Lo sviluppo della società borghese non può fare a meno di crisi economiche, guerre devastanti e stragi, divorando come Moloch, uomini donne e bambini

(«il comunista»; N° 144;  Luglio 2016)

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Davanti all’isola di Creta il 3 giugno, si è consumata l’ennesima tragedia del Mediterraneo: a fronte di 350 persone salvate sono stati trovati 9 morti ma i dispersi sono più di 300; e sulla spiaggia di Zuwara, al confine tra Libia e Tunisia, nello stesso giorno sono stati recuperati 117 corpi, di cui 75 donne e 6 bambini, vittime dell’ennesimo naufragio cha da anni appare un costante appuntamento con un mondo che fino a qualche anno fa sembrava sufficientemente lontano da non sconvolgere la quotidianità di noi occidentali.

Dall’inizio dell’anno sono migliaia i profughi dall’Africa e dal Medio Oriente che, per mare e per terra, hanno tentato di fuggire dalle situazioni disastrose dei loro paesi a causa delle guerre, della fame, della miseria, delle persecuzioni, dei cambiamenti climatici che portano siccità; e sono migliaia quelli che sono morti lungo il “viaggio della speranza”, di una speranza sempre più legata alle spietate leggi del capitalismo che divora le energie fisiche e nervose dei lavoratori salariati fino a divorare i lavoratori stessi. La contabilità borghese dichiara che nelle traversate in mare le vittime “registrate” quest’anno, fino alla fine di maggio, ammontano a 2.814; ma non si azzarda ad affermare che probabilmente altrettanti, o forse più, sono i “dispersi” e coloro che sono annegati senza che nessuno ne avesse notizia!

Un’ennesima strage in un mare in cui si affacciano paesi e popolazioni con storie, culture, origini e sviluppi tanto diversi ma nello stesso tempo inesorabilmente intrecciati, contaminati, confusi. In attesa di altri naufragi, altre stragi... Le guerre, più che lo sviluppo pacifico, hanno segnato il progresso dei paesi europei che del Mediterraneo hanno fatto un intrico di vie commerciali; un progresso capitalistico che ha trasformato ogni costa, ogni città, ogni percorso, ogni insenatura, ogni paese coi suoi abitanti, i suoi fiumi, i suoi deserti, i suoi monti, le sue miniere, le sue foreste, i suoi animali, in mercati da conquistare, da predare, da sfruttare. Le guerre, più che lo sviluppo pacifico, sono state il simbolo della società moderna, della società sviluppata economicamente, della cancellazione di vecchie e antiche civiltà per sostituirle con la civiltà industriale che nei paesi economicamente più arretrati si è portata appresso inevitabilmente la civiltà del denaro, del profitto capitalistico, dello sfruttamento spietato di ogni risorsa, la civiltà di una violenza che le civiltà precedenti non avevano mai visto.

Nei paesi nel Nord Africa e del Vicino e Medio Oriente, le fragili, ma non per questo meno avide e spietate, borghesie locali si sono messe al servizio della “nuova civiltà”, della civiltà del profitto capitalistico, contribuendo a trasformare le masse contadine in masse proletarie, costituendo in questo modo un enorme serbatoio di forza lavoro a bassissimo costo alle porte dell’Europa, alle porte di quel “primo mondo” che sfoggia la propria ricchezza, il proprio sviluppo economico e sociale, come un carattere distintivo come fosse il privilegio di una “razza superiore”.

Le conseguenze delle guerre, e di guerre che proprio per lo sviluppo capitalistico mondiale diventano sempre più di interesse internazionale, sono sempre meno circoscrivibili nei confini dei territori dove effettivamente si consumano. Oltre a prendere i caratteri della crisi economica del paese tale o tal altro, semidistrutto dalla guerra come è successo in Libano, in Libia, in Iraq, in Siria o nei Balcani, quei paesi producono enormi masse di disoccupati, di orfani, di diseredati, di proletari che fuggono dalla fame, dalla miseria, dalla repressione, dalla stessa guerra per riparare in paesi in cui almeno non ci sia la guerra e nei quali vi sia almeno la “speranza” di sopravvivere.

