La rivoluzione proletaria è internazionale e internazionale sarà la trasformazione socialista dell'economia

(«il comunista»; N° 146;  Dicembre 2016)

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Nel pubblicare il resoconto sommario della riunione generale di Milano del 24-25 gennaio 2015, negli scorsi numeri 139 e 142 di questo giornale, abbiamo riassunto la critica del marxismo sulla questione del "socialismo in un solo paese", in particolare rispetto alla posizione secondo la quale la trasformazione anche in economia della società capitalista in società socialista, se non è possibile - come sosteneva lo stalinismo - in un paese arretrato com'era la Russia del 1917, sarebbe invece possibile in un paese a capitalismo avanzato passando, subito dopo la presa rivoluzionaria del potere, alla sua trasformazione economica in economia socialista.

Abbiamo, in quella riunione, richiamato anche gli interventi di Zinoviev, Kamenev e Trotsky al VI Esecutivo Allargato dell'I.C. del 1926, con i quali contestavano la teoria buchariniano-stalinista della "costruzione del socialismo in un paese solo", teoria che cercava una sua giustificazione teorica in una sola frase dello scritto polemico di Lenin del 1915, "Sugli Stati Uniti d'Europa".

Ora completiamo il resoconto riportando testi e brani dai testi marxisti che sono stati citati nel rapporto orale alla riunione e che finora non avevano trovato spazione nel giornale.

 

 

La CRITICA DEL PROGRAMMA DI GOTHA di Marx, 1875, fu resa pubblica da Engels nel 1891.

Il Programma di Gotha è stato il programma adottato al congresso di unificazione, tenuto per l'appunto a Gotha tra il 22 e il 25 maggio 1875, tra la Associazione generale degli Operai Tedeschi e il Partito Socialdemocratico dei Lavoratori, costituendo il Partito Socialista dei Lavoratori che diventerà in seguito il Partito Socialdemocratico di Germania, i cui più noti leader erano Wilhelm Liebknecht, August Bebel e Ferdinand Lassalle. Nel 1876 Wilhelm Liebknecht fonda il settimanale del partito, il Vorwärts. Come si evince dalla critica, e dalle lettere di Marx ed Engel che lo riguardano, essi criticarono a fondo questo programma sia per i principi che lo definivano che per le posizioni politiche che formalmente e intrinsecamente lo caratterizzavano come un programma non socialista.

Pubblichiamo qui di seguito l'intero testo che è servito come base per la critica generale alla teoria del socialismo in un solo paese e come metodo di critica.

 

 

Critica del Programma di Gotha

Note in margine al programma del Partito operaio tedesco

 

 

l. “Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà, e poiché un lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società, il frutto del lavoro appartiene integralmente, a ugual diritto, a tutti i membri della società”.

 

Prima parte del paragrafo: “Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà”.

Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana. Quella frase si trova in tutti i sillabari, e intanto è giusta, in quanto è sottinteso che il lavoro si esplica con i mezzi e con gli oggetti che si convengono. Ma un programma socialista non può permettere a tali espressioni borghesi di sottacere le condizioni che sole danno loro un senso. E il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi anche di ricchezza, in quanto l’uomo entra preventivamente in rapporto, come proprietario, con la natura, fonte prima di tutti i mezzi e oggetti di lavoro, e la tratta come cosa che gli appartiene. I borghesi hanno i loro buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice soprannaturale; perché dalle condizioni naturali del lavoro ne consegue che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori della sua forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo degli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro. Egli può lavorare solo col loro permesso, e quindi può vivere solo col loro permesso.

Lasciamo ora la proposizione come essa è e scorre, o piuttosto come zoppica. Che cosa se ne sarebbe atteso come conseguenza? Evidentemente questo:

“Poichè il lavoro è la fonte di ogni ricchezza, anche nella società nessuno si può appropriare ricchezza se non come prodotto del lavoro. Se dunque non lavora egli stesso, vuol dire che vive del lavoro altrui e che si appropria anche la sua cultura a spese del lavoro altrui.”

Invece di questo, col giro di parole: “e poiché” viene aggiunta una seconda proposizione per trarre una conclusione da essa e non dalla prima.

Seconda parte del paragrafo: “Un lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società”.

Secondo la prima proposizione il lavoro era la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà, e quindi nessuna società era possibile senza lavoro. Ora veniamo a sapere, viceversa, che nessun lavoro “utile” è possibile senza società.

