalismo e delle rivoluzioni borghesi; ma lo sviluppo del capitalismo nei diversi paesi non è mai stato simultaneo, né ha proceduto con la stessa forza e le stesse fasi contemporaneamente. Lo stesso ineguale sviluppo del capitalismo si è  riprodotto nei diversi paesi del mondo confermandosi legge storica del modo di produzione capitalistico, e la borghesia non ci può far nulla perché, in ogni paese, non può fare altro che operare per soddisfare le esigenze di sviluppo del capitalismo nazionale contro ogni altro capitalismo nazionale, contro ogni altra borghesia straniera in rapporti di forza che non dipendono dalla “volontà” o dalla “determinazione” di un governo, ma dalle reali basi economiche e dal loro corso di sviluppo nella lotta di concorrenza mondiale su cui quel governo poggia. La borghesia è in guerra continua, come ricorda l’articolo di Bordiga citato sopra, ma la sua guerra poggia sulla forza della sua economia e più concorrenti si presentano sul mercato, più complessa e acuta si fa la guerra, e diventa sempre più vitale accumulare forza economica perché questa dà forza politica e militare. In economia lo sviluppo capitalistico porta alla formazione delle società per azioni e dei monopoli, dunque alla concentrazione e centralizzazione economica e finanziaria che per teatro non ha più soltanto i confini di uno Stato ma il mondo intero; in politica lo sviluppo capitalistico porta all’imperialismo, al dominio dei mercati e quindi alle alleanze, ai blocchi politico-militari, per assicurarsi il controllo dei mercati e per rafforzarsi di fronte alla concorrenza  di altri Stati e di altre alleanze.

La storia stessa del capitalismo dimostra che ogni accordo fra paesi capitalisti, inteso a facilitare la circolazione delle merci, dei capitali e delle persone, e a stringere alleanze che appaiono di ferro, può saltare da un momento all’altro per i motivi più diversi, ma in genere sempre legati agli interessi più profondi dei rispettivi capitalismi nazionali. Come i capitalisti singoli, così gli Stati capitalisti cercano le alleanze per contrastare, da posizioni “più forti”, la concorrenza sui mercati; per gli Stati – come d’altra parte per i trust – gli interessi da difendere a livello internazionale sono sempre più complessi poiché non si tratta solo di facilitare le esportazioni e gli affari e di difenderne il volume e la continuità nel tempo, ma si tratta soprattutto di imporli, e per imporli ci vuole, assieme alla forza economica e finanziaria, la forza politica e militare, sebbene la forza militare, almeno tra potenze imperialiste, non venga utilizzata sempre in scontri diretti.

Dalla fine della seconda guerra imperialistica in poi, a parte alcuni periodi in cui i contrasti tra i due blocchi politico-militari, Usa e Urss, minacciavano di tramutarsi in scontro militare diretto (nel 1950 nella guerra di Corea, nel 1962 per la presenza di missili atomici sovietici a Cuba) non si è mai arrivati finora ad una crisi generale dei contrasti interimperialistici tale da essere trasformata in crisi di guerra mondiale; si è però assistito ad un crescendo micidiale di guerre locali in ogni zona del mondo, in particolare in Asia e in Africa (dalla guerra civile in Cina 1945-49, alla guerra in Indocina 1947-54, dalla guerra di Corea 1950-53 al colpo di stato in Iran del 1953 alla guerra in Algeria 1954-62, per non parlare delle guerre arabo-israeliane nel 1956, 1967, 1973, 1982, della guerra in Vietnam 1963-73 e su su attraverso la guerra civile libanese 1975-1990, la guerra somalo-etiopica del 1977-78, l’intervento diretto in Afghanistan dell’Urss nel 1979-89 e poi della grande coalizione guidata dagli Usa dal 2001 e ancora in essere, e della guerra euroamericana contro la Serbia 1991-92 e per la spartizione della Yugoslavia, di quella contro l’Irak nel 1990-91 e nel 2003 dopo averlo sostenuto nella guerra contro l’Iran nel 1980-88 ecc. ecc.). In una certa misura, oltre allo sviluppo dell’economia capitalistica in altri paesi come la Cina, la Corea del Sud, l’India, il Brasile, la Turchia, l’Indonesia, il Sudafrica ecc., la persistenza di guerre locali nelle diverse “zone delle tempeste” del mondo ha contribuito a dare fiato alle economie dei paesi più industrializzati, e questo i capitalisti  e i governanti borghesi lo sanno molto bene. Sul sito della Morgan Stanley, una delle principali banche d’investimento americane, l’11 settembre 2001, si poteva leggere questo passo: “Che cosa può ridurre drasticamente il deficit delle partite correnti americane, e per questa via eliminare i rischi più significativi per l’economia degli Stati Uniti e per il dollaro? La risposta è: un atto di guerra. L’ultima volta che gli USA hanno registrato un surplus delle partite correnti è stato nel 1991, quando il concorso dei Paesi esteri ai costi sostenuti dall’America per la guerra del Golfo ha contribuito a generare un avanzo di 3,7 milioni di dollari” (9). La data e l’ora in cui è stato scritto questo report sono significative: 11 settembre 2001, tre le 7.30 e le 8.00 del mattino (ora di New York), cioè un’ora prima dell’attentato alle Torri Gemelle, il che può voler dire solo una cosa e cioè che la guerra, per essere considerata una “risposta” da prendere seriamente in considerazione rispetto agli interessi economici e imperialistici statunitensi, non aveva bisogno di essere giustificata da un attentato terroristico di Al Qaida...

Sebbene per lungo tempo le guerre locali che hanno punteggiato il corso della vita degli imperialismi principali abbiano visto protagonisti diretti o indiretti le due superpotenze, Usa e Urss, la scomparsa dell’impero russo e il contemporaneo dimensionamento della potenza statunitense hanno lasciato spazio ad altri attori che si sono fatti avanti sia sul fronte della partecipazione diretta a spedizioni militari, come nel caso dell’Iraq o dell’Afghanistan, sia su quello del loro appoggio a distanza, come nel caso della guerra alla Serbia e dello smembramento della Jugoslavia, o su quello dell’astensione, come nel caso della guerra alla Libia, se non dell’opposizione netta come nel caso della Siria. E i nuovi attori sono soprattutto gli imperialismi di Germania e Cina, oggettivamente interessati entrambi a contrastare la politica imperialista degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Francia. La Germania è nuovamente diventata, dal punto di vista economico, una potenza temibile a livello mondiale, ma non si è ancora dotata della forza militare corrispondente alla sua forza economica e finanziaria e alle ambizioni di un imperialismo che storicamente è proiettato a dominare nell’Europa continentale estendendo la sua influenza ad est, verso la Russia e nel Vicino e Medio Oriente. Un imperialismo come quello tedesco non rimarrà per molto tempo ancora alla finestra assistendo ai giochi degli altri imperialismi concorrenti volti a preparare ognuno le proprie carte per una nuova spartizione del mondo; dovrà ad un certo punto scrollarsi di dosso la tutela militare della Nato, ossia dei vecchi Alleati della seconda guerra mondiale, Stati Uniti-Francia-Regno Unito, e spingere il proprio militarismo verso quell’indipendenza e quella libertà d’azione necessarie a difendere i propri interessi in ogni parte del mondo essi vengano messi in pericolo, a cominciare dall’Europa che rappresenta il secondo mercato mondiale dopo gli Stati Uniti d’America. Questo porta ad una considerazione: il vero punto critico dell’Europa, dal punto di vista della crisi di guerra, più che cercarlo nei suoi paesi economicamente più deboli, bisogna cercarlo nei paesi più forti, e soprattutto nella Germania che oggi, per i rapporti di forza ancora esistenti, mentre sta ridiventando un gigante dal punto di vista della produzione industriale e da quello finanziario, è ancora condizionata a rimanere un pulcino dal punto di vista militare.

 

L’espansione capitalistica post-guerra rimette in corsa le potenze imperialiste sconfitte in guerra e apre il banchetto a nuove potenze emergenti

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Nel trentennio seguito alla fine della seconda guerra mondiale, a dispetto di tutti coloro che vedono soltanto un processo continuo di decadenza del capitalismo, si è vista invece una formidabile espansione del capitalismo a livello internazionale, con un rimescolamento inevitabile dei rapporti di forza tra le diverse potenze imperialiste; sotto la cappa “protettiva” del condominio russo-americano sul mondo, ricrescevano economicamente i due paesi, Germania e Giappone, che avevano dato più filo da torcere alle vecchie potenze coloniali e agli Stati Uniti d’America, e verso i quali più che altrove si dirigevano massicci investimenti di capitale. La spartizione del mondo, dal punto di vista della forza economica di ciascuna potenza imperialista, imboccava così un cammino che, nel suo corso di sviluppo, era destinato a spezzare nuovamente gli equilibri usciti dalla seconda guerra mondiale. La crisi mondiale di sovraproduzione del 1973-1975, se da un lato ha chiuso il lungo ciclo di espansione capitalistica post-guerra, dall’altro ha aperto un ciclo di accelerazione economica in paesi che nel ventennio successivo allargheranno le basi per una espansione economica importante (ripetiamolo: Cina, soprattutto, ma anche Corea del Sud, Brasile, India, Messico, Turchia, Iran, Sudafrica ecc.) e, da un altro lato ancora, ha portato a maturazione i fattori di crisi del dominio di Mosca sulla sua “riserva di caccia” euroasiatica, dominio destinato a saltare tra il 1989 e il 1991.

