Nello sforzo comune di difendere la teoria marxista e il patrimonio politico della Sinistra comunista, proseguiamo il lavoro di assimilazione teorica vitale per il partito

( Resoconto sommario della riunione generale di Milano del  24-25 gennaio 2015 )

(«il comunista»; N° 139;  Giugno 2015)

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Nella riunione generale, svoltasi  regolarmente nelle date previste, sono stati tenuti i due temi previsti: su La rivoluzione proletaria è internazionale e internazionale sarà la trasformazione socialista dell’economia, e, sull’imperialismo mondiale: Quadro generale delle contraddizioni interimperialistiche a seguito della crisi 2007-2008.

 

Quadro generale delle contraddizioni interimperialistiche a seguito della crisi 2007-2008

 

 

Per quanto riguarda questo secondo rapporto alla riunione generale, è utile rifarsi anche agli articoli Sul periodo attuale e i compiti dei rivoluzionari  e Il capitalismo imperialista, parla di pace, ma prepara la guerra (1). Nel rapporto si sono dimostrate chiaramente le tesi marxiste sulle crisi del capitalismo (crisi di sovraproduzione sia di merci che di capitali, crisi monetarie e crisi finanziarie) e l’inevitabile corsa dello sviluppo capitalistico verso la terza guerra mondiale, ossia verso la mastodonica distruzione di merci e di capitali (oltre che di forza lavoro salariata, anch’essa sovraprodotta) per far posto ad un ennesimo decollo dell’economia capitalistica finalmente ringiovanita dal bagno di sangue mondiale. Questa dimostrazione concerne egualmente i paesi cosiddetti “emergenti” (Brasile, Russia, India, Cina, gruppo di paesi chiamato BRIC) che, grazie alla loro crescita vorticosa nel primo decennio del secolo XXI, davano l’impressione di rappresentare la “locomotiva” dell’economia mondiale, visto che i paesi del G6 (Stati Uniti, Germania, Giappone, Regno Unito, Francia e Italia) da tempo segnavano il passo quanto a crescita economica. Ma la crisi del 2008 e le sue conseguenze prolungate nel tempo ha di fatto evidenziato che l’ineguaglianza dello sviluppo capitalistico nei diversi paesi del mondo non è colmabile ad opera delle leggi economiche del capitalismo, poiché ad una crescita economica di un paese, o di un gruppo di paesi che, di fatto, forma un mercato più grande, non corrisponde un avanzamento duraturo e sempre crescente dei paesi più arretrati; quel che succede, sotto il capitalismo, è che lo sviluppo economico di un paese o di un “mercato” interessa i paesi già più sviluppati e ricchi che a loro volta rappresentano il mercato di sbocco delle materie prime e di determinati manufatti delle economie “emergenti”.

Se i mercati di sbocco rappresentati dai paesi più sviluppati entrano in crisi, come è successo dal 2008, le conseguenze vengono pagate duramente dai paesi sviluppati più deboli e dai paesi “emergenti” poiché le classi borghesi dominanti di questi paesi, dipendendo i loro profitti soprattutto dalle esportazioni, una volta che queste esportazioni si riducono in quantità e in valore, per recuperare le quote di profitto perse sono costretti a schiacciare più pesantemente i propri proletariati in condizioni di sopravvivenza sempre più precarie e drammatiche (aumento della disoccupazione, abbattimento dei salari, aumento del tasso di sfruttamento della manodopera impiegata nella produzione e nella distribuzione ecc.). Gli esempi della Grecia, dopo l’Irlanda, il Portogallo, la stessa Spagna e l’Italia, sono significativi, come sono altrettanto significative le turbolenze sociali del Brasile e della Cina. La crescita economica sotto il capitalismo, nella fase imperialista, dunque nella fase in cui la concorrenza tra i paesi è sempre più acuta, produce inevitabilmente condizioni sempre più pesanti di insicurezza del salario e, quindi, della vita delle masse proletarie. I lavoratori salariati, al pari delle merci, nei periodi di crisi capitalistica subiscono anch’essi la crisi di sovraproduzione, formando a livello mondiale un sempre più gigantesco esercito industriale di riserva che, per lo sviluppo delle comunicazioni e delle relazioni economiche tra i vari paesi, si presenta sul “mercato del lavoro” nazionale e internazionale attraverso migrazioni di massa.

