No alla mobilitazione filoimperialista attorno al Kurdistan!

(«il comunista»; N° 137; Novembre 2014 - Gennaio 2015)

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Da settimane la sorte dei curdi siriani è diventata una delle principali giustificazioni dell’intervento imperialista in corso nella regione: i media internazionali hanno focalizzato l’attenzione sul Kurdistan siriano (Kurdistana Rojava, Kurdistan dell’ovest, in curdo) e sulla città di Kobane attaccata dalle forze del gruppo chiamato “Stato islamico” (meglio noto sotto l’acronimo inglese “ISIS” o arabo “Daech”).

Il Kurdistan siriano, composto da tre zone alla frontiera con la Turchia, fra le quali quella di Kobane, conta circa due milioni di abitanti (cioè grosso modo un decimo della popolazione totale della Siria); ma diverse centinaia di migliaia di curdi vivevano e lavoravano nelle grandi città siriane, in particolare ad Aleppo e a Damasco.

Attaccando Kobane, l’ISIS intende sicuramente unificare i territori che ha sotto il suo dominio, ma soprattutto vuole garantirsi il controllo della frontiera con la Turchia, essendo questa città una via di transito vitale per il petrolio di Rakka, capitale della provincia su cui ha messo le mani scacciandone il Fronte Al Nosra. Le diverse fazioni ribelli in realtà non lottano solo contro il regime di Damasco; esse lottano anche fra loro per ritagliarsi dei feudi da amministrare a vantaggio dei loro finanziatori. Le forze dell’ISIS mirano a coagulare attorno a sé – anche, ma non solo, ricorrendo alla più brutale violenza – un maggior numero di interessi borghesi rispetto ai loro rivali.

Oltre alle dichiarazioni di responsabili dell’ONU e di dirigenti politici borghesi a favore dei curdi di Kobane, agli appelli delle solite personalità democratiche, oltre alla mobilitazione internazionale del PKK (Partito dei lavoratori curdi) e dei suoi alleati e di altri gruppi curdi, in numerosi paesi si è assistito anche alla partecipazione attiva di forze dell’estrema sinistra, in nome della lotta contro l’oscurantismo dell’ISIS e dell’urgenza di evitare un “massacro” di civili a Kobane. Questo coinvolgimento dell’”estrema sinistra” che si pretende rivoluzionaria serve, in definitiva, solo a giustificare l’intervento imperialista agli occhi dei proletari indignati dalle azioni perpetrate dagli islamisti dell’ISIS.

Citiamo, a titolo di esempio, alcuni estratti di un volantino di un’organizzazione libertaria attiva in Francia in questa campagna, l’OCL (Organisation Communiste Libertaire), che “spiegava” così la sua posizione:

Se lanciamo un appello a mobilitare e ad allargare la solidarietà con la resistenza di Kobane e, più in generale, con la lotta del popolo curdo, è soprattutto perché è urgente e ogni giorno, ogni ora conta. E se questa urgenza ci riguarda è perché il movimento di liberazione del Kurdistan – pur avendo caratteristiche piuttosto positive e altre più discutibili e criticabili – ci sembra oggi, in questa regione del mondo, la principale forza in grado non solo di controbilanciare la doppia barbarie degli islamisti e dei regimi in carica, ma anche di introdurre, nelle zone curde e ben oltre, sufficienti elementi di trasformazione e di rottura a partire dai quali diviene per lo meno possibile – e pensabile – ipotizzare forme di uguaglianza, aprire spazi politici autonomi [?] di appropriazione di ciò che è comune [?], e di avanzare prospettive intellegibili e udibili di liberazione sociale e politica. Questa è una condizione non sufficiente, ma necessaria, per far indietreggiare la barbarie in atto, per rendere di nuovo l’aria respirabile e questo mondo abitabile anche qui” (1).

