Arduo lavoro di difesa delle linee programmatiche, politiche, tattiche e organizzative del Partito nella vitale critica marxista dell'imperialismo capitalista, nel bilancio dinamico del movimento comunista internazionale e nella prospettiva della futura ripresa della lotta di classe.

Riunione Generale di partito, Milano 15-16 dicembre 2012

(«il comunista»; N° 129; febbraio-aprile 2013)

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Il Partito Comunista Internazionale nel solco delle battaglie di classe della Sinistra Comunista e nel tormentato cammino della formazione del partito di classe (2)

 

 

Continuiamo la pubblicazione del rapporto esteso tenuto alla scorsa Riunione Generale di partito del dicembre 2012, riprendendo l’esame degli articoli apparsi nella stampa di partito sulla “questione sindacale”.

Dicevamo che le posizioni sbagliate che il partito prese in merito alla questione dell’unificazione sindacale tra CGIL, CISL e UIL, non si evidenziarono immediatamente e chiaramente, ma si insinuarono dapprima impercettibilmente per poi evidenziarsi sempre più. Si cominciò con l’astenersi dal riferirsi al sindacato CGIL nato nell’ultimo periodo della seconda guerra mondiale come sindacato tricolore, poi si iniziò a riconoscerne una “parvenza” e una base “di classe” per il semplice motivo che vi aderiva la maggioranza del proletariato e che i militanti rivoluzionari vi potevano ancora intervenire e fare propaganda. E di questi aspetti se ne è trattato nella prima puntata pubblicata nel numero scorso del giornale.

Poi si passò a lottare contro “lo smantellamento della CGIL”.

Nell’articolo intitolato per l’appunto “Contro lo smantellamento della C.G.I.L.”,  e che prende le mosse da un documento del C.C. della FIOM “Sull’unità sindacale”, articolo apparso nello Spartaco, supplemento al “programma comunista” n. 19, 24 ottobre-7 novembre 1966, a proposito del documento della FIOM – che ricevette il plauso da parte del PCI per i “passi concreti” fatti verso “l’autonomia e l’unità dei sindacati” – si sostiene che vi “sono tracciate le direttrici più avanzate verso lo svuotamento completo e lo smantellamento definitivo di quello che resta del sindacato di classe, della CGIL”.

Dunque, nelle parole del partito, riferendosi alla CGIL si cancella la sua definizione di sindacato tricolore e si riprende la vecchia denominazione di sindacato di classe (anche se, pudicamente, non lo si considera alla stessa stregua della CGL degli anni Venti). Non ci si esime, d’altra parte, dalla critica alla falsa unità perseguita dalla politica opportunista della triplice sindacale, ricordando giustamente che c’è unità e unità del proletariato: la borghesia e le forze dell’opportunismo, sotto la pressione dei fattori di crisi economica che stanno alzandosi all’orizzonte, intendono unire il proletariato a difesa della conservazione sociale e delle esigenze di difesa dell’economia nazionale dalla concorrenza straniera, mentre le esigenze di difesa delle condizioni di vita e di lavoro proletarie richiedono l’unità del proletariato sul terreno della lotta di classe basandosi su organismi di difesa immediata di classe, esigenze espresse organicamente solo dal partito di classe in ogni occasione e in ogni tempo anche se le condizioni oggettive e soggettive della ripresa della lotta di classe non si sono ancora presentate, come era il caso allora, e come purtroppo è ancora il caso oggi.

La tendenza ad unificare la politica sindacale e i sindacati stessi in un’unica organizzazione, aldilà della sua effettiva realizzazione e dei tempi in cui si poteva realizzare, poneva nello stesso tempo con forza anche il tema, sempre caro agli opportunisti di tutte le risme, dell’autonomia dei sindacati dai partiti. Va ricordato che i sindacati usciti dalla scissione del 1949 erano molto legati ai partiti che li ispiravano: il Pci e il PSI per la CGIL, la DC per la CISL e il PSDI e il PR per la UIL, e tale forte legame, in queste precise suddivisioni, è durato tutto il tempo nel quale sono esistiti i partiti nelle loro forme originarie, prima cioè della stagione in cui i partiti esplosero organizzativamente sotto i colpi della corruzione generalizzata chiamata “tangentopoli”. Richiamarsi all’autonomia dei sindacati dai partiti non aveva solo lo scopo di esaltare un ruolo specifico come organizzazione sindacale nell’ambito delle trattative con le “controparti”, cioè con il padronato, le sue associazioni, e lo Stato, ma anche quello di ribadire il meccanismo della concorrenza a tutti i livelli, settore economico per settore economico, fabbrica per fabbrica, reparto per reparto, categoria per categoria, adeguando nel modo più flessibile possibile la propria attività di organizzazione, influenza e controllo delle masse operaie alle esigenze economiche e politiche della classe dominante borghese. I rapporti di carattere economico e sociale tra operai e capitalisti, nella società dominata dal modo di produzione capitalistico e dal dominio sociale e politico della borghesia, sono favorevoli solo alla classe borghese; anche per la sola difesa economica, perciò sul terreno delle condizioni di esistenza immediata dei proletari, gli operai e i proletari in genere si scontrano inevitabilmente con i padroni perché i padroni fanno profitto a condizione di sfruttare il più possibile il lavoro salariato al prezzo più basso possibile, mentre i proletari hanno all’immediato interesse ad essere sfruttati meno intensamente e per un salario più alto di quello che i padroni sono disposti a concedere. La lotta tra padroni e operai nasce da interessi contrastanti che il marxismo ha definito come interessi di classe perché, in tutto il mondo, il capitalismo ha “unificato” il rapporto di dipendenza del proletariato dall’economia capitalistica e, perciò, dagli interessi della classe sociale che detiene il potere economico e il potere politico, la borghesia. Sul terreno sociale, e quindi economico, l’autonomia del sindacato operaio dai partiti che lo hanno ispirato va oggettivamente incontro all’autonomia dell’azienda capitalistica da ogni altra azienda concorrente, ne sposa obiettivamente gli interessi specifici, salda le esigenze dei proletari alle esigenze dell’azienda, rafforzando in questo modo il dominio capitalistico sulla società e sul proletariato in particolare. Tale “autonomia”, in realtà, mentre non impedisce ai sindacati operai di essere penetrati e influenzati dagli interessi capitalistici, aprendoli ad un maggiore adeguamento della loro politica economica e normativa alle specifiche esigenze aziendali, li predispone – a seconda del periodo attraversato dall’economia capitalistica, del rapporto di forze fra proletariato e borghesia e del montare o meno della lotta operaia classista – ad agire in acuta concorrenza gli uni con gli altri o in concertazione fra di essi. La rivendicata autonomia dei sindacati è indirizzata non a difendere gli interessi proletari ma a sottometterli agli interessi borghesi, dunque ad aumentare la concorrenza degli operai e non a combatterla. E’ per questo che i comunisti rivoluzionari hanno sempre osteggiato la rivendicazione di autonomia da parte dei sindacati, perché significa autonomia dagli interessi generali e di classse del proletariato e, quindi, dalla politica rivoluzionaria del partito di classe; che è esattamente l’obiettivo perseguito dal potere borghese: togliere al proletariato organizzato sindacalmente la possibilità di essere influenzato, e guidato, dal partito comunista rivoluzionario, unica forza politica che, in condizioni storiche favorevoli alla lotta di classe e rivoluzionaria, è in grado di guidare la lotta proletaria oltre i limiti della difesa immediata per dare l’assalto al potere politico centrale e avviare il corso storico dell’emancipazione proletaria dal lavoro salariato.

