India

Ondata di scioperi nel settore automobilistico

(«il comunista»; N° 143;  Maggio 2016)

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Shining India, India splendente: questo è lo slogan usato dai borghesi per celebrare l’emergere dell’India come grande potenza capitalistica. I media ci hanno presentato molte storie sul successo di start-up a Bangalore, sulle nuove classi medie e su piccole fasce di iper-ricchi in città come Delhi e Mumbai.

La realtà è ben diversa: le masse indiane sono ancora più povere di quanto lo fossero 30 anni fa e il 40% dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione. Lo sviluppo industriale e il saccheggio delle risorse naturali in India hanno distrutto la vita e i mezzi di sussistenza di milioni di contadini, provocando quasi 200.000 suicidi di agricoltori in 15 anni. L’industria si è sviluppata, ma più di due terzi della popolazione è rurale e poco più della metà della popolazione attiva lavora nei campi. Il 15% della popolazione lavora nell’industria; grandi concentrazioni proletarie si sono avute nei settori tessile, chimico, alimentare, metallurgico, siderurgico ecc.

 

L’industria indiana colpita dalla crisi

 

Il settore dei «veicoli a motore» (tra cui quelli a tre e due ruote, che costituiscono la quota maggiore della produzione) rappresenta attualmente il 7% del PIL indiano e impiega quasi 20 milioni di lavoratori in India –  8 nella produzione e 12 nella distribuzione e nei servizi (1).

Il settore auto è uno dei più dinamici dell’economia del paese, trainato dalla domanda interna. Con il piano «Missione auto 2016-2026» annunciato nel settembre 2015 e la campagna «Made in India» lanciata nel 2014, il governo indiano vuole far leva su questo settore per sostenere la crescita economica e creare 65 milioni posti di lavoro diretti e indiretti.

L’India ambisce a diventare uno dei principali produttori mondiali di automobili e cerca di attirare gli investimenti stranieri attraverso una politica di incentivi fiscali, un sistema giuridico ispirato alla legge inglese e un costo del lavoro del 25% inferiore rispetto alla Cina. Sesto produttore mondiale con 23 milioni di veicoli prodotti nel 2013 (2), l’India spera di salire al quarto posto entro il 2016. A questo scopo, la borghesia cerca di attirare capitali e  quindi di ridurre il «costo del lavoro», che significa aumentare lo sfruttamento dei proletari. Come nelle metropoli imperialiste, questo si traduce in una riforma del «diritto» del lavoro. Questa riforma è stata presentata nell’ottobre 2014 dal primo ministro Modi. Applica le stesse ricette che sono in progetto in Francia o altrove: «semplificazione» di alcune leggi, ricorso sistematico a una manodopera più precaria e meno pagata, riduzione dei controlli sul lavoro ecc.  

L’obiettivo di sviluppare l’industria automobilistica, però, è oggi minacciato dalla crisi, che negli ultimi dodici mesi ha determinato un calo significativo: la produzione è scesa, infatti, di quasi due milioni di veicoli.

 

Reazioni proletarie contro il brutale sfruttamento

 

L’industria automobilistica è caratterizzata dalla precarietà dei lavoratori (assunti con contratti a breve termine: l’80% alla Maruti Suzuki, il 75% alla Ford e l’82% alla Hyundai), salari molto bassi, condizioni di lavoro ignobili con numerosissimi incidenti sul lavoro, forte presenza di terrorismo padronale nella repressione contro i sindacalisti combattivi e multe prelevate dal salario per coloro che non si adeguano del tutto al dispotismo... Ecco lo sfruttamento capitalistico in tutto il suo splendore!

Di fronte a questa situazione, i proletari si organizzano e resistono. Negli ultimi mesi, nel settore auto sono scoppiati molti conflitti. Nel corso delle ultime settimane, si sono avuti molti scioperi nelle fabbriche automobilistiche della Suzuki, della Tata e della Honda, e nelle fabbriche di accessori come Bosch, Rico e Pricol. Questi scioperi hanno come obiettivi aumenti salariali, miglioramento delle condizioni di lavoro e lotta contro il dispotismo padronale.

