Riforma del mercato del lavoro (Jobs Act)

Si estende e si intensifica la precarietà del salario aumentando la concorrenza tra proletari.

La via d’uscita non è in un'altra riforma,

ma nella ripresa della lotta di classe contro il capitalismo!

(«il comunista»; N° 136; Ottobre 2014)

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Il governo “Renzi” intende mettere mano allo “Statuto dei lavoratori” (legge 300 del 1970) modificandolo definitivamente. Evidentemente, lo “Statuto dei lavoratori”, pur essendo stato concepito e stilato in perfetta sintonia con l’esigenza di inquadrare le relazioni fra imprenditori, lavoratori e Stato secondo i principi della collaborazione interclassista sulla base dei quali sono stati ricostituiti i sindacati tricolore dopo la seconda guerra mondiale, ha fatto il suo tempo, risultando di intralcio alla più ampia libertà  di gestione della manodopera da parte dei datori di lavoro, soprattutto nelle parti in cui qualche “diritto” del lavoratore è tutelato per legge impedendo al padronato di fare sempre e in ogni occasione il bello e il cattivo tempo nelle proprie aziende.  Esso, d’altra parte, è coerente con l’impianto generale degli ammortizzatori sociali che la democrazia post-fascista ha ereditato dal fascismo e con i quali il capitalismo italiano ha tacitato una serie di bisogni della classe operaia – sostenuti comunque con dure lotte in tutti gli anni Cinquanta e Sessanta – in un periodo di notevole trasformazione dell’economia nazionale che dalla guerra stessa aveva ricevuto lo slancio ad una più intensa industrializzazione.

I sindacati tricolore, che in quei decenni avevano contribuito con la loro politica ed azione a mantenere il controllo sociale, facendo sfruttare il proletariato secondo le esigenze dell’economia nazionale, e dell’economia di ogni azienda, attraverso lo “Statuto dei lavoratori” raggiungevano, in modo completo, formalmente e giuridicamente, la patente di unici rappresentanti dei lavoratori riconosciuti dallo Stato in sede di contrattazione a livello generale e locale. La loro integrazione nelle istituzioni statali, già di fatto esistente fin dalla loro nascita nel 1943, veniva così solennemente sancita. Erano gli anni in cui si stava profilando, dopo un periodo di intensa espansione capitalistica, la più grave crisi economica a livello mondiale dalla fine della seconda guerra mondiale, ed erano prevedibili reazioni anche violente da parte della classe operaia, contro le quali tutte le forze di conservazione sociale erano mobilitate.

Il governo “Renzi” intende modificare lo “Statuto dei lavoratori”, stravolgendolo, perché non più adatto alle esigenze dell’economia nazionale? Un governo di centrosinistra l’ha prodotto, un governo di centrosinistra lo sta cancellando. Le ragioni di fondo di oggi? Di fronte ad una crisi prolungata dell’economia capitalistica, per lo Stato, le istituzioni e tutte le forze di conservazione sociale, a partire dai partiti parlamentari ai sindacati tricolore, la salvaguardia degli interessi generali del capitale hanno la priorità su qualsiasi altro interesse, e il proletariato ne deve fare le spese, come sempre. Ieri, il metodo collaborazionista e poi concertativo con i sindacati tricolore dava il risultato voluto – piegare i proletari nelle fabbriche e nella vita quotidiana alle esigenze generali del capitalismo – dando in cambio qualche “garanzia”; oggi, si vuole ottenere lo stesso risultato togliendo le “garanzie” di ieri, mettendo più a nudo l’operaio di fronte al padrone levando tutta una serie di “protezioni” a quegli operai che ancora ne godono e diffondendo sulla stragrande maggioranza dei proletari, perlopiù giovani, l’insicurezza del lavoro e, quindi, del salario, cioè della vita. Con lo slogan: riforma del lavoro col metodo delle tutele crescenti, in realtà si tende a sbriciolare l’impianto di tutele ancora esistente. Questa progressiva opera di demolizione è cominciata tagliando la scala mobile – i punti di contingenza che automaticamente rialzavano il salario di una quota definita in base all’aumento del costo della vita –, manco a dirlo grazie a governi di centro sinistra (Craxi, 1984, col famoso taglio dei 4 punti e Amato, 1992, con l’abolizione definitiva della scala mobile), con il pieno accordo dei sindacati, facendo dipendere gli aumenti salariali, da quel momento in poi, esclusivamente dall’aumento della produttività del lavoro – quindi dal tasso di sfruttamento degli operai. Opera che continuò con una serie interminabile, più o meno impercettibile a livello di massa, di tagli su tutti gli ammortizzatori sociali e col dare spazio ad una miriade di forme di contratto di lavoro precarie propagandandole come facilitazioni per far approdare i giovani al “mondo del lavoro”. 