Sono le guerre, che le potenze imperialistiche europee, soprattutto, oltre a quelle americana e russa, hanno condotto in quasi due secoli direttamente o per interposto Stato locale, ad accumulare in quel vasto territorio – che dal Nord Africa, passando per il Sahel e il Corno d’Africa, va fino al Vicino e Medio Oriente, per poi spingersi fino al Caucaso e all’Asia centrale – le più forti contraddizioni date da alcune isole di sviluppo industriale – soprattutto dedicato all’estrazione delle risorse del sottosuolo, ai porti e alla lavorazione per conto delle industrie euroamericane – immerse in ambienti economici e sociali fortemente arretrati.

Le masse che da anni fuggono da quei paesi sconvolti dalle crisi economiche, dalle carestie, dalle guerre, cercano in tutti i modi di raggiungere le altre sponde del mare più vicine a loro, le sponde soprattutto della Grecia e dell’Italia da dove inoltrarsi nei paesi del centro e del nord Europa. Masse che, dopo aver traversato territori inospitali e deserti, dopo aver subito ogni sorta di vessazione e tortura, affrontato malattie e morte, giunte finalmente sulle coste che guardano l’Europa, devono ancora subire ogni sorta di oppressione e di sfruttamento prima di essere imbarcati, come sardine in scatola, in carrette del mare che inesorabilmente cedono dopo poche miglia non solo per l’esagerato numero di persone imbarcate, ma anche perché non adatte a tenere il mare. Il naufragio, perciò, è assicurato, premeditato e l’unica possibilità di sopravvivere al naufragio è quella di essere raccolti in tempo da qualche nave che viene loro in soccorso.

Così, la conta dei sopravissuti viene fatta in parallelo con la conta dei morti e dei dispersi. Madri e padri che, prima di annegare, affidano i loro figli ad altri disperati che come loro cercano di raggiungere terra; uomini, donne e bambini che vengono inghiottiti dal mare perché il barcone si rovescia e perché dalla stiva in cui sono stati fatti calare non riusciranno mai ad uscire. Eppure, nonostante sappiano di correre seriamente il rischio di morire nella traversata, comunque tentano lo stesso sia perché non hanno più alcuna risorsa per attendere un “passaggio meno rischioso”, sia perché costretti dai trafficanti ad imbarcarsi secondo i loro sporchi interessi.

Ma toccare terra in Grecia, in Italia, o a Malta o in Spagna, per i sopravvissuti non significa aver concluso il viaggio. Si finisce nei centri di “prima accoglienza”, di identificazione ed espulsione e, aldilà degli esempi di solidarietà portati dagli abitanti locali, come nel caso di Lampedusa, lo Stato borghese intende accogliere soltanto chi ha “diritto” di chiedere “asilo politico”, le cui pratiche naturalmente sono sempre lunghissime e anche quando, alla fine, danno la certezza che la richiesta venga accolta, la vita dei rifugiati non sarà mai una vita “normale” (per quanto normale possa essere la vita nella società che sta in piedi solo sfruttando il lavoro salariato). E nel caso in cui, nel tal paese europeo, emergesse, da parte della classe padronale e industriale, l’esigenza di inserire nei propri cicli produttivi manodopera a basso costo, allora anche i migranti cosiddetti “economici” avrebbero un’occasione di trovare lavoro (con adeguato permesso di soggiorno) e sfangare la vita nella civilissima Europa in cui il loro destino sarà sempre quello di essere stranieri!

 

La civilissima Europa alza muri e si predispone a bloccare i flussi migratori nei paesi di partenza

 

I nostri benpensanti si chiedono: ma chi glielo fa fare di rischiare in questo modo la vita? Non è meglio che se ne stiano a casa loro? Hanno comunque la stessa probabilità di morire o di sopravvivere sia che se ne stiano a casa loro sotto i bombardamenti sia che tentino la traversasta nelle carrette del mare... tanto vale che se ne stiano a casa loro!...

E i nostri patriottardi razzisti, che dicono? Bisogna “aiutarli a casa loro”, e invece di spendere soldi per salvarli in mare e tenerli nei nostri centri di accoglienza, si facciano investimenti e si dia istruzione a casa loro, evitando un’invasione a casa nostra; ci portano malattie, un’altra cultura e un’altra religione, come l’islam, che è la religione dei “terroristi”..., prima pensiamo agli Italiani!

Ma ci sono anche coloro che, spinti dalla pietà, pensano che sia giusto accogliere i migranti che hanno rischiato tanto fuggendo da situazioni drammatiche, ma nel rispetto delle “nostre” leggi, dei “nostri” costumi e delle “nostre” abitudini, secondo una democratica carità cristiana...