Il condominio russo-americano sul mondo si fondava soprattutto sulle rispettive potenze militari (e nucleari), temibili entrambe, ma era evidente che la potenza economica e finanziaria degli Stati Uniti d’America surclassava di gran lunga quella russa, come d’altra parte quella di ogni altro paese imperialista esistente. La Russia, da parte sua, pur avendo sviluppato l’economia capitalistica in modo storicamente accelerato dagli anni della controrivoluzione staliniana in poi, non poteva e non avrebbe mai potuto realizzare l’illusorio e falsissimo obiettivo di “raggiungere e superare” nel 1980 l’economia americana che Kruscev, nella visionaria e ingannevole ideologia di un comunismo mercantile, lanciava dal palco dei congressi del PCUS. In realtà, per la Russia, sia per sviluppare il capitalismo nazionale sia per rafforzare il suo dominio sulla propria zona d’influenza nel ruolo, condiviso con gli USA, di dominio imperialistico sul mondo, era vitale ottenere massicci investimenti di capitale che potevano venire innanzitutto dagli Stati Uniti e dai paesi imperialisti europei, Germania innanzitutto. Questi paesi, d’altra parte, erano alla ricerca smaniosa di mercati dove esportare i loro capitali: aprire il proprio mercato nazionale e i mercati rappresentati dai paesi satelliti dell’Europa dell’est al dollaro, al marco, alla sterlina, al franco francese, alla lira italiana, allo yen, e ai rispettivi impianti industriali, diventava perciò l’unica cosa da fare per il capitalismo russo e per quello dei suoi satelliti. Ma l’apertura  dei territori economici dominati dall’imperialismo russo ai capitali delle potenze occidentali significava non solo rendere la cosiddetta “cortina di ferro” un vero e proprio colabrodo, ma anche importare in modo più rapido e diretto al suo interno – fino ad allora in qualche modo separato dal mercato occidentale e protetto militarmente allo scopo di agevolare l’accumulazione del capitale in Russia – tutte le contraddizioni e i fattori di crisi che il capitalismo più sviluppato stava accumulando nel tempo.

L’apertura dei mercati dell’est Europa rispondeva, in sostanza, alle esigenze della conservazione borghese. All’inizio degli anni Settanta, quando i primi importanti segnali di crisi capitalistica stavano emergendo e si erano tenuti a Mosca e Varsavia degli incontri con la Germania e con i paesi occidentali, si può leggere, nell’allora giornale di partito, quanto segue: Assistiamo ad una  «fitta rete di tentativi di esportare, ad Oriente per le potenze occidentali e ad Occidente per il Giappone, la crisi incipiente del capitalismo internazionale. Da questi tentativi le potenze del cosiddetto blocco russo si sforzano di trarre vantaggiose condizioni per il consolidamento dei loro rispettivi affari. Questo tentativo di soluzione “pacifica” della crisi internazionale, che ricorda tutti i tentativi precedenti le due guerre mondiali, è oltremodo difficile e non è detto che debba riuscire o comunque risolversi in maniera rapida e soddisfacente per la conservazione del regime capitalistico. Tuttavia, com’è nelle buone regole del gioco, è lasciata aperta la porta anche all’altra soluzione bellica, di cui l’esempio più cospicuo è l’attuale rincrudirsi del conflitto arabo-israeliano [e si pensi anche alla recrudescenza della guerra in Indocina]. Il capitalismo è previdente! La Russia, il blocco orientale”, e la Cina potrebbero giocare il ruolo di rinviare la crisi capitalistica generale, assorbendola nell’urto», e, fungendo da mercati di sbocco, avrebbero potuto dunque consentire il ritardo del conflitto (10). La previsione si è dimostrata esatta: le potenze imperialistiche hanno continuato ad armarsi per affrontare la crisi generale capitalistica eventualmente con la guerra, ma nello stesso tempo hanno portato avanti i tentativi di aprire altri mercati di sbocco per le merci e i capitali sovrabbondanti nell’unica parte del mondo potenzialmente pronta ad accoglierli con reciproci vantaggi: Russia, blocco dei paesi europei orientali e Cina, il cosiddetto, e falsissimo, “campo socialista”. La crisi generale del 1975 non rappresentò il detonatore della terza guerra mondiale perché, effettivamente, quei mercati di sbocco consentirono il rinvio della soluzione di guerra generale, ma, nello stesso tempo, come abbiamo ricordato sopra, provocò l’estensione delle zone di conflitto imperialistico in altri paesi del Medio e dell’Estremo Oriente e dell’Africa, aumentando ed amplificando in realtà i fattori di crisi per i decenni successivi.

I contrasti interimperialistici non sono andati attenuandosi, al contrario si sono sempre più acutizzati. E sarebbe sbagliato credere che le potenze imperialistiche dominanti sfoghino le loro tensioni e i loro contrasti solo alla periferia delle loro metropoli. E’ ben vero che lo sfruttamento più bestiale delle masse umane e i conflitti armati che hanno punteggiato tutto il periodo seguito alla fine della seconda guerra mondiale hanno riguardato soprattutto i paesi capitalistici arretrati, in particolare dell’Asia e dell’Africa, che hanno subito e subiscono fame, miseria e devastazioni di guerra; ma, sotto l’apparente pace che regna nei paesi capitalistici sviluppati, il Nord America, l’Europa e il Giappone, costituendo essi i mercati decisivi per il capitalismo mondiale sia per le merci che per i capitali, sono destinati non solo ad essere il bacino in cui si generano e si sviluppano i più importanti fattori di crisi internazionale, ma ad essere nello stesso tempo i protagonisti della crisi capitalistica generale, mentre l’Europa, in particolare, potrebbe ridiventare, come già nel 1914 e nel 1939, l’epicentro della futura guerra mondiale ricreando le condizioni oggettive anche della futura crisi rivoluzionaria.  

La base dei contrasti fra le potenze imperialistiche è sempre la stessa: iperfolle produzione di merci e di capitali alla ricerca di mercati di sbocco attraverso i quali realizzare la valorizzazione del capitale (grossolanamente detta produzione di profitto capitalistico) e difficoltà di trovare sbocco per tutta la quantità di merci e di capitali prodotta. E’ inevitabile, per il capitalismo, andare incontro a crisi di sovraproduzione in cicli sempre più corti e con conseguenze sempre più drammatiche a livello economico e sociale. Per i capitalisti, la costante pressione sulla classe salariata per abbassarne i salari e per ricavare dal suo lavoro una produttività sempre più alta, è questione di vita o di morte dato che sul mercato essi “vincono”, mantenendo ed allargando le proprie quote di vendita e di investimento, solo a scapito dei capitalisti concorrenti. Per i proletari, chiamati  dalla peste opportunista a solidarizzare con i propri padroni, impegnati nella lotta di concorrenza con altri capitalisti, allo scopo di difendere gli interessi delle aziende in cui lavorano, ma dalle quali possono essere espulsi da un giorno all’altro senza preavviso, è questione di vita o di morte la resistenza quotidiana alla pressione capitalistica, sui luoghi di lavoro come nella società, e quindi il rifiuto di solidarizzare con gli interessi padronali, lottando invece contro quegli interessi e contro la concorrenza tra proletari alimentata da ogni capitalista e da ogni governo borghese. Se per i capitalisti la questione vitale è difendere il proprio patrimonio, il proprio capitale e le condizioni sociali (dunque, il dominio capitalistico sulla società) che permettono la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’appropriazione privata della produzione sociale, legando quindi la loro sopravvivenza alla conservazione sociale borghese, per i proletari la questione vitale è difendersi dalle condizioni sociali che li obbligano a sottostare allo sfruttamento capitalistico, al lavoro salariato, resi schiavi per la vita e per la morte all’interesse del profitto capitalistico che prospera solo nella società borghese in tempo di pace come in tempo di guerra. I contrasti tra capitalisti nel mercato nazionale si riproducono, a livello dello Stato borghese che ne organizza la difesa generale, nei contrasti con gli altri Stati nel mercato mondiale: l’aziendalismo si trasforma in regionalismo, in nazionalismo; la solidarietà aziendale che il capitalista chiede ai propri schiavi salariati si eleva a solidarietà nazionale cercata in tempo di pace attraverso la propaganda democratica e pacifista, ma imposta in tempo di guerra con la legge marziale. Corso storico che sostanzialmente si ripete, già visto e interpretato dal marxismo che ha dato fin dalle sue origini la sua risposta: alla prospettiva della conservazione sociale, dei rinnovati e sistematicamente distrutti cicli produttivi di merci e di capitali, della persistenza della schiavitù salariale per le sempre più numerose masse proletarie nel mondo, e di uno sviluppo capitalistico che inevitabilmente sbocca nella guerra di rapina mondiale, i comunisti oppongono la prospettiva della rivoluzione proletaria che ha per scopo di distruggere un modo di produzione che da più di un secolo e mezzo divora energie e lavoro umano immolandoli al profitto capitalistico, e di liberare le forze produttive dai vincoli delle leggi del mercato e consegnarle all’organizzazione razionale della produzione per il consumo, per la società di specie in cui non esiste più lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