L’attacco del governo Renzi allo “Statuto dei lavoratori”, inizialmente, sembrava si fermasse a sospendere per 3 anni, a tutti i nuovi assunti, l’applicazione dell’art. 18 (la possibilita che un giudice faccia reintegrare un lavoratore al suo posto di lavoro se ingiustamente licenziato dal padrone, secondo i casi previsti dalla legge), unificando tutti i tipi di contratto a questa nuova forma e, quindi, precarizzando tutti i lavoratori neoassunti con questa misura.

 Poi si è svelata la vera intenzione che, in realtà, era – anche dopo i primi 3 anni – di trasformare il possibile reintegro dell’ex art. 18 in un eventuale indennizzo economico come esiste già oggi nelle aziende al di sotto dei 15 dipendenti (dove non si è mai applicato lo “Statuto dei lavoratori”). Inoltre, si prevede di togliere l’art. 13 (sempre dello “Statuto dei lavoratori”) per poter demansionare un lavoratore dandogli un salario inferiore, e l’art. 4 per poter controllare il lavoratore a distanza (attraverso impianti di videosorverglianza finora vietati dallo “Statuto dei lavoratori”). Lo scopo? Poter licenziare individualmente anche gli operai a tempo indeterminato, senza ostacoli di tipo burocratico, giuridico o sindacale e, al massimo, pagare un qualche indennizzo economico.

L’obiettivo è togliere definitivamente anche solo l’illusione di qualche garanzia sul mantenimento del posto di lavoro, e rendere ricattabili tutti i lavoratori, tanto più che si intende modificare gli ammortizzatori sociali riducendoli sia nella durata che nell’importo (anche qui con l’intento di estendere a tutti un misero assegno di disoccupazione comunque limitato nel tempo). In sostanza, il governo, precarizzando tutti i lavoratori, vuole piegarli a condizioni di lavoro e di salario ancora peggiori di quelle odierne e spingere così al massimo la concorrenza tra proletari.

 In realtà, già la riforma “Fornero” (governo “Monti”) aveva introdotto la possibilità del licenziamento individuale del lavoratore per motivi “economici” (cioè un padrone nel ristrutturare, riorganizzando la produzione di un reparto della sua azienda, non potendo più sostenere economicamente qualche operaio può licenziarlo…), mantenendo formalmente il reintegro per motivi “disciplinari”(le violazioni dei regolamenti aziendali e contrattuali) e “discriminatori”, ma in questi casi spettava al lavoratore fornire le prove dell’ingiusto licenziamento; per il singolo lavoratore diventava praticamente impossibile dimostrare che quelle motivazioni non sussistevano e, quindi, alla fin fine, gli conveniva accettare subito l’indennizzo per non perdere poi successivamente (una volta avviata la vertenza e avuto un giudizio negativo dal giudice) anche questa possibilità per quanto misera.

Con i contratti a termine, con il lavoro interinale – che il sindacato tricolore ha accettato inizialmente “giustificandoli” come una possibilità che avrebbe dato lavoro a molti disoccupati, mentre in realtà dal 1992 questi ultimi hanno continuato drammaticamente a salire di numero e altri a trasformarsi in lavoratori precari a vita – si è dato il via alla trasformazione di una fascia sempre più ampia di lavoratori stabili in lavoratori precari, a salario sempre più basso rendendo la vita dei proletari neoassunti, perlopiù giovani, più incerta e misera. Avere un contratto a termine, dunque con il licenziamento già contenuto nell’atto di entrata al lavoro, significa subire una pressione e un ricatto da parte del padrone e dei suoi “cani da guardia” tali da essere veicoli di concorrenza contro tutti gli altri lavoratori rompendo anche un minimo di potenziale solidarietà tra compagni di lavoro, portando la concorrenza fra di loro a livelli mai visti prima. Per non parlare del lavoro nero che, in clima di aumentata ricattabilità dei lavoratori salariati, non poteva che aumentare a dismisura!