Ciò che non è “udibile” nel volantino dell’OCL che fustiga “le dittature di Damasco e di Bagdad”, gli "jihadisti” e “le petromonarchie” è una denuncia aperta dell’imperialismo. Il volantino critica essenzialmente la mancanza di efficacia dei bombardamenti americani (giudicati “irrisori” dagli esperti militari dell’OCL) e afferma che la coalizione imperialista “ha la pretesa di combattere per eliminare gli jihadisti”, in altre parole non combatte seriamente! Il volantino, in pratica, afferma che se ci trovassimo in presenza di una lotta contro la “barbarie” (George Bush avrebbe detto: “l’impero del male”) potremmo giustamente augurarci la vittoria della civiltà dei missili da crociera e dei cacciabombardieri!

L’OCL sarà stato dunque indubbiamente soddisfatto della continua e crescente intensificazione dell’intervento americano avvenuta nell’arco dei giorni.

E questo è, in ogni caso, anche il parere dei trotskisti dell’NPA (Nouveau Parti Anticapitaliste) di Tolosa. In un comunicato del 19 ottobre intitolato “Sostegno  totale e incondizionato alle combattenti e ai combattenti per la libertà [!] di Kobane” (2) non esitano a scrivere: “l’NPA saluta l’efficacia degli attacchi delle forze aeree USA negli ultimi 4 giorni”. E salutando anche “la decisione dello stato maggiore USA di inserire un comandante delle YPG [milizie curde legate al PKK] nel proprio quartier generale per gli attacchi aerei” e congratulandosi in anticipo per una “strapazzata alla Turchia [nel corso di una riunione] della Nato”, l’NPA “denuncia l’inerzia e l’ipocrisia del governo Valls e di François Hollande e dell’Unione Europea” che si limitano ad essere solo spettatori degli avvenimenti.

 

VOLETE LA DEMOCRAZIA IN MEDIO ORIENTE? FATE APPELLO ALL’IMPERIALISMO!

 

Il primo novembre è stata organizzata una giornata “mondiale” di solidarietà con Kobane. Nell’appello ufficiale a questa giornata si diceva: “Se il mondo vuole la democrazia in Medio Oriente, deve sostenere la resistenza curda a Kobane” (3). Chi è “il mondo”? L’appello, poco più avanti, parlava in modo un po’ più preciso di “attori mondiali”: “È ormai tempo di dare agli attori mondiali delle ragioni per cambiare opinione”. E per dissipare ogni ambiguità su chi siano questi “attori” a cui bisogna far cambiare opinione: “La sedicente coalizione internazionale di lotta contro lo Stato Islamico non ha fornito un aiuto efficace alla resistenza curda (…). Non ha assolto i compiti che le spettano in materia di diritto internazionale”.

Come si vede, si tratta di un puro e semplice appello all’imperialismo (o di una pressione su di esso) affinché rafforzi il proprio intervento militare in Medio Oriente, riprendendo i soliti stomachevoli argomenti borghesi - democrazia, diritto internazionale, “umanità”, “intervento per bloccare un genocidio in corso” (senza indietreggiare di fronte a nulla, il testo parla addirittura del “peggior genocidio della storia moderna”) ecc. - che sono sempre stati utilizzati per giustificare le guerre.

Il “diritto internazionale” è rappresentato, in realtà, dalle regole che codificano le relazioni fra Stati borghesi; basato sui rapporti di forza, questo diritto non è mai stato rispettato da quelli, ammesso che ne abbiano la forza, a cui dà fastidio, come l’intera storia delle relazioni internazionali dimostra.

La “democrazia” è il sistema pacifico del dominio della borghesia, che è basato sulla collaborazione fra le classi; è possibile quando il capitalismo è abbastanza prospero da comprare la pace sociale grazie alla corruzione di larghi strati di “aristocrazia operaia” e alla concessione al resto dei proletari di alcuni vantaggi, che non sono altro che briciole degli enormi profitti incassati.