Tutti, governanti, politici, sindacalisti, imprenditori, bottegai, alzano la voce: bisogna “fermare i flussi”! E l’esempio migliore in questo senso lo dà ancora una volta la Germania, per bocca della cancelliera Merkel. Mesi fa sorprese tutti gli altri capi di Stato, preoccupatissimi del flusso sempre crescente di migranti verso i paesi del centro-nord Europa, proclamando che la Germania era pronta ad accogliere fino a 1 milione di migranti (le braccia da lavoro a basso costo facevano gola, evidentemente); era pura propaganda? Sì perché poi tornò sui suoi passi dichiarando che la Germania avrebbe accolto solo profughi siriani (dove infuriava e infuria ancora una guerra devastante) ma naturalmente secondo le leggi che regolano l’identificazione esatta di ogni migrante (operazione richiesta ai paesi di “primo ingresso”, ossia alla Grecia e all’Italia in particolare). Successivamente, di fronte alla notevole pressione sulle frontiere europee da parte di masse sempre più numerose di profughi dalla Siria e non solo, la UE accorda alla Turchia – dove vi sono rifugiati nel frattempo più di 2 milioni di siriani – ben 6 miliardi di euro perché essa blocchi i migranti nel proprio territorio. Alla Grecia – e lo sterminato campo di Idomeni parla da solo – non è riservata la stessa attenzione; evidentemente il suo debito con l’Europa è ancora così alto che deve espiare per anni!... Ed oggi, dopo una serie interminabile di riunioni ai vertici a scala europea sulla “questione immigrazione” e sulle “quote di immigrati” che ogni paese dell’Unione, secondo accordi presi in sede di Commissione europea, si dovrebbe impegnare ad accogliere, la Merkel dichiara – dopo che molti paesi europei si sono detti contrari alle “quote”, mentre alcuni hanno già alzato muri, come l’Ungheria e la Macedonia, ed altri minacciano seriamente di alzarli, come l’Austria – che “i Paesi della UE non possono lasciare sola l’Italia ad affrontare l’emergenza dei flussi migratori”, lanciando anche un monito all’Austria: “se chiudiamo il Brennero l’Europa è distrutta”.

Con tale dichiarazione non significa che la Germania, la Francia, l’Austria aprano le proprie frontiere lasciando passare i migranti che non intendono stabilirsi in Italia o in Grecia: significa in realtà accelerare il piano europeo per arginare i flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente. Questo piano è già formalmente elaborato e deve essere soltanto approvato dalla Commissione UE a fine mese; esso prevede investimenti in paesi africani e mediorientali con cui la UE stipulerà dei contratti, partendo da Libia, Tunisia, Libano e Giordania, per poi stringere accordi con Costa d’Avorio, Senegal, Ghana, Nigeria, Etiopia, Niger e Sudan. Dunque, ciò che sta prevalendo non è la “libera circolazione delle persone” come Madame Democrazia proclama da sempre, ma il blocco dei flussi negli stessi paesi in cui si formano. Il piano prevede sì degli investimenti (si parla in partenza di 3 miliardi di euro per arrivare a 30 se non a 60 miliardi), ma solo in cambio del controllo delle frontiere, dei flussi e della riammissione dei migranti espulsi dai paesi europei!

Che cosa succederà? Non è difficile prevedere che aumenterà la repressione in tutti i paesi con cui la UE stipulerà questi accordi, aumenterà la corruzione in ognuno di questi paesi e nei rapporti con gli “addetti” europei, e aumenteranno i fattori di tensione negli stessi paesi poiché gli investimenti che verranno fatti non andranno verso uno sviluppo economico accelerato (che sotto le leggi del capitalismo non è possibile se non per poche isole industriali e a costi di sfruttamento bestiale della forza lavoro), ma al controllo sociale, perciò allo Stato e alla sua burocrazia, alle forze dell’ordine, all’esercito, agli armamenti e forse qualche briciola sarà destinata alle scuole e a qualche piccola attività artigianal-aziendale. Esattamente quel che è già successo negli ultimi decenni: se questi paesi hanno conosciuto in qualche zona uno sviluppo economico, l’hanno pagato con la miseria crescente per la gran parte della popolazione, con uno sfruttamento schiavizzante sempre più pesante e sottoposto alle conseguenze più drammatiche delle crisi economiche e delle guerre che inevitabilmente hanno caratterizzato lo sviluppo del capitalismo in quei paesi.