I contrasti tra capitalismi nazionali, prima o poi, evolvono in contrasti di guerra e questa evoluzione inevitabile del processo di sviluppo capitalistico è ben nota alla classe borghese dominante: perciò, aumentando i fattori di crisi e di contrasto tra i paesi imperialisti avanzati, aumenta il militarismo e il dispotismo sociale, e si fa sempre più acuta la necessità da parte delle classi dominanti borghesi di un controllo sociale preventivo per il quale il ruolo delle forze del collaborazionismo sindacale e politico risulta essere vitale. Non è un caso, quindi, che proprio le forze socialdemocratiche e del riformismo più becero siano state e siano le maggiori sostenitrici, in pieno capitalismo, del mito degli Stati Uniti d’Europa: obiettivo, per ripetere le parole di Lenin, impossibile da realizzare in regime capitalistico, perciò del tutto falso se inteso come soluzione pacifica dei contrasti interimperialistici e come progresso economico e sociale delle nazioni (ricordate l’«Europa delle patrie» di deGaullista memoria?) se non delle classi lavoratrici (ricordate l’«Europa dei lavoratori e dei cittadini», vagheggiata dagli eurocomunisti Enrico Berlinguer, Santiago Carrillo e Georges Marchais?), ma obiettivo del tutto reazionario se temporaneamente realizzato a fronte dell’insistente assenza della lotta proletaria rivoluzionaria e allo scopo di contrastare l’eventuale aggressione imperialistica da parte di potenze extra-europee d’America o dell’Estremo Oriente, magari alleate fra di loro. In ogni caso, gli Stati Uniti d’Europa non sono stati ieri, non sono oggi e non saranno domani un obiettivo rivoluzionario del proletariato come non lo erano ai tempi di Lenin. «Certo – afferma ancora Lenin – fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati uniti d’Europa, come accordo fra capitalisti europei... Ma a quale fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa per conservare, tutti insieme, le colonie usurpate, contro il Giappone e l’America che sono molto lesi dall’attuale spartizione delle colonie e che nell’ultimo cinquantennio si sono rafforzati con rapidità incomparabilmente maggiore dell’Europa arretrata, monarchica, la quale comincia a putrefarsi per senilità» (11). Qui Lenin sottolinea i due aspetti fondamentali dell’alleanza tra capitalisti e tra potenze capitalistiche, aspetti che decadranno solo con la vittoria completa del proletariato rivoluzionario in tutto il mondo: il primo consiste nello schiacciare tutti insieme il movimento di classe e rivoluzionario del proletariato (il socialismo), l’unico movimento sociale e politico che può abbattere il potere borghese; il secondo consiste nel difendere le proprie zone d’influenza, i propri territori economici su cui le potenze esercitano il loro dominio (le colonie usurpate) contro le potenze concorrenti più temibili (all’epoca Giappone ed America, oggi ancora in essere, ma con l’aggravante di una potenza concorrente in più, la Cina) che nell’ultimo periodo storico si sono rafforzate molto più delle potenze europee.

Polemicamente, rispetto alla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, Lenin riferisce di un’altra parola d’ordine, gli “Stati uniti del mondo”, ma la stigmatizza così: «gli Stati uniti del mondo (e non d’Europa) rappresentano la forma statale di unione e di libertà delle nazioni, che per noi è legata al socialismo, fino a che la completa vittoria del comunismo non porterà alla sparizione definitiva di qualsiasi Stato, compresi quelli democratici”, ma precisa immediatamente che “La parola d’ordine degli Stati uniti del mondo, come parola d’ordine indipendente, non sarebbe forse giusta, innanzitutto perché essa coincide con il socialismo; in secondo luogo perché potrebbe generare l’opinione errata dell’impossibilità della vittoria del socialismo in un solo paese [attenzione!, per “vittoria del socialismo in un solo paese” Lenin intende vittoria della rivoluzione socialista, ossia abbattimento del potere borghese, distruzione dello Stato borghese ed instaurazione della dittatura proletaria, non “realizzazione del socialismo in un solo paese” come volle interpretare lo stalinismo], una concezione errata dei rapporti di tale paese con gli altri» (12). Lenin è un formidabile dialettico e non perde mai l’occasione per legare le leggi fondamentali del capitalismo scoperte dal marxismo al programma rivoluzionario del proletariato. Infatti egli continua così: “L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo [la vittoria della rivoluzione socialista] dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente”. Ciò significa che in tutti gli altri paesi del mondo, capitalistici avanzati ed arretrati, è al potere la classe borghese contro cui il socialismo, il potere conquistato dal proletariato rivoluzionario, deve lottare sia per difendere la vittoria rivoluzionaria, sia per sostenere la lotta rivoluzionaria del proletariato di quei paesi volta ad abbaterne il potere borghese. La dittatura proletaria, una volta preso il potere e spezzato lo Stato borghese, sostituisce la dittatura della borghesia imperialista e si impone nel territorio conquistato – che, per le vicende legate all’andamento della guerra di classe, può non corrispondere ai precedenti confini dello Stato borghese abbattuto –, interviene nell’economia del paese o del territorio conquistato organizzando la produzione in senso socialista e si pone «contro il resto del mondo capitalistico, attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, infiammandole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati» (13).

L’obiettivo della lotta rivoluzionaria del proletariato non potrà mai essere, perciò, condiviso dalle altre classi della società; ciò significa, nello stesso tempo, che gli obiettivi delle altre classi della società non sono condivisibili dalla classe del proletariato, perché sono obiettivi legati esclusivamente alla conservazione borghese. Saranno la forza del movimento rivoluzionario del proletariato e la fermezza del partito rivoluzionario nel guidarlo in tutto lo svolto storico caratterizzato dalla crisi rivoluzionaria ad attrarre nel proprio campo strati sociali di piccola o media borghesia rovinati dalla crisi capitalistica, in un processo di ionizzazione sociale per cui le classi sociali e i gruppi umani che ne fanno parte si scompongono e si schierano, fronteggiandosi, nei due campi nemici -quello proletario e quello borghese - in una guerra che non riconosce e non ha confini territoriali predefiniti perché è guerra fra le classi e non guerra fra Stati.   

 

La produzione manifatturiera, indice della forza economica di ogni paese capitalista

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La forza dell’economia di ogni paese si basa sulla produzione manifatturiera poiché dalla sua attività si originano, come ribadito anche dal Centro Studi della Confindustria italiana, «i guadagni di produttività dell’intero sistema economico, direttamente o indirettamente, attraverso cioè le innovazioni incorporate nei beni utilizzati nel resto dell’economia. (...) Dal manifatturiero, in particolare per un paese povero di risorse naturali, provengono i beni esportabili che servono a pagare le bollette energetiche e alimentari e, in generale, a finanziare gli acquisti di beni e servizi all’estero. Perciò la sua importanza va molto al di là di quanto non rivelino le statistiche sul suo apporto diretto al valore aggiunto e ai posti di lavoro nell’intera economia» (14).

