A quando un 1° Maggio dei lavoratori?

(«il comunista»; N° 143;  Maggio 2016)

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Non abbiamo particolari tenerezze per le ricorrenze solenni, per le celebrazioni a data fissa. Il movimento proletario è fatto di lavoro oscuro, impersonale e quotidiano, non di esibizioni saltuarie e di parate. E tuttavia, ogni anno lo spettacolo del rosso Primo Maggio vestito in tricolore e avvolto in nuvole d’incenso ci rimescola il sangue.

I cinque impiccati di Chicago combatterono nel maggio 1886, e caddero, in una lotta che non conosceva frontiere; il loro sacrificio non appartiene ad un proletariato nazionale, meno che mai ad una “nazione”, ma al proletariato di tutti i Paesi. Erano membri attivi di un’organizzazione rivoluzionaria, ideologicamente ancora gracile ma genuinamente e gagliardamente classista, erano antiriformisti ed antischedaioli. Non si appellavano a costituzioni solenni o a codici scritti e non-scritti; sapevano di violarli, prevedevano di tirarseli addosso in tutta la pompa dei loro articoli-capestro. Rappresentavano ottantamila scioperanti che per quattro giorni tennero in iscacco l’apparato di difesa della classe dominante; non marciavano alla testa di cortei affiancanti operai e bottegai, braccianti ed usurai o sbirri. Penzolarono dalle forche non del fascismo ma della democrazia, simboli di una società irrimediabilmente divisa in classi antagoniste, non di una ipotetica nazione unita in blocco nel rispetto della legge o dei precetti cristiani. Il Primo Maggio fu scelto dal movimento proletario internazionale in loro onore, e a monito della solidarietà internazionale dei lavoratori contro il Capitale; la sua bandiera fu rossa dovunque, contro i mille colori degli stendardi dei detentori di una patria, venerata e coccolata come i conti in banca.

Una genia di traditori scende oggi nelle piazze a celebrare un Primo Maggio patriottico, costituzionale, democratico, legalitario, interclassita e banchettone, fra messe e fanfare nazionali, fra genuflessioni e abbracci; intona il Biancofiore e l’Inno di Mameli a maggior gloria dell’infame società cui diedero la scalata i federati di Parigi, i martiri di Chicago, la santa canaglia in tuta o in casacca marinara di Pietroburgo e di Berlino, e che rispose loro col piombo e con la forza: il Primo Maggio di Giuda. La classe dominante ha chiesto e chiede le vite dei dominati; non contenta, intreccia su di esse la sua macabra danza.

Tornerà il Primo Maggio proletario: sarà il giorno non della grande capitolazione, ma della grande sfida.

A quando?

 

Lo scrivevamo per il 1° maggio del 1957. Da allora che cosa è successo? Si è avvicinato il Primo Maggio proletario, la giornata in cui i proletari di ogni età, di ogni categoria o settore, di ogni paese rinsaldano in una giornata di lotta la loro alleanza di classe?

Da allora si sono svolte molte lotte, ci sono stati molti scioperi, e molti scontri con le forze dell'ordine di un sistema che tollera la lotta operaia soltanto se si svolge nei limiti delle compatibilità con gli interessi economici, sociali e politici del padronato, della classe borghese dominante. Lotte sempre guidate e condizionate dai sindacati, che tutto sono meno che organizzazioni di classe dedite alla difesa esclusiva degli interessi proletari. Il collaborazionismo a livello sindacale e politico - ossia la politica della sottomissione della classe operaia ai dettami degli interessi del capitalismo presentata come unica soluzione per ottenere il meno peggio che la società borghese riserva alla classe lavoratrice - ricostituitosi già durante la seconda guerra mondiale sulle stesse tracce lasciate dal fascismo, è la forma moderna dell'opportunismo che ha intossicato le generazioni proletarie dopo le tremende sconfitte subite a causa della controrivoluzione staliniana che sconfisse  il movimento proletario rivoluzionario internazionale e la Rivoluzione bolscevica ai tempi di Lenin  con cui aveva tentato l'assalto al cielo anche nelle capitali europee.

