Dirty” Duterte

Il nuovo volto sanguinario della democrazia borghese nelle Filippine

(«il comunista»; N° 146;  Dicembre 2016)

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Le Filippine, la cui economia é essenzialmente agricola, ha conosciuto recentemente un certo sviluppo industriale. Nel 1980, più del 37% delle sue esportazioni era costituito da prodotti agricoli; nel 2015 questi prodotti non rappresentavano che il 7%, mentre i prodotti industriali costituivano il 70% delle esportazioni (i prodotti elettronici, da soli, erano il 44% delle esportazioni filippine).

Annoverate nella categorie dei “nuovi paesi industrializzati”, le Filippine fanno parte di quei paesi che gli economisti borghesi chiamano le “Tigri” che, negli affollati “Dragoni” (Corea del Sud, Singapore, Hong-Kong e Taiwan), si sono integrate nel mercato capitalistico mondiale grazie alle delocalizzazioni attirate da una manodopera a buon mercato. Nel 2015 il paese ha conosciuto il più forte tasso di crescita dopo la Cina.

Le Filippine si sono specializzate in costruzioni navali, equipaggiamenti per le automobili, elettronica, informatica, chimica e call center. Il settore minerario con il rame, l’oro, l’argento e il nichel è anch’esso in pieno boom. Il paese beneficia largamente anche delle rimesse di denaro da parte dei milioni di filippini emigrati. Nel corso degli ultimi trent’anni, la classe operaia si è quindi molto sviluppata; il numero di operai impiegati nell’industria “manifatturiera” è più che raddoppiato raggiungendo il 15% del totale.

 

Sviluppo capitalista e miseria proletaria

 

Ma questo sviluppo, celebrato dalle istituzioni internazionali, nasconde male (troppo male) i ritardi economici e la miseria. Circa il 30% della manodopera è ancora impiegato nell’agricoltura ma, nonostante ciò, il paese non è autosufficiente; infatti deve importare il riso (è il primo importatore mondiale) per nutrire la sua popolazione in forte crescita demografica (75 milioni nel 2000, 100 milioni oggi). Il paese è pesantemente indebitato e la corruzione è ormai endemica.

La maggioranza della popolazione vive in condizioni ancora miserabili. Secondo le statistiche ufficiali, un quarto degli abitanti vive con meno di 1 dollaro al giorno e, secondo la Fondazione IBON [ibon.org, gruppo di ricerca non governativo], quasi tre quarti della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno. Se secondo il governo, la disoccupazione è intorno al 7%, in realtà, considerando i lavori precari che non permettono di vivere, essa supera il 25%. Infine, una larga parte della popolazione urbana è concentrata nelle bidonvilles. Secondo alcune stime, sei milioni dei dodici che abitano la capitale Manila vivono in questi quartieri. Essi vivono in mezzo ai rifiuti che inquinano l’aria, l’acqua e i terreni, e sono vittime delle politiche di espulsione portate avanti dai poteri pubblici (come a Quezon City nel 2014).

Come in molti paesi capitalisti, le Filippine hanno subito l’adozione di misure “neo-liberali” di privatizzazione e di deregulation. Fra le misure messe in atto in questo quadro, vi è la “contrattualizzazione”, soprannominata sistema “endo” (end of contract), che impedisce ai lavoratori di accedere alle garanzie dei salariati a tempo indeterminato, reclutati con dei contratti (di volta in volta) della durata di meno di cinque mesi. Nelle zone “franche”, che si sono moltiplicate, i lavoratori sono privati praticamente di ogni diritto e sottoposti ad un severo dispotismo d’azienda; d’altra parte, le organizzazioni internazionali denunciano regolarmente il ricorso al lavoro forzato nelle piccole imprese e nell’agricoltura (soprattutto nelle piantagioni di canna da zucchero).

Le Filippine sono anche uno dei principali paesi d’emigrazione nel mondo: ogni giorno vi è una media di 6000 partenze. Undici milioni di filippini vivono all’estero, tre milioni dei quali negli Stati Uniti e due milioni in Arabia Saudita. A questi si aggiungono 300.000 marinai filippini che  solcano gli oceani su navi mercantili.