I flussi migratori verso l’Europa occidentale difficilmente potranno essere fermati in virtù di “piani di aiuti economici” come l’ultimo in ordine di tempo, il Migration Compact, promosso dall’Italia in sede europea. Il capitalismo non aiuta se non ha una convenienza immediata o prossima, e chi guida e controlla gli investimenti non sono i paesi che ricevono ma i paesi che investono, come anche l’europea Grecia dimostra ampiamente. In sostanza sono sempre i rapporti di forza che decidono i risultati di ogni contrasto: le masse migranti, con la loro irrefrenabile spinta a fuggire dalle guerre e dalla miseria, vanno inevitabilmente a contrastare la pace sociale nei paesi opulenti d’Europa. Questi ultimi, sebbene interessati ad avere a disposizione un ampio bacino di manodopera a basso costo grazie alla quale aumentare la concorrenza fra proletari per abbassarne in generale le pretese e i salari, non amano l’estremo disordine sociale provocato dal repentino e disordinato afflusso di migranti da ogni parte del mondo. Perciò alzano barriere ai propri confini per impedire il libero passaggio dei profughi, soccorrono in mare i carichi di disperati su carrette che affondano dopo poche miglia (incolpando i trafficanti di uomini che lucrano sulle disgrazie dei profughi mandandoli a morire nella traversata), convogliano i sopravvissuti, “salvati” dai naufragi o lasciati entrare nel paese, accogliendoli in campi di concentramento, ma nello stesso tempo pagano fior di miliardi – come nel caso della Turchia – perché lo sporco lavoro di trattenerli come prigionieri, per identificarli e decidere se vanno accettate o meno le loro richieste d’asilo, sia fatto nella cintura esterna dei confini europei: oggi Turchia, Grecia, Cipro, Malta, Italia, Spagna e domani, spostandola più all’esterno ancora, se ci riescono, nei paesi del Nord Africa e in quelli del Vicino e Medio Oriente con i quali intendono contrattare il blocco delle migrazioni.

 

Le lezioni che i proletari d’Europa devono tirare

 

Da questa situazione, i proletari europei che cosa devono imparare?

Primo: le cause profonde della miseria, della fame e delle guerre che devastano molti paesi di quella che spesso è stata chiamata la periferia dell’imperialismo – i cosiddetti paesi sottosviluppati, in realtà capitalisticamente arretrati e colonizzati dalle potenze imperialistiche – sono da cercare nel modo di produzione che domina il mondo intero: il modo di produzione capitalistico che ha il suo nucleo vitale nello sfruttamento della forza lavoro salariata e che per suo fine ha il profitto capitalistico, esigenza primaria del capitalismo stesso sotto ogni cielo e che contrasta congenitamente con le esigenze di vita della specie umana: gli uomini di tutto il mondo, infatti, sono divisi in classi sociali, e le più importanti sono la classe dei capitalisti e la classe dei proletari, la classe degli sfruttatori di forza lavoro e che posseggono tutta la ricchezza sociale esistente – dunque la classe dei capitalisti, la classe borghese – e la classe dei lavoratori, ossia di coloro che posseggono soltanto la propria individuale forza lavoro – la classe proletaria. In mezzo tra queste due classi ci stanno le mezze classi, i contadini, i bottegai, gli artigiani, i burocrati, insomma quella che chiamiamo da sempre la piccola borghesia che vive esclusivamente sulla piccola proprietà e sulla mediazione commerciale che, come una grande rete, avvolge tutta la vita sociale della società borghese. Le cause, dunque, non sono la cattiva volontà, la sete di potere, la criminalità, la violenza, la corruzione, la mercificazione di qualsiasi attività umana: queste sono prodotte dal sistema economico che basa tutto il suo sviluppo, e la sua essenza vitale, sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla proprietà privata e sull’appropriazione privata dell’intera ricchezza sociale. Il mercato è il logico trait d’union tra chi vende e chi compra, ma sul mercato vince sempre, alla fin fine, chi possiede i mezzi di sopravvivenza fisica, primo atto di violenza potenziale che si traduce in violenza effettiva, cinetica, tutte le volte che la ricerca e la difesa del massimo profitto nel minor tempo possibile vengono accelerate dalla concorrenza. I migranti, che rischiano la vita dopo aver impegnato qualsiasi modesto gruzzolo racimolato per il “viaggio della speranza”, sono la dimostrazione lampante di come le leggi del mercato capitalistico funzionano esclusivamente a favore dei capitalisti e dei loro maneggioni.