Nei paesi in cui il capitalismo è troppo debole e in cui le tensioni sociali sono molto forti a causa del bisogno di estorcere alle masse fino all’ultima goccia di plusvalore, il dominio borghese assume inevitabilmente un volto brutale, violento, terroristico. Il terrorismo degli islamisti siriani non è che il corrispettivo del terrorismo dello Stato e del capitalismo siriani che viene esercitato senza limiti da decenni. I crimini dell’ISIS impallidiscono di fronte ai crimini del regime che, ancor oggi, uccide, massacra e tortura alla grande (dall’inizio dell’anno nelle carceri del regime quasi 2000 prigionieri sarebbero stati uccisi, il più delle volte torturati a morte) (4).

Volere la “democrazia” in Medio Oriente, in altre parole il perpetuarsi del capitalismo, ma sotto forma pacifica, significa sognare ad occhi aperti o mentire per camuffare l’intervento imperialista!

Mentre i sostenitori dei combattenti curdi  si mobilitavano e si agitavano; mentre chiedevano l’invio di armi e domandavano che il PKK venisse depennato dalla lista delle “organizzazioni terroriste” (lista nella quale sono inseriti i partiti e le organizzazioni che si contrappongono all’imperialismo e agli Stati borghesi occidentali), gli “attori internazionali” seri, in realtà, agivano sul terreno – e nella direzione che essi volevano!

I bombardamenti americani hanno continuato a intensificarsi (più di un centinaio alla metà dello scorso ottobre), e i contatti fra il PYD (sigla dell’organizzazione del PKK in Siria) e gli Stati Uniti sono stati resi pubblici. La stampa internazionale ha rivelato che nell'ultimo periodo, proprio mentre il governo turco reprimeva nel sangue manifestazioni curde in sostegno di Kobane (più di 30 morti), fra la Turchia, gli Stati Uniti, il PYD e le organizzazioni curde dell’Irak asi erano tenuti difficili negoziati segreti per coordinare la difesa della città e arrivare a un accordo tra le fazioni curde (5).

Il PKK/PYD ha ottenuto, essenzialmente grazie alla battaglia di Kobane, ciò che voleva: il proprio riconoscimento da parte dell’imperialismo americano e degli imperialismi occidentali, che sancisce la sua integrazione di fatto nella coalizione internazionale diretta dagli Stati Uniti. Ha ottenuto anche che il PDK (Partito Democratico del Kurdistan) di Barzani, che è alla guida del Kurdistan semiautonomo iracheno, abbandoni i propri sostenitori locali del CNK (Consiglio Nazionale Kurdo siriano, che rimproverava al PKK/PYD il suo rifiuto a partecipare alla lotta contro Damasco) e riconosca la sua supremazia nelle regioni curde siriane. La Turchia, che, all’ombra del petrolio curdo iracheno, mantiene rapporti privilegiati con il PDK (6), ha fatto il bel gesto di permettere il transito sul proprio territorio i peshmerga (combattenti) del PDK perché si  unissero ai combattenti di Kobane.

Tuttavia - segno della precaria unità delle fazioni curde - il PKK/PYD ha accettato solo un centinaio di combattenti del PDK, precisando che sarebbero stati assegnati alle retrovie: evidentemente non intende condividere con nessuno la direzione dei combattimenti.

 

RICOMPOSIZIONE IN CORSO SULLO SFONDO DI RIVALITÀ DI INTERESSI

 

I negoziati fra Turchia, Stati Uniti e fazioni curde sono stati, e continuano ad essere, difficili. Benché faccia parte della Nato e benché abbia aderito alla coalizione, la Turchia storce il naso all’idea che gli americani utilizzino i suoi campi di aviazione per attaccare l’ISIS. Chiede come precondizione a un suo qualunque coinvolgimento militare che le sia concessa la creazione in Siria, lungo la propria frontiera, di una “zona cuscinetto” che sia anche una “zona di esclusione aerea” (no-fly zone: zona vietata all’aviazione siriana). Ma gli americani respingono la richiesta perché rischierebbe di condurli… a un conflitto con Damasco!

