No alla solidarietà nazionale

Si alla solidarietà di classe!

(«il comunista»; N° 140-141;  Novembre 2015)

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Da sempre la classe dominante borghese, quando deve rafforzare la difesa dei suoi interessi nazionali, si rivolge alla popolazione, e in particolare al proletariato, appellandosi alla solidarietà nazionale. Il ritornello è sempre lo stesso: “il Paese è in pericolo!”, dunque è necessario che “tutti facciano la loro parte!” perché “difendere il nostro Paese” significa difendere “la libertà per tutti, la democrazia, la civiltà!”.Da sempre la classe dominante borghese, quando deve rafforzare la difesa dei suoi interessi nazionali, si rivolge alla popolazione, e in particolare al proletariato, appellandosi alla solidarietà nazionale. Il ritornello è sempre lo stesso: “il Paese è in pericolo!”, dunque è necessario che “tutti facciano la loro parte!” perché “difendere il nostro Paese” significa difendere “la libertà per tutti, la democrazia, la civiltà!”.

Ma la classe dominante borghese, mentre inneggia ai valori della democrazia, della libertà, della civiltà, mentre si appella alla pace e al benessere del Paese, continua imperterrita a inseguire con ogni mezzo - legale e illegale, democratico e autoritario, pacifico e terroristico, umanitario e disumano, politico e militare - il maggior profitto possibile dagli investimenti dei suoi capitali, lottando contro ogni ostacolo trovi sulla sua strada, un concorrente economico o finanziario, politico o militare. E, dato che la valorizzazione dei suoi capitali deriva dallo sfruttamento del lavoro salariato, continua impeterrita a sfruttare il proletariato con tutti i metodi che la lunga esperienza di potere le ha fornito: impone e alimenta la concorrenza fra proletari maschi e femmine, giovani e anziani, nativi e immigrati; ricatta e intimidisce costantemente la forza lavoro salariata mettendola sempre a rischio di infortunio e di morte, di licenziamento e di disoccupazione; blandisce gli strati superiori del proletariato con briciole dei suoi profitti mentre sfrutta bestialmente le grandi masse rendendo la loro vita quotidiana sempre più precaria e insicura; e, non ultimo, reprime ogni reazione proletaria alla feroce pressione economica e sociale con la quale mantiene le grandi masse proletarie e proletarizzate nelle condizioni di vera schiavitù salariale. La classe dominante borghese, d’altra parte, sa che, per mantenere il potere all’interno del suo paese e per avere la forza di conquistare mercati esteri e territori economici utili ad ingrossare i suoi profitti e la sua influenza a livello internazionale, deve riuscire a portare il proletariato, perlomeno una sua maggioranza apprezzabile, dalla prpria parte facendogli credere che la sua vita e il suo futuro dipendano dalla condivisione degli interessi “generali del paese”, degli interessi “nazionali” e che le differenze sociali tra chi possiede tutto e chi non possiede nulla sono determinate da fattori imponderabili come la fortuna, il colpo di genio, l’inventiva individuale, la voglia di rischiare ecc.

Le contraddizioni sociali e il peggioramento generale delle condizioni di vita delle grandi masse sono ormai talmente evidenti che la borghesia dei grandi paesi imperialisti è costretta, da un lato, a cedere parte dei suoi profitti per distribuire ai proletari piccole riserve per affrontare la vita in modo meno drammatico (e gli ammortizzatori sociali servono esattamente a questo), mentre, da un altro lato, accresce sempre più gli strumenti di influenza ideologica che passano attraverso la scuola, la religione, la propaganda, lo sport, l’intrattenimento ecc., e da un terzo lato ancora, rende sempre più efficiente la sua macchina repressiva predisposta a contrastare ogni possibile reazione proletaria alle diverse forme di oppressione che subisce. Ma la classe dominante borghese, mentre inneggia ai valori della democrazia, della libertà, della civiltà, mentre si appella alla pace e al benessere del Paese, continua imperterrita a inseguire con ogni mezzo - legale e illegale, democratico e autoritario, pacifico e terroristico, umanitario e disumano, politico e militare - il maggior profitto possibile dagli investimenti dei suoi capitali. Essa continua impeterrita a sfruttare il proletariato con ogni metodo: blandisce gli strati superiori del proletariato con briciole dei suoi profitti mentre sfrutta bestialmente le grandi masse rendendo la loro vita quotidiana sempre più precaria e insicura; impone e alimenta la concorrenza fra proletari maschi e femmine, giovani e anziani, nativi e immigrati; ricatta e intimidisce costantemente la forza lavoro salariata mettendola sempre a rischio di infortunio e di morte, di licenziamento e di disoccupazione; e, non ultimo, reprime ogni reazione proletaria alla feroce pressione economica e sociale con la quale mantiene le grandi masse proletarie e proletarizzate nelle condizioni di vera schiavitù salariale. La classe dominante borghese, d’altra parte, sa, grazie  all’esperienza di potere che ha accumulato nel corso storico dello sviluppo capitalistico, che, per mantenere il suo potere all’interno del suo paese e per avere la forza di conquistare mercati esteri e territori economici utili ad ingrossare i suoi profitti e la sua influenza a livello internazionale, deve riuscire a portare il proletariato, perlomeno una sua maggioranza apprezzabile, dalla sua parte facendogli credere che la sua vita e il suo futuro dipendano dalla condivisione degli interessi “generali del paese”, degli interessi “nazionali” e che le differenze sociali tra chi possiede tutto e chi non possiede nulla sono determinate da fattori imponderabili come la fortuna, il colpo di genio, l’inventiva individuale, la voglia di rischiare ecc. Ma le contraddizioni sociali sono talmente evidenti che la borghesia è costretta, da un lato, a cedere parte dei suoi profitti per distribuire ai proletari delle piccole riserve per affrontare la vita in modo meno drammatico (e gli ammortizzatori sociali servono esattamente a questo), mentre, dall’altro, accrescere sempre più gli strumenti di influenza ideologica che passano attraverso la scuola, la religione, la propaganda, lo sport, l’intrattenimento ecc., e da un terzo lato ancora, rende sempre più efficiente la sua macchina repressiva.  La borghesia sa che non può limitarsi ad appesantire fisicamente la concorrenza fra proletari, soprattutto se è una borghesia imperialista con interessi economici e finanziari che vanno ben oltre i confini nazionali; essa ha bisogno di poter contare su masse in grado di sacrificare la propria vita non solo per la propria sopravvivenza, ma per “il bene del paese” a cui appartengono; questo “paese” deve essere sentito come il “proprio”, come la “propria casa”, come il concentrato di “valori” che danno un senso alla vita di ognuno e senza i quali ci si ridurrebbe a vivere come “schiavi dello straniero” o come “barbari”.

