L’opportunismo, nemico mimetizzato!

(«il comunista»; N° 136; Ottobre 2014)

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Nella nostra Piattaforma politica del 1945 scrivevamo al punto 12: “Il partito aspira alla ricostruzione della Confederazione sindacale unitaria, autonoma dalla direzione di uffici di Stato, agente coi metodi della lotta di classe e dell’azione diretta contro il padronato, dalle singole rivendicazioni locali e di categoria a quelle generali di classe. Nel sindacato operaio entrano lavoratori appartenenti singolarmente ai diversi partiti o a nessun partito; i comunisti non propongono né provocano la scissione dei sindacati per il fatto che i loro organismi direttivi siano conquistati e tenuti da altri partiti, ma proclamano nel modo più aperto che la funzione sindacale si completa e si integra solo quando alla dirigenza degli organismi economici sta il partito politico di classe del proletariato. Ogni diversa influenza sulle organizzazioni sindacali proletarie le rende sterili agli stessi fini dei miglioramenti economici immediati, e strumenti passivi degli interessi del padronato”.

E, di fronte alla centrale sindacale allora unica, costituita mediante “un compromesso non già tra partiti proletari di massa, che non esistono, ma fra gruppi di gerarchie di cricche extraproletarie pretendenti alla successione del regime fascista”, aggiungevamo:

“Il movimento sindacale italiano deve ritornare alle sue tradizioni di aperto e stretto fiancheggiamento del partito proletario di classe, facendo leva sul risorgere vitale dei suoi organismi locali, le gloriose Camere del Lavoro, che tanto nei grandi centri industriali quanto nelle zone rurali proletarie, furono protagoniste di grandi lotte apertamente politiche e rivoluzionarie”.

Non rivendicavamo l’età dell’oro o il regno di Bengodi, ma quella che era stata l’esistenza e la funzione reale dei sindacati operai, perfino sotto la direzione dei più sbracati riformisti, nell’Italia del primo dopoguerra: una rete fiorente di organismi nei quali la vita sindacale ferveva; le Camere del Lavoro erano il lugo di incontro quotidiano degli operai di tutte le categorie e di tutte le condizioni, molto spesso la sede del partito di classe, sempre un fortilizio da difendere – se occorre, armi in pugno – contro gli attacchi del nemico fascista o democratico; le assemblee vedevano lo scontro delle tendenze politiche – oltre che sindacali in senso stretto – operanti in senso al proletariato; il rapporto fra iscritti all’organizzazione e organizzatori non era decaduto a quello lurido e fetente del “cittadino” che rivendica i suoi “diritti”, da una parte, e il funzionario squallido che gli risponde (o non gli risponde affatto) dietro il muro di vetro di uno sportello, dall’altra: i metodi della lotta di classe aperta e dell’attacco dioretto al padronato non erano soltanto  iscritti come vaghe formule in uno statuto di cartapesta, ma erano praticati, sia pure nei limiti imposti dal fondamentale legalitarismo dei “bonzi” o “mandarini”, come la norma, non come l’eccezione; e dal perimetro delle Leghe e delle Camere del Lavoro, come era escluso per definizione il prete, così era escluso il rappresentante civile, in qualunque veste, dello Stato.

Gli opportunisti di cinquant’anni fa dirigevano male organizzazioni così piene di vita, ma non le distrussero, e nel seno di queste il partito rivoluzionario di classe poté svolgere, come frazione comunista, un’azione incessante di indirizzo e mobilitazione dei proletari verso obiettivi che, pur essendo contingenti, si coordinavano per la loro stessa natura al fine ultimo della lotta per il potere e per la dittatura proletaria. Occorse il fascismo, con la complicità dello Stato democratico, perché le antiche organizzaizoni operaie fossero distrutte e al loro posto sorgessero organi corporativi statali. Era un processo storico mondiale, già maturato per altre vie in altri paesi capitalistici.