Le contraddizioni sociali, che lo sviluppo capitalistico non fa che acutizzare e ingigantire, non lasciano "spazi vuoti", non danno alternative pacifiche all'antagonismo di classe che caratterizza la società capitalistica: la borghesia è sempre in guerra, nella concorrenza mercantile e finanziara contro la borghesia degli altri paesi, e "in patria" contro l'unica classe che storicamente ha avuto, ha e avrà la possibilità di opporlesi come forza rivoluzionaria, il proletariato.

Il collaborazionismo ha una missione vitale per il mantenimento del dominio borghese sulla società: far passare nelle file proletarie  rivendicazioni e obiettivi che  danneggino il meno possibile gli interessi dei capitalisti, e se le lotte operaie comportano dei danni agli interessi padronali, che il danno per gli operai sia sempre maggiore di quello subito dai padroni.

Dalla fine del secondo macello imperialistico in poi, e grazie alle enormi distruzioni della guerra, il capitalismo ha conosciuto alcuni decenni di sviluppo che sembrava inarrestabile; questa crescita economica ha consentito ai poteri borghesi, aiutati e sostenuti dalle forze del moderno opportunismo nazionalcomunista, e perciò socialsciovinista, di gestire il loro dominio sulla società non solo attraverso le classiche forme di violenza e di repressione, legali e illegali, che ogni Stato ha adottato (da Portella delle Ginestre ai fatti del giugno-luglio 1960, al G8 di Genova del 2001, per rimanere soltanto all'Italia), ma anche distribuendo infinitesime quote di profitto al proletariato per tacitarne le esigenze più impellenti e per trasformare gli strati proletari più alti e professionalmente qualificati in consumatori ossessionati dal possesso di ogni "novità" di mercato, dall'automobile al televisore, dall'arredamento ultimo grido alle griffe della moda, dall'acquisto della casa alle polizze assicurative e all'investimento dei propri risparmi.

L'opportunismo ha sempre agito con un certo successo grazie alle basi materiali su cui poteva contare e che gli hanno permesso per lungo tempo, e gli permettono tuttora, di imborghesire gli strati proletari più alti - la famosa aristocrazia operaia -, schiacciando nello stesso tempo gli strati più bassi, che poi sono la maggioranza della classe proletaria, in condizioni sempre più insicure e precarie tali da vanificare quasi completamente la difesa di "diritti" proletari che la borghesia ha acconsentito di scrivere nelle sue carte costituzionali e nelle sue leggi, sapendo perfettamente che quei "diritti" se non sono sostenuti dalla forza non valgono nulla e sono solo fumo negli occhi!

Le basi materiali su cui l'opportunismo collaborazionista ha potuto contare in tutti questi decenni sono sia di ordine economico e sociale, che politico; basi che sono state rafforzate dal riconocimento delle organizzazioni collaborazioniste - i sindacati tricolore e i partiti democratici e parlamentari, innazitutto - come le uniche "rappresentanti" delle classi lavoratrici con cui lo Stato borghese, i governi e le associazioni padronali contrattano e firmano accordi.

Persa inevitabilmente, sotto i colpi della controrivoluzione borghese e stalinista, la spinta di classe che la vittoria rivoluzionaria in Russia nel 1917 aveva diffuso in tutto il mondo, il proletariato dei paesi capitalistici avanzati, dopo che le sue organizzazioni sindacali di classe e i partiti comunisti rivoluzionari furono distrutti e sostituiti con organizzazioni borghesi - anche se travestite da socialiste e comuniste - non poteva che precipitare nelle illusioni che la democrazia borghese alimenta da sempre (parlamentarismo, pacifismo, condivisione degli obiettivi e degli interessi borghesi, patriottismo ecc.).