Perciò la classe dominante borghese - ridotti i proletari a schiavi del lavoro salariato perché costretti ad utilizzare tutte le loro energie fisiche e mentali per lavorare a beneficio dei capitalisti in cambio di un salario sempre più misero - deve anche annebbiare le loro menti, per indurli non solo a sopportare la fatica del lavoro, non solo ad accettare condizioni di lavoro sempre più precarie, pesanti e rischiose, e ad accettare  prima o poi la perdita del lavoro o l’assenza di lavoro e quindi del salario e la perdita della vita sul lavoro o sui fronti di guerra, ma anche a lottare insieme con i borghesi in un grande abbraccio nazionale per “difendere” il “proprio” paese che però è basato sul sistema capitalistico di sfruttamento del lavoro salariato: schiavi che lottano per mantenere in piedi e rafforzare la loro stessa schiavitù!

Questa attività di annebbiamento delle menti e di rincretinimento generale delle masse è sempre servita alla classe dominante borghese per prepararle a situazioni di crisi economica e di conflitto armato che inevitabilmente e ciclicamente si presentano nel corso dello sviluppo capitalistico. Per portare le masse proletarie sul terreno della collaborazione e della “difesa del paese” in caso di pericolo, la borghesia deve tenerle lontane dal terreno della lotta di classe perché questo è l’unico terreno sul quale i proletari possono organizzare in modo indipendente la difesa dei propri interessi di classe che sono oggettivamente antagonistici agli interessi borghesi. La borghesia sa che il proletariato, che lei stessa ha organizzato nelle fabbriche e nella società per poter sfruttare al meglio le sue energie lavorative, ha la forza potenziale per mettere in pericolo il suo potere e che questa forza potenziale il proletariato può riconoscerla e trasformarla in forza cinetica soltanto sul terreno della lotta di classe, ossia sul terreno in cui i  proletari si organizzano contro gli interessi borghesi, e contro tutte le istituzioni che difendono quegli interessi.

Non è un caso che le classi borghesi di ogni paese “civile”, “progredito”, “industrializzato”, “moderno”, insomma capitalisticamente sviluppato, impieghino risorse imponenti per la macchina dell’inganno, dell’imbonimento, della propaganda martellante a favore del buon andamento dell’economia delle aziende e del paese, della convenienza nel mantenere buone relazioni col tale o tal altro paese, dell’orgoglio della produzione nazionale e del suo successo nel mondo, del sistema democratico “che tutto il mondo ci invidia”. Per i borghesi gli schiavi devono essere fieri dei successi dei propri padroni, grazie ai quali successi i propri padroni diventano ancor più schiavisti!

 