Era ed è evidente che, in assenza di una lotta decisa e portata avanti con metodi e mezzi di classe contro queste nuove misure, si sarebbe andati, in generale, verso un veloce peggioramento delle condizioni di difesa dei lavoratori dagli attacchi padronali e dello Stato. L’aumento progressivo della concorrenza fra lavoratori ha facilitato lo smantellamento del castello di “garanzie” che era stato eretto negli anni dell’espansione economica, dividendo sempre più i lavoratori per settore, categoria, età, sesso, nazionalità, specializzazione, rendendo la precarietà del lavoro, e quindi del salario, la norma. Già in passato, altre “riforme del lavoro” sono passate con misure peggiorative delle condizioni proletarie di vita, come la scomparsa della scala mobile che attenuava gli effetti dell’aumento del costo della vita, il contratto nazionale che conteneva delle “garanzie” minime per il salario e le condizioni di lavoro, una pensione “decente” dopo un certo numero di anni di lavoro, ecc. Il metodo usato dal collaborazionismo sindacale e politico per far passare le misure antiproletarie volute da tutta la borghesia si è dimostrato “efficace”: dividere i proletari, deviare i proletari più combattivi sul terreno sterile della democrazia parlamentare o costituzionale dello Stato borghese, graduare nel tempo l’applicazione di quelle misure portando, di fatto, la maggioranza dei lavoratori salariati verso la precarietà assoluta del posto di lavoro e quindi del salario.

Che le “garanzie” contenute nello “Statuto dei lavoratori” e nelle leggi borghesi non avevano e non hanno mai effetto positivo a favore dei lavoratori se non rivendicate e sostenute con la lotta, è una realtà conosciuta da ogni proletario, anche se l’illusione di vedere applicati una legge scritta o un accordo sottoscritto senza dover ogni volta mettere in campo la forza operaia contro la forza borghese, è dura a morire. Nei fatti, per i padroni non è mai stato un problema licenziare, soprattutto in questi ultimi anni di crisi economica, nelle aziende al di sotto dei 15 dipendenti dove lo “Statuto dei lavoratori” non si è mai applicato, perciò nelle piccole imprese in difficoltà economica o per motivi del tutto personali si licenziava e si licenzia senza troppi scrupoli e, al massimo il giudice può decidere, talvolta, l’indennizzo economico al lavoratore. Nelle grandi imprese, invece, centinaia di migliaia di lavoratori sono stati egualmente licenziati, ma con l’accordo dei sindacati tricolore e attraverso le procedure previste dagli ammortizzatori sociali, mentre i giovani proletari e tutti i neoassunti, in presenza di richiesta di manodopera, possono accedere al posto di lavoro tramite le agenzie interinali e le molteplici forme di contratti a termine, prorogabili all’infinito, ma nei fatti sempre licenziabili; l’altro problema rimasto in piedi, per i padroni, era quello di liberarsi dei lavoratori più vecchi, più costosi e usurati, ma meno produttivi dei giovani, che le leggi sull’aumento dell’età pensionabile avevano bloccato al lavoro: ecco quindi la necessità di avere più libertà e meno ostacoli burocratici per licenziarli, la necessità di smantellare anche formalmente il contenuto dello “Statuto dei lavoratori”.

Gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stanno aumentando drammaticamente durante questa lunga crisi economica, anche e soprattutto per l’aumento del lavoro nero e della precarietà del posto di lavoro. Una parte sempre più ampia di proletari, lavorando con contratti a termine, subiscono quotidianamente un pesante ricatto individuale che li costringe ad accettare qualsiasi condizione di lavoro per quanto rischiosa per la propria salute ed incolumità; nello stesso tempo, i padroni riducono sempre più tutte le misure che dovrebbero prevenire determinati rischi per i lavoratori, risultando esse un costo che intacca il tasso dei profitti. Quindi, rendendo più facile il licenziamento e, questa volta, in maniera generalizzata, il ricatto padronale aumenta e, quindi, la possibilità che le aziende peggiorino ulteriormente le già disastrose condizioni di lavoro esistenti.

