Alcune definizioni dal punto di vista marxista.

Modo di produzione capitalistico, classi sociali, lotta di classe, produzione di merci, legge del valore, salario, plusvalore, profitto, accumulazione capitalistica, crisi, Stato, rivoluzione, dittatura di classe, imperialismo, antimperialismo, opportunismo, crescita delle ineguaglianze

(Supplemento al numero 144 di «il comunista»; Luglio 2016)

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1.Esistenza delle classi sociali

 

1.1. Nell’introduzione alla “Critica dell’economia politica” Marx scrive: “nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali”. Questi rapporti di produzione costituiscono la base di un dato modo di produzione, in cui gli individui sono collocati in particolari “classi sociali”. Contrariamente alle affermazioni della sociologia borghese volgare che le classifica in base alla loro ricchezza, non sono il reddito o il livello di vita a determinarne il posto in una classe o in un’altra, ma la loro posizione sociale. Per esempio, un piccolo contadino o un artigiano può anche avere un livello di vita inferiore a quello di un proletario, ma dovrà tuttavia essere collocato fra i piccoli borghesi in quanto possiedono i loro strumenti di lavoro (o la terra); il proletario, invece, non possiede nulla ed è quindi costretto a vendersi a un padrone e a farsi sfruttare per vivere. Questa diversa posizione sociale determina le differenti potenzialità e l’azione storica delle classi: soltanto la classe proletaria è non solo storicamente in totale opposizione con il modo di produzione capitalistico, ma è l’unica ad avere la possibilità di porvi fine; tutte le altre classi più o meno possidenti possono al massimo ipotizzare dei rimaneggiamenti di questo modo di produzione che non possono far altro che difendere contro il proletariato.

 

1.2. I differenti modi di produzione. Le grandi forme storiche della produzione sociale possono essere divise in cinque forme successive: comunismo primitivo, che è la prima forma di organizzazione sociale degli esseri umani; forma secondaria, con le sue varianti asiatica (o modo di produzione asiatico), antica classica e germanica; feudalesimo (terza forma); capitalismo (quarta forma); socialismo, che è la quinta e ultima forma.

Il comunismo primitivo è in assoluto la forma che è durata più a lungo perché va dagli esordi dell’umanità fino all’epoca attuale dove è ancora presente nelle zone arretrate di tribù ancora a questo stadio; avendo un limitatissimo livello di forze produttive (non è presente l’agricoltura), è caratterizzato dal carattere collettivo della produzione e del consumo: assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione e dei prodotti. I “cacciatori-raccoglitori” cacciano e raccolgono collettivamente e si dividono i prodotti di queste attività: la divisione del lavoro è di natura biologica, cioè in base al sesso e all’età (le donne e i bambini non praticano le attività più pericolose o quelle che richiedono un grande sforzo fisico ecc.). Non esistono classi sociali, né Stato, l’organizzazione della vita è comunitaria (sulla base del “gruppo”, dell’”orda”, della “tribù” ecc.) e le tensioni, gli scontri e le guerre esistono solo nei confronti di altre comunità (per i territori di caccia ecc.)

Le diverse varianti di forme secondarie sono basate sull’agricoltura e la comparsa della proprietà privata dei mezzi di produzione (terra, attrezzi, schiavi) e dei prodotti. Come corollario appaiono lo Stato e la sua burocrazia più o meno potenti e dispotici a seconda del grado di sviluppo della produzione e delle necessità di quest’ultima (per es., gli Stati “asiatici” indispensabili  a un certo livello per organizzare e regolare l’irrigazione per l’agricoltura ecc.). Comparsa della moneta e sviluppo dei rapporti mercantili, comparsa delle classi sociali e degli scontri fra di esse.

Sotto il feudalesimo (terza grande forma) l’agricoltura è sempre la base economica, ma compare la separazione dell’artigianato e della manifattura da quest’ultima; sviluppo delle città che non sono più solo centri politici e amministrativi, ma diventano anche centri produttivi; la proprietà privata della terra, che spesso non è individuale (proprietà dei signori, degli ordini religiosi ecc.) su cui lavorano, oltre che sul proprio appezzamento, dei contadini, i quali non possono rompere i legami che li tengono asserviti ai proprietari, è la principale fonte di ricchezza. I grandi proprietari fondiari sono la classe dominante (divisi in “ordini” che hanno uno statuto privilegiato rispetto al resto della popolazione), ma fanno la loro comparsa i “borghesi”, gli abitanti dei borghi, che vivono e si arricchiscono con l’attività economica urbana. Si sviluppa la produzione mercantile e contemporaneamente il denaro (circolazione della moneta), i prestiti ecc.

Questo sviluppo economico spinge anche alla centralizzazione dello Stato (monarchie assolute) per superare la frammentazione economica e politica tipica del feudalesimo. Il feudalesimo resiste all’azione disgregante del denaro sui rapporti sociali riservandone la gestione a una categoria limitata della popolazione, che per di più è tenuta al di fuori della comunità: gli ebrei.  Il lento sviluppo economico richiede anche il graduale rafforzamento dello Stato centrale (monarchia).

«Non appena i mezzi di produzione divennero sociali e furono concentrati nelle mani dei capitalisti, tutto mutò. Il mezzo di produzione, così come il prodotto del piccolo produttore individuale, perdette sempre più valore e a costui non restò altro che andare a salario presso il capitalista. Il lavoro salariato, prima eccezione e occupazione sussidiaria, divenne regola e forma fondamentale di tutta la produzione; prima occupazione accessoria, diventò ora l’attività esclusiva dell’operaio. Il salariato temporaneo si trasformò in salariato a vita. La quantità dei salariati a vita fu inoltre smisuratamente accresciuta dal contemporaneo crollo dell’ordinamento feudale, dalla dispersione del personale dei signori feudali, dall’espulsione dei contadini dalle loro fattorie, ecc. La separazione tra i mezzi di produzione concentrati nelle mani dei capitalisti e i produttori, ridotti a non possedere altro che la loro forza-lavoro, divenne perfetta. La contraddizione tra produzione sociale e appropriazione capitalistica si presentò come antagonismo tra proletariato e borghesia».

(Engels, Antidhüring, 1877-78)

Sotto il capitalismo (quarta forma) i rapporti mercantili sono la regola, anche per quanto riguarda i rapporti tra gli uomini: non ci sono più legami, né corporativi né di dipendenza personale (comunità, servitù ecc.) a vincolare il lavoro;  il lavoratore è “liberato” da tutto, compresa qualunque forma di proprietà: non possedendo nulla, per vivere non può far altro che vendere a un padrone, in cambio di un salario, la sua forza lavoro: la generalizzazione del lavoro salariato è un tratto caratteristico del capitalismo, sia “privato” che di Stato.  Le classi sociali presenti sono la borghesia (capitalisti) e il proletariato (lavoratori salariati, compresi i disoccupati!) che sono le due classi fondamentali e antagoniste; ma vi sono anche i piccoli borghesi (classi medie) e i proprietari fondiari. L’economia vede il predominio dell’industria sull’agricoltura, la cui importanza continua a diminuire.  La produzione è “sociale” (lavoratori aggregati nelle imprese), ma l’appropriazione è privata (i prodotti non appartengono ai lavoratori, ma al capitalista o all’impresa); la ricerca del profitto è lo scopo e la condizione della produzione. L’attività economica è il risultato di una miriade di aziende autonome le cui merci si riversano alla cieca sul mercato che funge da “regolatore”. La divisione del lavoro è estrema. Lo stato raggiunge il suo massimo sviluppo a causa del peggioramento delle contraddizioni sociali, ma anche delle contraddizioni economiche: anarchia della produzione e produzione che generano periodiche crisi.