E’ evidente che nel periodo che si stava attraversando – la  seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso – la situazione italiana presentava alcune caratteristiche di fronte alle quali il sindacalismo tricolore, nell’intento di mantenere un saldo controllo delle masse proletarie, doveva dare delle risposte alla vigorosa spinta di lotta che proveniva dalla base operaia. Il cosiddetto boom economico era il risultato di più fattori: la ricostruzione postbellica, la ripresa degli investimenti nell’industria dislocata soprattutto nel nord del paese, il passaggio da un’economia prevalentemente agricola ad un’economia industriale e, quindi, la migrazione di notevoli masse di contandini verso le fabbriche del nord e le grandi città. Quella che venne definita “la fuga dalle campagne” non fu altro che la migrazione dalle campagne, che non davano più da vivere come in precedenza, verso le città del nord dove erano concentrate le fabbriche e dove si sviluppava una potente urbanizzazione: edilizia, metallurgia, chimica, alimentare, industria del legno, della ceramica, servizi di trasporto ecc. assorbivano manodopera a basso prezzo, e che cosa c’era di meglio per i capitalisti degli ex contadini come massa di proletarizzati da sfruttare intensamente e a costi irrisori tanto erano abituati a vivere con poco. I salari differivano in modo notevole in un proletariato suddiviso in strati molto differenziati e non solo a causa delle “gabbie salariali”. Ebbene, una delle rivendicazioni che saliva con forza dalla base operaia in quel periodo riguardava proprio l’abolizione delle gabbie salariali, perché un lavoratore venisse pagato con lo stesso salario in tutto il territorio nazionale. Va detto che il sistema delle gabbie salariali è stato un sistema che calcolava il salario operaio su alcuni parametri, il principale dei quali era il costo della vita che in Italia differiva non poco da regione a regione, dalla grande città alla cittadina di campagna e dal sud piuttosto che al nord. Il 6 dicembre del 1945 ci fu un accordo tra industriali e sindacati sulle gabbie salariali e per il solo nord d’Italia, suddiviso in quattro zone. Nel 1954 le gabbie salariali riguardarono l’intero paese e le zone in cui fu suddiviso passarono a 14, con 14 diversi costi della vita da cui partire per differenziare i salari; mediamente, il salario più basso differiva di un 30% dal salario più alto. Nel 1961 le zone da 14 diminuirono a 7, e la differenza tra salario maggiore e minore passò al 20%, restando comunque consistente. Molte lotte operaie per l’aumento del salario unirono questa rivendicazione con la rivendicazione dell’equiparazione dei salari, quindi con l’abolizione delle gabbie salariali. E, guarda caso, l’obiettivo dell’unificazione sindacale tra i tre maggiori sindacati italiani veniva motivato proprio da rivendicazioni che riguardavano tutti gli operai, in qualsiasi luogo lavorassero, e l’abolizione delle gabbie salariali, applicata poi molto gradualmente dal 1969 al 1972, diventava un esempio di come l’unione sindacale potesse avere “forza” e, quindi, avere il sostegno degli operai perché poteva giungere ad obiettivi che altrimenti sembravano irraggiungibili. Dunque, gli stessi sindacati che firmarono gli accordi per l’istituzione delle gabbie salariali, quando dopo la guerra questa regolamentazione salariale appariva come un freno al bello e cattivo tempo che ogni padrone faceva nella propria fabbrica, si facevano promotori, negli anni Sessanta, sulla spinta delle mobilitazioni operaie, della loro abolizione. Nelle due situazioni, i sindacati tricolore avevano cambiato obiettivo “economico”, ma non funzione sociale: in entrambi i casi a loro premeva di essere considerati dalle controparti padronali come i soli in grado di controllare le masse operaie e, a seconda delle esigenze generali dell’economia del paese, oltre che aziendale, e della conciliazione degli interessi fra le classi nelle diverse situazioni, chiedevano ai capitalisti, e al loro governo, di concedere al proletariato quel tanto che era necessario per disinnescare la spinta classista che alberga in ogni lotta operaia, soprattutto nelle lotte di sopravvivenza.

Il proletariato, già ridotto dal capitalismo a schiavo salariato, ha una sola possibilità di emanciparsi da questa schiavitù moderna: organizzarsi per lottare contro le condizioni di questa schiavitù, a partire dalla difesa delle condizioni immediate di esistenza. Ma per imboccare questa strada, come la storia delle lotte di classe dimostra, i proletari devono sganciarsi dall’abbraccio soffocante degli interessi comuni con i borghesi, devono rompere la saldatura con la quale le forze dell’opportunismo tengono avvinta la classe operaia alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo e, quindi, della società borghese. Proprio per la loro caratteristica immediata, le organizzazioni sindacali operaie, se, da un lato, hanno rappresentato storicamente la forma elementare di associazione operaia in difesa degli interessi immediati, hanno da un altro lato mostrato il loro limite poiché la forza dominante della classe borghese è sempre stata in grado di rimangiarsi le concessioni strappate con la lotta dagli operai: ogni tanto vincono gli operai, ma solo transitoriamente, afferma il Manifesto di Marx ed Engels fin dal 1848. Finché esiste il lavoro salariato, che è la condizione dell’esistenza del capitale e del suo dominio, il capitale avrà sempre le migliori chances per vincere proprio perché il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro (ancora il Manifesto di Marx ed Engels). Si deduce facilmente, da queste premesse, che l’organizzazione sindacale degli operai, per difendere efficacemente le loro condizioni di esistenza, deve necessariamente combattere la concorrenza tra operai e che, se non lo fa, agisce nell’interesse della conservazione sociale e, quindi, del padronato e della società borghese.