Da un lato, lo Stato borghese aumenta l’età pensionabile dei proletari che avranno “diritto” eventualmente ad una pensione, che intanto diventa sempre più misera oltre ad essere percepita in età più avanzata e quindi per meno tempo di vita dei proletari; da un altro lato, si estende la possibilità di licenziare “liberamente”, da parte padronale, quei lavoratori troppo vecchi e poco produttivi con salari mediamente più alti rispetto ai giovani e che sono più duri e più legati alla “vecchia” tradizione di lotta a difesa dei diritti conquistati; è prevista, inoltre, la possibilità di demansionare i lavoratori ritenuti comunque utili, dando loro una qualifica e un salario inferiore, così da permettere ai padroni di aumentare la produttività e diminuire i costi di produzione. Tutto questo non farà che aumentare la disoccupazione e una pesante precarietà per un’ampia fascia di proletari poco interessanti per i padroni perché ormai usurati e costosi, ai quali lo Stato borghese non dà loro ancora una pensione, per via dell’età pensionabile non raggiunta, e perciò obbligati a cercare un lavoro a qualsiasi condizione, mettendo a disposizione, se un’occupazione la trovano, le proprie capacità, esperienze e specializzazioni per un misero salario che li condanna ad una vita di stenti.

La presa in giro  di una “riforma del lavoro”, promossa da un governo di centro sinistra con lo slogan delle “tutele crescenti” per i lavoratori, è svelata dal suo impianto generale che va a tutelare, in modo crescente, gli interessi del padronato e di ogni azienda e non gli interessi dei lavoratori. E’ pura propaganda borghese annunciare che la facilitazione dei licenziamenti per le aziende “che non ce la fanno più a sostenere i costi del lavoro diventati troppo alti rispetto alla concorrenza” renderebbe più facili gli “investimenti”, anche stranieri, per far “ripartire” la crescita dell’economia in Italia aumentando, così, la possibilità di un porsto di lavoro per i disoccupati. La crisi che sta attraversando da 7 anni l’economia capitalistica in tutto il mondo è crisi di sovrapproduzione, per la quale il mitico mercato, che dovrebbe regolare automaticamente l’economia di tutti i paesi, in realtà non è in grado di assorbire l’enorme quantità di merci con cui l’iperproduzione capitalistica lo ha infine intasato: le merci non riescono ad essere più vendute ad un prezzo che consenta ad ogni capitalista di portarsi a casa il suo profitto, e i capitali, anch’essi sovraprodotti, non riescono più ad essere investiti nelle diverse attività economiche utili a garantire il previsto tasso di profitto. Masse di merci e di capitali sono condannate così ad essere distrutte, numerosissimi capitalisti vanno in rovina, masse enormi di lavoratori salariati vengono espulsi dai posti di lavoro: il capitale, quando si espande e prospera, sfrutta in modo terribile la forza lavoro ma la sostiene in vita perché solo col suo sfruttamento può ottenere il plusvalore, e quindi il suo profitto; ma quando entra in crisi, e la crisi moderna del capitale è crisi di sovraproduzuione, esso genera inevitabilmente miseria e morte non potendo più sostenere in vita né tutte le attività economiche nel frattempo sviluppatesi, né tutti i lavoratori salariati legati per la vita e per la morte a quelle attività. Si distruggono così prodotti, capitali, aziende, lavoratori salariati che, al pari delle merci e dei capitali, lo sviluppo stesso del capitalismo ha sovraprodotto. La storiella degli investimenti facilitati dall’abbattimento del costo del lavoro va a scontrarsi con l’altra storiella della ripresa dell’economia aumentando i consumi; se è vero che l’abbattimento del costo del lavoro – dunque l’abbattimento del salario operaio – permette al padrone dell’azienda attiva di estorcere una quota maggiore di pluslavoro, e quindi di plusvalore che la vendita delle merci prodotte trasformerà in profitto, è altrettanto vero che i salari abbattuti della massa di lavoratori ancora impiegati nelle aziende – una massa numericamente diminuita dati i licenziamenti e la chiusure delle aziende a causa della crisi – non permettono non solo di consumare la quantità superiore di merci e di capitali presenti nel mercato ma nemmeno quanto consumavano prima della crisi. La crisi capitalistica, quindi, non si risolve nel breve né con l’aumento generalizzato degli investimenti di capitale – che invece ha bisogno di disinvestire ossia di distruggere i capitali sovraprodotti – né con l’aumento generalizzato dei consumi – che subiscono invece una contrazione inesorabile dato che l’enorme quantità di merci presente nel mercato non può essere acquistata (e perciò smaltita, per far posto alle merci che continuano ad essere prodotte e portate al mercato) al prezzo che garantisca un tasso medio di profitto ai capitali investiti. Si risolve con la distruzione sempre più massiccia di merci, attrezzature, capitali, posti di lavoro e lavoratori salariati, e con il contemporaneo aumento della concorrenza fra capitali, merci e lavoratori, in una inesorabile spirale che si nutre di lavoro vivo (capitale salari) per difendere e salvare il lavoro morto (capitale costante, attrrezzature, impianti, macchinari), utile a far “ripartire” prima o poi la macchina capitalistica produttrice di profitto.