Sotto il socialismo (quinta e ultima forma) non ci sono più rapporti commerciali né di denaro, quindi non esiste più la legge del valore: i prodotti sono liberamente a disposizione di chi ne ha bisogno.  Non esistono più imprese autonome né di mercato, e quindi neppure l’anarchia della produzione: la produzione economica è regolata secondo un unico piano mondiale. Non ci sono più classi sociali, quindi non ci sono più né Stato di classe, né burocrazia statale: non vi è più un sistema di amministrazione degli uomini, ma un semplice sistema di amministrazione delle cose. Non vi è più alcuna divisione dell’umanità in nazioni distinte (quindi neppure scontri fra nazioni né oppressioni nazionali), ma l’unificazione dell’umanità: il socialismo (o comunismo) è la società del genere umano, la società della specie umana. Le contraddizioni che ancora esistono non contrappongono più classi di uomini, ma sono contraddizioni tra l’umanità e l’ambiente naturale.

 

2. Lo scambio di merci, la legge del valore, il valore

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2.1. La legge del valore (come espressione economica) consiste nel fatto che tutte le merci hanno un valore: dove non c’è produzione mercantile, i prodotti non sono merci, non hanno alcun valore di mercato, o, detto in forma abbreviata, non hanno valore mercantile (ma hanno ovviamente un altro tipo di valore: il valore d’uso).

Nella comunità comunista primitiva non c’è produzione di merci, non esiste nessuna merce e quindi nessun “valore”. Vi può essere scambio di “regali”, ma non c’è mercato. La comunità produce e distribuisce in modo comunitario ciò che viene prodotto (che può essere prodotto individualmente: nella caccia ecc.).  Ma nei rapporti fra queste comunità, può comparire a un certo punto uno scambio di prodotti: la comunità X ha un eccesso di produzione che può interessare la comunità Y che a sua volta ha qualcosa che può interessare X;questo surplus di produzione acquisisce quindi un valore nello scambio mercantile di tra le due comunità e diventa una merce. La produzione delle merci appare perifericamente nelle comunità autosufficienti, ma nel tempo comporta (o può comportare) la loro dissoluzione.

 

“Non basta ravvisare nel lavoro e nel tempo di lavoro la misura delle quantità di valore senza un’analisi che applichi questa chiave alle varie e diverse economie. Ciò che resta acquisito per la prima volta da una ricerca come quella marxista è che il valore di scambio non è una proprietà assoluta delle cose, ma il modo di presentarsi dei rapporti di organizzazione sociale. Le cose sono merci perché esiste un dato sistema di rapporti tra gli uomini che le producono e consumano. (...)

Noi dunque spogliamo la merce del suo carattere feticistico scoprendo le leggi, che le assegnano un valore e che ci danno modo di misurarlo, nelle relazioni tra gli uomini e i gruppi di uomini per il quali di merce e valore si tratta. Nello steso tempo spogliamo del suo carattere feticistico il denaro: “Senza che c’entrino per nulla, le merci trovano bell’e pronta la loro propria forma valore come un corpo di merci esistente fuori ed accanto ad esse. Queste cose cono l’oro e l’argento, così come escono dalle viscere della terra, sono al contempo l’incarnazione imemdiata di ogni lavoro umano, Di qui la magia del denaro. Il contegno puramente atomistico degli uomini nel loro processo di prodzuione sociale, e quindi la forma materiale, oggettiva, indipendente dal loro cobntrollo e dal loro consapevole agire individuale, dei loro rapporti di produzione, si rivelano in primo luogo nel fatto che i prodotti del loro lavoro assumono su scala generale la forma di merci. L’enigma del feticcioo denaro è quindi soltanto l’enigma del feticcio merce divenuto visibile e abbagliante gli occhi” (Il Capitale, Libro I, Cap.II, ‘Il processo di scambio’)”.

(Elementi dell’economia marxista, testi del partito comunista internazionale)

2.2. Il valore d’uso di un oggetto è espressione di ciò per cui serve: il valore d’uso di una scarpa è l’espressione della sua utilità per camminare; se una scarpa è bucata il suo valore d’uso sarà minore che se fosse in buone condizioni. Quando parliamo non solo di un oggetto, ma di una merce, vediamo che, come già scriveva Aristotele, che viveva in una società mercantile, ha un duplice aspetto: quello di un valore d’uso e quello di un valore di scambio.  Acquisto una scarpa per il suo valore d’uso (possibilità di camminare con una scarpa nuova invece che con la mia scarpa bucata), e la pago per il suo valore di scambio (questo valore di scambio mi permette di scambiare questa scarpa contro una merce di valore equivalente, in particolare contro la merce equivalente generale che è il denaro). Il “valore di mercato” è un’espressione da commerciante che significa la maggiore o minore possibilità che in un dato momento una merce si possa vendere; questa espressione non fa parte del vocabolario scientifico marxista). Il mercato conosce solo il valore di scambio delle merci (chiamato semplicemente valore), mentre il consumatore le compra per il loro valore d’uso.

 

2.3. Quando lo scambio di merci diventa un fenomeno regolare, e non più accidentale, cioè quando il mercato è sufficientemente sviluppato, si stabilsce un valore di scambio medio delle merci che si vendono e si comprano: questo valore è l’espressione degli sforzi (di lavoro) erogato per produrre le merci.   È il tempo di lavoro necessario per produrre una merce che le conferisce il suo valore (di scambio): le merci si scambiano a parità di valore, sulla base del tempo di lavoro necessario per fabbricarle: un’ascia varrà due archi se richiede uno sforzo (tempo di lavoro) due volte superiore a quello necessario per fabbricare un arco. Questo valore è un valore medio che si stabilisce attraverso gli scambi: un maldestro fabbricante di archi, che impiega un tempo 2 volte più lungo rispetto a quello medio, sarà comunque costretto a vendere i suoi archi al prezzo di mercato: il valore dei suoi archi non sarà dunque doppio rispetto a quello dei suoi concorrenti. Si vede pertanto che il valore di una merce non è una sua qualità intrinseca (come lo è il suo valore d’uso), ma una qualità sociale.

In una fase primitiva, lo scambio avviene secondo la modalità del baratto, merce contro merce: M - M. Ma questo sistema non facilita gli scambi: il venditore di asce che vuole procurarsi del pane per mangiare deve trovare un venditore di pane che abbia bisogno di un’ascia, altrimenti morirà di fame.

Diventa quindi indispensabile, quando viene stabilita una certa divisione del lavoro (un individuo “specializzato” nella produzione di asce, un’altro in quella del pane ecc,), vale a dire quando si è raggiunto un certo livello di aumento delle forze produttive, che compaia una merce che serve da ”equivalente generale”, da misura del valore: dopo aver venduto la sua ascia a chi ne ha bisogno in cambio di questa merce equivalente generale, il fabbricante di asce potrà acquistare in seguito o altrove del pane con questa stessa merce. Nello scambio, quest’ultima non ha (o non ha più) valore d’uso, ma rappresenta semplicemente l’espressione del valore contenuto nelle merci: assume il ruolo di moneta. Inizialmente può svolgere questo ruolo perché possiede, anch’essa, un proprio valore: per esempio, è un materiale prezioso, la cui produzione (estrazione ecc.) richiede un notevole tempo di lavoro ecc. Il denaro (A) è quindi apparso, la formula dello scambio ora si scrive: M – A –M: M – A – M.