Dopo l’estate del 2013, in effetti, l’imperialismo americano ha concluso che il rovesciamento del regime di Bachar El-Assad avrebbe rischiato di generare una situazione incontrollabile in Siria, dato il fallimento del tentativo di mettere in piedi una forza d’opposizione sufficientemente solida e affidabile: l’esempio della Libia sta a dimostrare le difficoltà di ricostituire un apparato statale in un paese frammentato in numerose fazioni borghesi rivali. Gli americani si sono ufficialmente fissati l’obiettivo di costituire una forza di opposizione islamista “moderata” al regime siriano, pur rendendosi conto che questo obiettivo potrebbe richiedere “mesi o anni”; questo lascia tutto il tempo di negoziare con il regime e i suoi padrini, Russia e Iran.

Nel frattempo, il rischio di crollo del regime iracheno li ha portati a vedere l’ISIS come il vero nemico da abbattere. Ma i bombardamenti in Siria, dove si trovano le basi dell’ISIS, implicano un minimo di accordo con il regime di El-Assad, che dispone di un’aviazione e di sistemi di difesa antiaerea sofisticati. Benché ufficialmente lo neghino, gli imperialisti americani hanno quindi riallacciato contatti con il deprecato regime siriano, permettendogli addirittura di raddoppiare i suoi attacchi contro i gruppi insorti! Anche Parigi, che afferma apertamente la sua ostilità nei confronti di Damasco, ha con discrezione preso contatto, come sembra abbiano fatto altre capitali europee, con i Servizi siriani per chiedere il loro aiuto contro i giovani partiti per andare a combattere nelle file islamiste (7). Il tentativo è fallito perché le autorità siriane hanno posto come condizione per la loro collaborazione la riapertura dell’ambasciata francese a Damasco, ma il fatto è indicativo della svolta imperialista in corso.

Concentrando l’attenzione sui combattimenti a Kobane, i media internazionali, in ossequio ai desideri dell’imperialismo americano, hanno in realtà nascosto gli attacchi del regime contro gli insorti di Aleppo, Homs e altre località; secondo l’Osservatorio Siriano dei Diritti dell’Uomo, non meno di 553 bombardamenti sarebbero stati effettuati dall’aviazione siriana contro i ribelli nel solo periodo fra il 20 e il 25 ottobre (8): in un cielo affollato, missili da crociera, aerei americani e aerei siriani non si combattono, ma si dividono i compiti…

Per la Turchia di Erdogan, invece, il nemico è il regime siriano mentre le diverse fazioni islamiste ribelli sono alleati almeno potenziali. Essa rimprovera quindi aspramente agli Stati Uniti di non battersi contro le forze di Damasco e di aver rinunciato a far cadere il regime di Bachar El-Assad. Mentre il suo presidente conserva, per ragioni di propaganda nazionalista, il sogno dell’impero ottomano perduto, la Turchia nutre ambizioni imperialiste regionali ben più reali e non intende sacrificarle agli interessi americani. Preoccupato dalle ricadute degli scontri in  Siria (decine di migliaia di rifugiati siriani si trovano sul suo territorio), il governo turco teme inoltre la creazione di uno Stato curdo indipendente, che potrebbe riaccendere le aspirazioni secessioniste fra i curdi turchi. La Turchia ha un’ottima intesa con le autorità del Kurdistan iracheno legate al PDK di Barzani, indubbiamente per via del petrolio, ma anche perché queste si proclamavano ostili all’indipendenza.