Le guerre commerciali, le guerre monetarie, le guerre guerreggiate che accompagnano da sempre la violenza con cui il capitalismo si è imposto nel mondo trasformato in un enorme mercato, portando ogni attività umana e il lavoro umano a trasformarsi in merce e in capitale, hanno dato e danno il ritmo allo sviluppo del capitalismo e alle sue crisi; esse non sono che l’espressione della sua vitalità, del suo unico modo di rimanere in vita, non conoscendo altro motore per mantenersi “vivo” che la concorrenza., ricreando di volta in volta, di crisi in crisi, i fattori delle crisi successive  sempre più devastanti.

E’ facile constatare che, in periodi di crisi come l’attuale, la concorrenza per accaparrarsi una fetta di mercato anche piccola diventa sempre più agguerrita tra le varie potenze industriali internazionali, ed è sui costi di produzione che si gioca la partita; il costo più variabile, in assoluto, è il costo del lavoro, il monte salari perché dipende direttamente dai rapporti di forza tra la classe borghese e la classe proletaria; e finché questi rapporti di forza sono favorevoli alla classe borghese è certo che in periodo di crisi i proletari subiscono il peggioramento delle loro condizioni di sopravvivenza mentre, nello stesso tempo, coloro che mantengono il posto di lavoro o entrano in qualche modo nel processo produttivo sono costretti ad aumentare la loro individuale  produttività nelle più svariate forme a disposizione dei capitalisti, dall’allungamento della giornata lavorativa all’aumento dell’intensità di lavoro, dalla diminuzione delle pause all’aumento delle mansioni, all’abbattimento dei salari. Ma tutte queste misure non avrebbero efficacia durevole se non aumentasse la concorrenza fra i lavoratori salariati e se, quindi, non diminuisse la loro forza di resistenza. Perciò l’opera collaborazionista delle organizzazioni sindacali è indispensabile, ed è indispensabile l’opera deviatrice e opportunistica dei partiti che si dicono “dei lavoratori” utilizzando ancora aggettivi come “socialista” e “comunista” per ingannare più facilmente i proletari, poiché i capitalisti, per quanto possano contare su di un’economia strutturata sulla base dei principi della proprietà privata e dell’appropriazione privata dell’intera produzione e sulla difesa della loro società da parte dello Stato centrale e delle forze militari, per quanto possano contare sulla ricattabilità dei proletari che in questa società non possono sopravvivere senza salario, non l’avrebbero vinta facilmente se avessero di fronte un proletariato organizzato in associazioni economiche classiste che si muovessero sul terreno della difesa degli interessi proletari con i mezzi e i metodi della lotta di classe, come nella tradizione storica delle lotte proletarie in Italia e in tutti i paesi capitalisti avanzati, e per le quali associzioni economiche classiste i proletari più avanzati sono chiamati a lavorare per ricostituirle.