Con lo sviluppo degli scambi commerciali appare una moneta che non ha un valore in sé (è un pezzo di carta ecc.): è diventata una moneta di credito; ma, in una prima fase, essa può, teoricamente, essere scambiata con una certa quantità di merce equivalente generale, in pratica, l’oro; la moneta in circolazione in un paese è garantita dalla riserva d’oro che si trova nelle mani dello Stato (il sistema noto come “tallone aureo”): questa riserva è la garanzia del credito (della fiducia) accordata alla moneta dagli acquirenti/venditori.

In una fase successiva, il tallone aureo viene abbandonato (nel 1971 dagli Stati Uniti), e la moneta, che ha un corso forzato, diventa una moneta puramente fiduciaria (nella quale si ha fiducia), un segno astratto del valore delle merci. Le banche centrali sono incaricate del controllo della creazione monetaria affinché la quantità di moneta circolante corrisponda al valore della massa di merci che vengono scambiate; ovviamente questo permette di  liberarsi dei limiti fisici della riserva aurea e di manipolare a proprio piacimento la creazione di moneta per facilitare il credito e l’espansione della produzione, anche se questo comporta l’inflazione (calo del valore della moneta). La Banca Centrale Europea ha, per esempio, un obiettivo annuale del 2% di inflazione, cioè un calo del 2% del valore della moneta; ma le difficoltà economiche l’hanno indotta negli ultimi mesi a una sostanziosa creazione monetaria per diminuire il valore della moneta (del denaro) a disposizione delle banche allo scopo di facilitare il credito alle imprese.

C’è un mercato mondiale delle monete (delle valute) che si traduce nel corso delle diverse monete nazionali; poiché una moneta nazionale rappresenta in teoria il valore delle merci prodotte e scambiate in questa nazione, il valore delle monete nazionali, a parità di condizioni, riflette la potenza economica dei diversi paesi (e non è più l’espressione della riserva aurea di ciascuno di loro); ma, essendo la moneta mantenuta ormai solo come moneta fiduciaria, il suo valore in un determinato momento è anche conseguenza di numerosi fattori (politica monetaria dei governi ecc.), alcuni puramente speculativi. In caso di crisi, la moneta del più potente paese capitalista, gli Stati Uniti, diventa un valore-rifugio, mentre, se un particolare paese si trova ad affrontare gravi problemi, il corso della sua moneta cala perché sul mercato mondiale gli acquirenti non hanno più fiducia nel suo valore.

 

2.4.  Torniamo alla legge del valore. Essa non è eterna perché è la conseguenza dell’esistenza di una produzione mercantile; non esisteva quando l’umanità non produceva merci, e non esisterà più quando l’umanità avrà superato lo stadio dell’economia mercantile, quando non produrrà più merci. E quindi non esisterà più sotto il comunismo, nel quale la società non attribuirà valore a ciò che produce perché non ci sarà più scambio di prodotti. I prodotti necessari alla produzione saranno distribuiti secondo le necessità del ciclo produttivo, i prodotti necessari al consumo saranno liberamente a disposizione dei consumatori. È così che l’umanità ha vissuto per centinaia di migliaia di anni, è così che vivrà domani, con un livello incomparabilmente maggiore delle forze produttive e della produttività del lavoro umano.

 

3. Sfruttamento, lavoro salariato, profitto

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3.1. Il salario è il prezzo della merce forza-lavoro, merce che, come tutte le altre, viene acquistata, in media, al suo valore.  Il valore della forza lavoro è uguale al valore dei beni e dei servizi necessari per la sua riproduzione: il salario deve pagare il costo di cibo, vestiario, alloggio, trasporti ecc. della forza lavoro.  Questo valore varia a seconda delle epoche e dei paesi: in un paese o in un periodo in cui i costi di vitto e alloggio sono inferiori a quelli di un altro, anche i salari saranno più bassi. Il salario “reale” comprende anche quello che viene chiamato “salario differito”, cioè la parte che non viene pagata direttamente al lavoratore dal capitalista, ma che viene versata a vari istituti sociali per pagare le pensioni, i sussidi di disoccupazione, la malattia ecc.

Per abbassare il valore della forza-lavoro e quindi il suo prezzo (salario), i capitalisti cercheranno di abbassare il prezzo per gli alimenti, il vestiario, l’alloggio ecc.: da qui i programmi sociali per la costruzione di case a basso prezzo, o per le sovvenzioni ai prezzi dei trasporti ecc. Ma la forza-lavoro non è una merce come le altre: mentre i capitalisti cercano di ridurre il suo valore, questa forza-lavoro ha la capacità di lottare per resistere e aumentare il suo prezzo (il suo salario), danneggiando i profitti.

“Nella stessa proporzione in cui  si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo comemrciale, e sono quindi esposti, come le latre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato. (...)

La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato.”

(Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, 1848)

 La lotta per il salario non esce dai limiti del capitalismo, e i riformisti hanno il compito di fare in modo che vi resti confinata dandole come obiettivo: un  “giusto salario”, un “salario equo”, vale a dire un salario uguale al valore della forza-lavoro e compatibile con il raggiungimento dei profitti sufficienti per l’azienda: per i riformisti ci può e ci deve essere equilibrio fra salari e profitti, fra gli interessi dei lavoratori e quelli dei capitalisti.

Questa lotta per il salario, che è una lotta “immediata”, dapprima difensiva, è essenziale per i proletari che non vogliono essere schiacciati dai capitalisti: se i capitalisti non incontrano resistenza, può succedere che riescano a comprare la forza-lavoro al di sotto del suo valore, cioè a dare salari da fame che non permettono la normale ricostituzione della forza-lavoro, che non permettono di mangiare a sufficienza o di avere una casa ecc. In certi momenti e in certe circostanze favorevoli, i lavoratori possono anche riuscire a far sì che la loro forza-lavoro sia pagato al di sopra del suo valore;; allora hanno la possibilità di avere accesso a beni “di lusso” o a costruirsi un piccolo gruzzolo. Ma queste sono eccezioni, la normale tendenza del capitalismo è quella di abbassare il valore della forza-lavoro e quindi il salario.

Questo non è in contraddizione con la tendenza storica all’aumento del tenore di vita dei lavoratori, man mano che crescono, su scala ancora maggiore, la ricchezza e il potere del capitale: il livello di vita medio di un lavoratore oggi è di gran lunga superiore a quello di un lavoratore di un secolo fa, il suo salario gli permette di comprare più merci; ciò significa che il valore della sua forza-lavoro è molto superiore a quello del lavoratore di un secolo fa: per lui sarebbe impossibile vivere con il salario di un lavoratore di quel tempo perché deve spendere molto di più per mangiare, vestirsi, alloggiare, spostarsi, curarsi ecc. ecc.

L’obiettivo finale dei proletari non deve essere un “giusto salario”, cioè in altri termini, un “giusto sfruttamento” ma l’abolizione del lavoro salariato, cioè la fine del loro sfruttamento.