Ed è proprio osservando l’andamento della produzione manifatturiera delle prime venti economie del mondo, comparando l’anno 2010 con il 2000, quindi il decennio che contiene ben due cicli di crisi economiche mondiali, che si possono notare notevoli cambiamenti nei rapporti fra i diversi paesi. Si conferma il fatto che i paesi asiatici cosiddetti “emergenti” (Cina, India, Corea del Sud, Indonesia, Taiwan e Tailandia) nel 2010 rappresentano insieme il 29,5% della produzione manifatturiera totale mondiale. La Cina, da sola, ha scavalcato gli Stati Uniti, col 21,7% contro il 15,6% degli Usa, salendo in vetta alla classifica, ma quel che è particolarmente significativo è che le traiettorie di crescita dei due paesi si sono del tutto invertite: nel 2000 gli Stati Uniti d’America avevano il 24,8% di quota della produzione manifatturiera mondiale contro l’8,3% della Cina; per gli altri paesi la situazione nel 2000 era la seguente: il Giappone era a quota 15,8%, la Germania al 6,6%, l’Italia al 4,1%, la Francia al 4%, il Regno Unito al 3,5%, seguiti da Corea del Sud al 3,1%, Canada e Messico al 2,3%, Spagna e Brasile al 2%, India all’1,8% e a seguire tutti gli altri paesi. Nel 2010 la situazione generale è cambiata notevolmente: Cina e Usa, prima e seconda, con le due traiettorie del tutto contrarie come abbiamo visto, ascendente la prima e discendente la seconda, guadagnando la prima ben 13,4 punti di quota sul 2000 e perdendo, la seconda, 9,2 punti di quota sempre sul 2000; Giappone, resta la terza potenza manifatturiera mondiale ma con un peso ridimensionato perché perde 6,7 punti di quota sul 2000; perdono punti di quota anche le europee Germania, Italia, Francia, Regno Unito e Spagna, rispettivamente -0,6, -0,7, -1, -1,5 e -0,2; perde anche il Canada che dal 2,3% di quota del 2000 passa all’1,7% del 2010; mentre guadagnano punti di quota l’India (+1,9), la Corea del Sud (+0,4), il Brasile (+1,2), la Russia (+1,3). Nella classifica generale del 2010, dunque, la Cina passa in testa superando gli Usa; il Giappone resta in terza posizione e la Germania in quarta; India e Corea del Sud, quinta e sesta, scavalcano l’Italia che scende al 7° posto, mentre il Brasile si colloca all’ottava posizione scavalcando in un solo colpo Francia e Regno Unito; la Russia, undicesima, eguaglia il Regno Unito; seguono poi Canada, Indonesia, Messico, Taiwan, Paesi Bassi, Australia, Tailandia e Turchia, dall’1,7% di quota all’1%. Sul mercato mondiale, dunque, i nuovi protagonisti (il cosiddetto BRIC) pesano due volte e mezzo rispetto a quanto pesavano nel 2000 (30,6% nel 2010 contro il 12,8% del 2000) e questo solo in dieci anni! Resta comunque il fatto che nella classifica dei paesi più industrializzati del mondo, secondo il normale parametro della produzione manifatturiera pro-capite a prezzi in dollari 2010, i paesi del BRIC sono ancora molto lontani dai paesi avanzati: infatti primeggia la Germania a quota 25mila $, seguita dal Giappone a 24mila $, dalla Corea del Sud che quasi eguaglia il Giappone, dall’Italia a quota 19mila $, dagli  Stati Uniti a 18mila $, e molto più distanziati il Basile e la Cina a 5mila $, la Russia a 4mila $, l’India a mille $.

L’Unione Europea e l’America del Nord perdono quote importanti di mercato; nel raffronto tra il 2000 e il 2010, l’Unione Europea dei 27, che nel 2000, col 27,1%, era alla pari con la quota nordamericana (Usa + Canada) di produzione manifatturiera mondiale, è scesa nel 2010 a 23,5%, contro il 17,3% del Nord America, il che va letto come una miglior tenuta rispetto alla crisi del 2007-2010 anche perché l’export manifatturiero verso l’Asia orientale, il Medio Oriente e l’Africa settentrionale è aumentato notevolmente per la Germania, l’Italia, la Francia.

Per confermare quanto si diceva a proposito dei nuovi mercati di sbocco che hanno contribuito e contribuiscono a rimandare lo scontro tra le maggiori potenze mondiali, diamo un’occhiata al commercio mondiale per paese, ad esempio nel ventennio 1983-2003 (importazioni ed esportazioni, tutto in mld di $ Usa) secondo i dati ultimi parametrabili che abbiamo a disposizione.

La Cina passa da 43,5 del 1983 a 851 nel 2003 (+ 20 volte, ed eguaglia quasi il Giappone; ma già nel 2005 era a quota 1.422,1 superando di circa il 28% il Giappone); gli Stati Uniti, da 470,4 del 1983 va a 2.028,7 nel 2003 (+ 4 volte; ma, rispetto alla Cina, da più di 10 volte a 2,4 volte; mentre nel 2005 arrivavano a quota 2.575,1 scendendo a 1,8 volte rispetto alla Cina in soli due anni); la Germania, da 523,8 nel 1983 (dato per la sola Germania ovest) a 1.874,1 nel 2003 (+ 3 volte e mezzo, mentre nel 2005 mantiene la seconda posizione mondiale pur abbassandosi a quota 1.753,8); il Giappone, da 273 del 1983 a 855,4 nel 2003 (poco più di 3 volte; nel 2005 giungeva a quota 1.111,8 facendosi superare dalla Cina); la Francia, da 380,9 del 1983 a 720,6 nel 2003 (poco meno di 2 volte; nel 2005 arriva a quota 910,4); la Gran Bretagna, da 201,2 del 1983 a 701,2 nel 2003 (3 volte e mezzo circa; nel 2005 giungeva a quota 887,2); l’Italia, da 185,7 del 1983 a 670 nel 2003 (poco più di 3 volte e mezzo, e nel 2005 giungeva a quota 708,7) (15). La Cina è l’unico grande paese che, nel periodo considerato, oltre a sviluppare con fatica un mercato interno, soprattutto nelle regioni orientali che danno sul mare, ha enormemente sviluppato la produzione per l’esportazione accumulando nello stesso tempo risorse finanziarie tali da consentirle di sostenere, ad esempio, alla pari col Giappone, il debito pubblico statunitense il che vuol dire sostenere il suo mercato di sbocco principale; ed è stato talmente intenso lo sfruttamento della forza lavoro cinese che, in un decennio, il Pil cinese ha scalato la classifica mondiale degli Stati del mondo posizionandosi al secondo posto – scavalcando il Giappone – dietro gli Stati Uniti d’America (16). Sulla Cina vale la pena di dire ancora una parola: dato il ritardo notevole nella formazione di uno sviluppo industriale nell’intero paese e quindi di un mercato interno paragonabile a quello europeo o nordamericano, è evidente che, sviluppando la produzione soprattutto per l’esportazione – e soprattutto per l’esportazione nei mercati più “ricchi” come quello europeo e nordamericano –, ogni contrazione di questi mercati provoca conseguenze negative dirette sull’apparato produttivo cinese che, a loro volta, si ripercuotono drammaticamente sulla classe operaia cinese già bestialmente sfruttata, delle cui ribellioni ci giungono solo alcune scarne notizie, et pour cause!

Un altro dato interessante, e che rivela quanto dicevamo sui fattori di ritardo della crisi generale del capitalismo, riguarda sempre il commercio mondiale. Gli ultimi dati presi in considerazione dal Centro Studi della Confindustria italiana (17) riguardano il 2007 e il 2010 e i primi 8 maggiori esportatori manifatturieri mondiali (Cina, Stati Uniti, Germania, Giappone, Paesi Bassi, Francia, Corea del Sud e Italia). La crisi del 2008-2010 e i suoi effetti “asimmetrici”, come li chiamano gli esperti borghesi, sulle economie dei diversi paesi e sugli scambi commerciali hanno aumentato notevolmente gli scambi commerciali verso i paesi cosiddetti emergenti, in particolare verso l’Asia e l’America centro-meridionale; e quel che succedeva, e succede ancora, per i paesi europei, sta succedendo anche per l’Asia estremo-orientale: dato l’intenso sviluppo capitalistico di certe aree gli scambi si stanno infittendo al loro interno, si stanno regionalizzando. Un esempio evidente è costituito da Cina, Giappone e Corea del Sud che aumentano considerevolmente le esportazioni nell’Asia Orientale, ma anche da Francia e Italia che aumentano le rispettive quote di vendite all’estero destinate all’Africa settentrionale. Come dire che in un futuro non enormemente lontano, oltre al mercato Europa e a quello Nord-America, altre due aree, quella asiatico-orientale e quella africano-settentrionale, diventeranno critiche in quanto aree di sbocco delle esportazioni manifatturiere dei paesi più industrializzati. Le aree di conflitto capitalistico, e quindi imperialistico, invece di diminuire vanno aumentando!

L’attenzione che i capitalisti mantengono sulle economie dei paesi “emergenti” ha quindi ragioni molto solide perché essi stanno rappresentando non solo un fattore di attenuazione degli effetti potenzialmente devastanti della crisi mondiale di sovrapproduzione, ma anche un fattore di decisiva compensazione, sul breve periodo però dei cedimenti di alcuni paesi rispetto ad altri.

Gli 8 maggiori esportatori manifatturieri mondiali, dunque, hanno trovato al di fuori dei mercati abituali – Europa e Nord America – mercati di sbocco importanti che hanno contribuito, ad esempio, alla crescita degli scambi commerciali del 15,4% nel 2010, più che compensando la caduta del 2009 che fu del 12,8%.

Asia orientale: verso quest’area la Cina nel 2010 ha mantenuto la stessa quota del 2007 del suo totale di export manifatturiero (26,4%), mentre ha visto ridotte le sue quote verso l’UE e il Nord America sempre rispetto al 2007; gli Stati Uniti hanno aumentato la loro quota verso l’America centro-meridionale (25,8% nel 2010, contro il 21,5 del 2007) ma anche verso l’Asia orientale (22,6% contro il 22,3%), mentre è calata la loro quota verso la UE e l’America del Nord; anche la Germania ha aumentato il suo peso verso l’Asia orientale (9,7% contro il 7,8%) mentre diminuiva l’export verso gli abituali UE e America del Nord; per il Giappone l’Asia orientale sta diventando estremamente determinante: conta ormai per il 53,9% contro il già notevole 45,6% del 2007.