La morte dell’art. 18, e dello “Statuto dei lavoratori”, era già stata sentenziata da tempo; i proletari, non reagendo con metodi di lotta e obiettivi classisti, hanno lasciato completamente mano libera al collaborazionismo sindacale e al riformismo politico. La classe borghese ha utilizzato il tempo opportuno per far passare di volta in volta la gragnuola di misure antioperaie, dimostrando ancora una volta la sua abilità nel mettere in evidenza il ruolo conservatore dei sindacati “operai” e dei partiti cosiddetti “di sinistra”: sia che si pieghino rapidamente ai diktat borghesi, sia che si oppongano all’intero pacchetto di misure antiproletarie, ma pronti ad accettarne la gran parte per poter svolgere il ruolo opportunista che è loro consono nel farle passare nel corpo del proletariato in maniera meno indolore possibile per le esigenze del capitale. Misure antiproletarie fatte passare per dividere i proletari aumentando la concorrenza tra occupati e disoccupati, tra vecchi e giovani,  tra lavoratori immigrati e autoctoni, tra lavoratori più professionalizzati e meno, tra donne e uomini, tra lavoratori più stabili e precari, ecc.

Il governo borghese di centro-sinistra, con a capo Renzi, che è contemporaneamente il segretario del Pd, maggior partito parlamentare di “sinistra”, intende piegare la resistenza dei sindacati tricolore, e in particolare della Cgil, accusandoli di non aver difeso e di non difendere i lavoratori precari per i quali il governo si è incaricato di applicare una riforma del lavoro simbolicamente sintetizzata nel sistema di “tutele crescenti”. Che i sindacati tricolore non abbiano difeso i giovani proletari dalla violenta cascata di forme precarie di lavoro e di salario, è certamente vero, ma non poteva essere diversamente se si pensa che questi sindacati non hanno mai difeso gli interessi dell’intera classe operaia, ma si sono sempre adattati a quanto la classe borghese imprenditoriale era disposta a concedere in cambio della pace sociale e del controllo sociale della classe proletaria, operando esclusivamente nel quadro delle esigenze dell’economia nazionale e aziendale, dunque, in definitiva, contro le esigenze di classe del proletariato. Il contrasto, più formale che sostanziale, tra il governo Renzi e i sindacati, ma in particolare la Cgil, rientra nel gioco delle parti per ingannare per l’ennesima volta i proletari, già messi in concorrenza fra di loro da anni di politica borghese accettata e fatta propria dai sindacati e dai partiti “operai”, per aumentare la divisione all’interno del proletariato mettendo settori di lavoratori più giovani e precari o meno difesi da contratti e leggi contro altri, più vecchi e ipoteticamente più “garantiti”. Resta il fatto che il governo di oggi eredita la responsabilità politica di accordi e misure prese in precedenza da governi di centro-sinistra, in perfetta sintonia con la difesa degli interessi dell’economia nazionale, del mercato, del profitto capitalistico, e col metodo di scaricare sul proletariato gli effetti più rovinosi delle crisi capitalistiche.  

Il sindacato collaborazionista CGIL, decidendo una manifestazione nazionale per il 25 ottobre, mentre la Fiom-Cgil chiamava ad uno sciopero di 8 ore da fare nel frattempo con modalità decise localmente, hanno tentato di salvare la faccia di fronte all’ennesimo peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita proletarie. I lavoratori si faranno anche prendere in giro e ingannare nella speranza che venga messo un freno al peggioramento continuo delle loro condizioni di sopravvivenza, ma capiscono che le forme di lotta proposte dai sindacati collaborazionisti sono in realtà inefficaci come lo è una freccia dalla punta rotta, e sanno che il collaborazionismo è sempre pronto al compromesso con governo e padronato in nome delle esigenze dell’economia nazionale o dell’economia aziendale. Ancora oggi non vedono come uscire dal pantano in cui sono stati gettati in tutti questi decenni; avendo perso da tanto tempo la percezione di costituire non una forza di conservazione ma una forza sovvertitrice capace di mandare all’aria un sistema economico che succhia soltanto sudore e sangue a vantaggio della classe dei capitalisti e dei loro servitori, esigua parte dell’intera popolazione, i lavoratori salariati non hanno ancora trovato la spinta, se non occasionalmente, di ribellarsi con la stessa violenza con cui gli sono imposte condizioni inumane di sopravvivenza, e di incamminarsi nella prospettiva di riorganizzarsi sul terreno della lotta di classe, l’unico che dà ai proletari una reale speranza per il futuro.