Secondo: la condizione sociale di proletario, nel capitalismo, è appunto quella di non possedere nient’altro che la propria forza lavoro. La forza lavoro, ossia la capacità fisica di lavorare, dunque di essere sfruttato da parte di coloro che possiedono i mezzi di produzione, i mezzi finanziari e i necessari legami col mercato, è riproducibile ogni giorno, basta alimentarla con cibo, acqua riposo e proteggerla da elementi atmosferici e naturali che possono intaccarne la salute. Ma in questa società cibo, acqua, riposo, vestiti, casa, riscaldamento ecc. non sono a libera disposizione, bisogna comprarli al mercato e per comprarli bisogna avere il denaro, e per avere il denaro si è obbligati a vendere la propria forza lavoro al capitalista che è l’unico compratore che può pagarla con quel denaro che servirà per comprare cibo, acqua, riposo, vestiti, casa ecc. Il salario con cui il capitalista paga la forza lavoro serve al proletario per ricostituire la propria forza lavoro e per poterla rivendere ogni giorno al capitalista che gliela comprerà; ma se non riesce a trovare il capitalista al quale venderla, rimane senza salario, dunque non mangia, non vive, ed è per questo che ogni singolo proletario precipitato nella condizione di disoccupato e diseredato è costretto ad accettare qualsiasi condizione peggiorativa di vita e di lavoro pur di poter mangiare. La scelta di lavorare o non lavorare, fare questo o un altro lavoro, di lavorare di più o lavorare di meno, lavorare in questo o in un altro paese, in realtà non esiste. Sono le condizioni sociali generali, e i rapporti di forza esistenti tra le classi – tra la classe dei capitalisti e la classe del proletariato – che decidono il valore della forza lavoro, il valore-salario e perciò la possibilità da parte dei lavoratori salariati di difendere meglio, o di non difendere abbastanza, le proprie condizioni di esistenza rispetto alla pressione che inevitabilmente i capitalisti esercitano su tutta la massa dei lavoratori salariati. E sono le condizioni di resistenza alla pressione capitalistica da parte dei proletari, se si organizzano appositamente, che possono migliorare la possibilità da parte proletaria di alzare il livello delle rivendicazioni nei confronti del padronato, dei capitalisti. I capitalisti hanno dalla loro parte la proprietà di tutto, e l’organizzazione dello Stato e della forza militare che difende la loro proprietà. Formalmente i capitalisti non sono proprietari di uomini, come gli schiavisti di un tempo, ma la condizione sociale in cui sono costretti a sopravvivere i proletari li rende oggettivamente schiavi del lavoro salariato: moderna è la società, e i proletari sono i moderni schiavi. Il rapporto economico di produzione decide del rapporto sociale tra proletari e capitalisti: tra le due classi l’antagonismo è nei fatti perché l’interesse dei capitalisti è utilizare il loro dominio economico, politico e sociale per sfruttare il lavoro salariato al più basso costo possibile, avendo a disposizione la massa più vasta possibile di proletari per poter attingere da quel “bacino” la quantità di forza lavoro ritenuta necessaria per ottenere il tasso di profitto cercato; mentre l’interesse dei proletari, dei lavoratori salariati, nella società dominata dal capitalismo, e finché è dominata dal capitalismo, è di farsi sfruttare in quantità di tempo di lavoro e in qualità di intensità di lavoro il meno possibile al costo più alto possibile. Gli interessi, dunque, tra capitalisti e proletari non sono comuni, ma antagonisti alla base stessa del modo di produzione esistente.