Francia e Italia, dicevamo, sono i due paesi, fra gli 8, che insistono di più verso l’Africa settentrionale, ma sono proiettati in modo importante anche verso l’Asia orientale: la Francia quota un 9,7% nel 2010 contro il 7,8% del 2007 per l’Asia orientale, e un 3,7% contro il 3,1% per l’Africa settentrionale, mentre l’Italia quota un 7,1% contro il 6,3% per l’Asia orientale, e un 4,1% contro il 2,8% per l’Africa settentrionale. Ciò non toglie che la UE per entrambi rappresenti il mercato principale in assoluto anche nel 2010, nonostante un calo importante rispetto il 2007: per la Francia conta sempre il 60,6% del suo export manifatturiero (contro il 65,1% del 2007), e per l’Italia il 56,8% (contro il 59,8% del 2007); e contano molto per entrambi anche i paesi europei non UE: per l’Italia l’11,9% contro l’11,4% del 2007, per la Francia il 7,1% contro 6,3%.

I Paesi Bassi sono invece, molto più degli altri concorrenti, europa-dipendenti, come sempre, anche se in calo come tutti gli altri rispetto al 2007: 74,6% contro il 75,9%, ma hanno anch’essi insistito verso l’Asia orientale, passando dal 4,4% del 2007 al 4,8% del 2010, e verso il Medio Oriente, passando dal 2,1% al 2,2%. Per la Corea del Nord, come già detto, conta soprattutto l’Asia: per l’Asia orientale nel 2010 passa al 50,8% dal 47,9 del 2007, per l’Asia centrale passa al 3,5% dal 2,6% e per il Medio Oriente dal 4,6% al 4,9% nel 2010.  

Resta comunque un fatto: la disparità tra i paesi economicamente più forti e il resto del mondo non si è attenuata nell’arco dell’ultimo trentennio; la forbice tra i paesi industrializzati e i paesi a sviluppo capitalistico ritardato o arretrato si è via via allargata, e i dati della produzione manifatturiera pro-capite, che abbiamo richiamato sopra, lo dimostrano chiaramente.

 

Qualche parola su economia capitalistica e classe dominante borghese

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L’economia capitalistica si fonda su un modo di produzione che mette al centro della sua esistenza non solo l’accumulazione di capitale ma anche la sua valorizzazione. Il capitale, in questo modo, acquisisce una sua “personalità” e determina l’agire di chi lo possiede; impone le “sue” leggi di sviluppo riproducendo a scala sempre più alta e vasta le contraddizioni originarie. E’ il capitale, dunque il modo di produzione capitalistico, che guida l’attività del capitalista, non il contrario; e la stessa cosa vale per il “capitalista collettivo” che è lo Stato borghese. Il capitale non ha morale, non è “buono” o “cattivo”; funziona seguendo leggi economiche che sfuggono al controllo dei capitalisti e dei governanti i quali, se vogliono mantenere la posizione privilegiata di possessori di capitale e difendere il modo di produzione che permette loro di essere non solo proprietari privati dei mezzi di produzione ma anche appropriatori privati dell’intera produzione sociale, non possono fare altro che rispettare quelle leggi cercando di adeguare le politiche sociali alle esigenze del capitale e della sua costante valorizzazione. La legge del valore, riproposta costantemente come “legge del mercato”, ha assunto per i borghesi la caratteristica del potere sopranaturale, divino, che esercita il suo dominio sull’intera umanità. La dittatura di classe con cui la borghesia sottomette l’intera umanità alle leggi “divine” del valore, mistificata dai principi ideologici della democrazia (libertà, eguaglianza e fratellanza) e nascosta nella gigantesca palude del mercato, prende le sembianze della “dittatura dei mercati” che diventa sempre più rude e feroce quanto più l’economia di mercato si sviluppa. Oggi, non passa giorno in cui la propaganda borghese, attraverso la stampa, la tv e qualsiasi altro media, non si preoccupi di dare notizie sugli andamenti dei mercati, degli indici di borsa, dei piani finanziari dei governi o dei grandi gruppi bancari o industriali, delle quotazioni del petrolio o di qualsiasi altra materia prima considerata vitale per il capitalismo: la vita economica e sociale nel capitalismo dipende dai mercati, dalla lotta di concorrenza tra capitalisti, dalla forza economica e finanziaria dei paesi industrializzati che rappresentano i mercati più importanti dai quali dipende la vita di miliardi di uomini, dal grado di produttività e di competitività delle merci di ciascun paese, dalla forza militare con cui ogni paese, ed ogni gruppo di paesi alleati, difendono i propri interessi contro gli interessi dei concorrenti. La propaganda borghese non può, perciò, che diffondere l’idea che il benessere, la prosperità, la vita stessa dipendono dal buono o cattivo andamento “dei mercati” e che l’interesse di tutti, capitalisti, proletari, burocrati, bottegai, preti, rentier e compagnia, è di collaborare affinché l’economia da cui direttamente dipendono sia la più florida possibile e venga in ogni caso difesa a costo di qualsiasi sacrificio. 

 Il compito della classe borghese è di dare il massimo sviluppo alla produzione di merci e alla valorizzazione dei capitali, alla loro libera e più vasta circolazione possibile nel mercato, ed è di favorire gli interessi delle proprie aziende e del proprio paese su cui poggia la propria forza dominante, battendo la concorrenza sui mercati  con l’aumento della produttività del lavoro e, quindi, della competitività delle proprie merci e dei propri capitali; e quando la concorrenza si fa molto tesa e dura, alla propria forza economica aggiunge la propria forza militare. Ma ogni classe borghese dominante, che nasce e resta classe nazionale, scontrandosi sul mercato mondiale con le altre classi borghesi nazionali giunge, ad un certo punto di sviluppo della concorrenza, ad allearsi con altre classi borghesi per aumentare la propria forza sia di difesa degli interessi vieppiù ampi e diversificati, sia di conquista di altri mercati sui quali rovesciare merci e capitali sovraprodotti. Le crisi economiche - commerciali, industriali o finanziarie che siano - oltre un certo grado di sviluppo economico e dei mercati sono inevitabili, come la storia del capitalismo ha dimostrato fin dalle sue origini, e funzionano talvolta come volano per accelerare accordi e alleanze in previsione di future crisi da affrontare da posizioni meno deboli. Ma il problema di fondo non cambia poiché le contraddizioni sempre più acute e devastanti della società borghese non sono generate da un cattivo governo politico, ma dal capitalismo stesso, dal modo di produzione capitalistico. Non smetteremo mai di ripetere una delle conclusioni fondamentali della critica marxista: «il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso», il fatto cioè «che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiano punto di partenza e punto d’arrivo, motivo e scopo della produzione», produzione «che è solo produzione per il capitale» (Marx, Il Capitale, Libro III, Sviluppo delle contraddizioni intrinseche della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto). La nozione di capitale è costituita dalla separazione fra le condizioni del lavoro da una parte e i produttori dall’altra. Questa nozione di capitale «come punto di partenza ha l’accumulazione originaria, continua a manifestarsi come processo costante nell’accumulazione e nella concentrazione del capitale, e qui finalmente si esprime nella centralizzazione dei capitali già esistenti in poche mani e nella decapitalizzazione dei più [forma in cui si manifesta ora l’espropriazione, NdR]. Questo processo avrebbe come conseguenza di portare rapidamente la produzione capitalistica allo sfacelo, qualora altre tendenze contrastanti non esercitassero di continuo un’azione centrifuga accanto alla tendenza centripeta». Perciò la centralizzazione del capitale, allargata alla scala generale e mondiale, cerca di superare i limiti e le contraddizioni inerenti al modo stesso di produzione, ma riesce a superarli unicamente «con mezzi che le contrappongono di nuovo, e su scala più imponente, questi stessi limiti» (18).

Stabilito che la produzione, in regime capitalistico, è produzione per il capitale e prendendo in considerazione la composizione organica del capitale – capitale costante (mezzi di produzione, materie prime) e capitale variabile (salari) – la tendenza permanente all’aumento progressivo della parte costante sulla parte variabile si accentua con lo sviluppo crescente della concentrazione e  centralizzazione del capitale – cioè, come scrive Marx, «espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi» (19) -; tendenza sempre più evidente nello stadio imperialistico del capitalismo. Il rapporto tra capitale costante e capitale variabile va sempre più a favore del capitale costante, ma questo rapporto esprime anche la tendenza continua alla pauperizzazione (la famosa miseria crescente). Ad eccesso di capitale (capitali individuali distrutti dalla concorrenza ma che non vengono assorbiti dai capitali più grossi) fa da contraltare un eccesso di popolazione (una parte di popolazione operaia potenzialmente attiva vive ai margini del processo produttivo, costituendo l’esercito industriale di riserva). Il carattere contraddittorio del capitalismo si evidenzia qui con grande chiarezza, e Marx coglie questa ulteriore occasione per trarne le conseguenze storiche : «Col numero sempre decrescente dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degradazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia ogni giorno più numerosa, e disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diviene un inciampo al modo di produzione che con esso e sotto di esso è fiorito. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto nel quale diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Esso viene infranto. L’ultima ora della proprietà privata capitalistica suona. Gli espropriatori vengono espropriati» (20).