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Dalla fine della seconda guerra imperialistica in poi si sarebbe dovuto aprire, secondo i grandi inni alla pace, alla democrazia, alla civiltà, un periodo di pace e di prosperità per tutti i popoli. E, mentre all’interno dei paesi vincitori della guerra regnava la pace borghese, le stesse borghesie che si ritagliavano il resto del mondo in zone di influenza e di controllo, si facevano la guerra direttamente o indirettamente in quelle stesse zone in una lotta di concorrenza che per la borghesia capitalistica non finisce mai. Da allora, non c’è stato periodo in cui, in qualche parte del mondo, non ci fosse la guerra, che non è altro che la continuazione della politica attuata con mezzi militari. Nello stadio imperialistico dello sviluppo capitalistico le guerre di rapina – come le ha chiamate Lenin –, in particolare in Africa e in Asia, non fecero che acuire ancor più l’oppressione che questi popoli avevano già subito con la colonizzazione; popoli che con la forza furono costretti a spostarsi dai territori in cui erano sempre vissuti, ad essere divisi, a subire la distruzione dei loro modi e metodi di sopravvivenza sostituiti con sistemi di produzione che rispondevano non alle loro esigenze ma a quelle di mercato a favore delle grandi compagnie e dei grandi trust delle metropoli imperialiste. Popoli che si sono ribellati, che hanno lottato contro l’oppressione imperialista, che in una serie di casi si sono anche “liberati” dalla colonizzazione, ma che avevano il destino segnato: o agganciavano la loro lotta al movimento rivoluzionario del proletariato a livello internazionale, per una emancipazione generale da ogni oppressione – e questo era il grande progetto dell’Internazionale Comunista del 1919-20 – oppure, conquistata la propria indipendenza politica, sarebbero stati comunque attirati forzatamente nel mercato internazionale che era già dominato da poche grandi potenze imperialistiche e con queste potenze avrebbe dovuto continuamente fare i conti. Data la sconfitta della rivoluzione proletaria, non solo in Russia, ma a livello internazionale, negli anni Venti del secolo scorso, quei popoli e, con loro, il proletariato dei paesi industrializzati, sono ricaduti sotto il tallone di ferro dell’oppressione imperialista non più nelle sole forme del vecchio colonialismo: le nuove forme, più oppressive ancora rispetto alle vecchie, aggiungono allo sfruttamento bestiale delle masse affamate nelle miniere, nelle foreste, nelle fabbriche, nei campi, e alla repressione di ogni protesta o sciopero, l’invisibile ma potente pressione che il capitale finanziario esercita sugli Stati e sull’economia di ogni paese.

I grandi centri del capitale finanziario hanno sede nelle grandi metropoli imperialiste, ed è quasi naturale che le masse affamate, massacrate, schiavizzate dei paesi della periferia dell’imperialismo, per sfuggire alle loro intolleranti  condizioni di sopravvivenza, si rivolgano ai paesi più ricchi. Non è quindi una stranezza che negli ultimi trent’anni, con la distruzione di interi paesi come è successo con l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia e ora la Siria, a milioni si siano diretti verso l’Europa o l’America del Nord. E non è certo una stranezza che soprattutto i paesi europei e gli Stati Uniti siano considerati i centri di potere responsabili delle guerre di rapina con le quali hanno oppresso e continuano ad opprimere popoli di interi continenti. I paesi europei e gli Stati Uniti, perciò, oltre a rappresentare per la maggioranza di quelle masse diseredate e impoverite luoghi dove terminare la loro fuga dalle devastazioni di guerra e dalla miseria, rappresentano anche la causa delle loro disgrazie e questo è uno degli argomenti forti che viene utilizzato da tutte le formazioni politico-militari che tentano di impossessarsi del potere o di pezzi di potere all’interno di quei paesi.

Che poi, la gran parte di queste formazioni politico-militari basino la loro forza di attrazione e di aggregazione non solo su fattori materiali ma anche su fattori religiosi, in particolare l’islamismo, si spiega con il fatto che la religione islamica – e le sue diverse interpretazioni – è particolarmente radicata in quelle popolazioni dando loro una base non solo ideologica ma anche di organizzazione pratica e quotidiana. Da comunisti rivoluzionari sappiamo bene che la religione – e ciò vale per qualsiasi religione – «è uno degli aspetti dell’oppressione spirituale che grava ovunque sulle masse popolari, schiacciate come sono dal continuo lavoro per il profitto altrui, dalla miseria e dall’abbandono. La debolezza delle classi sfruttate nella lotta contro gli sfruttatori genera inevitabilmente la credenza in una migliore vita d’oltretomba, allo stesso modo che la debolezza del selvaggio nella lotta contro la natura genera la credenza negli dei, nei diavoli, nei miracoli ecc. La religione predica l’umiltà e la rassegnazione in questo mondo a coloro che passano tutta la loro vita nel lavoro e nella miseria, consolandoli con la speranza in una ricompensa celeste. Invece, a coloro che vivono del lavoro altrui, la religione insegna la beneficenza in questo mondo, offrendo così una facile giustificazione alla loro esistenza di sfruttatori e vendendo a buon mercato i biglietti d’ingresso nella beatitudine celeste» (1).

Ma questa particolare oppressione spirituale che è la religione può benissimo sposarsi anche con attitudini per nulla umili e rassegnate, come dimostra non solo la storia medioevale ma anche la storia borghese. Il cristianesimo – nelle sue diverse interpretazioni – è stato per secoli la giustificazione dei poteri delle corone europee per le conquiste nelle Americhe, in Asia e in Africa, col seguito di distruzioni e massacri che tutti conoscono. A quell’epoca era la civiltà europea che veniva imposta, con la predicazione e con le armi, sulle popolazioni selvagge che abitavano quei continenti; distruzioni e massacri che sono continuati anche se la società era progredita e dal feudalesimo era passata al capitalismo: le truppe potevano sempre contare sulla benedizione della chiesa. Ma ogni conquista armata ha sempre comportato atti di terrorismo con i quali impedire che i vinti si riorganizzassero per tentare di ristabilire il potere precedente; valeva nel medioevo, vale perfettamente nel capitalismo. Tanto più nel capitalismo, società in cui la spasmodica ricerca di profitto da parte di ogni capitalista e di ogni associazione di capitalisti, nella sempre più frenetica lotta di concorrenza che per teatro ha ormai il mondo, sollecita l’aggressione degli uni contro gli altri su tutti i piani: economico, finanziario, politico, militare. Ed ogni aggressione trae forza e giustificazione da motivi ideologici, spirituali, siano essi di carattere politico come la democrazia, il progresso, la morale civile, o di carattere religioso. Al terrorismo della guerra degli Stati e degli eserciti regolari fa da contraltare il terrorismo di formazioni partigiane, sostenute e foraggiate da altri Stati che non operano direttamente ma attraverso quelle formazioni.