L’opera devastatrice di quella che abbiamo definito “la terza ondata dell’opportunismo” – l’onda che ha distrutto l’Internazionale Comunista, e sulle sue macerie ha fatto nascere un opportunismo mille volte più ipocrita e demolitore del suo antenato – non si misura soltanto dalla sovrastruttura di ideologie politiche di marca democratica e patriottarda che è stata imposta all’organizzazione sindacale, orientandone la funzione e i compiti in senso inverso a quello in base al quale esse erano nate – “scuole di guerra del lavoro contro il capitale” – per trasformarle in scuole di pacifismo sociale, ma anche dall’aperto assecondamento della tendenza storica del capitalismo putrescente “ad attrarre il sindacato operaio tra gli organismi statali sotto le varie forme del suo disciplinamento con impalcature giuridiche”, e quindi dai legami materiali che, per suo tramite, si sono venuti stabilendo e via via rafforzando fra classe lavoratrice organizzata e Stato borghese. Su questo terreno prospera, magnificamente foraggiato, l’opportunismo: la famigerata delega non è che un aspetto del nesso materiale istituitosi fra il corteo degli opportunisti-finzionari sindacali e la classe sfruttatrice borghese.

Di questo infame corso storico sono soltanto i riflessi esteriori lo svuotamento della funzione sindacale a favore di una prassi ministerialmente burocratica, la riduzione di quella che un tempo era la CGL senza la I tricolore in un pesante e inerte carrozzone impiegatizio, la sua vocazione a divenire una specie di ente parastatale in combutta con CISL e UIL, la decadenza delle Camere del Lavoro e delle Leghe a uffici di collocamento non molto diversi da quelli allestiti dallo Stato democratico erede dei metodi fascisti.

E’ in questa gabbia materiale che la classe operaia oggi è imprigionata; è il suo muro di acciaio che ostacola la penetrazione nelle file dei lavoratori dell’avanguardia comunista rivoluzionaria;  è dalle sue sbarre che il movimento proletario deve svincolarsi per riprendere il suo attacco alla classe avversa. La situazione che gli è stata creata con la piena e aperta complicità dell’opportunismo non è irreversibile, non solo perché nulla è irreversibile, neppure la più cocente sconfitta, nello scontro fra le classi, e qualunque sforzo della classe dominante e die suoi manutengoli per frenarlo è destinato prima o poi a spezzarsi contro la realtà dei fatti che spingono gli schiavi del capitale a ridiscendere in lotta aperta, ma perché nel caso specifico delle organizzazioni economiche, come dicevamo nel 1951, se l’offensiva capitalistica sarà fronteggiata da un partito comunista forte, se si strapperà il proletariato alla influenza delle mille incarnazioni vigenti dell’opportunismo, “nel momento x o nel paese x possono risorgere i sindacati classisti o ex novo o dalla conquista, magari a legnate, degli attuali”. Le condizioni obiettive per questa rinascita o per questa riconquista (“una situazione di avanzata o di conquista del potere”) non sono ancora presenti, è vero; ma non è mai troppo presto per lavorare e crearne le condizioni soggettive, per diffondere la coscienza della necessità dell’associazionismo operaio, e per suscitare, preparare e organizzare le forze proletarie atte infine a divenire le protagoniste di quella svolta salutare, sotto la pressione dei fatti stessi della società capitalistica.

In Italia (quasi dovunque, altrove, questo stadio è ormai superato) “l’ultima possibilità virtuale e statutaria” per i gruppi e i militanti comunisti, “di attività autonoma classista”, non è finora esclusa nella CGIL: ebbene, i nostri gruppi se ne avvalgono – a prescindere da ogni eventualità futura e senza limitarsi a questo settore – per portare avanti la loro battaglia di vigorosa, incessante, testarda iniziativa classista, e chiamano i primi proletari che istintivamente avvertono d’esserse stati e d’essere quotidianamente traditi a battersi con loro, contro la piovra opportunistica, perché risorga sotto la loro spinta animatrice, nella forma e nel tempo che non noi ma la storia indicherà, il sindacato rosso.

 

(da “il sindacato rosso”, nuova serie, supplemento sindacale mensile de “il programma comunista”, nr. 21, 25 ottobre 1971)

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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