Sperando che la borghesia, dopo gli orrori del nazifascismo e della guerra mondiale, avrebbe abbandonato la spietata corsa al profitto mitigando le sue pretese e lasciandogli la possibilità di "emanciparsi" dalle condizioni di completa soggezione sociale e politica e di "esprimere" le proprie esigenze attraverso gli strumenti politici e giuridici che la borghesia stessa aveva ricostituito dopo la caduta del fascismo, il proletariato non faceva che sprofondare sempre più nelle sabbie mobili della democrazia borghese. Una democrazia, oltretutto, che non era più la democrazia liberale che ancora esisteva a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, ma che si era trasformata, senza alcuna possibilità di un "ritorno al passato", in una democrazia fascistizzata molto più utile ai poteri borghesi che, dopo la seconda guerra mondiale, doveva scontrarsi a livello internazionale con una concorrenza sempre più agguerrita e con contrasti interimperialistici che inevitabilmente sboccavano, ora in una zona ora in un'altra del pianeta, in guerre guerreggiate.

La pace tanto propagandata da tutte le democrazie del mondo e tanto  innalzata ai sette cieli dai falsi socialismi staliniani e post-staliniani, è diventata sempre più un articolo di commercio introvabile.

Nel corso degli anni, le date che un tempo emozionavano i cuori proletari, come il 7 novembre per la rivoluzione russa del 1917, il primo maggio come giornata di lotta anticapitalistica dei proletari di tutto il mondo, l'8 marzo come giornata di lotta della donna proletaria, sono diventate occasioni esclusivamente commerciali e di propaganda del collaborazionismo interclassista. Svuotate le lotte proletarie del loro contenuto originale di antagonismo verso una società vampiresca e massacratrice di lavoratori e di popoli emarginati, era inevitabile che anche le date che mondialmente rappresentavano un "appuntamento" di fraterna alleanza di classe e di ribadita volontà di lotta contro il capitalismo, si svuotassero completamente e si trasformassero in un inno, recitato in mille forme diverse, al dominio incontrastato della classe borghese.

Ma lo spettro della lotta di classe, di un proletariato che si risveglia da un lungo letargo e che trova la forza, nella propria lotta, di disintossicarsi dal veleno democratico, pacifista, collaborazionista; che trova la forza di combattere l'individualismo e ogni forma di attaccamento piccoloborghese al proprio orticello, alla propria sfera privata, al proprio misero presente, per congiungersi nuovamente con la prospettiva di classe che accomuna i proletari di qualsiasi condizione e di qualsiasi paese, con la prospettiva di una emancipazione non tanto dalla fatica del lavoro salariato ma dal lavoro salariato in quanto tale; lo spettro di una lotta proletaria che non si ferma alla rivendicazione di un posto di lavoro, di un salario, di una casa, di una vita decente, ma che si lancia ben oltre i limiti della contrattazione e delle leggi borghesi, al fine di sovvertire da cima a fondo l'organizzazione sociale esistente per togliere di mezzo non solo ogni forma di oppressione, ma soprattutto per riorganizzare la società intera su basi  totalmente diverse che non generano più contrasti e antagonismi di classe perché le classi non ci saranno più in quanto la produzione sociale sarà stata liberata dalla appropriazione privata che caratterizza la società borghese; non vi sarà più mercato, moneta, capitale e il lavoro non sarà più salariato, ma sarà lavoro semplicemente umano, attività sociale organizzata razionalmente sull'intero pianeta e volta a soddisfare le esigenze di vita della specie umana nella migliore armonia possibile con la natura.