Ebbene, al partito tutto questo era ben chiaro anche allora, anche se stava sempre più maturando la contraddizione tra considerazioni generali corrette e indicazioni tattiche sbagliate. Nel febbraio del 1967, sempre su Spartaco (supplemento a “il programma comunista” n. 3 del 10-24 febbraio), esce un articolo intitolato “Per il risorgere di un’ala rivoluzionaria della CGIL”. Già nel titolo si dà l’idea che nella CGIL (con la I, quindi nel sindacato tricolore costituito nel 1945) si era costituita in precedenza un’ala “rivoluzionaria” che, per qualche motivo non spiegato era scomparsa e che, ora, si trattava di far “risorgere”. In realtà, l’ala rivoluzionaria esisteva sì, ma nel sindacato CGL che venne distrutto dal fascismo, come ogni altro sindacato operaio esistente, per essere sostituito dal sindacato fascista, il sindacato unico, di Stato, obbligatorio e organizzato per professioni, dunque non un sindacato operaio ma un sindacato che organizzava operai, impiegati, tecnici, capi e dirigenti che appartenevano allo stesso settore economico. La CGIL, in quanto sindacato “unitario”, nacque nel 1945 per rispondere alla necessità sociale di organizzare il proletariato sul terreno economico immediato e su iniziativa dei partiti democratici – sotto l’ala benevola degli Alleati che stavano vincendo la guerra contro le potenze dell’Asse – che avevano formato il CNL (dal Pci al Psi, dalla Dc ai repubblicani e ai socialdemocratici), godendo del fatto che il vecchio sindacato di classe (la CGL, appunto) era stato distrutto dal fascismo e che nessuna forza politica opportunista aveva interesse a far rinascere. L’ala rivoluzionaria all’interno del sindacato CGIL, semmai, poteva essere un obiettivo che soltanto i pochissimi comunisti rivoluzionari esistenti (qualche decina di militanti del nostro partito di ieri che intervenivano all’interno della CGIL contro la politica opportunista dei suoi vertici e del suo apparato) potevano avere come prospettiva della loro attività all’interno del sindacato, obiettivo peraltro molto lontano nel tempo data la situazione di grave intossicazione democratica e collaborazionista in cui il proletariato era stato fatto precipitare dalla politica e dalla pratica dello stalinismo e del collaborazionismo interclassista.

Lanciare la parola d’ordine: “per il risorgere di un’ala rivoluzionaria della CGIL”, corrispondeva ad un velleitarismo che il partito aveva sempre combattuto, ma che in quel periodo aveva cominciato ad accarezzare grazie ad una valutazione sbagliata delle potenzialità di una classe operaia che esprimeva sì una certa resistenza alla eccessiva accondiscendenza verso il padronato da parte della politica opportunista del sindacalismo tricolore e dei partiti a base operaia, ma che era molto lontana dall’esprimere la rottura col sindacalismo tricolore e coi suoi metodi di lotta, rottura grazie alla quale si sarebbero costituite le basi materiali per il risorgere all’interno del sindacato prima di tutto della lotta classista che, a sua volta, avrebbe fatto da base alla costituzione di un’ala rivoluzionaria guidata dai militanti comunisti rivoluzionari.                                                                Si confuse, invece, la resistenza che episodicamente fecero gli operai di fronte all’obiettivo dell’unificazione sindacale e ad accettare la politica delle “deleghe” con le quali il sindacalismo tricolore demandava alle aziende la trattenuta dalla busta-paga operaia della quota di iscrizione al sindacato (dando in questo modo ad ogni padrone il controllo diretto e a priopri della sindacalizzazione dei propri dipendenti), con il rifiuto della politica generale dei sindacati collaborazionisti; si confuse la resistenza con la quale gli operai tentavano talvolta di opporsi alle meline infinite nei negoziati tra sindacalisti e padronato e alle lotte sempre più  frammentate e isolate come fosse un rifiuto cosciente della politica collaborazionista dei sindacati tricolore al quale aggiungere la volontà di lottare non solo con mezzi e metodi di classe, ma anche dandosi obiettivi di classe che altro non potevano essere che antagonisti alla pace sociale, alla tregua sociale di fronte alla crisi economica del capitale, alla collaborazione interclassista, alla difesa dell’economia aziendale e nazionale e, ovviamente, alle cosiddette “riforme di struttura” che andavano tanto di moda all’epoca del PCI togliattiano.

Nelle prese di posizione del partito, nei suoi manifesti e negli articoli di carattere sindacale il partito di ieri indicava ai proletari, come scritto nell’articolo che citiamo, “l’obiettivo comune di costituire nella CGIL un’ala rivoluzionaria nella quale confluiscano tutti i proletari disgustati dalla politica dei bonzi e pronti a fronteggiarla”. Si alza la voce, vantandosi di essere “l’unico partito che abbia denunciato la manovra disfattista dei capi sindacali, la loro politica di consegna allo Stato del capitale, dei padroni, delle direzioni aziendali, dei proprietari fondiari, della fitta schiera delle mezze classi codarde e codine”; si alza la voce, vantandosi di essere “l’unico partito che abbia indicato ai proletari di non abbandonare la lotta ma di estenderla e potenziarla, di stringersi intorno ai comunisti rivoluzionari per sventare la fascistizzazione delle organizzazioni di difesa economica dei lavoratori”. Si alza la voce indicando ai proletari l’urgenza della lotta “contro l’unificazione sindacale” perché il “sindacato unitario” che ne sarebbe sorto avrebbe significato la “subordinazione della CGIL alla CISL e alla UIL su posizioni sindacali che esprimono organizzazioni emananti da partiti dichiaratamente borghesi, come appunto al DC”. Tale subordinazione era interpretata come fascistizzazione della CGIL: il fatto è che, se CISL e UIL erano sindacati emananti dai partiti dichiaratamente borghesi, come la Democrazia Cristiana e il Partito Social-Democratico, perciò erano sindacati chiaramente diretti da portavoce dei padroni, dunque – per riprendere una distinzione dei primi anni del Novecento – sindacati bianchi e gialli, la CGIL non era certo un sindacato rosso che pericolosamente poteva essere trasformato dalla sua unificazione con Cisl e Uil in sindacato “fascista”. Erano tutti sindacati tricolore, come ribadito dal nostro partito più volte; ma in quegli anni ci si stava dimenticando il valore di quella definizione, e, sebbene con sigle diverse, ognuno di essi svolgeva ruoli diversi sebbene con scopi esattamente uguali: il controllo sociale del proletariato e delle sue molteplici reazioni alla pressione capitalistica e agli attacchi alle sue condizioni di vita e di lavoro.