Il progresso economico della società, quindi, non sta nella centralizzazione capitalistica, nel monopolio del capitale perché questi, portando vantaggi solo ai magnati del capitale che sono la parte minima della popolazione umana (nelle orecchie di qualcuno potrebbero risuonare le grida degli “indignati” quando dicono di parlare a nome del 99% contro l’1% che è padrone di tutta la ricchezza sociale...), ma nella distruzione di una società in cui domina il profitto capitalistico al quale vengono sacrificate tutte le sue energie vitali, per erigere sulle sue macerie una società che organizzi la produzione non per il mercato ma per soddisfare i bisogni di vita degli uomini nell’armonia dei rapporti sociali non più resi conflittuali dalla divisione della società in classi antagoniste e dalla divisione del lavoro, e in rapporto organico e dialettico con la natura. La tendenza alla centralizzazione, al monopolio, non ha mai risolto le crisi in cui ciclicamente cade la società borghese; anzi, sebbene temporaneamente il processo di centralizzazione economica e politica riesca, in assenza della lotta di classe e della rivoluzione proletaria, ad affrontare e a superare la crisi, i mezzi che la classe borghese dominante utilizza per superare la crisi (distruzione coatta di una massa di forze produttive, conquista di nuovi mercati, sfruttamento più intenso dei vecchi, per dirla col Manifesto del 1848) non fanno altro che preparare crisi più generali e violente e, nello stesso tempo, diminuire i mezzi per prevenirle.

 

Europa Unita, vecchio mito imperialista, rimesso in discussione dagli stessi paesi membri

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«Teoricamente – scrivevamo nel 1962 (21) – la costruzione dell’Europa Unita si basa sul postulato che si può regolare la produzione con mezzi monetari. Ma basta enunciare il postulato per vederne l’inconsistenza: come si può creare un’unità di produzione superiore (l’Europa) limitandosi a costruire un mercato? La dinamica dell’economia capitalistica non è affatto determinata in tutti i suoi momenti dalla concorrenza tra imprenditori, che, se mai, ne è l’aspetto più immediato, o dalla lotta fra nazioni borghesi, in cui la difesa del profitto può cedere di fronte alla difesa degli interessi generali di ciascuna borghesia nazionale. Le forze produttive creano nel corso del loro sviluppo storico determinati rapporti tra gli uomini, e la ricerca del profitto non corrisponde che a uno degli stadi da esse raggiunto. La borghesia è quindi la rappresentazione fisica dei dominanti rapporti di produzione capitalistici, che esprimono lo sviluppo raggiunto dalle forze produttive. Ma queste non possono fermarsi qui. Entro gli stessi rapporti capitalistici, esse crescono fino ad infrangere i limiti divenuti troppo angusti della nazione (l’impresa locale diviene così trust internazionale). Questa tendenza alla socializzazione dei mezzi di produzione, la cui soluzione reclama la rivoluzione sociale del proletariato, si compie, in assenza di quest’ultima, in antitesi al quadro nazionale degli interessi generali di ciascuna borghesia. Questa perciò tenta di superare la contraddizione con i propri mezzi, che sono i molteplici accordi economici che gli Stati firmano tra loro (gli uni contro gli altri). Zone di libero scambio, Mercato Comune, accordi interamericani, consigli di cooperazione economica tra i paesi ‘socialisti’ ecc., e mediante i quali il capitalismo cerca di regolare le produzioni creando legami tecnici e finanziari tra le diverse branche economiche. Ma è evidentemente a modo suo che realizza questo obiettivo perché nell’atto stesso in cui il capitalismo, mediante la divisione internazionale del lavoro, superindustrializza una parte del globo, distrugge l’economia di intere regioni gettandole nella miseria e nella rovina. (...) Con la stipulazione di accordi economici e politici, l’antagonismo che oppone le une alla altre le nazioni borghesi, lungi dallo scomparire, rinasce con un’ampiezza mostruosa nei blocchi che oggi si affrontano»; l’oggi dell’articolo è il 1962, in pieno condominio russo-americano sul mondo e di tensioni tra i due blocchi che sboccheranno negli anni 1989-1993 nell’implosione dell’Urss e nel riposizionamento dei paesi dell’Europa dell’Est e balcanica in zone di influenza modificate e spartite soprattutto tra Russia, Germania e Stati Uniti d’America.

La borghesia imperialista più audace, e sufficientemente forte per tentare di unire l’Europa col solo mezzo adeguato per realizzare questo obiettivo – la forza militare –, è stata quella tedesca che, dopo essere stata privata delle colonie a causa della sconfitta nella prima guerra mondiale, con il nazismo ha cercato di fare in Europa quello che Bismarck aveva fatto per la Germania divisa in tanti staterelli. Il tentativo di Hitler di unire l’occidente europeo superindustrializzato all’oriente europeo agricolo, era il solo – se avesse vinto la guerra mondiale scatenata nel 1939 – che avrebbe potuto avere un senso dal punto di vista capitalistico; allo stesso tempo, avrebbe alzato il livello di scontro a livello mondiale nuovamente con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, da un lato, e la Russia dall’altro. Se già l’imperialismo tedesco del periodo tra le due guerre rappresentava, per l’imperialismo britannico e americano in particolare, un pericolosissimo concorrente contro cui combattere con tutti i mezzi, l’Europa Unita sotto il tallone di ferro tedesco sarebbe stata ancor più motivo di conflitto. La sconfitta della Germania nella seconda guerra mondiale non ha “risolto” il problema costituito dal dinamismo e dalla vitalità dell’imperialismo tedesco, ed è per questo che immediatamente dopo, nel 1947, la Gran Bretagna, nel tentativo di salvare l’influenza mondiale delle vecchie potenze imperialiste e colonialiste europee, con il trattato di Bruxelles, ha ispirato la costituzione dell’Unione Europea sotto la propria influenza per inserirsi tra i due mostri d’acciao, Stati Uniti e Urss, come terza forza. Ma l’iniziativa dell’imperialismo russo con il blocco di Berlino-Ovest e l’apertura della fase della cosiddetta “guerra fredda” tra Usa e Urss e i rispettivi blocchi, oltre ai consistenti investimenti in dollari per la ricostruzione postbellica, ha spinto ancor più gli europei nelle braccia dell’imperialismo americano. La costituzione della Nato è la dimostrazione storica della «abdicazione delle vecchie potenze occidentali davanti all’America, e il declino dell’Europa come sede del dominio sul mondo» (22).

La successiva formazione del Mercato Comune Europeo e, poi, l’allargamento dell’Unione Europea ad un numero sempre più alto di paesi sono state iniziative che le vecchie potenze europee continentali hanno perseguito nello stesso tentativo di ritagliarsi un ruolo e una posizione nel mercato mondiale attenuando il più possibile la colonizzazione americana che i massicci investimenti in dollari nel dopoguerra avevano aperto. L’illusione che albergava nelle aspirazioni dei capitalisti europei, e criticata facilmente nel nostro articolo sopra richiamato, e cioè di poter giungere all’Europa Unita attraverso mezzi monetari e accordi economici tra briganti, ha continuato a sopravvivere fino a giungere all’idea della moneta unica, l’euro. E qui ci riallacciamo alle frasi che abbiamo riportato all’inizio di questo articolo, e cioè che attraverso una serie di accordi economici e la costituzione di alleanze i paesi europei partecipi di questa avventura fossero già giunti ad «un alto grado di sostenibile convergenza economica», grazie al quale si potrà passare all’unione bancaria per raggiungere poi la meta agognata dell’integrazione politica, degli Stati Uniti d’Europa, senza ricorrere alla guerra!

Ma qui casca l’asino. E non serve rifarsi a periodi storici diversi, basta osservare che cosa è successo e sta succedendo intorno all’euro. La crisi mondiale, di cui nel 2010 apparivano i primi segnali di attenuazione e di ripresa economica almeno in qualche importante paese occidentale (Stati Uniti, ad esempio), in realtà ha innescato importanti tensioni nei rapporti tra i paesi imperialisti più importanti al mondo, ed ha dato l’avvio ad una crisi dell’euro di cui nessun governante europeo riesce a vedere la fine. Le misure economiche e sociali di estrema durezza imposte dai paesi più forti (Germania innanzitutto, ma anche da Francia, Olanda e i paesi del nord Europa) ai paesi più in difficoltà (l’Irlanda, la Grecia, il Portogallo per primi, e a seguire Spagna e Italia) perché riguadagnino nel giro di poco tempo la parità di bilancio dei rispettivi budget statali, dimostrano con evidenza lapalissiana che tra i paesi dell’Unione Europea, e in particolare tra i paesi della cosiddetta Zona Euro, non esistono rapporti di solidarietà e di vicinanza, ma solo e soltanto rapporti di forza. La crisi che stiamo attraversando da quasi cinque anni, e che i signori esperti di economia e finanza prevedono continui per almeno altri cinque, è una crisi in cui i vecchi paesi imperialisti non solo se la devono vedere fra di loro – e questo vuol dire un diverso dimensionamento nei rapporti di forza fra Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia, Gran Bretagna – ma se la devono vedere anche con i nuovi emergenti che in questo ultimo decennio hanno accelerato la formazione di una potenza industriale e finanziaria, relativa, certamente, ma sufficiente per rappresentare contemporaneamente utili mercati di sbocco per le merci e i capitali europei e nordamericani e robusti concorrenti non solo a livello economico-finanziario ma anche a livello politico-imperialistico. I conflitti interimperialistici, dunque, sono inesorabilmente destinati ad acutizzarsi e, prima o poi, a tramutarsi in conflitti armati.