 

3.2. Lo sfruttamento. La merce forza lavoro viene acquistata al suo valore, ma ha la caratteristica di produrre più del suo valore. Per esempio, supponiamo che 6 ore di lavoro siano sufficienti per il lavoratore per produrre l’equivalente del suo valore (del suo prezzo che è espresso nel salario); dovrà tuttavia fare le sue 8 ore di lavoro, come previsto dal contratto: le due ore supplementari saranno di lavoro gratuito per il capitalista, e produrranno un valore supplementare, un plusvalore; questo lavoro fornito gratuitamente dal lavoratore (si usa anche il termine “pluslavoro”), è quello che dal punto di vista marxista viene; chiamato sfruttamento; il tasso di sfruttamento è il rapporto fra il “lavoro necessario” (quello che produce il valore pagato dal salario) e il lavoro gratuito che produce un valore che arriva esclusivamente al capitalista, il “plusvalore”. Il plusvalore è il motore del capitalismo. È’ il plusvalore che, quando i prodotti hanno trovato acquirenti sul mercato, determina il profitto che permette di ricominciare e accrescere il ciclo produttivo. Senza profitto il ciclo di produzione si ferma, l’azienda fallisce.La formule capitaliste est La formula capitalista è: A – M verso M + deltaM – A + deltaA.

“Il prolungamento della giornata lavorativa al di là del punto in cui l’operaio non avrebbe prodotto che un equivalente per il valore della sua forza lavoro, e l’appropriazione di questo pluslavoro da parte del capitale: ecco in che cosa consiste la produzione del plusvalore assoluto. Essa forma la base del sistema capitalistico, e il punto di partenza della produzione del plusvalore relativo. In questo, la giornata lavorativa è divisa fin dall’inizio in due parti: lavoro necessario e pluslavoro. Per prolungare il pluslavoro, si abbrevia il lavoro necessario con metodi grazie ai quali si produce in minor tempo l’equivalente del salario. La produzione del plusvalore assoluto verte unicamente sulla lunghezza della giornata lavorativa; la produzione del plusvalore relativo rivoluziona da cima a fondo i processi tecnici del lavoro e gli aggregati sociali.”

(Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XIV)

Questo significa che durante il ciclo produttivo un valore deltaM si è aggiunto a M (il valore di tutte le merci consumate nel ciclo, compresa la forza-lavoro); e di conseguenza, dopo la vendita, una quantità maggiore, deltaA, aggiunta al capitale in denaro (A), ritorna al capitalista: il suo profitto. Sotto il capitalismo l’obiettivo non è quello di produrre prodotti o merci, ma profitto: la produzione delle merci è il mezzo per produrre dei profitti, niente di più: la produzione è prima di tutto produzione di capitale. In questa società è produttivo tutto ciò che produce un profitto, e improduttivo ciò che non ne produce. Ma la società capitalistica ha bisogno di produrre dei beni o dei prodotti che non sono fonte di profitti (o di profitti sufficienti): dall’istruzione della forza lavoro alla fornitura di acqua, elettricità ecc. Questa indispensabile produzione è affidata a particolari strutture, statali o parastatali, che sono chiamate “servizi pubblici” e che sono finanziate da imposte e tasse.

Il capitalista è dunque alla ricerca di profitto, ma più precisamente del miglior tasso di profitto. Il tasso di profitto è il rapporto tra il profitto ottenuto e tutte le spese sostenute nel corso del processo di produzione: più queste sono elevate, più il tasso di profitto è basso. Per “rendere redditizi” gli investimenti, il capitalista cerca di ridurre al massimo le spese (che sono gli anticipi sostenuti in previsione di un profitto futuro), abbassando i salari pagati, riducendo gli investimenti ecc. Una soluzione per avere un maggior tasso di profitto è la delocalizzazione in un paese in cui i salari sono più bassi e dove si può investire meno in macchinari e altre attrezzature.

 

3.3. Plusvalore, produttività. All’inizio del capitalismo, quando la produttività era bassa, il plusvalore era ottenuto aumentando a dismisura la durata della giornata lavorativa: 10, 11, 12 ore di lavoro al giorno, perché il lavoro necessario richiedeva 9, 10, 11 ore. Marx parla a questo proposito di plusvalore (o pluslavoro) assoluto. Ma compare ben presto un altro modo per ottenere o aumentare il plusvalore: ridurre il tempo di lavoro necessario, attraverso l’aumento della produttività del lavoro: se, a causa dell’aumento della produttività del lavoro, il tempo di lavoro necessario è solo di 6 o 7 ore, il capitalista può accettare una diminuzione della durata della giornata lavorativa perché otterrà un plusvalore identico o addirittura superiore. Marx parla poi di plusvalore relativo.

L’aumento della produttività del lavoro è ottenuto mediante il miglioramento del processo produttivo, tanto attraverso l’innovazione tecnica, l’uso di utensili, macchine ecc., quanto attraverso il cambiamento del modo di lavorare: specializzazione dei lavoratori, lavoro a catena, aumento dei ritmi ecc. (intensificazione del lavoro).

Un potente fattore che costringe i capitalisti alla ricerca del plusvalore relativo e dell’aumento della produttività del lavoro, è la lotta storica dei lavoratori per la riduzione della durata della giornata lavorativa.

 

3.4 Lavoro produttivo e improduttivo. Sotto il capitalismo è lavoro produttivo qualsiasi lavoro che produca un profitto; Marx fa l’esempio di un insegnante: finché egli fa parte della  Pubblica Istruzione non è produttivo; ma se lavora in una scuola privata diventa un lavoratore produttivo, entra nel meccanismo dello sfruttamento capitalistico e il suo lavoro produce un profitto per il proprietario della scuola. Ma chi dice lavoro improduttivo non dice lavoro inutile: il lavoro dell’insegnante della Pubblica Istruzione è utile perché forma la manodopera indispensabile al capitalismo. Esistono lavori non produttivi, ma necessari (per esempio, quella del panettiere), ma esistono anche lavori non produttivi parassitari, perché servono solo a consumare una parte del plusvalore estorto dai capitalisti (per esempio, il lavoro dei domestici e altri servitori dei borghesi ecc.) senza partecipare alla produzione capitalistica.

 

4. L’accumulazione del capitale

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4.1. Il valore delle merci vendute alla fine del ciclo produttivo serve a pagare i diversi gruppi della classe dominante: i banchieri o gli investitori che hanno anticipato il capitale; il proprietario fondiario del terreno su cui si trova l’azienda, gli altri capitalisti dai quali l’imprenditore ha acquistato le materie prime e altri ancora; l’usura dei macchinari e la manutenzione degli impianti; le varie spese statali (attraverso la tassazione); serve anche a pagare il salario della forza-lavoro: tutto ciò rappresenta l’intero costo di un ciclo produttivo, il denaro che il capitalista ha investito in questo ciclo e che ritrova alla fine di questo ciclo (dopo aver venduto la merce), nel quale, come abbiamo visto, ha ricevuto una quantità di denaro supplementare, il plusvalore.

Quindi, avendo in tasca, al termine del ciclo produttivo, un capitale in denaro superiore rispetto all’inizio, il capitalista può spendere questo surplus in modo improduttivo spassandosela o pagando un dividendo agli azionisti, oppure investirlo per ricominciare  il ciclo di produttivo su scala maggiore: in questo caso si ha quindi una riproduzione allargata del capitale (e non la semplice riproduzione nel caso si fosse accontentato di reinvestire la stessa quantità di capitale A investito all’inizio) che permette di aumentare il profitto finale.