La classe borghese ha in un certo senso bisogno che buona parte delle masse proletarie sia organizzata in sindacati influenzati direttamente o indirettamente dalle forze di conservazione sociale, ossia da tutte quelle forze che deviano le spinte proletarie dalla lotta sul terreno dell’antagonismo di classe al terreno della conciliazione di classe. Dal riformismo classico del socialdemocratismo in tempo di pace al collaborazionismo in tempo di guerra, dal sindacalismo bianco e giallo al sindacalismo statale obbligatorio e al corporativismo e, dopo la guerra mondiale “antifascista”, al sindacalismo tricolore: sono forme diverse, ma tutte indirizzate a salvaguardare la struttura economica capitalistica e il potere borghese contro ogni pericolo proveniente dalla lotta di classe. Ognuna di queste forme di sindacalismo non risponde solo al bisogno dei proletari di organizzarsi elementarmente sul terreno immediato e sulla scorta di una tradizione di lotta per difendere il proprio salario, ma risponde anche alle diverse necessità di controllo da parte della classe borghese dominante del proletariato che lo stesso sviluppo capitalistico frammenta e divide in tanti gruppi concorrenziali. L’unico sindacalismo che risponde all’indirizzo unitario di classe del proletariato è stato, e sarà, il sindacalismo rosso, ossia la politica di un associazionismo economico che si incentra sull’esclusiva difesa degli interessi immediati di classe del proletariato contro ogni forma di concorrenza fra proletari e al disopra delle divisioni di età, sesso, nazione, categoria, settore, specializzazione e che per obiettivo sociale generale ha la lotta contro il capitalismo, contro la società dominata dal capitale e, perciò, contro la classe dominante borghese.

Nel primo Congresso Internazionale dei Sindacati Rossi (1921), al punto 6 del capitoletto intitolato “I compiti e la tattica dei Sindacati”, si afferma decisamente quanto segue: “I sindacati rivoluzionari si assegnano sempre il compito essenziale di unire, disciplinare ed educare le masse per il rovesciamento, attraverso la forza, del capitalismo” (1); indicazione, questa, che si ritrova ovviamente negli articoli dello Statuto dell’Internazionale dei Sindacati Rossi da cui, a mo’ d’esempio, riprendiamo i primi accapi dal capitolo 3 intitolato “Scopi”, dove si afferma: “L’Internazionale dei Sindacati Rossi si propone: 1) di organizzare le vaste masse operaie di tutto il mondo al fine di abbattere il capitalismo, di liberare i lavoratori dal giogo dello sfruttamento e d’instaurare il potere proletario; 2) di fare una vasta propaganda che valga a diffondere i concetti di lotta rivoluzionaria di classe, di rivoluzione sociale, di dittatura del proletariato, e a guidare l’azione rivoluzionaria delle masse allo scopo di rovesciare il sistema capitalista e lo Stato borghese; 3) di combattere la piaga del conciliazionismo con la borghesia, che corrode il movimento sindacale mondiale; di denunciare tutta la menzogna del concetto di conciliazione con la borghesia, di collaborazione delle classi e di pace sociale, come pure l’assurdità della speranza di un’evoluzione pacifica dal capitalismo al socialismo” (2). Nella parte dello Statuto dedicata alle adesioni dei sindacati all’Internazionale dei Sindacati Rossi, venivano stabilite le condizioni di ammissioni fra le quali,  al punto 7, si precisava: “Unità d’azione con tutte le organizzazioni rivoluzionarie e col Partito comunista del proprio paese in tutte le azioni offensive e difensive contro la borghesia” (3). Il sindacato di classe, il sindacato rosso, aveva ben altri basi e obiettivi di qualsiasi altro sindacato.

L’unificazione sindacale che le direzioni di CGIL, CISL e UIL perseguirono in quel periodo, presentandola come il modo per aumentare la forza contrattuale del sindacato nei confronti delle associazioni padronali e dello Stato, era giustamente criticata dal nostro partito in quanto avrebbe rafforzato l’asservimento del proletariato al capitalismo e, quindi, il potere borghese al servizio del quale questi sindacati erano nati ed agivano, nel ventennio dalla fine della guerra, con uno zelo particolare; ma il partito dava ad essa un significato ultimativo che non avrebbe mai avuto, ed è proprio sull’onda di questo ultimatismo che il partito lancia parole d’ordine completamente fuori tempo (come la costituzione di “un’ala rivoluzionaria nella CGIL”) o del tutto sbagliate (come, successivamente, la difesa della CGIL “rossa” dalla sua imminente “fascistizzazione”).

Alla valutazione sbagliata del corso di sviluppo dei sindacati tricolore si accompagna anche la valutazione sbagliata della maturazione classista del proletariato. Sempre nell’articolo del febbraio 1967 cui ci siamo riferiti, si sostiene che “l’unificazione sindacale si potrà fare alla condizione che gli operai non si oppongano in nulla a questa tattica infame, e lascino che i dirigenti i loro sindacati li menino dove ne hanno voglia. Questo piano strategico della controrivoluzione si attuerà se i partiti opportunisti e le direzioni sindacali riusciranno a far ingoiare ai proletari, ancora per un po’, i rospi delle lotte articolate, del legalitarismo, degli scioperi preavvertiti, delle rivendicazioni disfattiste come i premi di produzione, i cottimi, il lavoro straordinario, le differenze crescenti di paga tra categoria e categoria di operai ecc.; se riusciranno ad imporre i pateracchi delle Commissioni Paritetiche aziendali, ovverossia dei comitati tra padroni e bonzi, ed a far funzionare la sudicia pompa delle ‘deleghe’ alle direzioni aziendali per riempire le casse sindacali e assicurare gli stipendi ai burocrati”. Ebbene, le masse operaie, pur dando prova episodicamente di voler lottare con molta più determinazione e durezza di quanto non le facessero lottare i sindacalisti, non si opposero in modo deciso alla “tattica infame” dell’unificazione sindacale, manovra che avrebbe dovuto far nascere il “sindacato unitario”, identificato come “sindacato fascista” o “di regime” che dir si voglia. In realtà, una vera unificazione non ci fu; ci fu una specie di unione delle sigle che visse per qualche anno e che soprattutto riguardò i metalmeccanici, la categoria operaia tra le più importanti e trascinanti, oltre che tra le più combattive.