Lo spettro della lotta di classe è lo spettro del comunismo; è lo spettro della fine definitiva del dominio di classe borghese sulla società. Ed è talmente forte ancora nella memoria delle classi dominanti borghesi la paura provata negli anni Venti del secolo scorso in cui il loro potere vacillò sotto i colpi dell'assalto rivoluzionario proletario alle loro cittadelle, che ogni borghesia nazionale non risparmia tempo, soldi, energie, pur di tenere ben lubrificata la macchina del collaborazionismo sindacale e politico. Se poi, per tenere lubrificata questa macchina di controllo sociale, serve dare spazio ed eccezionale visibilità ad un nuovo Papa trasformandolo in un simpatico istrione poggiante sulla sua attività di infaticabile propagandista di una pace e di una fratellanza che mai questa società del profitto e dell'oppressione sistematica potrà dare all'umanità, ben venga anche l'apporto religioso. L'importante è che la rabbia per la vita di stenti e di miseria a cui strati sempre più vasti di proletari sono costretti, sia indirizzata non verso l'antagonismo di classe, ma verso la pietà per i derelitti, per i "più sfortunati", per coloro che subiscono la fatalità delle guerre e delle repressioni, considerata alla stessa stregua della fatalità dei terremoti e delle carestie!

Noi, comunisti rivoluzionari, considerati visionari e incapaci di staccarci da un passato "che non tornerà più", sappiamo che il proletariato non riprenderà il suo cammino di classe se non si collegherà al suo passato di classe, alle lotte che ne hanno segnato la vitalità storica.

La classe proletaria non è una semplice somma numerica di milioni e milioni di individui che vivono nelle condizioni proletarie, ossia di senza-riserve. La classe proletaria è classe perché, nella storia della formazione e dello sviluppo della società borghese, il capitale per accumularsi e per valorizzarsi ha dovuto trasformare masse sempre più vaste di contadini, artigiani, bottegai ecc., una volta spogliate dei loro beni e dei loro averi, in lavoratori salariati, ossia in forza lavoro che a disposizione non aveva altro che la propria forza fisica da applicare in modo associato ad un lavoro organizzato dai possessori di capitale. Lavoro contro salario, questa è stata ed è la situazione in cui i proletari si sono trovati e si trovano in una società in cui ogni prodotto, ogni valore d'uso è trasformato in valore di scambio. Nel mercato, nello scambio tra merce e denaro, si decide la sopravvivenza degli uomini. Coloro che hanno in mano non solo i mezzi di produzione, ma soprattutto la produzione, cioè i capitalisti, hanno in mano la vita dei produttori, dei lavoratori salariati che non posseggono altro che le braccia e mente da offrire a chi può sfruttarle contro un salario. I proletari, cioè i senza-riserve, non potranno mai avere gli stessi interessi dei capitalisti, ossia di coloro che li sfruttano per accumulare e valorizzare il loro capitale. Più si allarga e si intensifica lo sfruttamento del lavoro salariato, più aumenta e si rafforza il dominio del capitale sul lavoro salariato, più si rafforza il dominio economico, sociale e politico della classe che detiene il capitale, la classe borghese.

I proletari, nella loro condizione di forza lavoro salariata, subiscono inesorabilmente la pressione capitalistica; sono costretti ad essere sfruttati per sopravvivere. Ma nella loro condizione di produttori della ricchezza sociale, rappresentano una forza sociale in grado di opporsi allo sfruttamento sempre più intenso: associati nel lavoro in fabbrica dallo stesso capitalista che, grazie al lavoro associato, ottiene una produzione più redditizia, possono associarsi per opporsi alla intensificazione dello sfruttamento e sulla base di questa opposizione possono aspirare ad obiettivi ben più alti e vasti. La storia delle lotte di classe dimostra che è l'organizzazione indipendente dei proletari ad avere la possibilità non solo di opporsi ad uno sfruttamento capitalistico più bestiale, ma di aumentare la loro forza contrattuale ed ottenere miglioramenti anche sensibili nelle loro condizioni di lavoro e di vita. La legge inglese sulle 10 ore lavorative giornaliere e la legge successiva delle 8 ore giornaliere sono miglioramenti sensibili, certo, ottenuti grazie alle lotte di classe, quindi alle lotte condotte da organizzazioni proletarie indipendenti. Sappiamo che scritta una legge i capitalisti, se questa legge non difende effettivamente gli interessi di ogni singolo capitalista, trovano mille occasioni e sotterfugi per aggirarla. Il lavoro nero, il lavoro flessibile, il precariato organizzato sistematicamente, sono alla portata costante di ogni capitalista. In mancanza di organizzazioni proletarie indipendenti di classe - come ormai da tanti decenni - queste attività illegali e questi sotterfugi sono sbarcati sul piano di accordi e di leggi. Oggi, mille articoli e accordi specifici che hanno il vanto di avere la patente della legalità nascondono in realtà il "lavoro nero", e ciò colpisce soprattutto la manodopera immigrata, clandestina per necessità e non per "scelta".