L’integrazione delle Filippine nell’economia mondiale capitalista è stata facilitata dagli stretti legami che il paese intrattiene con la sua vecchia potenza colonizzatrice, gli Stati Uniti. Un tempo colonia spagnola, le Filippine sono state conquistate dall’imperialismo americano con una sanguinosa guerra tra il 1899 e il 1902. L’esercito americano devastò il paese, conducendo delle vere “campagne di sterminio” e internando i civili nei campi di concentramento, il tutto accompagnato dalla propaganda razzista che celebrava la superiorità degli Americani, discendenti da “avi ariani”. Questo genocidio coloniale è responsabile dell’assassinio da 250 a 750 mila civili (1).

Il paese è stato una colonia americana fino alla fine della seconda guerra mondiale, prima di diventare formalmente indipendente e di essere governato da una sfilza di leader filoamericani; il governo più famoso e più temibile fu quello rappresentato dal dittatore Ferdinando Marcos, che diresse il paese con pugno di ferro dal 1965 al 1986.

 

Duterte presidente: la vittoria “della legge e dell’ordine”

 

All’inizio di maggio di quest’anno, Rodrigo Duterte è stato eletto presidente con circa il 40% dei suffragi al secondo turno. Ha vinto nettamente con 6 milioni di voti in più in uno scrutinio in cui la partecipazione è stata importante.

Duterte ha fatto una campagna demagogica e tendente a privilegiare l’ordine pubblico, basandosi sulla sua esperienza di sindaco di Davao (2). In questa città Duterte ha portato “l’ordine” utilizzando degli squadroni della morte, la milizia Alsa Masa composta da vecchi militari e da delinquenti, e la Davao Death Squad (3). Questi gruppi sono accusati di aver assassinato negli anni Novanta, in nome della lotta contro la droga, più di mille persone tra cui anche ragazzi di strada.

All’inizio di settembre, questa politica del terrore è stata allargata a livello nazionale; il risultato: circa 2.500 persone sono state uccise in attacchi congiunti di poliziotti assassini  e membri degli squadroni della morte.

Sebbene talvolta affermi di essere “di sinistra”, Duterte ha dichiarato durante la sua campagna elettorale che il suo modello politico era il dittatore Marcos (rovesciato da una pretesa “rivoluzione popolare” nel 1986 che, realizzando la “democratizzazione”, spezzò l’egemonia di potere del suo clan, ma a vantaggio di altre forze borghesi); misogino fino all’estremo, Duterte ha fatto l’apologia dello stupro e, “scherzando”, affermava che avrebbe partecipato allo stupro di una donna australiana, o che aveva 2 donne e 2 puttane...

Non a caso questo demagogo reazionario è stato soprannominato dai media “Dirty Duterte”, riferendosi all’ispettore Harry, poliziotto dai metodi spicci, interpretato da Clint Eastwood, o “The Punisher” riferendosi ad un supereroe Marvel, ultra-violento contro i criminali...

Sul piano economico e sociale, Duterte ha fatto delle promesse ai diseredati e ai lavoratori, denunciando in particolare il sistema della “contrattualizzazione” come “anti-popolare” (ma rifiutandosi di prendere un impegno scritto). Durante la sua campagna elettorale aveva ricevuto il sostegno delle Confederazioni sindacali TUCP (Trade Union Congress of Philippines, la Confederazione più grande), KMU (Kilusang Mayo Uno, Sindacato del Primo Maggio, supposto più combattivo, legato al PCP maoista) ecc., mentre altri non prendevano posizione. Nel suo governo ha nominato sottosegretario di Stato al Lavoro e all’Impiego Mindanao Joel Maglunsod, vice presidente del KMU.

Ma questa immagine “sociale” di difensore dei poveri e il sostegno assicuratogli dalle burocrazie sindacali non riescono a mascherare il suo sostegno alle politiche neoliberali propagandate per decenni. Egli propose di sviluppare i “partenariati pubblico-privato” per finanziare i costi delle infrastrutture, di aumentare la “competitività” dell’economia per attirare investimenti dall’estero, di sopprimere le misure protezioniste...

D’altra parte il suo vero sentimento verso i proletari si è rivelato quando, durante un meeting nello scorso febbraio, ha avvertito il KMU di non cercare di organizzare i lavoratori delle zone franche: “Ideologicamente noi siamo sullo stesso fronte (...) Ma se voi fate questo [organizzate i lavoratori] io vi ucciderò tutti” (4).