Il terrorismo cosiddetto “islamico”, sostenuto da ideologie riferibili al fondamentalismo islamico che, d’altra parte, dà continuità alla divisione tra sciiti e sunniti – come il fondamentalismo cristiano dava continuità alla divisione tra cattolici e protestanti – affonda le proprie radici materiali nello stesso sistema economico e sociale su cui sono eretti gli Stati borghesi e le loro economie: il capitalismo. Al terrorismo di Stato grande borghese attivo nelle zone di guerra – scrivevamo a proposito degli attentati a Londra del luglio 2005 (2) – «risponde il terrorismo di gruppi nazionalisti e religiosi che contrastano in realtà gli stessi obiettivi economici e politici: il controllo delle ingenti riserve petrolifere, il controllo del paese, del suo territorio, dei suoi confini; il che significa anche il controllo sulla disponibilità della massa di forza lavoro rappresentata dai circa 4 milioni di proletari irakeni». E oggi, se ci riferiamo al sedicente Stato islamico (Califfato, Daesh, Isis o Is, che dir si voglia), questa nuova entità statale sunnita che tenta di nascere per mezzo del terrorismo come in una certa misura fece il sionismo per far nascere Israele, proponendosi di stabilirsi in un’area che dall’Iraq si espanda in Siria e oltre, quindi con milioni di proletari in più da sfruttare, ha dimostrato di perseguire gli stessi identici obiettivi dei suoi avversari: ritagliarsi un territorio economicamente importante – grazie appunto alle risorse petrolifere – su cui costruire il proprio potere, sottomettendo la popolazione esistente al dominio di una associazione di capitalisti travestiti da propagandisti dell’islam, ma che in realtà utilizzano le caratteristiche fanatiche del credo religioso per sferrare i propri attacchi e la propria guerra contro avversari che sono certamente più potenti economicamente e militarmente, ma che possono essere messi in difficoltà maggiori se attacchi da “guerriglia” vengono attuati nel cuore delle loro capitali. E così, i valori religiosi, di una religione che ribadisce la sottomissione di uomini e donne a principi e leggi di conservazione reazionaria, vengono contrapposti ai valori di una civiltà, come quella occidentale, basata sul consumismo e sulla più aperta rincorsa al piacere fugace e svincolato dalla rigidità della morale religiosa.

La lotta al terrorismo da parte di Stati che hanno attuato da sempre il terrorismo contro le popolazioni colonizzate, e contro la stessa popolazione del proprio paese ogni volta che il “pericolo di guerra” si avvicinava, è in realtà una lotta contro frazioni di borghesia che tendono a difendere i propri interessi organizzandosi al di fuori delle istituzioni ufficiali e per mettere le mani su profitti più cospicui di quelli che i potentati economici e finanziari possono assicurare loro. E’ una lotta tra borghesie, portata avanti per interessi borghesi contrastanti, utilizzando il metodo terroristico perché è quello più flessibile, agile e con il quale le frazioni borghesi più deboli possono contrastare con maggiore efficacia, almeno temporaneamente, gli interessi delle frazioni borghesi più forti. E’ d’altra parte un metodo che consente di raccogliere intorno ad una causa “nazionale” o “religiosa” elementi di tutte le classi sociali e non solo del proprio paese. Sul piano dei contrasti di questo genere, il proletariato non ha nulla a che spartire e, se fosse nelle condizioni di lottare in modo indipendente e per i propri interessi di classe, non avrebbe alcun problema nel decidere su quale fronte di lotta, o di guerra, collocarsi: sul fronte della lotta di classe, combattendo contemporaneamente contro tutte le frazioni borghesi, e contro tutte le borghesie a cominciare dalla borghesia del proprio paese, perché ognuna di loro, sebbene si faccia la guerra, continuerà a sfruttare il lavoro salariato e ad esercitare l’oppressione capitalistica sulle masse proletarie.     

 

IN DIFESA DELLA CIVILTA?

 

Il richiamo ai valori della società che i poteri borghesi stanno diffondendo in ogni paese dopo gli attentati terroristici a Parigi, inneggiando ad una “lotta al terrorismo” che dovrebbe vedere unite tutte le nazioni democratiche, e che non è altro che un remake di quanto hanno già fatto in occasioni precedenti - dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York, gli attentati alla metropolitana di Londra o alla stazione di Madrid, per non tornare ancor più indietro all’epoca di un terrorismo completamente diverso come quello delle BR italiane o della Raf tedesca - si può riassumere in un appello generale alla difesa della “civiltà”. Ma di quale civiltà parlano?

La civiltà borghese è la civiltà dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, del profitto capitalistico, è la civiltà della sopraffazione del capitalista più forte sul capitalista più debole, della concorrenza più spietata allo scopo di ridurre ad entità irrilevanti e far soccombere i concorrenti; è la civiltà dell’individualismo sfrenato, del mors tua vita mea, della distruzione di risorse e di energie vitali per far profitti in modo veloce e al minor costo e per difendere interessi privati, della devastazione e dell’inquinamento più brutali dell’ambiente e della natura al solo scopo di intascare profitti più alti. E’ la civiltà della corruzione che, come un cancro in metastasi, attacca qualsiasi relazione politica, economica, sociale e a qualsiasi livello. Più è concentrato il denaro, più la corruzione si espande, più emerge il cinismo di una società che sta in piedi soltanto sfruttando, sprecando, distruggendo, ammazzando. 