E’ certo che questa “unificazione sindacale”, nei disegni del potere borghese e della politica opportunista, rispondeva alla necessità di un controllo più capillare delle masse operaie organizzate sindacalmente, sia da parte della Confindustria sia da parte delle forze opportuniste di conservazione – sindacali e politiche – come d’altra parte l’istituzione delle cosiddette Commissioni Paritetiche e, soprattutto, le deleghe dimostravano. Il nostro partito aveva colto perfettamente questo disegno, inquadrandolo nel processo di integrazione nelle istituzioni statali di ogni organizzazione operaia, e per questo aveva definito i sindacati nati nel solco della difesa della patria (democratica, naturalmente) e dell’economia nazionale, come sindacati tricolore. Li distinse però dai sindacati fascisti perché, pur avendo ereditato una serie notevole di istituti realizzati dal fascismo per tacitare i bisogni immediati delle grandi masse (pensioni, liquidazione di fine rapporto, infortunistica, maternità ecc., insomma i famosi ammortizzatori sociali), e i rapporti formali tra Stato e parti sociali, tra Associazioni padronali e sindacati legalmente riconosciuti ecc., dunque  la sostanza collaborazionista della politica sindacale fascista, ai sindacati tricolore gli operai non erano obbligati, per legge, ad iscriversi; inoltre l’organizzazione sindacale – come l’organizzazione politica - poteva essere liberamente costituita nel rispetto delle leggi democratiche varate sulle macerie del fascismo vinto militarmente dalle forze imperialiste democratiche, ed avere potere di firma nelle contrattazioni ai diversi livelli. La forma democratica con cui il collaborazionismo di tipo fascista veniva vestito rispondeva egregiamente all’interesse del potere borghese e della sua conservazione in quanto avrebbe continuato ad ingannare e illudere le masse proletarie sul terreno della cosiddetta “partecipazione” e “libertà di riunione, organizzazione ed espressione”: mentre nella sostanza si rafforzava l’interclassismo e, quindi, l’asservimento delle masse proletarie al capitale, nella forma si lasciava agli operai la “libertà di scegliere” di iscriversi a questo o a quel sindacato o di non iscriversi per nulla, con un vantaggio oggettivo concesso dal potere borghese, e cioè quello di godere egualmente – iscritti e non iscritti ai sindacati – dei risultati ottenuti sul piano normativo e salariale relativi all’intera categoria operaia di appartenenza. La differenza, dunque, tra sindacati fascisti e sindacati tricolore era sì formale, soprattutto, ma andava ad incidere anche sui metodi con cui venivano regolati i rapporti tra operai e capitalisti: la “libertà di scelta” degli operai nell’iscriversi o meno ad un sindacato, se superava l’obbligo di iscrizione ad un unico sindacato di stato, nello stesso tempo non “obbligava” i padroni a trattare con tutte le sigle sindacali presenti nelle aziende, e non impediva ai padroni di favorire o meno un’organizzazione sindacale piuttosto che un’altra o di sostenere la costituzione di organizzazioni sindacali come emanazioni dirette degli interessi aziendali (Fiat docet).

Ma torniamo alla valutazione sbagliata dell’evoluzione dei sindacati e della forza reattiva delle masse proletarie. Nell’articolo citato, rispetto all’unificazione sindacale, detta “piano strategico della controrivoluzione”, si giunge a questa conclusione: “Contro la unificazione forzata sotto la protezione statale, cioè la fascistizzazione dei sindacati, il proletariato deve trovare la forza di enucleare dal suo seno una opposizione antiopportunista che si organizzi nei sindacati per fronteggiare l’opera di aperto disfattismo dei capi controrivoluzionari. Se gli operai non troveranno questa spinta iniziale, la lotta per l’emancipazione del lavoro dalla schiavitù capitalista sarà mille volte più penosa, più cruenta, e più complicato il cammino verso la rivoluzione proletaria. L’opposizione proletaria all’interno dei sindacati è la sola forma per bloccare il disfacimento della CGIL e, di conseguenza, per evitare che si realizzi una sola centrale sindacale comandata dallo Stato capitalista attraverso i suoi burocrati, gli attuali bonzi confederali”. Indicare al proletariato la necessità della formazione di una “opposizione antiopportunista che si organizzi nei sindacati” faceva parte delle indicazioni di carattere generale che il nostro partito continuava a dare da sempre e rispondeva alla necessità di catalizzare le forze proletarie d’avanguardia sul terreno non solo dell’opposizione alla politica e alle pratiche dell’opportunismo ma anche sul terreno dell’organizzazione di questa opposizione. E, nei limiti in cui lo statuto del sindacato e la reale pratica lo consentivano e lo consentano, l’attività di opposizione organizzata dai proletari d’avanguardia, e quindi anche dai militanti operai del partito, all’interno dei sindacati andava, e va, continuata, sostenuta, propagandata. Ed è un’attività che i militanti del partito all’interno dei sindacati e delle fabbriche svolgevano, e svolgono, sapendo perfettamente che i sindacati non erano e non sono rossi ma tricolore, e non attendendo che l’evoluzione dei principali sindacati li riportassero ad una eventuale riunificazione dopo averli portati, nel 1949, alla scissione. Sostenere invece che l’opposizione proletaria contro la politica opportunista dei sindacati corrispondeva ad una “spinta iniziale”, motivata dall’unificazione sindacale, perdipiù “forzata sotto la protezione statale” e per questo definita come “fascistizzazione dei sindacati”, faceva supporre che in tutti gli anni precedenti non solo non era emersa alcuna opposizione da parte degli operai all’interno dei sindacati (cosa non vera) ma che i sindacati – e in questo caso soprattutto la CGIL – erano sindacati non tricolore (quindi, non “fascistizzati”), ma rossi (o gialli, o bianchi) e che l’unificazione sindacale, “sotto la protezione statale”, andava considerata come una specie di ritorno al sindacato fascista. Da queste premesse è ovvia la conclusione che per “bloccare il disfacimento della CGIL”, e per “evitare che si realizzi una sola centrale sindacale comandata dallo Stato capitalista” (in pratica, per non tornare alla sola centrale sindacale CGIL del 1945, prima della scissione del 1949) si sarebbe dovuto lottare “in difesa della CGIL” in quanto “sindacato rosso”.