Alla Hero MotorCorp, azienda produttrice di due ruote, gli operai hanno organizzato un sit-in nella mensa della fabbrica per chiedere una retribuzione pari a quella degli operai della Honda Motor Company, di cui l’azienda fa parte. La direzione e il governo hanno risposto mandando la polizia per reprimere i proletari.

Nel periodo febbraio-marzo, centinaia di lavoratori della fabbrica Tata Motors di Sanand nello Stato di Gujarat hanno fatto uno sciopero di un mese per il reintegro di 28 lavoratori vittime della repressione padronale. La Tata ha dichiarato lo sciopero «illegale» e il governo regionale ha schierato orde di poliziotti per intimidire gli scioperanti e identificarne un certo numero. La direzione ha anche utilizzato dei crumiri – provenienti da altre fabbriche – per sostituire gli scioperanti e riavviare la produzione. 

A Tapukara, nello stato del Rajasthan nel nord-ovest del paese, l’Honda Motorcycle & Scooter India ha fatto ricorso a centinaia di poliziotti e teppisti per spezzare lo sciopero con occupazione di fabbrica da parte di oltre 1.500 lavoratori che rivendicavano un miglioramento delle condizioni di lavoro e il diritto di sindacalizzazione.

 

PCI / PCI (marxista): tirapiedi degli sfruttatori

 

       Non solo i proletari devono affrontare il fronte unito padroni- Stato, ma anche il collaborazionismo politico e sindacale egemonizzato dai partiti pseudo-comunisti – il PC indiano e il PC indiano (marxista). Questi partiti hanno in mano due delle maggiori confederazioni sindacali, l’All-India Trade Union Congress (AITUC) e il Centre of Indian Trade Unions (CITU) (altre due sono controllate dai borghesi del partito del Congresso e dell’ultra-nazionalista BJP).

Queste confederazioni, e i partiti che le dirigono, possono anche sventolare la bandiera rossa e la falce e martello, ma sono nemici del proletariato. Il PCI(M) è stato per quasi 35 anni alla testa del Bengala, insieme al PCI, nel quadro di un «Fronte di Sinistra». Il PCI(M) e i suoi alleati hanno condotto una brutale politica di repressione contro i contadini che si opponevano alla confisca delle loro terre a vantaggio dei capitalisti indiani o stranieri. Nel dicembre 2006, coloro che si sono opposti a un esproprio a favore di Tata sono stati selvaggiamente aggrediti e arrestati e una giovane donna è stata violentata e assassinata. Nel marzo 2007, militanti armati PCI(M) e poliziotti hanno attaccato dei contadini che opponevano resistenza a un esproprio forzato. In quell’occasione, più di 200 contadini furono feriti e 14 assassinati. Il PCI(M) si è comportato quindi come sabotatore dello sciopero nei confronti dei proletari in lotta.

A livello nazionale, i due partiti pseudo-comunisti agiscono da decenni come leccapiedi del Partito del Congresso, il principale partito della borghesia indiana.

 

PCI (maoista): i difensori della rivoluzione contadina

 

       L’altra forza che sventola la bandiera rossa è il PCI (maoista) nato nel 2004 dalla fusione di vari partiti maoisti «naxaliti». Questo partito sta conducendo una guerriglia rurale, che ha pomposamente battezzato con il nome di «guerra popolare di lunga durata». Per reprimere questa rivolta contadina, il governo ha lanciato l’Operazione Green Hunt... con l’appoggio degli pseudo-comunisti PCI e PCI(M). L’obiettivo primario dell’Operazione Green Hunt è quello di ripristinare il controllo dello stato indiano sulle zone insorte per impadronirsi delle terre e delle ricchezze del sottosuolo (carbone, calcare, bauxite ecc.).