La civiltà borghese indiscutibilmente contiene il progresso industriale e innovazioni tecniche che potrebbero ridurre enormemente la fatica da lavoro per l’uomo, ma il modo di produzione su cui è basata si fonda su due entità irrimediabilmente antagonistiche: capitale e lavoro, dunque sulla divisione della società in classi antagonistiche, la classe capitalistica e la classe dei lavoratori salariati. Quel progressso, quelle innovazioni tecniche, sotto il capitalismo, non servono per ridurre la fatica da lavoro per l’uomo, ma per aumentare i profitti e, di conseguenza, per aumentare la fatica da lavoro e di vita per l’uomo. La classe capitalistica, storicamente, ha violentemente preso il potere per uno scopo, quello di sviluppare il capitalismo, ossia fare in modo che i capitali investiti nella produzione, nella distribuzione e nel sistema bancario aumentino continuamente di valore, in gergo: producano utili, profitti. E per ottenere questo risultato è necessario che il capitale sfrutti sempre più il lavoro umano, il lavoro di masse sempre più vaste ridotte alla condizione di essere dei senza riserve, dei proletari appunto, che possono sopravvivere solo se sfruttati da coloro che possiedono tutte le riserve, dai capitalisti appunto. Questo sistema  sociale, nel suo iperfolle sviluppo industriale, e nella logica di una concorrenza sempre più feroce, ha bisogno di immettere nel mercato quantità di merci e di capitali sempre maggiori per poter realizzare i tanto agognati profitti. Ma è proprio questa spasmodica ricerca capitalistica di profitto che mette in crisi il sistema che vive di profitto capitalistico; ad un certo punto dello sviluppo, il mercato si satura di merci e di capitali, mettendo in crisi le economie capitalistiche di più paesi e spinge questi paesi a cercare rimedi per non sprofondare nella rovina e nella barbarie. Ma i rimedi che il capitalismo trova sono tali da far uscire temporaneamente dalla crisi il paese o i paesi che vi sono caduti, accumulando nello stesso tempo i fattori di crisi ulteroiri e di maggior profondità tanto da spingere le economie di tutti i maggiori paesi del mondo verso la crisi generale dalla quale, prima o poi, l'unico mezzo per uscire è la guerra.

La guerra, nella nostra epoca, sarà sempre una guerra imperialista con la quale il mercato internazionale subisce modifiche notevoli poiché le potenze che vincono la guerra si spartiscono il mondo secondo la rispettive esigenze e forze messe in campo; ma la guerra è anche l’occasione per distruggere enormi quantità di prodotti, di infrastrutture, di edifici e di capitali, compreso quello umano. Si assiste così ad una specie di ringiovanimento di un capitalismo che, di suo, è destinato a diventar decrepito e a pesare sulle spalle del proletariato mondiale come un macigno. Da questo enorme peso il proletariato potrà finalmente liberarsi soltanto alla condizione di ritrovare in se stesso la forza di sollevarsi, di riconoscere se stesso non più come una parte della macchina produttiva del capitalismo ma come uno schivo che si libera delle catene che lo imprigionano a quella macchina produttiva e che affronta la classe dominante borghese non come un possibile alleato, con cui condividere obiettivi e finalità, ma per quel che realmente è: il nemico principale di classe, il cui dominio impedisce alla maggioranza della popolazione del mondo di uscire dai regimi di sfruttamento, di oppressione, di guerra.  La civiltà borghese indiscutibilmente contiene il progresso industriale e innovazioni tecniche che potrebbero ridurre enormemente la fatica da lavoro per l’uomo, ma il modo di produzione su cui è basata si fonda su due entità irrimediabilmente antagonistiche: capitale e lavoro, dunque sulla divisione della società in classi antagonistiche: la classe capitalistica e la classe dei lavoratori salariati. Da un lato, la classe capitalistica che ha violentemente preso il potere per uno scopo, quello di sviluppare il capitalismo, ossia fare in modo che i capitali investiti nella produzione, nella distribuzione e nel sistema bancario aumentino continuamente di valore, in gergo: producano utili, profitti. E per ottenere questo risultato è necessario che il capitale sfrutti sempre più il lavoro umano, il lavoro di masse sempre più vaste ridotte alla condizione di essere dei senza riserve, dei proletari appunto, e di poter sopravvivere solo se sfruttati da coloro che possiedono tutte le riserve, dai capitalisti appunto. Questo sistema  sociale, nel suo iperfolle sviluppo industriale, e nella logica di una concorrenza sempre più feroce, ha bisogno di immettere nel mercato quantità di merci e di capitali sempre maggiori per poter realizzarei tanto agognati profitti. Ma è proprio questa spasmodica ricerca capitalistica di profitto che mette in crisi il sistema che vive di profitto capitalistico

 

IL CAPITALISMO VA ABBATTUTO, NON DIFESO! 

