La democrazia americana si prepara ad un giro di vite

Dal democratico Obama al repubblicano Trump, metodi diversi per gli stessi obiettivi imperialistici

(«il comunista»; N° 146;  Dicembre 2016)

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La vittoria elettorale del repubblicano Trump ha sorpreso la gran parte dell’intellighentsia americana ed europea che dava per certa la vittoria di Hillary Clinton, tanto più per l’appoggio che aveva ottenuto non solo dallo staff del presidente uscente Obama ma dagli stessi grandi mezzi di comunicazione americani.

Yes, we can, ricordate?, è stato lo slogan che simboleggiava l’ascesa del primo politico nero allo scranno della presidenza in America. E, sebbene tutti i sondaggi, al di là delle temporanee oscillazioni, dessero continuamente la Clinton in vantaggio su Trump, alla fine – pur senza pronunciarlo mai – è stato lo slogan nascosto anche di Trump: sì, si può fare, si può vincere, alla faccia dei sondaggi e dello stesso suo partito che, fino alla fine, gli è stato contro. Il sistema elettorale che governa le elezioni presidenziali americane è fatto in modo che la democrazia elettorale (un voto per ogni elettore) venga piegata ad interessi di parte (lobby economico-finanziarie o Stati). Il fatto che ci siano determinati Stati che, sebbene con una popolazione con diritto al voto inferiore rispetto ad altri Stati, pesano in termini di “grandi elettori” più di altri, costituisce uno sbilanciamento che può cambiare completamente il risultato finale. Gli esempi più recenti riguardano G.W. Bush, che aveva strappato all’avversario la vittoria per una differenza di voti irrilevante, e la stessa vittoria di Donald Trump che ha sconfitto Hillary Clinton sebbene quest’ultima, in termini di singoli voti, ne abbia avuti in totale circa 1 milione più di Trump. Scherzi della democrazia borghese... che non solo inganna sistematicamente le grandi masse illudendole di essere le vere protagoniste delle decisioni politiche, economiche, finanziarie, sociali e militari che i governi prendono, ma inganna e sorprende anche la grande borghesia abituata, solitamente, a tirare i fili della politica secondo le convenienze nel breve come nel lungo periodo.

Il miliardario Trump è “sceso in campo”, ma non è un imprenditore solo ultimamente “prestato alla politica”; alla fine degli anni Settanta fu tra i principali sostenitori di Ronald Reagan nella campagna per le presidenziali e in seguito, a seconda delle convenienze per i suoi affari del momento, fece parte del partito repubblicano, poi del partito riformista, poi di quello democratico per tornare nel partito repubblicano. La sua recente incursione nell’agone politico più importante, quello dal quale esce il nuovo presidente degli USA, ha rivelato che, in un’America ancora scossa dalle conseguenze della crisi del 2007 (che, come detonatore, ebbe la bolla dei subprime proprio del settore immobiliare in cui sguazza da sempre Trump), le violente contraddizioni che la caratterizzano, e che hanno colpito in particolare i larghi strati non solo operai ma anche dei ceti medi, hanno aperto la strada alle tendenze più reazionarie. Tendenze che “chiedevano” di essere rappresentate da personaggi estranei all’establishment, non coinvolti direttamente nelle istituzioni ma sufficientemente noti per poter attirare il favore delle grandi masse deluse e insoddisfatte dalla gestione politica di Obama.

Trump, col suo eclettismo, la sua trivialità, il suo sessismo, il suo razzismo uniti ai successi negli affari e alla rappresentazione di un continuo reality show, è apparso come “l’uomo del momento” e la sua tenacia nell’andare fino in fondo nel duello elettorale con la Clinton, vera rappresentante dell’establishment, è stata ripagata ed ha vinto. In verità ci aveva provato anche nel 2012, ma dato che i sondaggi non erano stati per nulla favorevoli alla sua candidatura, lasciò perdere. Nel 2016, invece, le cose sono andate diversamente. La piccola borghesia rovinata dalla crisi, rabbiosa nei confronti degli immigrati clandestini e gelosa delle sue armi con cui difendere la propria proprietà privata, e gli strati operai più qualificati e i piccoli agricoltori, tartassati dal fisco, gettati nell’insicurezza del posto di lavoro e schiacciati da prospettive di vita miserevoli, chiamati dal circo elettorale a “scegliere” il nuovo presidente, hanno rivolto il proprio favore a colui che propagandava meglio di altri lo stop alla pressione fiscale, il rifuto al controllo delle armi, il ritiro della riforma sanitaria di Obama, il rimpatrio di milioni di clandestini e, a livello di politica estera, lo stop agli aiuti internazionali, la ridiscussione degli accordi con Iran e Cina e la lotta al terrorismo internazionale identificato con l’islam. 

La borghesia imperialista americana ha trovato in Trump il personaggio giusto per il teatrino della sua politica: è miliardario, dunque fa parte della classe dei grandi borghesi; è sufficientemente versatile per poter impersonare, a seconda della situazione, il duro, il negoziatore, il generoso; parla come uno scaricatore di porto e usa argomenti da bar; è yankee nell’anima ed è invasato dall’ideologia di potenza della Grande America che, in un periodo in cui gli USA soffrono di un certo declino ideologico a livello internazionale, serve per preparare il “popolo americano” a soffrire, un domani, magari più di oggi... ma per un grande ideale, l’ideale di un’America che tutto il mondo deve temere.