Da questo groviglio di considerazioni contraddittorie, si potrebbe dedurre che la CGIL del 1945, da sindacato para-fascista perché nato sotto la protezione statale (a quell’epoca di Stati belligeranti), avesse espresso “parvenze di classe” (per poi diventare “rossa”) solo grazie alla scissione del 1949 e la costituzione dei sindacati “padronali” CISL e UIL. La posizione sbagliata che stava sempre più definendosi all’interno del partito negli anni tra il 1966 e il 1969 e che partiva proprio da queste valutazioni sbagliate, originava da questa separazione, come se il sindacato CGIL avesse esaurito nel tempo, e sotto la pressione delle masse proletarie, la sua caratteristica originaria pienamente tricolore e si fosse predisposto ad evolvere in due direzioni diverse e opposte: una parte – i vertici – verso la decisa unificazione con CISL e UIL e quindi, secondo l’interpretazione sbagliata, verso la “fascistizzazione”, e una parte – la massa degli operai iscritti – pronta ad opporsi a quella unificazione se avesse trovato una “opposizione disposta a contrastare palmo a palmo l’avanzata a plotoni affiancati dell’opportunismo traditore e del capitalismo reazionario”, opposizione che avrebbe potuto e dovuto contare su di “un’ala rivoluzionaria”, propagandata in quel periodo dal partito, nella quale confluissero “tutti i proletari disgustati dalla politica dei bonzi e pronti a fronteggiarla”. Le posizioni contraddittorie, purtroppo,  si sovrapponevano una sull’altra: come se fossimo stati di fronte ad una battaglia decisiva per “salvare la CGIL dal suo disfacimento” e dalla sua trasformazione in sindacato “fascista”.

In effetti, nello Spartaco del giugno 1967 (supplemento a “il programma comunista” n. 10 del 31 maggio-14 giugno 1967), in un articolo intitolato “L’unità sindacale dei bonzi spiana la strada al fascismo aperto”, si fa un passo avanti verso posizioni che un partito come il nostro, basato sui bilanci dinamici della rivoluzione e della controrivoluzione e sulla restaurazione della teoria marxista, avrebbe dovuto individuare da subito come posizioni sbagliate e combatterle con forza. Qui, nel titolo, si parla addirittura di strada spianata al fascismo aperto, come se il proletariato avesse dato prova di essere pronto alla lotta rivoluzionaria per la conquista del potere, come se vi fosse stato un partito comunista rivoluzionario influente sul proletariato organizzato nei sindacati rossi e in genere sugli strati proletari organizzati anche nell’agricoltura, nelle cooperative e nelle leghe, e in grado di prepararlo e condurlo alla conquista violenta del potere politico per instaurare la dittatura proletaria; come se si fosse ripresentata una situazione simile al famoso “biennio rosso”, 1920-1922, nella quale la borghesia, terrorizzata dal reale pericolo dell’assalto proletario al suo potere, ritirasse fuori dal cilindro la soluzione fascista per impedire al proletariato di avanzare nel cammino verso la rivoluzione. Ebbene, nell’articolo che abbiamo citato ora, a proposito del fascismo e dei suoi rapporti con la classe proletaria, si vuole far leva sulla distinzione in due fasi dell’evoluzione del fascismo: una prima fase in cui “il fascismo non si presenta nella sua forma violenta e dittatoriale” e nella quale “cerca di guadagnare la fiducia del proletariato costituendo organizzazioni economiche operaie in concorrenza con i sindacati di classe”, tentando così di “separare il proletariato dalle organizzazioni rivoluzionarie, sostituendosi ad esse per condurlo sul piano della collaborazione di classe con una tattica semi-democratica”; una seconda fase in cui il fascismo, non riuscendo a “migliorare le condizioni di vita del proletariato rappresentando esso stesso la forma organizzativa con cui la classe dirigente cerca di mantenere il proprio dominio sulla classe operaia”, passerà alla distruzione delle Camere del lavoro e, presa la gestione diretta del potere politico borghese, obbligherà gli operai “con la forza ad entrare nei sindacati fascisti ormai incorporati nell’apparato statale”. In questa seconda fase, il fascismo giungerebbe ad un obiettivo importante per la classe dominante borghese perché “la classe operaia sarà fisicamente unificata in un’unica organizzazione economica, ma questa unificazione fisica, lungi dal corrispondere ad uno sviluppo dell’unità di classe del proletariato, segnerà invece la fine di ogni conflitto sociale”, conflitto sociale che in verità non era mai scomparso nemmeno durante il ventennio fascista.

Da queste premesse sommarie, l’articolo passa a definire l’unificazione sindacale tra CGIL, CISL e UIL come “preludio del sindacato di stato”, assimilandola, “alla prima fase del fascismo” (quella in cui i sindacati fascisti entravano in concorrenza con i sindacati di classe, utilizzando forme non violente e non dittatoriali). In realtà, il processo di unificazione sindacale degli anni 1964-1970 aveva l’obiettivo non di aumentare la concorrenza tra i sindacati ma di appianarla; inoltre il proletariato non rappresentava un pericolo per il potere politico della borghesia e le sue lotte, anche quelle più dure, non avevano nulla di simile, né a livello di organizzazione, né a livello di mezzi e metodi usati, né a livello di obiettivi e di rapporto di forze fra proletariato e borghesia, a quelle del proletariato degli anni Venti; questa “assimilazione” risultava del tutto artificiosa e utile al solo scopo di giustificare la posizione assunta secondo la quale l’unificazione sindacale avrebbe “spianato la strada al fascismo aperto” rappresentando “il mezzo con cui la borghesia si assicurerà nuovamente la pace sociale di cui avrà bisogno in un futuro non troppo lontano”! L’articolo concluderà con questa prospettiva: “Opporsi all’unificazione sindacale risponde quindi a due necessità fondamentali per il proletariato: conservare la propria organizzazione di classe, che l’accidente storico vuole oggi in mano a dirigenti opportunisti e in cui il partito potrà reclutare l’esercito proletario rivoluzionario, ed accelerare la crisi capitalistica negando alla borghesia la tregua sociale che essa intende ottenere con un sindacato legato agli interessi del suo apparato statale”.