I burocrati del KMU hanno ubbidito, ma la minaccia si è trasformata in realtà. Il 17 settembre è stato assassinato Orlando Abagan, un militante sindacale del Partido Manggagawa (PM) (5), continuando così una vecchia tradizione di repressione dei proletari da parte del padronato e dello Stato filippini. Le pratiche più brutali antisindacali restano moneta corrente; fino ad oggi le promesse fatte da Duterte ai lavoratori non sono state mantenute, e quando una delegazione sindacale è andata a ricordare a Maglunsod la promessa di mettere fine al sistema endo, il sottosegretario ha risposto che avrebbe trasmesso la richiesta al ministro...

Duterte è quindi un politico totalmente borghese anche se, talvolta, si presenta come un “socialista”. Ma ciò non gli impedisce di ricevere il sostegno più o meno aperto di molti partiti che si richiamano al comunismo!

 

Il PC Maoista offre i suoi servizi a Duterte... che li accetta

 

Il volto pseudo-radicale di Duterte ha dato un pretesto ai maoisti del Partito Comunista delle Filippine (PCP) per prosternarsi davanti a lui in nome della “rivoluzione democratica”. Il PCP si è fatto difensore di una “alleanza” con Duterte perché la sua elezione “apre delle prospettive per ottenere un cambiamento significativo” (6). Questa alleanza è giustificata in nome del nazionalismo: Duterte, “non completamente sottomesso all’imperialismo americano”, sarebbe in effetti “l’unica chance per mettere fine a 70 anni di governi sottomessi agli Stati Uniti”. I maoisti hanno un programma totalmente borghese e reazionario: “unità nazionale, pace e sviluppo”, cioè unità dietro la borghesia, pace sociale e sviluppo dell’economia capitalista nazionale (7). Il capo del partito, in esilio, ha dichiarato, durante la campagna elettorale, di sperare che Duterte “sarà effettivamente al servizio del popolo filippino nella sua lotta per la liberazione nazionale, la democrazia, la giustizia sociale e lo sviluppo”; si dice pronto a sostenere “tutte le politiche e gli atti patriottici e progressisti della presidenza Duterte”! (8).

Il PCP viene rapidamente ricompensato per il suo sostegno. Duterte offre un cessate il fuoco al Nuovo Esercito Popolare (NPA) forte di migliaia di combattenti e che conduce la “guerra popolare” dal 1969. Il nuovo presidente nomima così tre rappresentanti del “Fronte Nazionale Democratico” – che raggruppa le organizzazioni “di massa” del PCP (9) –, e i maoisti ottengono così il ministero della Riforma agraria, del Lavoro e dell’Impiego per i leader dei loro sindacati contadini, il KMP e il KMU. Naturalmente il PCP ha preso le distanze dal sanguinoso terrore poliziesco avviato dal nuovo presidente (10); gli rimprovera di essere un “regime reazionario” che tradisce le sue promesse, e di capitolare davanti ai “big business, gli Stati Uniti, l’esercito e i burocrati capitalisti”, ma difende una “alleanza tattica” con lui (11), restando in realtà un partigiano (un po’ critico) del demagogo reazionario. Infatti il PCP saluta la sua “politica estera pacifica e indipendente” quando Duterte denuncia la presenza militare americana sul suolo filippino (12) e si appella a Duterte per fare delle Filippine un “un paese indipendente e non allineato” (13) che dovrebbe concludere degli accordi commerciali con il Venezuela, l’Iran, Cuba, la Russia, la Corea del Nord e la Cina (14).

Anche se può sembrare radicale perché usa la violenza e per i suoi richiami pseudo-marxisti, il PCP è una forza borghese che difende uno sviluppo capitalista indipendente nel quadro di una unione di “forze patriottiche”, cioè di una alleanza interclassista che incatena i proletari agli interessi della borghesia.