Dunque, aver distrutto le organizzazioni proletarie indipendenti, sostituendole con organizzazioni sindacali collaborazioniste, ha facilitato enormemente il compito della classe borghese dominante nella sua attività di controllo sociale. Un esempio? Il diritto di sciopero non è stato sospeso (siamo in democrazia, che diamine!), solo che viene esercitato in modo che non comporti alcun danno ai capitalisti. I lavoratori perdono salario nelle ore e nei giorni di sciopero, ma non ottengono praticamente nulla: danneggiano di fatto solo se stessi. E' uno dei modi democratici di trasformare un'arma, con cui gli operai dovrebbero costringere i padroni a venire a patti sulle proprie richieste, in un boomerang.

Alla lunga, invece di scioperare, i lavoratori vengono convinti a mettersi sempre più in mano ai professionisti del collaborazionismo sindacale perché negozino con le "controparti", padroni o enti pubblici che siano; se non otterranno nulla, i proletari non hanno perso salario in scioperi che comunque non avrebbero portato a nulla lo stesso; se ottengono qualche briciola sarà sempre qualcosa che prima non avevano e che hanno ottenuto senza dover perdere salario: questo è il ragionamento tipico del professionista del collaborazionismo che ha tutto l'interesse di dimostrare che la sua attività è indispensabile ai proletari in modo da tenerli avvinti al carro borghese.

Ma i proletari, pur non avendo oggi nemmeno la percezione di rappresentare un forza storica formidabile, l'unica capace di rivoluzionare la società attuale dal sistema di sfruttamento dell'uomo sull'uomo ad un sistema di armonia sociale da cui sono scomparse tutte le possibili forme di oppressione e di divisione in classi, costituiscono comunque la massa produttrice indispensabile per il capitalismo: solo dallo sfruttamento del lavoro salariato i capitalisti traggono il loro guadagno e il capitale - vera entità dominante sulla società e sugli stessi capitalisti - si valorizza. Per quante innovazioni tecniche vengano applicate alla produzione, e per quanti automatismi vengano innestati nei processi lavorativi, il capitale non potrà mai fare a meno del lavoro umano degli operai: è dal tempo di lavoro non pagato agli operai che il capitalista trae il suo profitto. Il marxismo, scoperto l'arcano del guadagno del capitalista nel pluslavoro - appunto nel tempo di lavoro non pagato all'operaio - che genera il plusvalore, ha nello stesso tempo dimostrato che il capitalismo ha un suo limite rispetto allo sviluppo delle forze produttive proprio nel suo essere lo sfruttatore del lavoro salariato e nel dover valorizzare il capitale investito attraverso gli scambi nel mercato.

Le crisi di sovraproduzione definiscono l'impossibilità del capitalismo di svilupparsi costantemente e pacificamente senza intoppi: esso deve produrre sempre più merci per far marciare i mezzi di produzione al massimo della loro potenzialità, ma quelle merci ad un certo punto non trovano più sbocco nel mercato, non sono più vendibili al prezzo che assicuri un tasso medio di profitto e perciò devono essere distrutte e far posto ad altre merci, ad altra produzione, in una spirale continua di eccesso di produzione per il mercato (eccesso di merci ed eccesso di capitali) e di impossibilità di trasformare tutte le merci prodotte in denaro. La guerra di concorrenza è inevitabile, la guerra comporta distruzione, la società precipita nella barbarie. E questo non succede solo alla produzione ma anche ai produttori: lo sviluppo del capitalismo porta ad un eccesso di popolazione proletaria, aumenta la produttività del lavoro e diminuisce la quantità di lavoratori occupati, aumenta  perciò la disoccupazione. La classe dominante borghese, mentre fa progredire le tecniche industriali, non riesce a sfamare l'intera popolazione proletaria del mondo!