Tutto ciò non riguarda solo il proletariato dei paesi capitalistici più sviluppati come non riguarda soltanto i proletari dei paesi capitalisticamente più deboli: ciò che lega i proletari di qualsiasi paese, autoctoni e immigrati, come i proletari di qualsiasi età, genere o nazionalità, oltre alla condizione sociale determinata dai rapporti di produzione, è lo stesso rapporto di concorrenza con il quale i borghesi mettono i proletari gli uni contro gli altri. Nel  rapporto di concorrenza i proletari vengono in generale a contatto gli uni con gli altri o nello stesso luogo di lavoro o nella stessa località in cui si abita; se quel rapporto agisce a pieno regime, significa che i proletari sono una massa di singoli fornitori di forza lavoro ai propri padroni e non possono che subire le condizioni dettate dal loro datore di lavoro; ma il rapporto di concorrenza fra proletari può essere spezzato e ciò avviene quando i proletari autoctoni e immigrati, e di diversa età, genere o nazionalità, si riconoscono come membri di una stessa classe, ossia come membri di una forza che da “potenziale” può diventare “effettiva” nella misura in cui si contrappone alla pressione del datore di lavoro diretto, e quindi di qualsiasi datore di lavoro, organizzandosi per impedire che quella pressione divida, isoli e schiacci ulteriormente ogni singolo lavoratore salariato. Il rapporto di forza tra capitalisti e proletari può cambiare, solo se i proletari si riconoscono come classe, come forza di classe.

I proletari, in realtà, posseggono una forza che i capitalisti non posseggono, ed è esattamente la stessa forza lavoro che viene sfruttata dai capitalisti con la violenza potenziale e cinetica con cui dominano l’intera società. I proletari non solo costituiscono la grande maggioranza della popolazione nei paesi capitalisticamente avanzati e la parte determinante della popolazione nei paesi capitalisticamente arretrati, ma come classe sociale, possono danneggiare gli interessi dei capitalisti interrompendo il proprio lavoro, ossia azzerando, ad esempio con lo sciopero compatto e ad oltranza, il tempo di lavoro dal quale i capitalisti traggono il pluslavoro, che i marxisti chiamano plusvalore e dal quale deriva il profitto capitalistico. La forza lavoro rende profitto al capitalista se viene sfruttata sistematicamente nel tempo e nello spazio, e si fa sfruttare senza alcuna opposizione, adattandosi alle diverse esigenze della produzione e alle quotazioni salariali decise dai padroni. Ma se si oppone, se avanza l’esigenza contraria di alzare la quotazione salariale e di abbassare il tempo di lavoro giornaliero, allora entra in lotta con gli interessi dei capitalisti e la lotta pone prima o poi la questione dei rapporti di forza non più tra proletari e capitalisti di quella determinata azienda, ma tra la classe dei proletari e la classe dei capitalisti: l’intervento delle forze di polizia o dell’esercito negli scioperi operai e nelle manifestazioni proletarie è il segno evidente che lo Stato, e le sue ramificazioni locali, difendono gli interessi dei padroni contro gli interessi operai.

Grazie alle loro lotte sia economiche che politiche, i proletari sono storicamente portatori di una visione della società del tutto superiore ad ogni altra visione perché supera gli antagonismi e i contrasti sociali che caratterizzano la società capitalistica, e perché è in grado di utilizzare le innovazioni tecniche del moderno industrialismo ai fini non della concorrenza di mercato e della sopraffazione dei concorrenti più deboli, ma ai fini della soddisfazione delle esigenze di vita della specie umana in un ambiente economico e sociale non piegato alle leggi del mercato e del profitto capitalistico, con il loro seguito di oppressione e di guerra, ma volto ad un armonico equilibrio con la natura e ad una libertà reale di ciascuno perché nessuno sarà più costretto a vivere nelle condizioni di schiavitù salariale ma sarà naturalmente portato a dare alla società secondo le sue capacità e a ricevere dalla società secondo i suoi bisogni.