 

La “estrema” sinistra offre il suo sostegno “critico”

 

A fianco del PCP esistono molti partiti pseudo-rivoluzionari, fra cui il vecchio partito filosovietico – il PKP-1930 (Partido Komunista ng Pilipanas-1930, Partito Comunista delle Filippine-dopo il 1930). Il PKP ha vivacemente criticato il candidato Duterte considerato come un candidato reazionario quanto gli altri (15). Ma meno di un mese più tardi, il partito si è felicitato col presidente Duterte! Il PKP – come i suoi fratelli nemici del PCP – offre i suoi servizi: “noi sosterremo tutti gli sforzi della vostra amministrazione per soddisfare la vostra promessa elettorale” di lottare contro il crimine. L’azione sanguinaria degli  squadroni della morte ha quindi soddisfatto questi falsi comunisti... Tutto questo, una volta di più, giustificato da un programma totalmente borghese: “costruire un paese prospero nella pace, la sovranità nazionale, la democrazia e la giustizia sociale”! (16). Questo completo voltafaccia è stato giustificato con il fatto che “la sua vittoria elettorale riflette la speranza di numerosi elettori”...

Vi sono anche altre forze uscite da scissioni del PCP all’inizio degli anni Novanta, scissioni avvenute sulla questione della natura della rivoluzione nelle Filippine. Per i “reietti”, in particolare rappresentati da Filemon Lagman, che si sono scissi, le Filippine non sono un paese “semicoloniale e semifeudale”, ma un paese capitalista nel quale una rivoluzione operaia deve prendere il potere. Malgrado il cambiamento tattico, queste forze – il Partido Lakas ng Masas (PLM, Party of yhe Laboring Masses) e il Partido Manggagwa (PM, Labor Party) – sono del tutto estranei alle posizioni proletarie classiste quanto il PCP.

Il PLM considera che “la situazione politica [è] estremamente interessante e stimolante” e risponde in maniera positiva alle avances dei maoisti per “un governo di unità nazionale, la pace e lo sviluppo” difendendo una “lotta per un programma nazionale contro il dominio dell’élite neoliberale” (17).

Il PM non sostiene politicamente il governo o il PCP, ma chiede a Duterte di “condurre una guerra contro la contrattua-izzazione tanto vigorosa quanto la guerra contro la droga” (18). Esso rivendica, inoltre, che siano dei militanti sindacali ad assumere il ruolo di ispettori del lavoro (5 agosto 2016) (19). Sarebbe stato più logico stare direttamente dalla parte del governo!

Da parte sua, la IV Internazionale trotskista è riuscita a mettere in piedi una sezione nelle Filippine a partire da una scissione del PCP: il Partito Rivoluzionario dei Lavoratori di Mindanao (RPM-M). Questo partito ha risposto favorevolmente alle avances dei dirigenti del PCP, i cui militanti vengono qualificati come “compagni di lotta per la liberazione degli oppressi”. Il RPM ritiene di avere “una differenza di metodo” rispetto ai maoisti, ma obiettivi – borghesi! – comuni: “riforme democratiche avanzate senza perdere di vista l’eliminazione dell’oppressione delle masse” (20). E’ il vecchio programma della socialdemocrazia: riforme oggi e socialismo... chissà quando!

Tutte queste correnti pseudo-rivoluzionarie, in realtà del tutto riformiste, non sono che le mosche cocchiere del PCP che si inchina sistematicamente alla borghesia filippina e al suo capo attuale Duterte. Esse rappresentano, come quest’ultimo, degli ostacoli alla lotta proletaria. Ma esiste in questo paese un gruppo che si richiama alla Sinistra Comunista, “Internatyonalismo”: costituisce forse un’alternativa di classe a questa “estrema sinistra” filoborghese?

 

Internatyonalismo: la CCI sulla via che non porta a nulla

 

Dal 2009 la CCI dispone di una sezione nelle Filippine. Sotto il titolo “Il regime Duterte nelle Filippine, attrazione per ‘l’uomo forte’ e debolezza della classe operaia” (21), il sito della CCI ha pubblicato in inglese (in giugno) e poi in francese (in settembre) un articolo della sua sezione filippina sull’elezione presidenziale, che riprende precedenti prese di posizione.