Guerre, carestie, misera crescente: masse proletarie sempre più vaste migrano verso luoghi dove non c'è la guerra, dove la carestia non ha colpito, dove la miseria è a livelli minimi. La speranza di sopravvivere per i proletari di ogni parte del mondo è legata ad un filo tenuto in mano dai borghesi: se conviene economicamente, socialmente, politicamente, i borghesi quel filo lo mantengono, ma, se non conviene, quel filo viene spezzato e i proletari precipitano nella disperazione e nella morte. Da anni, le coste italiane, greche, turche, spagnole, maltesi, cipriote, tunisine, libiche, egiziane, marocchine, libanesi conoscono il passaggio e l'arrivo di masse di migranti che hanno in generale un solo obiettivo: scappare da paesi dove la speranza di un futuro prossimo, se non dello stesso presente, è cancellata. Il capitalismo, in tanti anni di storia e di progresso, non ha risolto il problema principale per la specie umana: nutrirsi regolarmente tutti i giorni! Il capitalismo ha trasformato la maggioranza della popolazione mondiale in schiavi salariati e il potere che esercita la classe borghese è volto a mantenere quella maggioranza della popolazione mondiale nella schiavitù del lavoro salariato.

La classe borghese dominante non è più capace di garantire l'esistenza ai propri schiavi salariati neppure all'interno delle condizioni della loro schiavitù (Manifesto del partito comunista, Marx-Engels, 1848); i proletari sono costretti a sprofondare in una situazione di sopravvivenza del tutto precaria, e la borghesia, invece di essere nutrita da loro, dal loro lavoro salariato, dal loro sfruttamento, è costretta a nutrirli. La fioritura continua di enti caritatevoli e di beneficienza atti a soccorrere in qualche modo masse sempre più vaste di disoccupati, di emarginati, di disperati, sta a dimostrare che la classe dominante borghese, nonostante il progresso tecnologico e industriale, costituisce un danno e non un vantaggio per la specie umana.

La classe dei proletari, dei lavoratori salariati, dei senza-riserve, la classe spossessata di ogni risorsa e della stessa vita, sotto il gioco del dominio borghese è una classe di schiavi moderni che con il loro lavoro non fanno che rafforzare le catene della propria schiavitù. L'unico modo per emanciparsi da questa schiavitù è spezzare le catene.

Dove trovare la forza per sollevarsi e spezzare quelle catene? I proletari, quella forza, la possiedono solo nella propria organizzazione indipendente di classe, nella lotta in difesa esclusiva dei propri interessi di classe e nella guida del partito di classe, quel partito che il Manifesto del 1848 indica come la risposta dialettica all'antagonismo tra le classi e alla lotta che la classe proletaria è costretta, per sopravvivere, a condurre contro la classe dominante borghese.

I proletari, spinti inesorabilmente dalle contraddizioni sempre più acute della società borghese, dalla necessità di reagire con forza alla pressione sempre più tremenda delle forze della conservazione sociale e dal pericolo di precipitare negli abissi della miseria e della guerra imperialista, agiranno prima di tutto per difendere la propria vita di schiavi salariati e, nella lotta contro nemici che non avranno mai alcuno scrupolo nell'adottare distruzioni e massacri pur di mantenere i propri privilegi, impareranno nuovamente a superare i confini dell'ordinamento borghese e a porsi obiettivi politici ben più alti e decisivi come la conquista rivoluzionaria del potere, rinnovando l'assalto al cielo dei Comunardi parigini del 1871 e la rivoluzione dei proletari comunisti russi nell'Ottobre 1917 con i loro 10 giorni che sconvolsero il mondo.        