Le controversie sempre crescenti di queste autorità con il governo di Bagdad, oltre alla pressione dell’ISIS, hanno però cambiato la situazione. Anche se sono teoricamente parecchie decine di migliaia e ben armati, i peshmerga curdi non hanno mosso un dito per venire in soccorso dell’esercito iracheno regolare quando è stato attaccato dall’ISIS; hanno tranquillamente atteso il suo sbandamento per ampliare il loro territorio e annettersi la città di Kirkuk e la regione circostante ricca di petrolio. Alla fine di giugno, dopo che le autorità israeliane avevano ostentato le loro clamorose dichiarazioni a favore di uno Stato curdo indipendente (9), Barzani dichiarava alla BBC che avrebbe indetto un referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno. Di questi propositi, in seguito, non si è più sentito parlare, ma il Kurdistan iracheno, armato dai vari imperialismi occidentali, gode oggi di un’indipendenza di fatto.

 

IL PKK, PARTITO NAZIONALISTA BORGHESE

 

Nato alla fine degli anni Settanta, il PKK è un’organizzazione nazionalista curda della Turchia, presente anche nell’emigrazione turca in Europa, che ha dato origine alla metà degli anni Ottanta a una guerriglia di stile maoista per l’indipendenza del Kurdistan turco. È riuscito in buona parte a canalizzare a suo vantaggio la collera delle popolazioni curde sottoposte da sempre a una pesante oppressione da parte delle autorità di Ankara (per un lungo periodo, divieto di parlare il curdo, anche in privato, repressione di qualunque tentativo di organizzazione curda ecc.), benché costituiscano circa un quinto della popolazione della Turchia. A metà degli anni Novanta il PKK abbandonò i suoi platonici riferimenti al marxismo sostituendoli con riferimenti all’Islam; abbandonò anche la rivendicazione dell’indipendenza per sostituirla con quella dell’autonomia. Oggi professa un’ideologia puramente democratica degna di un partito borghese parlamentare. All’inizio del 2013 ha chiesto ai suoi sostenitori di deporre le armi in seguito all’avvio di un “processo di pace” con il governo.

Per anni il PKK, protetto dal regime di Afez El-Assad (padre dell’attuale presidente), aveva costituito proprie basi nelle regioni curde della Siria; i suoi avversari lo accusavano di aver collaborato in questo periodo con i servizi segreti siriani per reprimere qualunque opposizione al regime. Ma alcuni anni dopo, il riavvicinamento di Siria e Turchia determinò l’espulsione dei militanti del PKK e portò all’arresto del loro capo, Ocalan, che ora sconta una condanna a vita in Turchia.

Il deterioramento dei rapporti con la Turchia dopo la scoppio della guerra civile in Siria ha portato a un nuovo avvicinamento del PKK e della sua organizzazione in Siria (PYD) con il regime di Damasco. Nel 2012 quest’ultimo ha ritirato dal Rojava i suoi soldati e poliziotti, di cui aveva urgente bisogno per resistere all’insurrezione, consegnando in pratica al PKK/PYD le chiavi della regione; in effetti, a differenza degli altri partiti e organizzazioni dei curdi siriani, esso si è sempre rifiutato di unirsi alla rivolta contro il regime, mantenendo i contatti con le autorità siriane. Ha anche condotto sanguinose battaglie contro gli insorti, sia del Fronte Al-Nosra sia dell’Esercito Siriano Libero, per difendere le frontiere della “propria” regione; e, all’interno di tali frontiere, non ha esitato a reprimere i suoi avversari politici, come è accaduto nella città di Amuda, dove la repressione da parte del PYD di una manifestazione pacifica fece numerosi morti e si concluse con il rapimento di parecchi militanti dell’opposizione; come protesta si tennero in parecchi luoghi manifestazioni, sit-in e scioperi della fame per il rilascio delle persone sequestrate (10).