Tuttavia, per dare avvio a una riproduzione allargata, occorre che la quantità supplementare di  A, il deltaA, ottenuta alla fine del ciclo produttivo, sia sufficiente (per acquistare materie prime, macchinari e forza lavoro extra); questo significa che occorre prima accumulare una sufficiente quantità di capitale. Questa accumulazione può essere fatta sia a poco a poco dal capitalista stesso, sia da banche che centralizzano molti capitali per poi prestarli al capitalista.

Il capitalismo di Stato che sopprime la parte dedicata al consumo del singolo capitalista e all’affitto o all’acquisto dei terreni, sopprime contemporaneamente queste spese improduttive e aumenta altrettanto la parte reinvestita nella produzione, in altre parole aumenta l’accumulazione di capitale;quindi non è una forma più “socialista” ma più capitalista della forma capitalistica privata.

 

4.2. Composizione organica del capitale, caduta tendenziale del saggio di profitto. Secondo lo schema marxista il valore “incorporato” in una merce si scompone in “capitale costante” (valore della frazione dei macchinari, degli attrezzi, delle materie prime ecc. consumati nel processo della sua fabbricazione), “capitale variabile” (valore della parte del salario corrispondente) e il plusvalore: C + V + Pl. Questo è ciò che viene chiamata composizione organica del capitale.

Le ricchezze naturali eventualmente utilizzate, che non costano nulla, che non hanno valore, non entrano quindi in C:  per esempio l’ossigeno dell’aria indispensabile ai lavoratori. Ma alcuni lavori, come le immersioni, richiedono di rifornire di ossigeno i lavoratori; questo ossigeno ha un prezzo, un valore, perché per la sua produzione richiede lavoro umano, e in tal caso entra a far parte di C. Il capitale costante (cioè i prodotti, le attrezzature ecc. utilizzati durante la produzione) è il frutto di un lavoro umano precedente: le materie prime sono state estratte, l’ossigeno è stato prodotto, i prodotti semilavorati e i macchinari sono stati fabbricati ecc. Questo si chiama lavoro morto. La sua caratteristica è che la sua frazione consumata durante la produzione è interamente incorporata nel valore della merce, senza aver aggiunto alcun valore supplementare, dal momento che solo il lavoro gratuito, il “pluslavoro”, del lavoratore produce valore aggiunto incorporato nella merce.

“I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà,  la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. (...) La storia dell’industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. (...) Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovraproduzione. La società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. (...) I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. Con quale mezzo la borghesia supera la crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse”.

(Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, 1848)

Storicamente la composizione organica del capitale si modifica attraverso l’aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile: i vari strumenti, le apparecchiature e le attrezzature sono sempre più numerosi per poter aumentare la produttività del lavoro, a volte le macchine sostituiscono i lavoratori (in un modo o nell’altro ogni ora di lavoro permette così di produrre di più). C aumenta più velocemente di V.

Essendo il tasso di profitto il rapporto tra plusvalore e capitale costante (Pl/C), la conseguenza è che esso tende a diminuire con l’aumentare del capitale costante, anche se la quantità di profitto (plusvalore) continua ad aumentare in termini assoluti. Per esempio le moderne industrie automobilistiche registrano profitti incomparabilmente superiori rispetto ai piccoli fabbricanti di auto di un secolo fa, la produttività del lavoro è incomparabilmente maggiore, ma il loro saggio di profitto è molto inferiore rispetto a questi ultimi che avevano attrezzature più rudimentali. Ancor più che la quantità di profitto in sé è il saggio di profitto che interessa il capitalista: preferisce ottenere un profitto di 5000 invece di 10.000 se nel primo caso gli basta investire 20.000 (tasso di profitto: 25%) contro 100.000 nel secondo caso (tasso di profitto: 10%).

La riduzione del saggio di profitto è detta tendenziale  perché si tratta in realtà di una tendenza che il capitalista cerca di contrastare, cosa che spesso riesce a fare. Per farlo dispone di diversi mezzi: aumento del plusvalore assoluto o relativo ecc. Uno dei mezzi è la cosiddetta delocalizzazione in paesi a basso salario, cioè dove il valore della forza lavoro è basso (le condizioni di vita sono meno costose). È un po’ come tornare indietro nel tempo: il saggio di profitto è più alto perché il basso costo della manodopera, permettendo l’uso di un minor numero di macchine, fa sì che la composizione organica del capitale è più debole: è  molto più conveniente, per esempio, installare una linea di produzione di automobili in Romania o in Russia che in Francia: lì la produttività del lavoro è più bassa, ma il saggio di profitto è più alto.

 

4.3 Crisi capitalistiche. La produzione capitalistica richiede la vendita delle merci prodotte: se la vendita non si può fare, il ciclo produttivo non può ricominciare, la produzione si ferma. Il passaggio attraverso il mercato implica la possibilità della crisi: i capitalisti producono alla cieca senza avere la sicurezza di poter vendere (“realizzare”) le loro merci [è l’anarchia della produzione capitalistica]. Poiché la concorrenza è la legge del capitalismo, ci sono sempre aziende che entrano in crisi e falliscono perché non riescono a resistere alla concorrenza delle altre. Ma il capitalismo conosce anche crisi generali, che si ripetono con una certa regolarità. Poiché tutte le aziende sono spinte a produrre sempre di più per aumentare i loro profitti, accade inevitabilmente che a un certo punto la produzione diventi superiore a quanto il mercato è in grado di assorbire: si verifica allora una crisi generale (vi possono anche essere crisi limitate a un settore della produzione). Poiché sotto il capitalismo la produzione si sviluppa a un ritmo più veloce rispetto al consumo (cioè alla vendita), la crisi è una crisi di sovraproduzione. La crisi scoppia perché vi è un eccesso di prodotti – non rispetto ai “bisogni” generali della popolazione, ma rispetto al mercato. Le merci, troppo numerose, non si riescono più a vendere, o solo a prezzi bassi, al di sotto del loro valore, le imprese più fragili che vendono in perdita falliscono, licenziano, e ciò aumenta il marasma riducendo ulteriormente il mercato (ogni azienda che scompare fa sparire anche il mercato che rappresentava per i suoi fornitori, i suoi subappaltatori ecc., così come il mercato rappresentato dal consumo dei propri dipendenti). Alla fine, quando le “supercapacità produttive” e la saturazione del mercato non sono più presenti come fattori negativi per il capitalismo, le aziende più forti, che hanno saputo resistere, si possono riavviare su una base più “sana”: è la ripresa economica che va a poco a poco accelerando e che porterà, nel giro di alcuni anni, a una nuova crisi economica.

Il capitalismo riesce a superare la crisi, dice il Manifesto, 1) trovando nuovi mercati (espansione del capitalismo in nuove regioni), 2) sfruttando ulteriormente i mercati esistenti (espansione del capitalismo nel paese anche riducendo i settori non capitalisti di piccola produzione ecc., aumento dei profitti in vari modi), 3) distruggendo le forze produttive in eccesso (la “supercapacità produttiva”).