Il proletariato, abbattuto e demoralizzato da tanti anni di lotte inefficaci e da un atteso benessere che la democrazia resistenziale avrebbe portato ma che in realtà non è mai arrivato se non per breve tempo e per una piccola parte di proletari; illuso e confuso da decenni di contorsioni elettorali e parlamentari che hanno in realtà rivelato come la corruzione mercantile impregni ogni poro della società; avvilito e disarmato sul piano della difesa immediata come su quello politico più generale; asservito sempre più agli interessi borghesi in forza dei quali le sue condizioni di lavoro e di vita peggiorano sistematicamente: questo proletariato, come potrà risalire dall'abisso in cui è stato fatto precipitare?

I fatti materiali e gli avvenimenti storici sfavorevoli hanno determinato la sconfitta del movimento proletario rivoluzionario negli anni Venti del secolo scorso. La teoria marxista, al contrario, non è stata sconfitta, ma ha trovato conferme su conferme; basta soltanto esaminare la ciclicità delle crisi di sovraproduzione capitalistica, la sempre più sfrenata lotta di concorrenza e i sempre più acuti contrasti fra le potenze imperialistiche per riconoscere nell'analisi della società borghese e del suo inevitabile sviluppo verso la catastrofe economica e sociale fatta dal marxismo, come sia corretta e scientifica la sua anticipazione.

Sono le forze sociali e lo scontro fra le classi che muovono la storia, non la volontà o l'azione del tale o tal altro governante o capo politico o militare. I fattori che cooperano alla maturazione delle situazioni storiche per cui lo sbocco rivoluzionario si rende oggettivamente necessario - come per la rivoluzione borghese di ieri così per la rivoluzione proletaria di domani - devono combinarsi favorevolmente sia sul piano della lotta proletaria indipendente, che su quello politico dal punto di vista dell'influenza del partito di classe sul proletariato, come su quello dell'incertezza e della debolezza del potere borghese scosso dalla sua crisi di regime, e sul piano internazionale in quanto movimento operaio in moto nei diversi paesi più importanti.

Più il capitalismo si è sviluppato diffondendosi e radicandosi nei paesi del mondo, più i fattori di difesa della conservazione sociale borghese si sono ampliati e rafforzati; ma, nello stesso tempo, si è andata formando una gigatesca massa proletaria diffusa in tutto il mondo e, con essa, si sono innestate in ogni paese lotte proletarie per condizioni salariali e di vita migliori. Qua e là la lotta prorompe in sommosse. Ogni tanto vincono gli operai, ma solo transitoriamente (il Manifesto del 1848).

La lotta proletaria non è più caratteristica di un piccolo numero di paesi capitalistici avanzati, ma è diventata la norma per ogni paese, anche per quelli capitalisticamente arretrati. Dal punto di vista del corso storico questo è un fatto di grande importanza, perché quando si presenteranno i fattori favorevoli alla ripresa della lotta di classe e alla lotta rivoluzionaria, il teatro dello scontro di classe fra borghesia e proletariato non sarà più limitato a pochissimi paesi come succedeva tra l'Ottocento e il Novecento, ma coinvolgerà molti paesi e, quindi i loro proletari. Proletari di tutto il mondo unitevi!, non sarà più soltanto un appello, ma sarà un fatto concreto basato su esperienze effettive di lotta.

In questa prospettiva si fa ancor più indispensabile il lavoro di riacquisizione teorica del marxismo, nella sua originaria invarianza, perché la lotta proletaria di classe, quando esploderà nuovamente nelle metropoli imperialistiche come nelle capitali dei paesi cosiddetti emergenti, dovrà poter contare su di un partito di classe già esistente, anche se nella forma embrionale, ma saldamente ancorato alla teoria marxista e ai bilanci dinamici dei grandi svolti della storia avendo tratto le vitali lezioni delle controrivoluzioni.

Noi, comunisti del Partito Comunista Internazionale, ci siamo assunti il compito di lavorare alla formazione del partito di classe compatto e potente di domani sulla base di quei bilanci e di quelle lezioni. Questa è la nostra sfida.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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