Il PKK/PYD sostiene di aver realizzato, secondo i nuovi precetti di Ocalan, una “rivoluzione” nel Rojava istituendo un’organizzazione territoriale… sul modello svizzero! A quanto sostiene questa rivoluzione sarebbe superiore alle rivoluzioni francese, russa e cinese per via del suo carattere democratico…

in realtà il PKK/PYD è un partito nazionalista borghese, antiproletario, assolutamente incapace non solo di guidare una rivoluzione, ma anche solo di difendere gli interessi della classe degli sfruttati: non ha mai esitato a cercare il sostegno di qualunque Stato borghese e di qualunque imperialismo; il suo riconoscimento da parte dell’imperialismo americano ne è un’ulteriore dimostrazione.

Contrariamente a quanto afferma la sua propaganda, ripresa senza batter ciglio dai suoi sostenitori europei come i libertari che abbiamo citato all’inizio di questo articolo, il PKK/PYD non chiede di “non dare alcuna fiducia agli Stati e ai regimi in campo”! Non chiama le “popolazioni (…) ad impegnarsi direttamente nella resistenza, a battersi, ad organizzarsi da sé, ad armarsi militarmente e politicamente, ad autodifendersi socialmente, a coordinare le loro milizie popolari, a contare esclusivamente sulle proprie forze e mobilitazioni per proteggere il loro territorio e le loro vite e respingere gli jihadisti” (11). D’altronde la popolazione di Kobane, lungi dall’impegnarsi direttamente nella resistenza, è fuggita in Turchia (12), dimostrando che la guerra in corso non è la sua guerra.

 

UN SOLO SBOCCO: LA PROSPETTIVA PROLETARIA DI CLASSE

 

E come potrebbe essere altrimenti? Per questo occorrerebbe che fosse in atto una vera rivoluzione, non una pseudorivoluzione democratica di stile svizzero, ma una vera rivoluzione sociale fatta dalle masse sfruttate e oppresse. Nella Siria borghese, dove il capitalismo è il modo di produzione dominante, storicamente non può trattarsi che di una rivoluzione proletaria, della rivoluzione socialista.

Ma una rivoluzione di questo genere non potrebbe avere come arena una piccola regione agricola; dovrebbe poggiare su un potente movimento di classe nei grandi centri urbani, dove sono concentrati i proletari di tutte le nazionalità; per questa rivoluzione non si tratterebbe più di “proteggere un territorio” regionale, ma di estendersi dapprima a tutto il paese e in seguito internazionalmente a tutti i paesi; non si tratterebbe più di “coordinare” delle milizie “popolari”, ma di costruire un esercito di classe, e non solo di difendersi dagli jihadisti reazionari, ma di minarne il potere seminando la lotta di classe all’interno del loro territorio. Non si tratterebbe più di instaurare un regime democratico e laico, ma di abbattere lo Stato borghese, qualunque forma esso abbia, e di sostituirlo con il potere dittatoriale degli oppressi, la dittatura del proletariato indispensabile per estirpare il capitalismo. Evidentemente una rivoluzione simile non potrebbe neppur pensare di elemosinare l’appoggio dell’imperialismo contro il quale, invece, chiamerebbe i proletari alla rivolta! E questa rivoluzione non potrebbe essere diretta da un partito nazionale o nazionalista, ma unicamente dal partito proletario internazionale e internazionalista.

È' proprio perché non esiste nulla di simile che la rivolta in Siria è degenerata in sanguinosi combattimenti nei quali si scontrano diverse forze borghesi, più o meno appoggiate da padrini stranieri, e che, per mantenere o rafforzare la loro influenza sui propri sostenitori o sulle masse, non hanno altra risorsa che utilizzare al massimo la più reazionaria ideologia dominante: la religione.

Come scriveva Amadeo Bordiga, le crisi più gravi dell’ordine borghese non possono che sfociare, in assenza del partito di classe, in una situazione contro-rivoluzionaria (13), perché questa assenza indica che il proletariato è ancora incapace di agire in quanto forza indipendente: la borghesia ha quindi carta bianca per superare la crisi alla sua maniera.