E qui si giunge ad affermare esplicitamente che la CGIL, perché è di questo sindacato che si parla, è un’organizzazione di classe che i proletari devono conservare, e difendere, impedendo che si unisca con gli altri sindacati, pena l’apertura di un cammino verso “il fascismo aperto”! La CGIL, da sindacato tricolore come veniva definito grazie al bilancio fatto dal partito, ora veniva considerato un’organizzazione di classe senza che avesse cambiato nulla, né statuto, né piattaforma politica, né mezzi e metodi d’azione, né struttura, né indirizzo generale; come se la sola azione dei vertici della CGIL, che volevano l’unificazione con CISL e UIL, avesse magicamente fatto emergere la sua vera anima separata di sindacato rosso! Queste posizioni che gli organi centrali del partito di ieri calavano sull’organizzazione non erano condivise pienamente da tutti i militanti, ma non vi era chiara coscienza dello scivolone che si stava facendo verso posizioni che ponevano problemi di teoria e non solo di tattica. Amadeo Bordiga, in una lettera del 1948 ad alcuni compagni, subito dopo il congresso del partito comunista internazionalista (battaglia comunista), al quale non aveva partecipato (anche perché contrario a formare il partito senza aver prima chiarito le basi teoriche di fondo grazie alle quali si sarebbe potuto dare una corretta valutazione della situazione e, ovviamente, contrario al suo congresso), afferma senza tanti giri di parole che “l’errore valutativo della situazione” è “errore di principio perché la valutazione della situazione non è un amminicolo che può andare colla moda come le gonne corte o lunghe, ma è la sostanza stessa della dottrina” (4). L’errore di valutazione della situazione, dunque, è un errore di principio, e quindi di teoria, e di questo il partito se ne accorse molto in ritardo; dovette, infatti, attraversare tutto un periodo in cui le posizioni sbagliate sul piano sindacale misero volta a volta in discussione tutte le questioni di tattica per giungere alla questione centrale, la concezione del partito, per far emergere al suo interno una sana reazione grazie alla quale i punti fondamentali furono rimessi in ordine così da riposizionare la “questione sindacale” sul binario corretto. E’, infatti, del 1972 la stesura definitiva delle tesi “sindacali” che riprendono correttamente la linea del partito nell’attività, così vitale, nelle file del proletariato organizzato nelle associazioni della difesa economica immediata, che storicamente hanno preso il nome di sindacati.

Che questo campo di attività sia vitale per il partito proletario lo sottolineano da sempre i comunisti rivoluzionari per i quali possiamo riprendere le parole dell’Estremismo citate dallo stesso articolo di Spartaco cui ci riferiamo, quando, trattando della dittatura del proletariato e del suo esercizio da parte del partito di classe, Lenin afferma che: “Il partito si appoggia nel suo lavoro direttamente sui sindacati (...) formalmente apolitici (...).Si ha in definitiva un apparato formalmente non comunista, flessibile e relativamente ampio, molto potente, proletario, mediante il quale il partito è strettamente collegato alla classe e alle masse e attraverso il quale, sotto la direzione del Partito, si realizza la dittatura della classe. Senza il più stretto legame con i sindacati, senza il loro lavoro pieno di abnegazione per l’organizzazione non soltanto economica, ma anche militare, noi non avremmo certo potuto governare il paese e realizzare la dittatura” (5). L’importanza vitale dell’attività di partito nei sindacati operai – anche reazionari -  messa in evidenza in questi passaggi dell’Estremismo, in cui Lenin combatte contro le posizioni che albergavano all’interno del partito bolscevico e che sostenevano che i militanti di partito non dovessero fare attività nei sindacati reazionari, è data proprio dal fatto che il partito di classe agisce nell’oggi guidato degli obiettivi della lotta rivoluzionaria di domani, ossia della dittatura proletaria instaurata grazie alla vittoria rivoluzionaria sulla borghesia. La dittatura di classe potrà infatti essere realizzata, sotto la guida del partito comunista rivoluzionario, alla condizione che il partito abbia conquistato l’influenza determinante sulle masse proletarie e, in particolare, sul proletariato organizzato nelle associazioni economiche di difesa, nei sindacati appunto. E’ dagli obiettivi storici della lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato che discendono gli obiettivi parziali (lotta economica di difesa) per i quali il proletariato è oggettivamente spinto a lottare contro le sue condizioni di schiavo salariato, non il contrario. Gli obiettivi storici della lotta di classe proletaria non sono il semplice prolungamento “politico” della lotta immediata del proletariato: essi rappresentano il salto di qualità storico attraverso il quale il proletariato, che è una classe sociale nella società capitalistica, trasforma l’intera società da società divisa in classi in società di specie in cui le classi sociali – e quindi tutta l’organizzazione sociale basata sulla divisione della società in classi antagoniste, - sono scomparse, superate definitivamente. Ma, per arrivare a questo traguardo storico, il proletariato, date le sue condizioni materiali di esistenza, e quindi proprio perché classe per il capitale, non deve solo trovare la forza di lottare per migliorare o, almeno, non peggiorare le sue condizioni materiali di esistenza – e perciò si organizza nei sindacati – ma anche la forza di lottare contro le sue condizioni materiali di esistenza, cioè contro la condizione di schiavitù salariale nella quale la classe dominante borghese lo costringe con la forza del suo Stato, delle sue polizie, dei suoi eserciti, della sua pressione economica e sociale, della sua pressione ideologica; deve cioè trovare la forza di lottare come classe per sé, per i suoi obiettivi storici rivoluzionari. E per fare in modo che questa forza diventi un fattore rivoluzionario e non sia solo un fattore di difesa e di conservazione, il proletariato dovrà incontrare nella sua lotta immediata, nella sua lotta di difesa economica,  il partito di classe che è per l’appunto l’organo indispensabile della vittoria della rivoluzione proletaria, della conquista del potere politico, della dittatura di classe, della trasformazione sociale ed economica della società. Ma perché il proletariato riconosca il partito comunista rivoluzionario come il suo unico partito di classe, deve conoscerlo fin dalla sua lotta economica di difesa verificandone le posizioni, le capacità organizzative, le decisioni basate sull’anticipazione delle mosse degli avversari, la tenuta nelle situazioni di difficoltà e di sconfitta; deve riconoscerne la linea politica e la capacità di cambiare tattica senza perdere di vista gli obiettivi fondamentali. I proletari arriveranno ad accettare l’influenza e, quindi, la guida del partito comunista rivoluzionario nella lotta politica solo se avranno già conosciuto il partito nell’azione di difesa sul terreno immediato, sul terreno nel quale il proletariato è spinto elementarmente a lottare e sul quale fa esperienza di lotta e comincia a conoscere gli avversari (borghesi, piccoloborghesi, opportunisti, reazionari ecc.). Che poi la lotta organizzata sia più efficace della lotta disorganizzata, lo capiscono anche i bambini...