 

La borghesia, un tempo classe rivoluzionaria che combatteva contro l’assolutismo e il medio evo, rappresentava il progresso storico della società umana; progresso rispetto alle società precedenti, alla società schiavista, alla società feudale, alla società assolutista, al dispotismo asiatico. Quel tempo non esiste più. Storicamente è stato superato da un periodo in cui la borghesia, assestatasi al potere in modo definitivo, nei principali paesi in cui il capitalismo ha vinto i modi di produzione precedenti, e quindi senza correre il pericolo di una restaurazione feudale, si è trasformata in classe riformista. E' stato, questo, il periodo in cui anche il proletariato ha sviluppato le proprie organizzazioni di classe che con la lotta sono riuscite a strappare ai borghesi condizioni di lavoro e di vita migliori. E’ stato il periodo in cui la democrazia borghese, con le sue istituzioni parlamentari, ha toccato il massimo delle possibilità politiche che il proletariato poteva ottenere dalla borghesia; il periodo in cui i partiti operai raccoglievano grandi consensi da una classe che, oltre a  condurre lotte sindacali sul terreno immediato, si stava affacciando alla politica in generale.

E’ il periodo i cui si sviluppa l’opportunismo classico, quello appunto parlamentare e riformista, che lega le sorti dell’emancipazione proletaria dalla schiavitù salariale ad un capitalismo non distrutto, come a metà dell’Ottocento indicato dal Manifesto di Marx ed Engels, ma riformato. Lo sviluppo ineguale del capitalismo nel mondo ha avuto come risultato che un piccolo numero di grandi paesi capitalisticamente sviluppati (all’epoca in cui Lenin scrisse l’Imperialismo, se ne contavano 4, Inghilterra, Francia, Germania e Stati Uniti) dominavano il mercato internazionale sia attraverso i possedimenti coloniali diretti (3), sia attraverso l’influenza determinante sugli altri paesi delle merci prodotte industrialmente ed esportate. Insieme alla politica coloniale delle grandi potenze si è sviluppata anche la loro politica riformista nella quale hanno coinvolto le correnti opportuniste dei partiti operai utilizzando proprio gli stessi argomenti che vengono utilizzati tutt’oggi: civilità, benessere, progresso. Allora la borghesia giustificava le conquiste coloniali, e i relativi massacri, con la missione di portare nei paesi arretrati e “incivili”, la civiltà e il progresso, incrementando il benessere in “patria” grazie ad una prosperità aumentata grazie alla crescita delle esportazioni. Oggi la borghesia giustifica le guerre, e i relativi massacri, con la missione di difendere la stessa civiltà sia negli ex possedimenti coloniali sia in “patria”, tanto più se sotto “attacco” da parte di forze “terroriste”.

L’appello all’unità nazionale che la borghesia delle grandi potenze ha lanciato in ogni paese, viene ampliato nell’appello a formare una coalizione internazionale contro il terrorismo. Da tempo il terrorismo del fondamentalismo islamico è indicato come il pericolo numero 1 per la civiltà occidentale, per la democrazia, la libertà, il benessere dei paesi civili. Oggi, dopo gli attacchi a Parigi, e in presenza di un’entità che vuol farsi Stato come il Daesh e che usa il terrorismo più spietato nei territori che ha conquistato in Iraq e in Siria e negli attacchi nelle metropoli europee, l’appello dei portavoce delle grandi potenze imperialistiche, a cominciare dal presidente francese Hollande per continuare con Obama, Cameron, Merkel, Renzi e via via tutti gli altri, assume un’aura di ingenuo candore come se, sedicenti portatori della pace e della fratellanza universale, i paesi imperialisti grondanti di sangue di milioni di civili inermi fossero costretti a “far la guerra al male assoluto” per liberare il mondo dal pericolo di cadere nell’oscurantismo medievale e nella barbarie.

In realtà, le potenze imperialistiche si stanno preparando a tempi molto più critici degli attuali, tempi in cui la guerra generale e mondiale sarà presentata come l’inevitabile risposta ad aggressioni alla pace e alla stabilità dei paesi civili. E’ già successo nel 1914 e ancora nel 1939: il male rappresentato prima dalle potenze austrotedesche, poi da quelle nazifasciste; domani saranno chiamate a recitare il loro ruolo le potenze del totalitarismo oscurantista? Anche il Papa Francesco ha contribuito alla campagna di fratellanza universale indicando il male da sconfiggere nella “guerra fatta a pezzi”, chiamando tutti quanti a superare i propri egoismi per unirsi in difesa della pace. Ma la pace, nella fase imperialista dello sviluppo capitalistico, è una pace imperialista, è una tregua tra le guerre di rapina. Lenin, nel suo saggio popolare intitolato Imperialismo, fase suprema del capitalismo, dopo aver dimostrato che nel corso di un ventennio i rapporti di forza tra le potenze imperialiste non rimangono per nulla immutati, polemizza con il rinnegato Kautsky, teorico del socialsciovinismo, sulla questione dell’“ultra-imperialismo”, affermando che «le alleanze “inter-imperialiste” o “ultra-imperialiste” non sono altro che un “momento di respiro” tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, su di un unico e identico terreno, dei nessi imperialistici e dei rapporti dell’economia mondiale e della politica mondiale, l’alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta» [i corsivi sono di Lenin] (4).