I riformisti sostengono che le crisi sono dovute al “sotto-consumo” delle masse e propongono la loro ricetta per superare o evitare le crisi: aumentare i salari in modo che i lavoratori possano consumare di più. L’aumento dei salari significa senza dubbio una crescita del mercato, ma significa anche una diminuzione dei profitti ed è quindi un fattore di crisi. Il capitalismo ha infatti un bisogno vitale di preservare o ripristinare i suoi profitti, e quindi in tempi di crisi ha bisogno di abbassare i salari (mentre in tempi di prosperità economica, può permettersi di aumentarli).

 

5. Lotta di classe, Stato e rivoluzione

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Le due classi fondamentali della società capitalistica sono la borghesia (la classe dei capitalisti, la classe dominante, che vive essenzialmente dallo sfruttamento dei proletari) e il proletariato (la classe dei senza riserve, costretti a vendere la loro forza-lavoro ai capitalisti per vivere). Queste sono le classi fondamentali, perché sono portatrici di due modi di produzione che storicamente si scontrano: il capitalismo e il socialismo. Il proletariato è la classe rivoluzionaria per eccellenza, perché non può emanciparsi senza rovesciare il capitalismo (questo è ciò che contestano i riformisti, che sostengono, invece, che gli interessi degli sfruttatori e degli sfruttati sono conciliabili fra loro con un po’ di buona volontà). Va ricordato che della classe borghese dominante fanno parte anche i proprietari fondiari, cioè coloro che dall’uso capitalistico della terra o di edifici come mezzi di produzione ricavano una rendita.

Ma esistono anche altre classi intermedie (dette “classi medie” ecc.), talvolta molto numerose: una società capitalistica “pura”, composta esclusivamente da proletari e capitalisti non esiste e non esisterà mai: il fossato tra il pugno di capitalisti e i proletari che costituiscono la schiacciante maggioranza della popolazione sarebbe tale che l’esplosione sociale sarebbe immediata.

“Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell’evoluzione, e tutta la produzione sarà concentrata in mano agli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico. In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzato per opprimerne un’altra. Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come, classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, cioè abolisce le condizione di esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe.

Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.”

(Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, 1848)

Queste classi intermedie sono composte nelle campagne dai contadini proprietari (i salariati agricoli fanno parte del proletariato, e i proprietari dei grandi sfruttamenti agro-industriali della borghesia), dai molteplici ceti medi” nelle città (dagli artigiani, piccoli commercianti , liberi professionisti, ai “ quadri” e ai vari “intellettuali”). Esse svolgono un ruolo molto importante nella lotta di classe in quanto servono come “cuscinetto” per la minoranza capitalista nei confronti del proletariato, e agiscono come diffusori delle influenze borghesi;; nei periodi di scontro aperto tra proletariato e borghesia vengono utilizzate da quest’ultima per reprimere i lavoratori (il fascismo recluta in queste classi). Queste classi sono regolarmente vittime del capitalismo, che in tempi di crisi le precipita nella rovina e nella loro proletarizzazione; ciò provoca in loro reazioni di “protesta”, che possono essere violente, ma che spesso sono pacifiste e legalitarie, contro le conseguenze del regime capitalista. Esse tendono a mettersi in movimento sostenendo di mobilitarsi, non in nome di una particolare classe, ma in nome del “popolo”, della “nazione”, del “99%” della popolazione. A volte il loro proclamato “anticapitalismo” può assumere un carattere di estrema destra o fascista, ma oggi, che le tensioni sociali non hanno raggiunto in generale un punto di ebollizione, si veste dei colori “morali”, “umanitari” o “apolitici” (movimento degli indignati ecc.), ma sempre fondamentalmente antiproletari.

Tuttavia, teoricamente, in periodi di crisi rivoluzionaria, una parte di loro può seguire il proletariato se quest’ultimo si dimostra sufficientemente forte e determinato nel suo attacco contro la borghesia. L’atteggiamento da tenere nei confronti di queste classi è dunque un problema cruciale per il proletariato; ma quest’ultimo deve innanzitutto organizzarsi come classe in modo indipendente, liberarsi dalla melassa interclassista, “popolare” per avere in seguito la possibilità di attirare dalla sua parte almeno una parte di queste classi, invece di essere usato da loro.

Dopo aver rovesciato il potere borghese con l’insurrezione armata, il proletariato instaura il proprio potere: la dittatura del proletariato , lo “Stato operaio”».. Come tutti gli Stati è lo strumento della classe dominante, il proletariato: la borghesia e le classi possidenti sono escluse dal potere: esso rivendica apertamente di essere una dittatura, e non una democrazia; la sua funzione è, sul piano politico e militare, di reprimere le vecchie classi dominanti interne e di lottare contro le classi dominanti straniere; sul piano economico e sociale di intervenire dispoticamente nei rapporti economici per sradicare il capitalismo.

Ma questo Stato è fondamentalmente diverso dagli Stati di classe precedenti perché è basato sulla partecipazione delle masse, riducendo al minimo il ricorso agli “specialisti” (funzionari) e quindi alla “burocrazia”, e tende a scomparire man mano che scompaiono le classi e i rapporti di produzione capitalistici; il periodo della dittatura del proletariato è il periodo di transizione al socialismo (o al comunismo; Marx distingue uno stadio inferiore del comunismo o socialismo ed uno stadio superiore o comunismo). La dittatura è internazionale nella misura in cui la rivoluzione si estende;; essa cerca di centralizzare le forze produttive a livello internazionale per arrivare, dopo la vittoria della rivoluzione in tutti i paesi, a sviluppare un piano unico mondiale che avrà lo scopo di porre fine alle varie  ineguaglianze produttive e alle devastazioni ambientali ereditate dal capitalismo. Più precisamente nei paesi capitalisti sviluppati, il potere proletario avvierà una vigorosa politica di disinvestimento e di soppressione delle attività parassitarie e antisociali che vi proliferano ecc.  

 

6. L’imperialismo

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L’imperialismo, secondo Lenin, è un particolare stadio del capitalismo in cui le leggi di sviluppo di questo modo di produzione hanno portato alla nascita di grandi potenze, incarnazione delle più grandi concentrazioni capitaliste, in lotta fra di loro per spartirsi il pianeta (sia direttamente sotto la vecchia forma delle colonie, sia “indirettamente”  nella forma moderna di dominio economico e finanziario e quindi, di conseguenza, politico). Periodicamente questa lotta sfocia in conflitti militari generalizzati rimettendo in discussione le vecchie spartizioni, che culminano nelle guerre mondiali. Tra queste guerre generalizzate vi sono periodi di “pace” in cui ci sono ancora guerre, ma “localizzate” (per esempio, dopo l’ultima guerra mondiale, l’imperialismo francese è stato perennemente in guerra, tranne che per brevi periodi, per difendere i propri interessi in Africa e altrove; e la stessa cosa si può dire dell’imperialismo americano che, per la potenza planetaria che rappresenta, è impegnato a difendere i propri interessi in tutti i continenti).