Di fronte alle crisi capitalistiche, l’ineguaglianza di sviluppo economico fa emergere i punti di forza e di debolezza dei diversi Stati borghesi e, quindi, dei diversi imperialismi, dal punto di vista non solo politico ma anche economico e sociale. I paesi capitalisti più sviluppati, e più forti, cercheranno sempre di tenere sotto il proprio controllo politico, economico e militare, i paesi che possiedono le risorse naturali indispensabili per far girare i loro apparati produttivi e per questo motivo la guerra – come politica fatta con i mezzi militari, e che sotto l’imperialismo è sempre guerra di rapina – in regime borghese è inevitabile. E’ d’altra parte assodato, come ha potuto affermarlo la nostra corrente di sinistra comunista, che nelle guerre mondiali i paesi “vincitori” sottomettono i paesi “vinti” ad una sudditanza politica ed economica di grande portata, e non solo i paesi “nemici” durante la guerra, ma anche i paesi “alleati”. L’esempio più evidente l’abbiamo avuto con la seconda guerra mondiale quando, vinti Germania, Giappone e Italia, i paesi vincitori, primi fra tutti gli Stati Uniti e l’Urss, si sono spartiti i mercati in vere e proprie zone colonizzate nelle quali sono stati inseriti anche i paesi capitalisti avanzati, ma indeboliti direttamente dalla sconfitta nella guerra (come appunto Germania, Giappone e Italia) o indirettamente dalle conseguenze della guerra (come altri paesi dell’Europa occidentale e dell’Europa orientale). Questa colonizzazione che, per quanto riguarda gli Stati Uniti, si è attuata soprattutto attraverso ingenti investimenti di capitali e costante presenza militare, mentre per l’Urss si è attuata soprattutto attraverso l’occupazione militare, si è svolta nelle forme di un condominio mondiale  americano-russo per 45 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, cioè fino all’implosione dell’Urss. L’implosione dell’Urss, se da un lato ha segnato la fine di quel “condominio mondiale” da parte delle due “super-potenze”, dall’altro ha segnato anche l’emergere in campo internazionale di altri aggressivi concorrenti, a partire dalla Germania e dalla Cina.

Ma i paesi capitalisti “emergenti”, non avendo ancora sviluppato in modo consistente un mercato interno in grado di assorbire la parte preponderante delle materie prime a disposizione e della propria produzione industriale, dipendono inevitabilmente dal “buon andamento” dell’economia dei paesi capitalisti più sviluppati; se questi cadono in crisi, gli effetti negativi di questa crisi si diffondono immediatamente nei paesi più deboli e, quindi, anche nei paesi “emergenti” che, a causa di questi effetti, sono costretti ad una crescita molto più contenuta e a registrare una svalorizzazione a vasto raggio delle proprie materie prime (ne esportano molto meno e a prezzi molto più bassi [in riunione è stato portato il caso eclatante del petrolio]), dei propri prodotti manufatti, dei propri prodotti agricoli e della propria abbondante forza lavoro salariata. La loro funzione di “locomotiva economica” del mercato interno e internazionale si inceppa facendo emergere non più la spinta propulsiva del proprio sviluppo capitalistico, ma il peso della debolezza generale della propria economia nazionale, sviluppata all’interno del paese in modo ineguale non solo tra settore agricolo e settore industriale, ma in modo ineguale anche nei confronti dei paesi industriali più avanzati.

Come in ogni crisi ciclica del capitalismo, alla caduta dei livelli produttivi corrisponde un peggioramento costante e sempre più rilevante delle condizioni di esistenza delle masse proletarie in tutto il mondo: l’aumento della precarietà del lavoro e della vita tende a diventare inarrestabile nei paesi della periferia dell’imperialismo, ma non risparmia nemmeno i paesi imperialisti più forti. Mentre da un lato la borghesia dominante tende a salvaguardare degli strati di aristocrazia operaia, per avere sempre a disposizione un bacino dal quale pescare le forze dirigenti dell’opportunismo e della collaborazione interclassista, dall’altro lato, la borghesia dominante non può fare a meno di far precipitare nella più cruda proletarizzazione strati anche larghi di classi medie e piccoloborghesi  e di gettare nell’emarginazione ampi strati di proletari espulsi dalla produzione e dalla distribuzione. L’aumento delle guerre locali, con l’aumento delle migrazioni forzate, segna un destino irreversibile per milioni di persone che già tentano di sfangare la vita nonostante la povertà e le condizioni di fame e miseria in cui sono precipitate. Il capitalismo dimostra di non avere alcuna possibilità di risolvere le sempre più forti e profonde contraddizioni in cui tiene prigioniera la specie umana. I proletari saranno sempre più schiacciati, dalle classi dominanti, nella loro condizione di schiavitù salariale e sempre più illusi, dalle forze dell’opportunismo e della conservazione sociale, di poter risollevare le proprie condizioni attraverso espedienti politici e sociali che non intacchino però la struttura economica capitalistica e la sovrastruttura statale della società borghese (democratica, monarchica, fascista che sia).