 I proletari dovranno riprendere in mano lo sciopero come arma di lotta e di difesa  esclusiva dei propri interessi di classe usandolo con tutta la sua forza reale contro gli interessi dei padroni, come lo è sicuramente quando lo si attua senza preavvisare molto tempo prima il suo inizio e senza  prefissare già il suo termine, facendo esattamente il contrario di quanto è sempre stato fatto dai sindacati tricolore avvantaggiando notevolmente i padroni sia del settore privato che pubblico. Ma questo utilizzo prevede una organizzazione autonoma e indipendente dal collaborazionismo sindacale, un’organizzazione che prepari e abitui i lavoratori ad essere pronti ad entrare in lotta in qualsiasi momento, che combatta la concorrenza tra proletari, li unifichi combattendo le differenze erette tra categorie, settori, zone geografiche, e che sia conseguente anche con obiettivi che difendano gli interessi reali della classe dei proletari, ben diversi da quelli sbandierati dalla politica collaborazionista sindacal-tricolore di difesa dell’economia capitalistica. Lo sciopero classista inizia nel momento in cui i proletari sono attaccati da misure che peggiorano le loro condizioni di vita e di lavoro e termina quando quelle misure sono ritirate. Questo è il principio al quale devono attenersi tutti i proletari se vogliono che lo sciopero sia effettivamente un’arma della loro lotta. Ma per che cosa lottare? Per la riduzione drastica della giornata di lavoro e per aumenti consistenti di salario: sono obiettivi che interessano tutti i proletari e per i quali lottare contro la concorrenza fra operai perché questa distrugge ogni piccolo risultato conquistato in quella prospettiva. Che significa lottare contro il precariato e il lavoro nero se non si lotta per contratti di lavoro regolari e a tempo indeterminato? Lo sviluppo del capitalismo e delle cosiddette relazioni industriali ha generato un ginepraio incredibile di normative, specifiche, particolarismi, distinzioni, settore per settore, categoria per categoria, contratto di lavoro per contratto di lavoro, dividendo la forza lavoro sia orizzontalmente che verticalmente in molteplici livelli e compartimenti stagni, costituendo una fittissimo reticolato che richiede, per comprendere come destreggiarsi e agire al suo interno, l’intervento di una burocrazia specializzata, ed è da questa esigenza – tutta e soltanto borghese – che nasce e si sviluppa la burocrazia sindacale. Lottare per la semplificazione dei contratti di lavoro e delle buste paga significherebbe, nello stesso tempo, lottare contro una burocrazia parassitaria che vive e agisce soprattutto per mantenere se stessa. Non è difficile comprendere che una tale burocrazia preferisca l’attività da corridoio e da “negoziato” piuttosto che l’attività di lotta, e se proprio non può esimersi dalla lotta perché la pressione della base operaia è tale che potrebbe sommergerla, allora il suo obiettivo diventa quello di fare in modo che la lotta operaia non metta in discussione i suoi privilegi. E questo è un motivo ulteriore perché i proletari, indirizzandosi verso l’associazione classista, eliminino le basi stesse del burocratismo che pesa su di loro come un macigno.  

Unica difesa per i proletari è di lottare uniti con metodi di lotta e obiettivi classisti, perché individualmente saranno gettati gli uni contro gli altri e tutti saranno schiacciati completamente sotto il tallone del padronato, le esigenze del capitale e del profitto. Metodi e mezzi classisti sono tutti quelli che vengono utilizzati nella lotta esclusivamente a favore degli interessi proletari, alla loro difesa e perciò non possono essere condivisi dai capitalisti; la lotta è uno scontro tra forze, e l’obiettivo principale, il più profondo, della lotta proletaria è di superare la concorrenza fra proletari, perché è grazie a questa concorrenza che la classe borghese riesce a dividere, frammentare e indebolire la forza della classe operaia. Il risultato vero della lotta operaia, sottolinea il Manifesto di Marx ed Engels, è la solidarietà tra proletari che si conquista nella lotta contro i padroni, contro la classe borghese. Tutti i mezzi e i metodi di lotta che favoriscono questo risultato, se utilizzati ed estesi alla lotta di tutti i proletari, accrescono la forza del proletariato nello scontro di classe con la borghesia. E’ naturale che i sindacati tricolore e i partiti opportunisti siano contrari ai metodi e ai mezzi classisti di lotta: essi sono per la solidarietà tra padroni e operai in difesa dell’economia aziendale e nazionale, e sono contro la solidarietà di classe tra soli operai; ciò vale anche quando essi chiamano alla lotta solo gli operai, perché in questi casi la lotta non è contro il padronato in quanto rappresentante del capitalismo sulla sua funzione primaria di sfruttamento della forza lavoro salariata, ma è contro una gestione del capitalismo, nell’azienda, nel settore, nel paese, ritenuta non adeguata all’interesse generale della società attaule, ossia della società capitalistica.