La chiamata alla guerra contro il Daesh da parte di Hollande, dopo gli attacchi di Parigi del 13 novembre, è in realtà l’appello agli alleati ad accelerare l’iniziativa militare che li vede impegnati in Medio Oriente, e in particolare in Siria, ma nel quadro più generale dei contrasti interimperialistici serve a  saggiare la tenuta delle alleanze e a sollecitare, nello stesso tempo, partiti e sindacati, a stringersi intorno al governo in uno slancio di solidarietà nazionale nella quale impegnare tutte le loro forze. In questo modo si intende togliere al proletariato anche la minima possibilità di utilizzare le proprie forze in difesa dei propri interessi di classe che sono in pieno contrasto con gli interessi di sfruttamento capitalistico fatti propri dalla classe borghese dominante.

Alla soldiarietà nazionale, all’union sacrée, i proletari devono rispondere NO!

L'interesse principale dei proletari è quello di difendersi dall’oppressione capitalistica esercitata sul posto di lavoro come sulla vita quotidiana, nelle relazioni individuali come nelle relazioni sociali. E per difendersi efficacemente da questa oppressione il terreno non può essere lo stesso nel quale i capitalisti esercitano incontrastati il loro dominio, ossia il terreno della collaborazione fra le classi, il terreno della solidarietà nazionale; deve essere il terreno della lotta di classe, ossia il terreno sul quale si riconosce apertamente l’inconciliabilità di interessi fra la classe proletaria e la classe borghese, il terreno sul quale costruire l’indipendenza di classe sia organizzativa che politica. Il terreno della lotta di classe è l’unico terreno sul quale il proletariato ha la possibilità non solo di difendersi nell’immediato dalla pressione capitalistica in termini economici e materiali, ma anche di costruire la propria forza di classe con la quale imporre i propri obiettivi sia sul piano classicamente sindacale (orario giornaliero di lavoro, salario, ritmi e intensità di lavoro, nocività e sicurezza sul lavoro, equiparazione salariale tra uomini e donne, autoctoni e immigrati ecc.) sia su di un piano più generale e politico (no alle espulsioni degli immigrati, no alla chiusura delle frontiere, no al controllo dell’immigrazione, no alla militarizzazione delle città, no alla regolamentazione degli scioperi ecc.). Ed è su questo terreno, e soltanto su questo, che i proletari possono affrontare anche il problema degli attacchi terroristici da un punto di vista di classe, facendo della lotta proletaria di classe un polo d’attrazione anche per gli elementi che, cercando una risposta efficace alla loro emarginazione, alle contraddizioni sociali di questa società e una prospettiva per la loro vita e la vita dei loro figli, si fanno affascinare da principi religiosi che danno loro l’illusione di trovare un riscatto nell’aldilà martirizzando se stessi ed altri in questo mondo.

Ma la prospettiva verso la quale il proletariato storicamente è indirizzato è ben più ampia e decisiva. L’obiettivo storico non è una società divisa in classi, solo meno conflittuale, e tanto meno una società dove il capitalismo potrà essere riformato a tal punto da mettere capitalisti e lavoratori salariati nelle stesse condizioni di esistenza. L’obiettivo storico dell’emancipazione proletaria dal capitalismo passa attraverso la rivoluzione politica, l’abbattimento del potere borghese e l’instaurazione della dittatura rivoluzionaria del proletariato, guidata dal suo partito di classe, il passaggio alla distruzione dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà e alla rivoluzione internazionale per realizzare il socialismo prima, e il comunismo poi quando internazionalmente saranno presenti tutte le condizioni economiche e sociali perché la produzione generale risponda alle esigenze di vita della specie umana e non del mercato.

La classe operaia è l’unica classe rivoluzionaria della società borghese. Il capitalismo ha prodotto la classe operaia, ha imposto alle grandi masse una vita dipendente dal salario e il salario lo si può avere soltanto se sfruttati dai capitalisti nelle loro aziende industriali, artigiane, commerciali, agrarie, pubbliche o private che siano. La dipendenza dal capitalismo, per i proletari, è totale; la loro vita è completamente in mano ai capitalisti che ne dispongono, grazie al potere dello Stato, ogni giorno che vivono su questa terra, ventiquattr’ore su ventiquattro. Che abbiano o no un lavoro, che il lavoro sia pagato decentemente o malpagato, che siano in forze o malati, i proletari in questa società non hanno scampo: sono schiavi del lavoro salariato da cui dipende la loro sopravvivenza. E sono schiavi di una società in cui la pressione capitalistica non si ferma all’interno delle aziende ma riempie tutte le ore del giorno e della notte. E non ha molto peso, rispetto alla condizione di schiavitù vissuta se, alla parte meglio pagata di proletari, la società concede del tempo per il divertimento o l’ozio: in realtà organizza loro anche quel tempo. L’importante per i borghesi è che i proletari non utilizzino il loro tempo libero dalla fatica del lavoro per individuare i loro interessi, per associarsi e organizzare la loro difesa su un terreno di classe. La società borghese ha pensato anche a questo: grazie al metodo democratico, i proletari sono spinti a delegare altri, ad esempio sindacalisti e politici, a rappresentare i loro interessi presso i padroni e le istituzioni. E in un periodo in cui la lotta di classe, dopo essere stata pesantemente sconfitta, è stata sepolta sotto cumuli di illusioni democratiche e di attitudini collaborazioniste, è ovvio che i rappresentanti degli “interessi operai” siano in realtà dei luogotenenti della borghesia nelle file operaie. La “solidarietà nazionale” poggia sulla “solidarietà aziendale” e questa è il risultato della collaborazione fra sindacalisti e padroni che hanno a cuore fondamentalmente lo stesso obiettivo: il buon andamento dell’azienda. La controfigura politica di questa collaborazione è l’amministrazione locale che si svolge fino al parlamento nazionale e al governo dove i rappresentanti politici delle masse lavoratrici sono giunti per meglio servire la classe dominante borghese. Infatti, le poche leggi a favore di qualche esigenza proletaria, sebbene sempre a scartamento ridotto, sono dovute più alle dure lotte operaie di strada che non alle “accese” discussioni in parlamento; e sono leggi che, col tempo, il potere borghese si è rimangiato (come nel caso della scala mobile, dell’aborto ecc.). A settant’anni di democrazia parlamentare e di pace e benessere dalla fine della seconda guerra imperialista, i grandi istituti di statistica borghesi devono registrare che la “lotta contro la disoccupazione” è stata persa, la “lotta contro la povertà” è stata persa, la “lotta contro l’emarginazione” è stata persa, e che, anzi, disoccupazione, povertà, emarginazione sono ben presenti e tendono ad aumentare. La collaborazione di classe non ha migliorato le condizioni di vita delle masse proletarie, la pace imperialista non ha migliorato le condizioni dei popoli più arretrati.