Non sappiamo ancora quale sarà effettivamente il programma politico ed economico di Trump, una volta insediatosi ufficialmente alla Casa Bianca, e probabilmente non lo sa ancora nemmeno lui. Sta costruendo la sua squadra di governo e dovrà trovare i compromessi necessari con il suo partito per poter essere sostenuto al Congresso nelle decisioni politiche, visto che lo ha avuto contro durante la campagna elettorale. Ma è certo al mille per cento che, insieme ai suoi interessi personali di grande costruttore, il suo governo difenderà gli interessi delle lobby economiche che lo sostengono, e che avranno maggiori agevolazioni nei propri affari, e gli interessi dell’imperialismo americano in ogni angolo del mondo. Troverà difficoltà in Europa, in Asia, in America Latina, in Medio Oriente? E’ sicuro, come d’altra parte le ha trovate Obama, nonostante gli apparenti accordi e le grandi strette di mano con Hollande e Merkel. Troverà un’intesa con il russo Putin? E’ probabile, perché possono identificare interessi comuni in Medio Oriente e in Asia. Il quadro internazionale è destinato a cambiare, non tanto per l’intervento del trasformista Trump, ma perché nell’attuale disordine mondiale si stanno preparando le alleanze che si affronteranno nella terza guerra mondiale, guerra che non sembra così vicina, ma di cui le prossime crisi economiche internazionali possono accelerare lo sbocco.

A tutt’oggi, dalla scena politica e sociale americana (ma, purtroppo, non solo americana) è del tutto assente la classe operaia. Assente in termini di classe sociale che avanza le proprie rivendicazioni e che fa sentire il proprio peso sociale. Le crisi capitalistiche che hanno punteggiato gli ultimi quarant’anni non sono state sufficienti a formare nella classe operaia americana dei consistenti nuclei di proletari capaci di rappresentare i propri interessi di classe e di costituire la base per uno sviluppo della lotta di classe nel paese capitalista più importante al mondo. I proletari americani o si sono disinteressati delle questioni sociali e politiche, oppure si sono lasciati incantare, di volta in volta, dai predicatori di turno, politici o religiosi che fossero, ma sempre avvolti nella falsa ideologia borghese secondo la quale ognuno, “basta che lo voglia e che ci provi”, è artefice del proprio destino. Nessuno sa quanto tempo ci vorrà perché le operaie e gli operai americani, bianchi, neri, ispanici, asiatici, si riconoscano come una classe a sé stante, la classe sfruttata per eccellenza dalla classe borghese capitalista (anch’essa bianca, nera, ispanica, asiatica), la classe che nel profondo della sua esistenza sociale vive un antagonismo permanente contro le condizioni di sfruttamento e di schiavitù cui è sottoposta, ma che si fa spingere a reagire a quelle condizioni con metodi e mezzi solo borghesi: concorrenza tra proletari, individualismo, adorazione del dio denaro, rispetto della ricchezza e dell’autorità che ne deriva.

Soltanto riconoscendosi come classe proletaria a sé stante, classe con una prospettiva storica del tutto opposta a quella borghese; soltanto riconoscendo che solo con la lotta di classe anticapitalistica, perciò antidemocratica e antiborghese, è possibile combattere in modo deciso contro le condizioni di sfruttamento, di miseria, di fame ed è possibile prepararsi a resistere e a combattere contro la pressione borghese per la mobilitazione di guerra; soltanto riconoscendo che alla lotta di classe che la borghesia conduce ogni giorno contro la classe dei lavoratori salariati va contrapposta la lotta di classe del proletariato unito al di sopra delle differenze di nazionalità, razza, sesso, età, qualifica lavorativa; soltanto a queste condizioni la classe operaia americana potrà conquistare la sua dignità umana, sollevarsi dalla condizione di bestia da lavoro e diventare protagonista del proprio futuro: un futuro in cui è prevista la fine di ogni oppressione, da quella salariale a quella della donna, da quella di altre nazioni a quella delle razze.

La borghesia sostiene e, a suo modo, dimostra, che alla propria società, alla società del denaro, del mercato, della proprietà privata, della concorrenza capitalistica, della sopraffazione del più forte non c’è alternativa. In effetti, ad oggi, il capitalismo vince in tutti i paesi del mondo. Ma vince e continua a rimanere in piedi, nonostante le crisi e le guerre devastanti, ad una condizione: avere dalla sua parte le grandi masse proletarie  sfruttate, nonostante esse siano immiserite, affamate e massacrate in ogni parte del mondo, e l’America non è certo un paese dove non esistono disoccupati, emarginati, affamati e dove non si uccida con grande facilità.

Perché la classe operaia americana si risvegli da un profondissimo intontimento e da una dilangante intossicazione di democrazia e di individualismo, ci vorranno crisi ben peggiori di quelle che hanno già scosso l’America? E’ molto probabile; è scritto nella storia della stessa società borghese: “Con lo sviluppo della grande industria vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori [i lavoratori salariati]. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili”. Queste parole del Manifesto di Marx-Engels oggi possono far sorridere molti, come facevano sorridere le parole di Lenin prima della rivoluzione d’Ottobre in Russia. Non è scritta la data del funerale della società borghese; siamo materialisti non visionari. Ma è per quel funerale che noi comunisti rivoluzionari lavoriamo e combattiamo, certi che lo stesso capitalismo ricreerà le condizioni oggettive perché il proletariato, non importa in quale paese per primo, rialzi la testa e imbocchi la via della lotta di classe e rivoluzionaria.

19 novembre 2016                            

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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