Lenin, nell’Estremismo, quando parla dei sindacati sui quali il partito si appoggia per esercitare la dittatura di classe, parla non solo di sindacati rossi, ma di sindacati rivoluzionari, ossia di sindacati che sono diretti da comunisti; e, nel caso specifico della Russia di allora, parla di una rivoluzione proletaria vittoriosa e di una dittatura di classe già instaurata. Ma tutto ciò serve per dimostrare che le masse proletarie avranno fiducia e seguiranno il partito comunista rivoluzionario non perché avranno studiato il marxismo da cima a fondo, ma perché avranno sperimentato nella loro lotta elementare di difesa economica che i comunisti rivoluzionari sono i più affidabili, i più coerenti, i più tenaci ed energici combattenti per la causa di tutti i proletari, per la causa dell’intera classe del proletariato, e che sono gli unici che rappresentano nella lotta di difesa di oggi gli obiettivi della lotta di offesa di domani. Questo non è un risultato che il partito ottiene organizzando scuole di marxismo tra i proletari o, come già i “sinistri” tedeschi al tempo di Lenin e i “battaglini” di oggi, organizzando sindacati od organismi di tipo immediato di soli “comunisti”! E’ un risultato che si ottiene nel lungo periodo – e la lunghezza di questo periodo dipende da molti fattori tra i quali uno dei principali è dato dalla profondità della sconfitta operaia e rivoluzionaria – e grazie alla continuità del lavoro che i comunisti rivoluzionari svolgono all’interno delle associazioni operaie di difesa economica – sindacati o qualsiasi altra forma possano prendere in seguito alle vicende della lotta operaia – che organizzano una parte importante della massa proletaria. Che queste organizzazioni operaie siano il più delle volte strutturate per la conciliazione fra le classi e per la collaborazione interclassista è la storia stessa che lo dice; che il più delle volte siano dirette da forze opportuniste, collaborazioniste, reazionarie è un dato storico, come lo è il fatto che solo in determinati svolti storici, quando la lotta di classe raggiunge un certo grado di tensione e di maturazione, i sindacati operai da “rossi” possono diventare, grazie all’opera dei comunisti,  “rivoluzionari” come già successe nel 1920.

Gli è che negli anni Sessanta del secolo scorso, e oggi, data la profonda sconfitta della rivoluzione proletaria e comunista, la stessa lotta di difesa economica del proletariato è indietreggiata a tal punto che non solo i sindacati operai, distrutti dalla controrivoluzione non solo fascista ma anche democratica con lo stalinismo che ne fu il vettore principale, sono ricaduti sotto l’influenza degli opportunisti e dei reazionari, ma, dopo la seconda guerra imperialistica, sono stati ricostituiti e formati su basi solo tricolori, nazionalistiche, di difesa dell’economia nazionale e, ereditando dal fascismo, di collaborazione interclassista mescolata costantemente con il maledetto intruglio della concorrenza fra proletari (cosa che dava e dà un senso di “democrazia” in cui il “merito”, la “professionalità”, la “preparazione”, la “dedizione al lavoro”, lo “spirito di sacrificio” personali sono elevati a caratteristiche indispensabili per un avanzamento sociale, per un salario più alto, per mansioni o posizioni in azienda privilegiate).

 

Quel che il partito di ieri in quegli anni stava perdendo, nonostante il continuo riferimento a Lenin – che, quindi, appariva più letterario che di sostanza –, era la capacità di leggere la bussola teorica che “la dura opera di restaurazione della dottrina marxista” aveva ripreso a far funzionare. E che il riferimento a Lenin era semplicemente letterario, a copertura di posizioni sbagliate, l’articolo di Spartaco di cui stiamo trattando, purtroppo lo dimostra chiaramente. Dopo aver tirato una conclusione corretta dalla citazione di Lenin (nell’Estremismo riaffermerà che i sindacati sono una “necessaria scuola di comunismo”), scrivendo che il sindacato è strumento del partito “addirittura dopo la conquista del potere da parte del proletariato”, da cui si deduce che lo debba essere anche prima della conquista del potere, si salta alla situazione attuale per denunciare i “dirigenti della CGIL e del PCI” per il loro tentativo “di annientare l’organizzazione di classe col loro infame progetto di unificazione dei vertici, mentre ancora gli operai sono piegati sotto il giogo della dittatura borghese” e di “fare del sindacato uno strumento dello Stato borghese proprio per impedire che esso diventi una ‘scuola di comunismo’, determinante come afferma Lenin nella lotta che il proletariato dovrà condurre contro la borghesia per realizzare la propria dittatura”.

E qui ci si è completamente dimenticati, per l’ennesima volta, che la CGIL, in quanto sindacato tricolore, non aveva biosgno di essere condotta nel progetto di unificazione per diventare “uno strumento dello Stato borghese”: lo è stato fin dalla sua nascita, e il partito lo ha dichiarato apertamente e dimostrato ampiamente. Ma la valutazione sbagliata sia della situazione in cui era il proletariato e la sua lotta, sia dell’evoluzione dei sindacati e del potere politico borghese, aveva una sua logica solo se ci si dimenticava degli elementi fondamentali del bilancio che il partito aveva già fatto e scolpito nella sue tesi di base.

 

(2 – continua)


 

(1) Cfr. Résolutions et Decisions du I-er Congrès International des Syndicats Révolutionnaires, Moscou, Juillet 1921, Feltrinelli Reprint, Milano, p. 18.

(2) Cfr. Statuto dell’Internazionale dei Sindacati Rossi, Roma, Libreria editrice del Partito Comunista d’Italia, 1922, Feltrinelli Reprint, Milano, pp. 3-4.

(3) Ibidem, p. 6.

(4) Vedi Lettera di Bordiga del 13 giugno 1948, in  www.avantibarbari.it  

(5) Cfr. Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, Editori Riuniti, Roma 1974, cap. VI intitolato Devono i rivoluzionari lavorare nei sindacati reazionari?, pp. 65-66.

 

 

 

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