Ma, qualcuno potrebbe dire, se non esiste il partito di classe, se non esiste un movimento proletario indipendente, bisogna almeno opporsi ai più reazionari e appoggiare le forze più democratiche? E se gli imperialisti americani o altri imperialisti possono ostacolare la “barbarie” o “l’oscurantismo” non è il caso di appoggiarli in Medio Oriente e altrove?

Questo è un argomento classico – scegliere il male minore, il campo borghese meno malvagio – che è stato utilizzato innumerevoli volte, in tempi di guerra come in tempi di pace, per incatenare il proletariato alla borghesia, per impedire la comparsa o il rafforzamento di organizzazioni di classe; il suo unico risultato è sempre di consegnare i proletari indifesi ai loro carnefici.

In realtà, non solo è impossibile essere d’aiuto alle masse oppresse associandosi, in un modo o nell’altro, all’imperialismo che saccheggia e devasta il pianeta, sfrutta e massacra le masse nel mondo intero, ma, così facendo, non si fa altro che rafforzarlo, non si può che accrescere la potenza del capitalismo e indebolire fino perfino la lotta di resistenza più elementare dei proletari. Il primo nemico dei proletari è la propria borghesia: allearsi con essa, qualunque sia il pretesto, significa tradire il proletariato.

Non è possibile opporsi realmente alle forze reazionarie, islamiste o meno, adottando programmi e prospettive democratiche borghesi e alleandosi, di conseguenza, con delle forze borghesi; ma solo portando avanti un programma e delle prospettive antidemocratiche, cioè di classe, anticapitalistiche, antiborghesi, e cercando su questa base l’unione con i proletari e le masse sfruttate di tutte le nazionalità e di tutti i paesi.

I comunisti avevano stabilito questa regola d’oro nel 1920: “L’Internazionale Comunista ha il dovere di appoggiare il movimento rivoluzionario delle colonie e dei paesi arretrati soltanto allo scopo di raccogliere gli elementi costitutivi dei futuri partiti proletari – che saranno comunisti di fatto e non soltanto di nome – in tutti i paesi arretrati e di educarli alla consapevolezza dei loro compiti particolari, vale a dire, alla lotta contro le tendenze democratico-borghesi nella loro stessa nazione” (14).

Novant’anni dopo, quando non esiste più un’Internazionale Comunista su cui appoggiarsi, la consegna dev’essere rispettata con ancora maggior impegno in quanto l’Internazionale stessa, degenerando, l’ha rapidamente dimenticata. I proletari devono opporsi senza esitazioni a qualunque intervento militare del “loro” Stato; ma qualunque solidarietà con popolazioni martirizzate e con delle lotte che si collochi al di fuori delle posizioni di classe, che poggi su basi umanitarie, democratiche, nazionaliste o d'altro genere, deve essere denunciata come antiproletaria. Parafrasando ciò che diceva il rivoluzionario socialista polacco Warynski a proposito dell’indipendenza della Polonia (15), potremmo dire: “esiste al mondo un popolo più sfortunato dei curdi – è quello dei proletari”.

Questo non significa che i proletari devono disinteressarsi della sorte dei curdi e di altre nazionalità, a cui bisogna riconoscere pienamente il diritto all’autodeterminazione; ma significa che essi devono sempre difendere innanzitutto i loro interessi di classe; e che nella lotta contro tutte le oppressioni, compresa quella nazionale, nella lotta contro tutte le reazioni, compresa quella islamista, non devono mai transigere sull’assoluta necessità dell’indipendenza e dell’organizzazione di classe, sull’unità dei proletari al di là di ogni divisione nazionale, etnica, religiosa o d’altro tipo.

La vera solidarietà, non solo con le masse curde di Kojava, ma con le masse proletarizzate della Siria sopraffatte a colpi di mitragliatrice, o condannate, a milioni, a una miserabile esistenza da rifugiati, consiste qui, nel cuore delle metropoli imperialiste, nel lavorare per la ripresa della lotta di classe, rivoluzionaria e internazionalista contro il capitalismo e l’imperialismo e per la ricostituzione del suo organo supremo, il partito di classe internazionale.