Le turbolenze sociali sono destinate, perciò, ad aumentare; parallelamente, è destinata ad aumentare la pressione e la repressione da parte delle classi borghesi dominanti in ogni paese, concentrando e centralizzando sempre più non solo il potere politico (nei paesi tradizionalmente democratici, i parlamenti sono sempre più esautorati da ogni decisione significativa mantenendo, finché serve ad alimentare l’illusione democratica, la loro funzione propagandistica e deviante) ma anche il potere economico che sempre più è controllato dalla rete mondiale del capitale finanziario. I proletari dovranno affrontare un periodo di disagi e di peggioramenti crescenti, che si presentano e si presenteranno – come già si sono presentati negli anni scorsi – con continui attacchi alla cosiddetta “rigidità del mercato del lavoro”, allevando le giovani generazioni proletarie alla precarietà permanente.

La lotta del proletariato, perciò, a difesa delle proprie condizioni immediate di vita, per avere una certa efficacia, non potrà non tornare alle vecchie e unificanti rivendicazioni tradizionali come la diminuzione della giornata lavorativa a parità di salario, l’aumento del salario-base, il salario integrale ai licenziati e ai disoccupati ecc., rivendicazioni sostenute attraverso lo sciopero senza preavviso e ad oltranza; e non potrà non tornare all’organizzazione di classe, ossia all’associazionismo operaio che mette al centro della propria attività la difesa esclusiva degli interessi immediati dei proletari e l’uso di metodi e mezzi di lotta coerenti con questa difesa. Un associazionismo operaio che, per essere un efficace strumento di difesa proletaria, organizzerà soltanto proletari senza distinzione di età, sesso, nazionalità, tendendo a superare i limiti delle categorie e dei settori lavorativi.

L’obiettivo di unificare le lotte proletarie, per renderle più efficaci, non è soltanto un obiettivo verso il quale dirigere le lotte immediate; è un passaggio vitale per far trascrescere le lotte economiche e immediate in lotte politiche, portatrici perciò di obiettivi politici di classe e internazionali. In questa prospettiva, che sappiamo non facile ma tracciata sul lungo periodo, il partito deve lavorare non per organizzare attraverso i suoi militanti, e sulla base della pura volontà, gruppi e organismi proletari di classe, cosa che farebbe cadere il partito nel più volgare volontarismo, ma per approfittare di ogni occasione, ogni spiraglio che la lotta immediata dei proletari può offrire – organizzata e controllata dai grandi sindacati tricolore oppure no – per propagandare metodi e mezzi di lotta classisti, incitando i proletari più combattivi a farli propri e ad applicarli nella loro lotta. Il partito, come abbiamo ribadito da sempre, non è un organizzatore di “sindacati di classe”: il suo intervento sul terreno immediato è volto ad influenzare politicamente i proletari più combattivi che si organizzano nella pratica in difesa dei propri interessi immediati. E’ questa effettiva influenza politica che porterà i proletari comunisti – militanti di partito – ad essere riconosciuti come i più coerenti e inflessibili lottatori anticapitalisti e antiborghesi e perciò a ricevere la fiducia per guidare e dirigere le organizzazioni economiche classiste del proletariato.

Al partito resta sempre il compito di indirizzare e orientare le lotte proletarie, anche le più essenziali sul terreno economico, verso il coinvolgimento di proletari di altre fabbriche, di altri settori lavorativi, di altre nazioni, ossia verso il superamento delle mille barriere in cui le classi dominanti borghesi e le forze dell’opportunismo collaborazionista costringono le organizzazioni proletarie sul piano immediato come su quello politico-sociale.

E’ evidente, data la continua assenza della ripresa della lotta di classe, che i proletari, per riconquistare i loro metodi e mezzi di lotta classisti dovranno rompere in modo deciso e profondo con la tradizione democratica e collaborazionista che ha preso il posto della vecchia tradizione classista del movimento operaio: rottura che, ideologicamente, potrà avvenire solo dopo che, nella pratica della lotta di difesa immediata, il proletariato, almeno nei suoi reparti più avanzati, avrà maturato una certa esperienza e un effettivo allenamento allo scontro di classe. Una rottura che il partito di classe non si limita a “prevedere”, né a “predicarne la necessità”, ma assume come obiettivo generale della lotta proletaria e, quindi, anche come un suo obiettivo legato dialetticamente alla sua attività e azione di intervento nelle lotte immediate del proletariato, ben sapendo che se non vi sarà quella rottura all’interno stesso della classe proletaria non sarà possibile per il proletariato avviarsi effettivamente verso la lotta di classe più ampia e prendere in carico obiettivi politici di classe di più generale e decisiva portata.

 


 

(1) Cfr. Il primo articolo su il comunista, n. 136, ottobre 2014, e il secondo su il comunista n. 137, gennaio 2015.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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