Può essere utile ricordare la famosa tesi di Von Clausewitz: la guerra è la continuazione della politica fatta con altri mezzi e precisamente con mezzi militari. Se la politica è imperialista, di dominio del capitale finanziario sul capitale industriale, agricolo e commerciale, e di aggressione ai mercati per accaparrarsi quote sempre più importanti di profitto, la guerra che scaturisce dal sempre più alto grado di contrasti fra concorrenti non può che essere una guerra imperialista: una guerra di rapina e di dominio su territori economici tendenzialmente sempre più ampi. Per parafrasare Lenin si può dire che la pace non solo è una tregua tra una guerra e la successiva, ma è sempre più il periodo di preparazione della guerra imperialista.

 

Il futuro è comunista, non capitalista

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Il modo di produzione capitalistico, essendo un modo di produzione che si basa sull’antagonismo di classe fra la classe borghese dominante e la classe del proletariato, che è spogliata da qualsiasi proprietà salvo la propria forza lavorativa ed è costretta a sopravvivere vendendola ai capitalisti, ha come “referente” principale il mercato, ossia il luogo in cui le merci prodotte e i capitali circolanti si scambiano: merce contro denaro, valore contro valore. Ma tale modo di produzione per imporsi sui modi di produzione precedenti e per mantenersi in vita ha avuto bisogno che la classe borghese si costituisse in classe dominante sulla società; la “società” non è che il paese in cui la classe borghese prende violentemente il potere, scalzando le vecchie classi dominanti aristocratiche e difendendo il nuovo potere militarmente, in confini ben precisi, allo scopo di sviluppare all’interno di quei confini il capitalismo, e quindi il profitto capitalistico, sfruttando il più intensamente e direttamente possibile masse di uomini trasformate in lavoratori salariati, in proletari, in senza-riserve, disponibili inevitabilmente – per sopravvivere – ad essere sfruttati nelle aziende capitalistiche secondo le esigenze di queste ultime. Sono nate così le “nazioni”, o meglio gli Stati nazionali che rappresentano e difendono gli interessi generali della classe dominante borghese. Alla contraddizione sociale di fondo del modo di produzione capitalistico – l’antagonismo di interessi di classe tra capitalisti e proletari – si aggiunge, con lo sviluppo del capitalismo nel mondo, e quindi con l’ampliarsi della concorrenza e dei contrasti tra capitalisti e capitalismi nazionali nel mercato mondiale, anche la contraddizione tra lo storico e inevitabile sviluppo delle forze produttive e le forme entro cui esse sono costrette dagli interessi di dominio delle classi dominanti borghesi. Lo sviluppo delle forze produttive va ad infrangersi contro i limiti dell’azienda e i limiti della nazione, limiti dei quali i borghesi non possono fare a meno perché consentono loro di gestire il loro dominio di classe sul paese, o nazione che dir si voglia, ma contro i quali, nello stesso tempo, preme con sempre maggior forza lo sviluppo della socializzazione dei mezzi di produzione.

Tale processo di sviluppo estremamente contrastato e contraddittorio richiede storicamente una soluzione, e la vera soluzione la può dare solo la rivoluzione della classe proletaria contro la classe borghese per strapparle di mano il potere politico, spezzare il suo Stato e quindi distruggere il suo dominio politico instaurando la propria dittatura di classe, necessaria sui due fronti storici: sul fronte del dominio politico con cui la classe borghese difende il suo dominio economico e sociale, e sul fronte della rivoluzione sociale per sostituire il modo di produzione capitalistico con il modo di produzione socialista, in un primo stadio storico, e poi comunista, che corrisponderà ad una società di specie al cui centro saranno i bisogni non del “mercato” ma degli uomini, diventati finalmente uomini, esseri sociali, armonicamente uniti nella comunità umana, in cui le forze produttive non saranno più sacrificate al dio denaro, alla legge del valore, al profitto capitalistico, al dominio di classe, allo sfruttamento della stragrande maggioranza degli esseri umani da parte di una classe dominante, ma saranno libere di esprimere la propria potenza e vitalità in una società razionalmente organizzata in cui ognuno darà secondo le proprie capacità ed avrà secondo le proprie necessità.

Naturalmente, anche la classe borghese viene investita costantemente dagli effetti delle contraddizioni sempre più acute che il proprio modo di produzione e, quindi, la propria società, generano; essa è inevitabilmente costretta a trovare dei rimedi; basta dare un’occhiata alle vicende legate ai balzi o ai crolli di borsa, o agli alti e bassi dell’andamento dei mercati ad esempio dell’auto o delle case, per capire che gli stessi borghesi, per quanti sforzi facciano allo scopo di dare delle regole ai “mercati”, questi ultimi non si fanno proprio mettere le redini: prima o poi le regole saltano e i borghesi si ritrovano allo stesso punto di prima, ma non hanno risposte diverse da quelle che hanno già dato in precedenza e che dimostrano ogni volta la loro effettiva impotenza rispetto alla forza del modo di produzione capitalistico e agli effetti che diffonde, soprattutto nei periodi di crisi economica e finanziaria. Possono cambiare gli amministratori delegati delle grandi aziende, i governanti, i dirigenti delle banche o delle istituzioni pubbliche, i sindaci o i presidenti: i problemi che sorgono dalle contraddizioni insite nel capitalismo si ripresentano sempre, e nel lungo periodo si acutizzano a tal punto che la crisi sociale si infila nella corsia della crisi politica ponendo, obiettivamente, il problema di una soluzione definitiva: o dittatura del capitale o dittatura del proletariato.

Le crisi economiche capitalistiche, nello stadio di sviluppo imperialistico del capitalismo, sono sempre crisi di sovraproduzione ed hanno sempre, oggettivamente, un effetto devastante sulle condizioni sociali di esistenza delle grandi masse proletarie. In presenza di determinati fattori relativi all’esperienza più o meno radicata di lotta classista nelle masse proletarie, relativi all’esistenza di associazioni economiche classiste in cui masse numerose di proletari sono organizzate e alla presenza attiva e influente del partito di classe del proletariato, le crisi economiche capitalistiche possono trasformarsi in crisi sociali in cui il proletariato rompe gli argini entro i quali il suo movimento di classe è trattenuto dalle forze oppressive e repressive della borghesia e dell’opportunismo politico e sindacale, e si lancia verso i suoi obiettivi rivoluzionari: presa del potere politico e abbattimento dello Stato borghese, che è l’espressione organizzata della dittatura di classe borghese, per instaurare la sua dittatura di classe e avviare la società intera verso un’economia superiore. Questo percorso storico è lontano dall’oggi in cui è assente, in generale, la lotta di classe proletaria, soprattutto nei paesi capitalistici determinanti, ma è l’unico verso il quale il capitalismo nel suo sviluppo inesorabile andrà necessariamente a sboccare.