Lungi dal proporre una reale prospettiva classista, la CCI non fa che offrire ai suoi lettori dei piagnistei sulla “impotenza, la disperazione, la mancanza di prospettiva e la perdita di fiducia nell’unità della classe operaia e nelle lotte delle masse lavoratrici”. “Un effetto negativo del capitalismo decadente nella sua fase di decomposizione è l’emergere della disperazione e l’assenza di prospettiva fra le masse povere. Un indicatore di questo è la ‘lumpenproletarizzazione’ di interi strati della classe lavoratrice, che comporta un aumento del numero di suicidi, lo sviluppo di una cultura della droga fra i giovani e della criminalità. Tutti questi elementi sono manifestazioni del crescente malcontento delle masse rispetto al sistema attuale, ma esse non sanno che cosa fare per rimediare a questa situazione. In altri termini, vi è un malessere crescente ma senza prospettive per l’avvenire. Ecco perché la tendenza al ‘ciascuno per sé’ e a ‘ognuno contro tutti’ influenza fortemente una frazione significativa della classe operaia”.

Beninteso, Internatyonalismo condanna il regime Duterte come “un difensore spietato del capitalismo” e “un governo della classe capitalista per la classe capitalista”.

Di fronte a questo potere borghese, quale prospettiva? “Analizzare e (…) comprendere in quanto comunisti perché una frazione importante della popolazione è pronta ad accettare Duterte come dittatore e ‘padrino’”, in un primo tempo. In seguito, “perseverare nella chiarificazione teorica, nel rafforzamento organizzativo e negli interventi militanti per preparare le future lotte a livello nazionale”. Wait and see… [Aspettare per vedere...]

A questo si aggiungono le caricature di lotta che la sezione della CCI offre come esempio ai proletari: “movimenti di solidarietà (movimento anti-CPE in Francia, degli Indignados in Spagna, la lotta di classe in Grecia, il movimento Occupy negli Stati Uniti)”.

Il perché di questa posizione consiste nel ritenere le Filippine non “mature” per la rivoluzione proletaria. E’ quel che sosteneva la CCI in un articolo che salutava la nascita di sue sezioni (“Salutiamo le nuove sezioni della CCI nelle Filippine e in Turchia”, 5/3/2009). In questo testo, essa  riprende la sua vecchia posizione sui paesi dominati, enunciata nel 1982 “Il proletariato d’Europa occidentale al centro della generalizzazione della lotta di classe”, Revue Internationale, n. 31):

E’ soltanto attaccandola al cuore e al cervello che il proletariato potrà venire a capo della bestia capitalista. Questo cuore e questo cervello del mondo capitalista, la storia li ha situati da secoli in Europa occidentale. E’ qui che il capitalismo ha fatto i suoi primi passi ed è qui che la rivoluzione mondiale farà i suoi, l’uno e l’altra essendo d’altronde legati. (…) Non è quindi che in Europa occidentale, dove il proletariato ha la più lunga esperienza di lotta, e dove è confrontato continuamente da decenni con le mistificazioni ‘operaie’ più elaborate, che esso potrà sviluppare pienamente la sua coscienza politica indispensabile alla sua lotta per la rivoluzione”.

Per la CCI, la rivoluzione sarà europea o non sarà! I proletari dei giovani paesi capitalisti, ma anche degli Stati Uniti e del Giappone, non dovrebbero far altro che pazientare e attendere che il proletariato europeo cosciente riprenda la lotta. La sola prospettiva che resterrebbe ai filippini è dunque di sviluppare la lotta sul terreno democratico borghese (come Occupy o gli Indignados di cui Podemos è il rappresentante legittimo) o riformista (come la “lotta di classe” in Grecia fatta – e già sconfitta – sotto la direzione di Syriza e del KKE).

E’ chiaro che, in definitiva, Internatyonalismo è incapace di offrire una prospettiva di classe ai proletari filippini, una prospettiva realmente comunista.

 

Per una prospettiva proletaria

 

Per i comunisti, all’ordine del giorno non sono né l’orizzonte della rivoluzione borghese (anche se radicale), né l’impotente attesa del risveglio del proletariato europeo. Oggi, tutte le regioni del pianeta sono state sconvolte dal modo di produzione capitalistico. L’imperialismo ha fatto penetrare il capitalismo anche in tutti i pori della società filippina.