L’imperialismo fa il suo corso. «L’imperialismo è l’èra del capitale finanziario e poi dei monopoli, che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio, non già alla libertà. Da tali tendenze risulta una intensa reazione, in tutti i campi, in qualsiasi regime politico, come pure uno straordinario acuirsi di tutti i contrasti anche in questo campo. Specialmente si acuisce l’oppressione delle nazionalità e la tendenza alle annessioni», si legge ancora nel volumetto di Lenin (5). Tutta questa attività non fa che spingere, come del resto avviene da decenni, una forte immigrazione dai paesi della periferia dell’imperialismo ai paesi più ricchi e ciò ha facilitato e generalizzato un fenomeno già conosciuto in Inghilterra nei primi decenni dell’Ottocento e riportato da Engels nel suo classico testo sulla Situazione della classe operaia in Inghilterra (6), e cioè la tendenza dell’imperialismo «a costituire tra i lavoratori categorie privilegiate e a staccarle dalla grande massa dei proletari», la famosa aristocrazia operaia. Ma la presenza di strati di aristocrazia operaia non esclude, anzi, conferma, la tendenza al peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita delle grandi masse proletarie che, nei paesi imperialisti, sono formate sempre più dall’insieme di proletari autoctoni e da proletari immigrati i quali, nella stragrande maggioranza, vanno ad occupare i posti peggio pagati ma, con la loro presenza, forniscono inconsapevolmente ai capitalisti uno strumento di concorrenza che serve per abbattere anche i salari ai proletari autoctoni, in modo tale che, aumentando la concorrenza borghese sui mercati la cui conseguenza è la tendenza a ridurre drasticamente i costi di produzione (tra cui il costo del lavoro), aumenta anche la concorrenza fra proletari e, come conseguenza immediata, aumenta in generale l’abbattimento dei salari. Le condizioni di esistenza del proletariato, soprattutto in periodo di crisi economica, peggiorano. Il benessere e la prosperità per tutti tanto propagandati in periodi precedenti, vanno a farsi friggere. Resta un peggioramento generalizzato dal quale i proletari faticheranno molto a risalire perché privi di organizzazioni di difesa classiste e di tradizione di lotta classista. Da questo abisso essi dovranno riguadagnare un terreno di lotta che oggi appare lontano e praticamente impossibile da riconquistare, ma che in realtà le stesse contraddizioni sociali del capitalismo oggettivamente contribuiranno a ricostituire e sul quale i proletari, se non vorranno piegarsi alle brutali condizioni di schiavitù che riserva loro il capitalismo, dovranno nuovamente camminare.

Strada lunga, ardua e faticosa, quella della ripresa della lotta di classe e dell’emancipazione proletaria. Ma è l’unica strada che la storia del movimento operaio internazionale e delle lotte rivoluzionarie del passato indichi. Non c’è scelta.

    


 

(1) Cfr. Lenin, Socialismo e religione, in Opere complete, Ed. Riuniti, vol. 10, Roma 1961, pp. 73-77.

(2) Vedi la presa di posizione di partito pubblicata ne “il comunista” n. 97-98, novembre 2005, e intitolata: Dopo Kabul, Mazar i Sharif, Bagdad, Fallujia, Tikrit, Mosul, Istanbul, Gerusalemme, Jenin, Gaza, Grozny, Mosca, New York, Madrid, ora è la volta di Londra, 7 luglio 2005. Al terrorismo degli Stati imperialisti più forti, fa da contraltare il terrorismo di movimenti confessionali del fondamentalismo islamico.

(3) Cfr. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere complete, Ed. Riuniti, vol. 22, Roma 1966, cap. VI, La spartizione del mondo tra le grandi potenze, pp. 254-265.

(4) Cfr. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, cit., cap. IX, Critica dell’imperialismo, p. 295.

(5) Cfr. Lenin, L’imperialismo..., cit., p. 296.

(6) Vedi F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845, Edizioni Rinascita, Roma 1955.

 

 

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