Dalle crisi capitalistiche dei periodi storici precedenti, e dal movimento proletario di classe che approfittò di quelle crisi per dare “l’assalto al cielo”, anche le classi borghesi nazionali hanno tratto delle lezioni importantissime. Hanno compreso che non sono in grado di superare una volta per tutte le crisi economiche del loro sistema sociale e che, perciò, devono tener conto che ciclicamente si presentano le crisi del loro sistema economico, causando la rovina anche di una parte della classe borghese e delle mezze classi piccoloborghesi, gettando masse sempre più numerose di proletari nella disoccupazione e nell’indigenza, situazione questa che provoca reazioni violente che, in presenza dei fattori di classe che abbiamo ricordato sopra, possono indirizzarsi verso lo scontro di classe e, potenzialmente, in date circostanze storiche favorevoli, verso la rivoluzione proletaria. E’ esattamente quest’ultimo pericolo per il potere politico che la borghesia teme più di ogni altro perché sa che il movimento di classe e rivoluzionario del proletariato è l’unica forza storica che può spezzare e cancellare il suo potere e l’esistenza stessa delle basi economiche del suo potere politico. Una delle lezioni che le classi borghesi hanno tratto dal periodo in cui il proletariato rivoluzionario, guidato dal suo partito di classe internazionale, sull’onda della vittoriosa rivoluzione proletaria in Russia nel 1917 – in piena guerra mondiale –, stava marciando alla testa del proletariato mondiale verso la rivoluzione socialista, in Europa innanzitutto, dove erano presenti le radici del movimento di classe proletario e del comunismo rivoluzionario, per poi irradiarsi nel mondo intero, una delle lezioni tratte dalla borghesia, dicevamo, è stata quella di doversi preparare preventivamente ad una situazione storica di questo genere contando non solo sul dominio economico e sulla repressione militare e poliziesca, ma anche sul più diretto coinvolgimento delle masse proletarie alla “gestione” delle relazioni industriali tra organizzazioni proletarie e organizzazioni padronali. Il fascismo trovò una formula che le democrazie post-fasciste fecero proprie: la collaborazione tra operai e padroni attraverso il corporativismo; formula che fu imposta dittatorialmente dopo aver distrutto i sindacati rossi e i partiti proletari, ma che sintetizzava molto bene l’interesse dei capitalisti ad avere a disposizione la massa dei lavoratori salariati convinti di partecipare con dei benefici diretti (i famosi ammortizzatori sociali) al buon andamento dell’economia aziendale, e quindi, dell’economia nazionale. In pratica, il collaborazionismo tra operai e padroni era il risultato di una politica con cui l’aperta dittatura borghese trasferiva una parte dei profitti capitalistici dalle tasche dei borghesi alle tasche dei proletari.

La democrazia post-fascista ha ereditato l’impianto di questa politica sociale, salvando la forma della “libera organizzazione sindacale e politica” e l’attitudine delle associazioni padronali e delle associazioni proletarie a concertare obiettivi, mezzi e metodi per ottenere il risultato economico migliore sia a livello aziendale che a livello nazionale. La democrazia post-fascista ha fatto da base ad una ondata opportunistica di diverso tipo: non erano più le organizzazioni proletarie di difesa immediata, nate rosse e classiste, a cedere di quando in quando sul piano della collaborazione col padronato e il governo borghese, ma esse, una volta distrutte dal fascismo, non sono più rinate e sono state rimpiazzate da organizzazioni proletarie di difesa immediata (i sindacati, per dirla in sintesi) organizzate su basi direttamente collaborazioniste, che noi chiamammo fin dal 1949 sindacati tricolore. Mentre i partiti proletari e comunisti autodistrussero le proprie caratteristiche di classe attraverso un processo di degenerazione che si sviluppò all’interno stesso dei partiti dell’Internazionale Comunista, ingenerato da tenaci residui opportunisti radicati soprattutto nei giovani partiti comunisti europei, salvo rare eccezioni, come nel caso della fondazione del Partito Comunista d’Italia che la corrente marxista intransigente – nota come Sinistra comunista – riuscì per qualche anno a dirigere.

Il proletariato, perciò, dopo la vittoria degli imperialismi cosiddetti democratici contro gli imperialismi cosiddetti totalitari, si è trovato in condizioni storiche estremamente peggiori di quanto si trovò dopo la Comune di Parigi del 1871 o dopo la prima guerra imperialista mondiale. Disarmato politicamente e disarmato sul terreno della difesa immediata, il proletariato in Europa non ha avuto la forza, e ancora gli manca, di riallacciarsi alle formidabili tradizioni classiste e rivoluzionarie del passato, piegato come è stato agli interessi dei capitalismi nazionali dalle forze del falso socialismo sovietico, del falso comunismo maoista, della falsa “via democratica” al socialismo. Il fetente collaborazionismo politico cementato dalle illusioni democratiche e dai solidi privilegi sociali che ogni venduto al nemico ottiene, si è riflesso sul collaborazionismo economico e aziendale attraverso il quale gli operai dei paesi più avanzati hanno sì ottenuto dei “miglioramenti”, ma a spese delle masse proletarie sempre più numerose dei paesi arretrati. La concorrenza tra proletari non si svolgeva soltanto tra proletari del nord e proletari del sud dello stesso paese, o tra proletari di una categoria e quelli di un’altra categoria, tra uomini e donne o tra giovani e anziani; si svolgeva sempre più tra proletari di un paese contro proletari di un paese diverso e soprattutto dei paesi arretrati dai quali, proprio a causa delle crisi economiche generate dallo sviluppo capitalistico dei paesi più avanzati, intere generazioni di proletari erano e sono tuttora costrette a migrare verso le fabbriche-galere d’Europa o d’America.

Ma nel sottosuolo economico dei paesi capitalisti più avanzati, e dei paesi di recente industrializzazione, si stanno riaccumulando nella società energie esplosive tali che le classi dominanti borghesi, per quanti mezzi di pressione e di repressione possano utilizzare, non riusciranno a fermare o a spegnere. La certezza rivoluzionaria dei comunisti non poggia su processi di lotta a sviluppo automatico, come se una grande crisi economica debba automaticamente mettere in moto le gradi masse proletarie per la rivoluzione; e non poggia nemmeno sul corso di vita di una generazione di proletari. Non importa se ci vorranno ancora più generazioni di proletari per farla finita con il capitalismo e la società borghese: la storia non la fa e non la ferma una sola generazione di uomini. Le forze sociali assomigliano, in un certo, senso alle forza della natura: un vulcano può apparire dormiente per molto tempo, ma fa parte della terra, e la terra vive: arriva il momento in cui il magma immagazzinato nelle viscere del sottosuolo trova la spinta potente per raggiungere la superficie terrestre e allora non lo ferma più nessuno. Tremino i borghesi al pensiero che la marea rossa proletaria farà saltare i recinti fisici e ideologici dentro i quali si sono illusi di rendere eterno il loro osceno sistema di privilegi e di sfruttamento. Proletari di tutti i paesi unitevi!, è il grido dei comunisti fin dal 1848, ma l’unione per cui i comunisti lottano è l’unione di classe, unico terreno sul quale il proletariato mondiale, e il proletariato europeo in particolare per la sua storia passata, potrà finalmente alzare la testa e combattere per una società senza denaro, senza merci, senza sfruttamento capitalistico.

 


 

(1) L’UEM è costituita dai seguenti 11 paesi: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna. Un anno dopo è ammessa anche la Grecia e, successivamente, anche Cipro, Estonia, Malta, Slovacchia, Slovenia. Ad oggi i paesi sono 17, compresi i territori d’oltremare francesi e spagnoli. L’euro è anche moneta nazionale per il Principato di Monaco, la Repubblica di San Marino e la Città del Vaticano, mentre in alcuni paesi e territori come il Montenegro, il Kossovo e Andorra circola de facto come valuta nazionale.

(2) Questi paesi erano Belgio, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi, ai quali successivamente si sono aggiunti Danimarca, Irlanda, Regno Unito nel 1973, Grecia nel 1981, Spagna e Portogallo nel 1986, Austria, Finlandia e Svezia nel 1995.

(3) Cfr. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, 23 agosto 1915, in Opere, vol. 21, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 312.

(4) Ibidem, p. 312.

(5) Cfr. l’articolo di A. Bordiga, United States of Europa, pubblicato nella rivista teorica del partito comunista internazionalista “Prometeo”, n. 14 del 1950.

(6) Cfr. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, cit., p. 313.

(7) Vedi United States of Europa, cit.

(8) Ibidem.

(9) Cit. in “Borsa & Finanza”, 15/9/2001. Quando un paese registra un deficit di partite correnti nel proprio bilancio vuol dire che il valore delle importazioni supera il valore delle esportazioni, quindi si sta indebitando con altri paesi.

(10) Vedi l’articolo Il capitalismo nella morsa della crisi incipiente, in “il programma comunista” n. 2 del 1970, e l’articolo Guerra imperialista o rivoluzione mondiale, nello stesso giornale, n. 6 del 1971.

(11) Cfr. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, cit. p. 313.

(12) Ibidem, p. 314.

(13) Ibidem, p. 314.

(14) Cfr. Centro Studi Confindustria, Scenari industriali, n. 2, Giugno 2011.

(15) I dati statistici sono tratti dai dati ufficiali dei singoli paesi.

(16) I dati di PIL (Prodotto Interno Lordo) sono tratti dalla Lista 2010 del FMI.

(17) Cfr. Centro Studi Confindustria, Scenari industriali, n. 2, cit.

(18) Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro III, Sezione terza, Legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, cap. XV, Sviluppo delle contraddizioni intrinseche della legge, Utet, Torino 1987, p. 320.

(19) Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro I, Cap. XXIV, La cosiddetta accumulazione originaria, Sezione settima, Tendenza storica dell’accumulazione capitalistica, Utet, Torino 1974, p. 952.

(20) Ibidem, p. 952.

(21) Vedi l’articolo Il mito dell’Europa Unita, “il programma comunista” n. 11, 5 giugno 1962, sintesi tratta dall’articolo Marché Commun et “Europe Unie”, apparso nella rivista teorica di partito, “Programme Communiste”, n. 19, avril-juin 1962.

(22) Ibidem.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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