E il primo passo indispensabile è il rifiuto dell’arruolamento nelle mobilitazioni filoimperialiste, il rifiuto a sostenere forze e partiti non proletari, il rifiuto ad aderire a prospettive non classiste. 

 

12 Novembre 2014 

 


 

(1) Volantino del 3 ottobre 2014.

(2) http:// www. npa31.org/ actualite- politique -internationale/ urgence- kobane/ declaration- du -npa- 31- a-manifestation- samedi- 18- octobre.html4.

(3) http:// oclibertaire.free.fr/ spip.php? article1599. Tra i firmatari dell’appello (varie personalità borghesi, artisti, intellettuali ecc.) si trova, in seconda posizione, l’arcivescovo Desmond Tutu, che aveva benedetto il passaggio dall’apartheid a un regime democratico per perpetuare lo sfruttamento negriero dei proletari sudafricani. Questa firma ha qualificato l’appello…

(4) http://syriahr.com/en/2014/11/nearly-2000-detainees-killed-inside-the-regimes-detention-facilities/

(5) Vedi l’articolo dettagliato sul Financial Times del 24/10/2014.

(6) I due principali partiti del Kurdistan iracheno, che si sono combattuti armi alla mano per anni, sono il PDK di Barzani e l’UPK (Unione Patriottica del Kurdistan) di Talabani formato dalla fusione di diversi partiti fra cui gli ex “marxisti-leninisti” del Komala; Talabani è presidente dell’Irak dal 2006 (ruolo onorifico ma privo di potere politico) e vicepresidente dell’Internazionale Socialista. L’UPK è vicino alle autorità iraniane e, di conseguenza, favorevole al regime di Damasco.

Il clan Barzani che dirige il PDK ha una lunga storia di buoni rapporti con l’imperialismo occidentale e Israele; ha tessuto stretti legami con la Turchia e sostiene l’opposizione al regime siriano. Nel 2011 il PDK ha costituito il CNK, che raggruppa i partiti curdi siriani che sostengono la ribellione contro Damasco. Il PYD/PKK rimprovera al CNK di aver abbandonato la rivendicazione di autonomia del Rojava per allearsi con i ribelli, e lo accusa di essere agli ordini della Turchia. Fra il PYD/PKK, che domina sul terreno grazie alla sua organizzazione militare, e il CNK sono stati fatti vari tentativi di accordo, ma senza alcun risultato.

(7) Cfr. Le Monde, 7/9/2014.

(8) http://syriahr.com/en/2014/10/553-air-strikes-by-regime-warplanes-around-syria/

(9) http://www.al-monitor.com/pulse/politics/2014/07/iraq-crisis-israel-welcome-kurdish-state-us-turkey.html

(10) Vedi il comunicato del TCK (Movimento della Gioventù Curda) che promuoveva una “rivoluzione” contro il PYD: https:// syriafreedomforever. wordpress.com/ 2013/ 06 / 23/ statement -by- the- kurdish- youth- movement- tck- about- the-latest- events-in- the-city- of-amouda- and-videos -and-pictures- from- the-protests -and-sit-ins/

(11) OCL, volantino del 3/10/2014.

(12) Secondo Le Monde del 12-13 ottobre 2014, a quell’epoca a Kobane rimanevano solo 700-800 civili su una popolazione iniziale di circa 50.000.

(13) Cfr. “Attivismo”, Battaglia Comunista n. 7/1952.

(14) Cfr. “Tesi sulla questione nazionale e coloniale”, approvate al II Congresso dell’IC, Mosca, luglio 1920. Jane Degras, Storia dell’Internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali, Feltrinelli Editore, 1975, vol. 1, p. 159.

(15) Cfr. Jacques Droz, “Histoire générale du socialisme”, PUF 1977, Tomo 3, p. 324.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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