La rivoluzione proletaria sta maturando da molto tempo nell’Asia orientale investita in tutti i campi dal movimento irresistibile dell’espansione capitalista. Essa suppone, come dappertutto, la distruzione di tutti i rapporti mercantili e salariali, e di tutti gli Stati eretti a loro difesa.

Dove essa scoppi e quale sia l’importanza più o meno grande dell’arretratezza esistente a causa dei ritardi storici della trasformazione capitalista delle società, questa rivoluzione troverà comunque nell’urto violento con la rete capillare dell’ imperialismo – tanto celebrato dai gazzettieri borghesi col nome di “mondializzazione” – le condizioni materiali di una diffusione rapida, che dovrà finire per investire e rovesciare le fortezze della controrivoluzione in America del Nord e in Europa.

Questa prospettiva, senza dubbio più lontana, ma la sola fondata sul materialismo, implica la rinascita del partito di classe, fedele al marxismo autentico e forte di una larga influenza nelle file del proletariato. Questo partito potrà dirigere la classe operaia delle Filippine, o di qualsiasi altro paese verso l’assalto contro il capitalismo, solo basandosi sulla difesa esclusiva degli interessi dei proletari e delle masse sfruttate, contro tutte le illusioni democratiche e riformiste veicolate dai falsi difensori del socialismo. 

25/9/2016.

 


 

(1) Cfr. Robert Gerwarth e Stephan Malinowski “L’antichambre de l’Holocauste”, Vingtième Siècle, Revue d’Histoire, n. 99, 2008.

(2) Davao (Davao City), di cui Rodrigo Duterte è stato sindaco dal giugno 2013 al giugno 2016 (poi è stato eletto presidente delle Filippine), è una delle città più importanti del paese, ed è praticamente la capitale dell’isola di Mindanao; è la città più estesa al mondo (2.400 km²) e dal 1986 è amministrata dal clan familiare dei Duterte.

(3) Davao Death Squads, insieme alle Alsa Masa, sono milizie civili formate a Davao quando Rogrigo Duterte era sindaco, col pretesto di «combattere i comunisti»; sono in realtà responsabili di assassinii sistematici contro chi si droga o chi spaccia o chi semplicemente è sospettato di qualche crimine (www.ilpost.it/2016/09/07/filippine-duterte/)

(4) http://www.equaltime.org/what-can-workers-in-the?lang=en#.V.L0MBJUXsl)

(5) «PM condemns vigilante style killing of a leader», partidongmanggagawa 2001. blogspot.fr

(6) «Struggle and alliance under the Duterte regime», Bayan, edizione inglese, 7 giugno 2016

(7) «Prospects under a Duterte presi-dency», Bayan, edizione inglese, 15 maggio 2016

(8) «Interview with Prof. Jose Maria Sison on the election of Duterte as President», democracyandclassstruggle.blogspot.fr, 11 maggio 2016

(9) «3 NDFP nominees to sit in new cabinet», Bayan, edizione inglese, 7 giugno 2016

(10) «No more cooperation with Duterte’s undemocratic and anti-people “drug war”», cpp.ph, comunicato del 12 agosto 2016

(11) «Duterte is undermining the chance for change and peace», cpp.ph, comunicato del 7 agosto 2016

(12) «Positive significance of Duterte’s avowal to uphold an independent foreign policy», cpp.ph, comunicato dell’11 settembre 2016

(13) «All US military forces in entire country must go home», cpp.ph, comunicato del 13 settembre 2016

(14) «Positive significance of Duterte’s avowal…», cit.

(15) «Prospects for the Philippines in the wake of the May 9 general elections», solidnet.org

(16) «Open letter to President elect Rodrigo R. Duterte», pkp1930.org

(17) «Philippines left facing a Duterte-CPP coalition government», masa.ph, 20 maggio 2016

(18) «Group asks Duterte for big names of endo lords in the country», 2 agosto 2016, partidongmanggagawa2001.blogspot.fr

(19) «PM wants union officiers deputized asd labour inspecteur for endo campaing»

(20) «Response to Jose Ma. Sison’s Call for Dialogue», 16 giugno 2016, rpm-m.org

(21)http://fr.internationalism.org/ revolution-internationale /201609/9435/ regime-duterte-aux-philippines-attrait-l-homme-fort-et-faibles

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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