Sul piano economico siamo arrivati   al dominio del capitale finanziario (indispensabile per le imprese), alla costituzione di aziende molto grandi, spesso monopolistiche, che sono anche “multinazionali” per via della loro internazionalizzazione, ma che rimangono ancorati ai loro paesi di origine, e di una sempre crescente compenetrazione di queste grandi aziende con lo Stato borghese (con grande rabbia dei capitalisti più piccoli che chiedono uno “Stato imparziale”), formando quello che una volta era chiamato “capitalismo di Stato” (oggi capitalismo di Stato significa proprietà statale delle imprese), a differenza del capitalismo liberale del periodo precedente. Le correnti staliniste e post-staliniste in particolare hanno teorizzato il “capitalismo monopolistico di Stato” ,  designandolo come il vero nemico del proletariato; in realtà questa critica dei “grandi monopoli” trovava spiegazione nella loro politica interclassista di alleanza con i piccoli imprenditori, le piccole imprese, i capitalisti “nazionali”. Per il proletariato il vero nemico è il sistema capitalistico nel suo complesso e lo Stato borghese che lo difende.

Sul piano politico questa fase imperialista è infatti caratterizzato dal rafforzamento del peso dello Stato nella vita sociale, in particolare attraverso il rafforzamento delle misure di controllo e repressione, sempre più “totalitarie”.

A volte si usa l’espressione pittoresca del capitalismo “putrescente” per indicare che le condizioni oggettive sono più che mature per la transizione al socialismo. Ma questa espressione indica anche che gli aspetti antisociali, distruttivi ecc. del capitalismo, che sono sempre esistiti, raggiungono un livello sempre più elevato quando il capitalismo si sviluppa (per esempio, i danni ambientali raggiungono una gravità mai vista con cambiamenti climatici a livello globale e non più solo locale, come in precedenza).

Tuttavia certe correnti teorizzano una “decadenza” o una “decomposizione” del capitalismo tali che potrebbero arrivare a compromettere la possibilità di transizione al socialismo o addirittura la stessa sopravvivenza della civiltà umana;; bisognerebbe quindi mettere da parte la lotta di classe e sostituirla con una lotta di tutti gli esseri umani di buona volontà contro la barbarie, la catastrofe ecc. Si tratta di una nuova forma di interclassismo, politica mirata sempre a impedire l’emergere della lotta rivoluzionaria proletaria.

 

7. Paesi dominati e antimperialismo

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Il dominio imperialista ha portato a orientare lo sviluppo del capitalismo nei paesi dominati in modo favorevole agli interessi imperialisti;; comporta anche il fatto che una parte del plusvalore estorto ai proletari dai borghesi locali non rimanga nelle mani di questi ultimi, ma ritorni nei centri imperialisti. Questo è il motivo per cui l’”antimperialismo” è una parola d’ordine ripresa dalle correnti borghesi e piccolo-borghesi di questi paesi, che vorrebbero allentare la pressione imperialista, perché aspirano a uno sviluppo capitalistico da cui ricaverebbero più profitti in nome dell’indipendenza economica ecc. Tuttavia l’imperialismo che domina questi paesi, difende in essi anche il capitalismo e di conseguenza la borghesia locale contro i lavoratori e le masse povere; i borghesi e piccolo-borghesi locali non esitano mai a chiamare i compari imperialisti, quando si trovano ad affrontare le rivolte dei proletari! Oggi possiamo dire di questi paesi, dopo l’ondata di rivoluzioni anticoloniali, quello che Marx diceva dell’Europa occidentale al tempo della Comune: le classi dominanti, anche se sono in guerra fra loro, sono unite contro il proletariato.

“L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli che introducono dovunque le loro aspirazioni alla conquista e non la libertà. Reazione in tutti i campi, qualunque sia l’ordinamento politico; estrema tensione degli antagonismi che stanno uno di fronte all’altro, tale ne è il risultato. L’oppressione nazionale e il bisogno di annessioni, cioè la violazione dell’indipendenza nazionale dei più deboli (poiché l’annessione non è altro che una violazione del diritto di una nazione di disporre di se stessa), rivestono una forma particolarmente acuta”.

(Lenin, L’imperialismo, ultima fase del capitalismo, 1915)

Ciò significa che non si può parlare, come facevano le correnti staliniane, maoiste e altre, di “rivoluzione antimperialista”, vale a dire di rivoluzione di diverse classi (proletariato, contadiname e piccola borghesia in generale, borghesia “nazionale”), cioè, secondo il marxismo, di rivoluzione borghese contro il dominio imperialista – quando invece, contro il dominio coloniale, tali rivoluzioni borghesi, finalizzate allo sviluppo capitalistico locale che era impedito dal colonialismo, sono state possibili. In questi paesi, solo una rivoluzione proletaria, socialista, che miri a rovesciare il capitalismo, è ora possibile. Anche se il debole sviluppo del capitalismo e quindi l’esistenza di molte classi medie e intermedie pone oggettivamente numerosi problemi a questa rivoluzione.

Gli alleati di cui potrà disporre il proletariato saranno prima di tutto le masse povere che, lasciate le campagne, si affollano nelle metropoli dove cercano di sopravvivere con piccoli lavori precari (vendita ambulante di ogni genere, precariato ecc.) Ma queste masse spesso molto numerose possono essere mobilitate anche da forze reazionarie (islamisti ecc.) contro il proletariato e per il rafforzamento del potere borghese.

Per quanto riguarda le masse contadine, sarà necessaria una particolare attitudine per riuscire a strapparle alle influenze borghesi o per “neutralizzarle” politicamente. Per far questo occorrerà appoggiarsi sulle acquisizioni politiche e programmatiche del movimento operaio rivoluzionario elaborate quando si era posto in Europa un problema simile.

L’opportunismo impone al proletariato, in questi paesi come ovunque, un orientamento interclassista: in nome dei supremi interessi della nazione, il proletariato dovrebbe mettere in secondo piano i propri interessi di classe per consentire un’”alleanza” con le altre classi, un “fronte unico antimperialista” ecc.: gli interessi della “nazione” e del capitalismo nazionale superano gli interessi “egoistici” degli sfruttati, che dovrebbero attendere la piena sovranità e il pieno sviluppo economico perché le loro rivendicazioni vengano prese in considerazione. Questo orientamento ha come conseguenza di mettere la forza proletaria al servizio degli interessi borghesi: non può esserci nessuna alleanza egualitaria tra sfruttati e sfruttatori.

 

8. Opportunismo e rivoluzione nei paesi imperialisti

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Il riformismo è storicamente la corrente che affermava che, grazie  all’attuazione delle riforme, fosse possibile passare gradualmente al socialismo; senza bisogno di rivoluzione, insurrezione, dittatura del proletariato, il proletariato sarebbe potuto arrivare al potere legalmente e pacificamente attraverso le elezioni e realizzare così una democratizzazione sempre più in profondità della società e dello Stato che avrebbe portato uno giorno al socialismo. In realtà, i riformisti respingevano la via rivoluzionaria perché temevano il rovesciamento del capitalismo e perché solo la lotta per “migliorarlo” li interessava.

Oggi i riformisti continuano ad essere anti-rivoluzionari ma hanno anche abbandonato qualsiasi discorso riguardo al socialismo e hanno persino abbandonato la lotta per le riforme, si accontentano di negoziare gli attacchi capitalistici per renderli meno dolorosi e più sopportabili per i lavoratori: così facendo essi appaiono più chiaramente come sostenitori del capitalismo e servi della borghesia.

L’opportunismo è una corrente politica che si era formata in seno al movimento e ai partiti operai; metteva da parte i principi, il programma e lo scopo socialisti (che non necessariamente respingevano a parole come fanno i riformisti aperti) per adeguarsi in modo opportunista alla società capitalistica e alle pressioni borghesi.