Terzo: i proletari, migranti per bisogno economico, o per fuggire dalle devastazioni delle guerre, o per sottrarsi alle persecuzioni di regimi borghesi particolarmente spietati con gli oppositori, non sono per nulla facilitati nella loro migrazione né dai paesi ricchi, civili, democratici, in cui si dispensano a piene mani prediche sulla pace sociale, sulla collaborazione tra le classi, sui valori della patria, della famiglia e del benessere, né tantomeno dai paesi limitrofi al proprio dal quale fuggono per le ragioni suddette. Essi incontrano ogni genere di difficoltà, di ostacolo e di pericolo, soprattutto se il loro fuggire è disperato. Ogni borghesia lotta prima di tutto contro ogni borghesia straniera e lotta contro il proprio proletariato tutte le volte che questo intralcia i suoi interessi di classe. La lotta borghese non avviene soltanto attraverso le formazioni legali di polizia, di magistratura e secondo i criteri della legalità formale. Avviene spesso, e soprattutto, nei confronti di masse sradicate dai loro luoghi originari e in fuga dalle guerre e della fame, attraverso gli affaristi, i trafficanti, i negrieri; i truffatori sono sempre presenti in ogni porto, in ogni suk, in ogni strada, pronti a sfruttare la debolezza dei “clandestini”; le carrette del mare e i racconti dei sopravvissuti che i media talvolta riportano aprono soltanto uno squarcio su situazioni che nella realtà sono molto ma molto più drammatiche e delle quali fanno parte lo sfruttamento bestiale anche se temporaneo, gli stupri, la tratta e lo sfruttamento delle donne e dei minori, le torture e gli assassinii.

Eppure, nonostante questi rischi siano ben presenti alle masse di migranti che affollano le coste del Mediterraneo, queste stesse masse non si fermano: come le masse di animali che fuggono dall’incendio della savana o della foresta, cercando soltanto di salvare la pelle, così le masse di profughi e di migranti che fuggono dalle guerre e dalla fame, nonostante nel tragitto ne muoiano molti, comunque fuggono, e tentano il tutto per tutto. In realtà fuggono non da un incendio provocato da un fulmine e da un forte vento che ne ha allargato il fronte, ma fuggono dalle conseguenze più orrende di quello stesso capitalismo che troveranno anche sulla sponda europea del Mediterraneo. I loro “salvatori” occasionali possono anche essere i marinai della guardia costiera o delle navi militari che controllano le acque di fronte alle coste della Libia, della Tunisia, dell’Egitto o della Turchia, e certamente trovano medici e assistenti nei porti d’attracco in Grecia o in Italia. Ma trovano anche lo Stato borghese con le sue leggi, i suoi centri di identificazione e di espulsione, con la sua burocrazia militare e civile. Lo Stato borghese non è mai tenero con i “clandestini”, ma se in parte li tollera è perché sfuggono momentaneamente al suo controllo o perché vengono “catturati” da imprenditori che li usano temporaneamente per sfruttarli bestialmente nei campi o nei sotterranei in cui vengono costretti a lavorare 12, 14, 16 ore al giorno per pochi euro (Rosarno insegna). Al sistema capitalistico non si sfugge. Come proletari, perdipiù clandestini, non avranno mai vita facile e comunque, oltre ad essere sfruttati in modo più pesante dei proletari autoctoni, verranno sistematicamente usati come concorrenti sul piano delle condizioni di lavoro e di vita contro i proletari autoctoni; contro cioè gli unici con i quali condividono realmente le condizioni di schiavitù salariale contro le quali possono combattere sono riconoscendo se stessi come membri di una classe proletaria che ha una forza da mettere in campo se organizzata e indirizzata su rivendicazioni di classe.

Ma di questa stessa classe proletaria fanno parte anche i proletari autoctoni che a loro volta devono fare uno sforzo per rompere quella cappa asfissiante in cui sono stati ammassati dai sindacati tricolore e dai partiti che si dicono “dei lavoratori” o “di sinistra”, ma che in realtà sono il braccio operaio del collaborazionismo. Certo, finché i proletari autoctoni non riescono a rompere i lacci che li avvincono ancora al carro borghese e alle sue sorti, sarà difficile non solo che riconoscano i proletari immigrati come propri fratelli di classe, ma anche che riconoscano i proletari degli altri settori e delle altre fabbriche come veri e unici alleati di classe. E non sarà una “rivoluzione culturale” o una “presa di coscienza collettiva” che educherà i proletari a riconoscere i propri interessi di classe come opposti a quelli borghesi: saranno le lotte per la sopravvivenza, le lotte contro gli attacchi sempre più pesanti alle loro condizioni di lavoro e di vita ad unire i proletari, a far sentire loro la vera solidarietà di classe, a dare loro forza non solo per condurre la lotta, che non potrà che essere parziale e limitata, ma per riprendere la lotta successivamente anche dopo le sconfitte, ma su un piano più esteso ed alto, sul piano politico più generale nel quale la questione centrale non sarà più il posto di lavoro o il salario ma il potere politico sulla società, che potrà essere conquistato soltanto per via rivoluzionaria.