Perciò, durante un periodo persistente di crisi profonda del capitalismo come l’attuale, un sindacato come la Cgil può anche strillare qualche slogan in contrasto con le indicazioni di riforma che il governo guidato dal PD, partito cui essa è legata, sta per varare, ma il suo obiettivo non è mai stato e non sarà mai quello di guidare i proletari alla lotta contro il capitale e la sua società, ma, al contrario, quello di guidare i proletari a premere sulle diverse forze della conservazione sociale che governano il paese affinché alla Cgil sia dato modo e tempo per svolgere in modo proficuo il ruolo di mediatore e far passare nelle file proletarie le misure che peggiorano le loro condizioni di sopravvivenza senza che queste provochino nel proletariato reazioni violente e incontrollabili. I tempi del governo e i tempi della Cgil sono diversi? Il governo ha fretta e la Cgil vorrebbe rallentare la corsa al peggioramento delle condizioni proletarie soprattutto relative agli strati di aristocrazia operaia che rappresenta? C’è una contraddizione tra il sindacato Cgil e il Pd? Sì, ma è una contraddizione tutta interna a due forze opportuniste che hanno ruoli sociali e politici distinti ma assolutamente convergenti verso la difesa dell’economia nazionale, delle istituzioni che governano e amministrano la società e dei rispettivi ruoli. La pelle dei proletari, in una democrazia moderna, sebbene accentratrice e blindata, non viene conciata direttamente dai capitalisti, ma dai loro superpagati portaborse, in campo politico e in campo sociale, attraverso i partiti, i sindacati, le istituzioni laiche e religiose, perché il loro intervento serve alla classe borghese dominante per tenere sotto controllo, e prevenire, le reazioni di un proletariato che, sottoposto com’è ad uno sfruttamento sempre più bestiale e ad un costante peggioramento di vita, potrebbe tornare alla lotta di strada.  

Per non farsi schiacciare ulteriormente, i proletari, che oggi subiscono un dispotismo sociale diffuso accompagnato da un dispotismo di fabbrica già esistente da tempo, non hanno alternative: devono prendere nelle proprie mani la propria sorte e lottare solo ed esclusivamente per se stessi, cominciando anche dal più parziale terreno di difesa economica perché soltanto l’allenamento alla lotta classista li porterà a rafforzare la propria capacità di resistenza alla pressione e alla repressione borghese, e a riorganizzarsi sul terreno dell’aperto scontro fra le classi che oggi ancora è nascosto e confuso in una putrida democrazia utile solo a deviare le spinte proletarie dalla lotta di classe che, per obiettivo storico finale non ha un capitalismo dal volto umano, ma la distruzione del capitalismo, il più micidiale sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Il lavoro, sotto il capitalismo, nella società delle merci, del capitale e del lavoro salariato, volto a soddisfare le esigenze del mercato, è un tormento sia che lo si abbia sia che non lo si abbia; il lavoro, invece, nella società di specie, sarà un’attività umana volta a soddisfare esclusivamente le esigenze di vita e di sviluppo dell’uomo, ma per arrivarci bisogna rivoluzionare da cima a fondo l’attuale società e la classe che potrà effettivamente raggiungere questo grande obiettivo storico è la classe del proletariato, la classe che oggi sembra incapace di difendere interessi del tutto elementari ma che domani, come già in passato, sarà in grado di dare l’assalto al cielo. 

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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