L’“immediatismo” o l’“attivismo” sono caratteristiche dell’opportunismo: i risultati immediati e l’attività sono le sole cose che contano, i principi e il programma possono e devono essere ignorati se intralciano i risultati e l’attività (Berstein: “il ; “:  : “ movimento è tutto, il fine niente”). Il socialista opportunista antimarxista Brousse (detto “possibilista”), dirigente della Federazione dei Lavoratori Socialisti di Francia, precursore della conquista dei comuni, sosteneva questa formula: per rendere finalmente possibile il programma generale, bisogna immediatizzarlo frazionandolo in obiettivi raggiungibili. Naturalmente questo immediatismo non è altro che l’adattamento al capitalismo. L’attivismo (attività slegata dai principi e dal programma) è una deviazione tipica delle correnti di estrema sinistra, soprattutto trotskisti, che non esitano mai ad abbandonare le loro pretese rivoluzionarie e a camuffarsi da democratici o riformisti ecc. per ottenere dei successi, compreso quello elettorale!

Un tempo i rivoluzionari lottavano nei partiti operai contro la corrente opportunistica, per la fedeltà alle posizioni marxiste e alla politica rivoluzionaria. Allo scoppio della prima guerra mondiale, l’opportunismo ha travolto quasi tutti i partiti socialisti. Lenin diceva che l’opportunismo era maturato, non era più semplicemente una corrente politica di destra da combattere nei partiti operai, era diventata una forza potente alimentata dalla borghesia; non era quindi più possibile convivere in uno stesso partito con questi agenti della classe dominante, occorreva rompere e creare nuovi partiti, veramente rivoluzionari.

L’anarco-sindacalismo oppure il sindacalismo-rivoluzionario (in realtà non si tratta esattamente della stessa cosa) era una corrente apparsa nel movimento operaio come reazione al crescente opportunismo dei partiti socialisti. Secondo la vecchia tradizione anarchica, respingeva la lotta politica, vista come lotta parlamentare, per dedicarsi alla lotta sindacale, “puramente operaia”. La corrente sindacalista rivoluzionaria che, ad esempio, dirigeva la CGT (all’epoca l’unico sindacato di classe rispetto ai vari sindacati “gialli”, “bianchi” o padronali) aveva definito, nella sua Carta di Amiens, prima della prima guerra mondiale, una divisione dei ruoli: il partito socialista si occupava della lotta politica, non doveva interferire nella lotta sindacale, riservata ai sindacalisti rivoluzionari, anche se un’alleanza, sulla base di questa divisione dei ruoli, doveva esistere tra l’Unione e il partito (per i veri anarcosindacalisti non dovevano esistere il minimo rapporto né la minima alleanza con il partito); i sindacalisti rivoluzionari teorizzavano che il sindacato, essendo la vera organizzazione operaia, dovrebbe svolgere un ruolo decisivo nella rivoluzione (ridotta all’idea di uno sciopero generale che farebbe crollare improvvisamente il capitalismo) e nella società post-rivoluzionaria.

In realtà, nel momento decisivo, i dirigenti sindacalisti rivoluzionari tradirono la causa proletaria, così come i dirigenti socialisti, aderendo alla sacra unione con la borghesia durante la prima guerra mondiale. Gli anarco-sindacalisti, predominanti in Spagna (CNT), fecero la stessa cosa durante la guerra civile in quel paese legandosi strettamente alla difesa dello Stato borghese in nome dell’antifascismo: a dimostrazione che queste correnti sono una variante dell’opportunismo.

 

9. Crescita della diseguaglianza

 

Non è molto importante determinare quale frazione della borghesia si spartisca la più grossa fetta della ricchezza mondiale; senza dubbio è particolarmente scioccante la ricchezza dell’ 1% della popolazione o di una manciata di miliardari: secondo l’ONG Oxfam, 62 persone hanno un patrimonio pari a quello della metà più povera della popolazione del pianeta! Ma fondamentalmente la borghesia è la classe che possiede la maggior parte dei mezzi di produzione (a fianco dei proprietari fondiari che possiedono la terra e dei piccolo-borghesi che possiedono i loro strumenti, i loro commerci ecc.), mentre i proletari non possiedono null’altro che la loro forza-lavoro.

Più significativa è la crescita delle diseguaglianze di reddito (fra salario proletario e guadagni e redditi vari dei borghesi) nel mondo, che è ben documentata; alcune istituzioni borghesi si preoccupano regolarmente di questa tendenza, perché significa un aumento del divario tra le classi sociali, che rischia inevitabilmente di sfociare in un’acutizzazione delle tensioni sociali.

Dopo la seconda guerra mondiale le disparità di reddito si erano notevolmente ridotte nei paesi capitalisti sviluppati, nello stesso periodo veniva progressivamente istituita una serie di ammortizzatori sociali: questo era il prezzo che la borghesia era disposta a pagare per scansare lo spettro della rivoluzione sociale e garantire la pace sociale. Le cose sono cominciate a cambiare dopo la crisi del 1981-82 negli anni di Reagan e della Thatcher, ma è soprattutto negli ultimi vent’anni che le ineguaglianze si sono accentuate, a tal punto che in alcuni paesi si riscontrano diseguaglianze simili a quelle esistenti all’inizio del XX secolo (vedi i lavori di Picketty ecc.). Questa è la dimostrazione dell’affermazione marxista secondo la quale capitalismo significa aumento della ricchezza a un polo della società e aumento della miseria al polo opposto.

Ma questo non giustifica l’orientamento riformista e interclassista che predica l’unione del 99% della popolazione per espropriare il più ricco 1%. Anche se questo 1% venisse espropriato, il capitalismo non sarebbe soppresso come ha dimostrato l’esperienza di paesi a capitalismo di Stato, in cui è stata abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione. Un’alleanza interclassista del 99%, che riunisse cioè proletari, piccolo-borghesi e una parte dei borghesi, non sarebbe in grado per sua natura di realizzare una rivoluzione anticapitalistica.

Nell’OCSE (grosso modo: paesi occidentali, America Latina e Giappone), i paesi con le disuguaglianze di reddito più forti sono, in ordine, Cile, Messico, Turchia, Stati Uniti. Al di fuori dell’OCSE i record delle disuguaglianze si trovano in Lesotho e Sud Africa.

La Francia è uno dei paesi europei che, dopo la crisi del 2008, hanno registrato il maggiore aumento della disuguaglianza, dopo Irlanda, Spagna e Grecia: dal 2007 al 2011, il 10% più povero ha visto i propri redditi calare in media dell’1% all’anno, mentre il 10% più ricco ha visto un aumento del reddito del 2% annuo; ciò nonostante, il suo “tasso di povertà” (percentuale di popolazione con reddito inferiore al 60% del reddito medio, considerata “a rischio di esclusione sociale”) è stato nel 2014, secondo Eurostat, solo del 18,6% contro il 20% in Germania, il 24,8% in Gran Bretagna, il 28% in Italia, il 29% in Spagna, 36% in Grecia, mentre il record è di oltre il 40% per la Bulgaria e la Romania: gli “ammortizzatori sociali” sono ancora più efficaci o più numerosi in Francia che in questi altri paesi, ma i borghesi e i loro politici stanno cercando di ridurli a suon di riforme, perché rappresentano un “fardello insopportabile” per il capitalismo francese rispetto ai suoi concorrenti.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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