L’economia capitalistica si sviluppa attraverso continue tempeste economiche, monetarie, finanziarie e attraverso guerre cosiddette etniche, religiose se non addirittura di clan; ma le crisi economiche fanno parte integrante del capitalismo e del suo sviluppo, e non potranno mai essere superate se non producendo fattori di crisi successive ancora più devastanti. L’ultima crisi mondiale che dal 2008, e per più di 8 anni, ha scosso il mondo finanziario e poi quello dell’economia reale, è arrivata dopo crisi precedenti di durata e di portata inferiore, ma crisi che hanno terremotato gli equilibri imperialistici stabiliti nel secondo dopoguerra mondiale. Il crollo dell’Urss e del suo “impero”, le guerre nella ex Jugoslavia, le guerre in Iraq, in Libia, in Siria – per citare quelle più note e disastrose – il lento declino degli strapotenti USA e l’aggressività a livello mondiale del capitalismo cinese, sono tutti fattori che hanno provocato e provocheranno altre crisi del capitalismo mondiale. Altri flussi migratori percorreranno il mondo, come già avviene tra il Messico e gli Stati Uniti e come avverrà tra i paesi dell’America Latina e dell’Estremo Oriente. Il Mediterraneo ci riguarda direttamente, perché alle coste della Sicilia, della Calabria della Puglia da anni arrivano i sopravvissuti delle traversate dal nord Africa. E abbiamo cominciato a conoscere alcune isole greche, tra la Turchia e la Grecia, non come mete di vacanza, ma come terra d’arrivo di profughi siriani, afghani, algerini, nigeriani, gambesi, somali: Agatonissi, Lebos, Farmakonissi, Kalolimnos, Kos. E a queste si aggiungono le coste di Cipro e della Spagna anche se con meno flussi.

I media sostengono che con la chiusura dei confini di Macedonia, Bulgaria, Ungheria, Serbia, Slovenia e ora Austria, si sono arrestati i flussi migratori di terra, costringendo decine di migliaia di migranti a sostare in campi mal organizzati in Grecia e in Turchia, e aprendo di fatto nuovamente le vie del mare; e così, soprattutto dalla Libia e dall’Egitto, sono ricominciate le traversate di carrette del mare in condizioni ancora peggiori di quelle di uno o due anni fa. E infatti i morti in mare per annegamento sono aumentati notevolmente. I flussi però, anche tra alti e bassi, inevitabilmente continueranno e il “problema” dei migranti non sarà risolto; perlomeno, non sarà risolto pacificamente. La repressione, che già è in atto, anche se episodicamente, in Grecia e in Italia, ma anche in Francia e in Spagna, sarà adottata più sistematicamente in Turchia, in Libia, in Egitto o in Libano, ossia in quei paesi le cui coste sono la naturale via di partenza... per la sognata Europa.

I proletari europei, italiani e greci innanzitutto, e spagnoli, francesi e tedeschi, che hanno una magnifica storia di lotte di classe a cui ricollegarsi, non hanno solo un dovere morale nei confronti dei proletari migranti, hanno un interesse di classe da perseguire. Soltanto insieme, proletari autoctoni e proletari immigrati, possono battere la concorrenza tra proletari costituendo un fronte proletario di classe atto a opporsi vigorosamente contro il fronte unito borghesia-opportunismo. E questa è una lezione che va imparata sul terreno della lotta, sul terreno dell’organizzazione indipendente di classe, fuori da ogni politica collaborazionista, nazionalista e patriottica, contro ogni pregiudizio razziale o religioso. Il vero “terrorista” è il regime borghese che utilizza sia la violenza potenziale delle sue leggi e delle sue intimidazioni, che la violenza effettiva della repressione e della tortura, e non fa differenza che si celi dietro la democrazia di Al-Sisi o il cosiddetto “Stato islamico”, dietro i consiglieri militari americani, francesi o britannici in Iraq, in Siria o in Libia o dietro governi prezzolati in Afghanistan, nel Corno d’Africa o nei paesi del Golfo.

Il vero aiuto alle masse che fuggono dalla miseria e dalle guerre non lo potrà mai dare il capitalismo, tanto meno le potenze imperialistiche che si nutrono delle guerre e della miseria di intere popolazioni. La via d’uscita è solo nelle mani del proletariato, a livello mondiale, e nella sua rivoluzione anticapitalistica e antiborghese.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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