I maoisti portano avanti una guerra contadina che raccoglie un ampio consenso fra le popolazioni tribali (80 milioni di Adivasi), le categorie più povere e più svantaggiate. Queste popolazioni, concentrate nelle foreste e nelle giungle, non hanno quasi accesso a scuole o servizi sanitari, soffrono di malnutrizione e sono in buona parte analfabete.

I maoisti rappresentano un’opposizione radicale al governo, ma su base piccolo-borghese. Il comunismo è totalmente estraneo al loro programma che essi definiscono così:

«Dunque, per riassumere, la nuova società che i maoisti vogliono instaurare sarà fondata sui seguenti elementi: La terra ai poveri e ai senza terra. Successivamente sarà adottata un’agricoltura cooperativa su base volontaria. La foresta alle popolazioni tribali. Fine al dominio dei ricchi e delle caste superiore nei villaggi e smantellamento del sistema delle caste. Porre fine a ogni discriminazione basata sul sesso e la religione. Sequestro dei beni depredati (sic!) e delle attività delle multinazionali e dei loro partner locali indiani. Autodeterminazione per le nazionalità, autonomia politica per le tribù. Istituzione di uno Stato per i poveri e ad opera dei poveri, nel quale gli sfruttatori di oggi saranno espropriati. Partecipazione del popolo ai compiti amministrativi e nel processo decisionale. Democrazia realmente di base in cui il popolo ha il potere di revocare i suoi rappresentanti democratici» (3).

Questa corrente non lotta, a suo dire, per la rivoluzione proletaria, ma per una «nuova rivoluzione democratica» sul modello cinese, vale a dire una rivoluzione borghese sostenuta dai contadini. In questo scenario, il proletariato urbano gioca, nella migliore delle ipotesi, soltanto il ruolo di spettatore passivo.

 Ma nei paesi «periferici» come nelle metropoli capitalistiche, non esiste più che un solo sbocco: la rivoluzione proletaria.

Oggi, la situazione economica e sociale dell’India è capitalista, nonostante l’importanza ancora molto forte dell’agricoltura e la sopravvivenza di tratti arcaici (basti pensare al sistema delle caste).

Ancor più che al tempo di Marx, bisogna respingere qualsiasi unione fra le classi e costruire un’organizzazione indipendente del proletariato. I proletari «debbono dare l’essenziale per la loro vittoria finale chiarendo a se stessi i loro propri interessi di classe, assumendo il più presto possibile una posizione indipendente di partito, e non lasciando che le frasi ipocrite dei piccolo borghesi democratici li sviino nemmeno per un istante dalla organizzazione indipendente del partito del proletariato. Il ooro grido di battaglia deve essere: La rivoluzione in permanenza!». Questo è ciò che scrivevano Marx ed Engels nell’Indirizzo del Comitato centrale alla Lega dei  comunisti nel marzo 1850 (4), in un’epoca in cui in Germania la rivoluzione borghese era ancora all’ordine del giorno.

È questo vecchio grido di battaglia che, in India, un paese in cui non è più all’ordine del giorno la rivoluzione borghese, il proletariato deve gettare in faccia alla borghesia e ai suoi servi, compresi quelli che si ammantano della bandiera rossa.

Dovrà tradursi in un ritorno alla lotta aperta con mezzi e rivendicazioni di classe – che voltino nettamente le spalle alle parole d’ordine democratiche, al nazionalismo e alle divisioni comunitarie – e attraverso la costituzione del partito di classe che manca così gravemente ai proletari dell’India, dell’Asia del Sud e del mondo.

 


 

(1)www.siamindia.com/statistics.aspx?mpgid=8&pgidtrail=13

(2)http://export.businessfrance.fr/conseil-export/001B1600306A+le-marche-automobile-en-inde-2016.html?  SourceSiteMap=168

(3) Cfr. «Guerre contre les maoïstes: Mais qui sont-ils et que veulent-ils?», La Guerre populaire en Inde, opuscolo pubblicato dal Partito Comunista Maoista di Francia.

(4) Cfr. Marx-Engels, Opere complete, vol. X, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 287-288.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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