Si sarebbe potuto dire ugualmente bene che solo nella società un lavoro inutile, e persino dannoso alla società stessa, può diventare una fonte di guadagno, che solo nella società si può vivere di ozio, ecc., ecc.; si sarebbe potuto, in breve, trascrivere tutto Rousseau.

E che cosa è lavoro “utile”? Solo il lavoro che porta l’effetto utile voluto. Un selvaggio - e l’uomo è un selvaggio, dopo che ha cessato di essere una scimmia - che abbatte un animale con un sasso, che raccoglie frutti ecc., compie un lavoro “utile”.

In terzo luogo: la conclusione: “E poiché un lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società, il frutto del lavoro appartiene integralmente, a ugual diritto, a tutti i membri della società”.

Bella conclusione! Se il lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società, il frutto del lavoro appartiene alla società - e al singolo lavoratore ne tocca solo quel tanto che non è necessario per mantenere la “condizione” del lavoro, la società.

In realtà questa proposizione è stata sostenuta in ogni tempo dai difensori del regime sociale di volta in volta esistente. In prima linea vengono le pretese del governo, con tutto ciò che gli sta appiccicato, perché esso è l’organo della società per il mantenimento dell’ordine sociale; indi vengono le pretese delle diverse specie di proprietà privata, poiché le diverse specie di proprietà privata sono le basi della società, e così via. Si vede che simili frasi vuote si possono girare e rigirare come si vuole.

La prima e la seconda parte del paragrafo hanno un costrutto sensato solo in questa redazione:

“Il lavoro diventa fonte della ricchezza e della civiltà solo come lavoro sociale” o, ciò che è lo stesso, “nella società e mediante la società”.

Questa proposizione è indiscutibilmente esatta, perchè se anche il lavoro isolato (premesse le sue condizioni oggettive) può creare valori d’uso, esso non può creare né ricchezze né civiltà.

Ma ugualmente inoppugnabile è l’altra proposizione:

“Nella misura in cui il lavoro si sviluppa socialmente e in questo modo diviene fonte di ricchezza e di civiltà, si sviluppano povertà e indigenza dal lato dell’operaio, ricchezza e civiltà dal lato di chi non lavora”.

Questa è la legge di tutta la storia sinora decorsa. Quindi, invece di fare delle frasi generiche su “il lavoro” e su “la società,” bisogna dimostrare concretamente come nella odierna società capitalistica si sono finalmente costituite le condizioni materiali ecc., che abilitano e obbligano gli operai a spezzare quella maledizione sociale.

Ma in realtà l’intero paragrafo, sbagliato nella forma e nel contenuto, è stato inserito soltanto per poter scrivere come rivendicazione sulla bandiera del partito la formula di Lassalle sul “frutto integrale del lavoro”. Tornerò in seguito sul “frutto del lavoro”, sull’“ugual diritto” ecc., poiché la stessa cosa ritorna in forma alquanto diversa.

 

2. “Nella società presente, i mezzi di lavoro sono monopolio della classe dei capitalisti. La dipendenza della classe operaia da ciò determinata è la causa della miseria e dell’asservimento in tutte le forme”.

 

Questa proposizione, presa dallo Statuto internazionale è, in questa edizione “corretta”, errata.

Nella società presente i mezzi di lavoro sono monopolio dei proprietari fondiari (il monopolio della proprietà fondiaria è anzi base del monopolio del capitale) e dei capitalisti. Lo Statuto internazionale non menziona nel passo relativo né l’una né l’altra classe dei monopolizzatori. Esso parla del “monopolio dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti dell’esistenza”. L’aggiunta “fonti dell’esistenza” mostra a sufficienza che la terra è compresa nei mezzi di lavoro.

La correzione fu apportata perché Lassalle, per ragioni ora universalmente note, attaccava solo la classe dei capitalisti, non i proprietari fondiari. In Inghilterra il capitalista, per lo più, non è neppure proprietario del suolo su cui sorge la sua fabbrica.

 

3. “L’emancipazione del lavoro richiede la elevazione dei mezzi di lavoro a proprietà comune della società e l’organizzazione collettiva del lavoro complessivo con giusta ripartizione del frutto del lavoro”.

 

Invece di “elevazione dei mezzi di lavoro a proprietà comune” sarebbe meglio dire loro “trasformazione in proprietà comune”; ma la cosa è d’importanza secondaria.

Che cosa è il “frutto del lavoro”?

Il prodotto del lavoro o il suo valore? E, nell’ultimo caso, il valore complessivo del prodotto o solo quella parte di valore che il lavoro ha aggiunto al valore dei mezzi di produzione consumati?

“Frutto del lavoro” è una rappresentazione vaga, che Lassalle ha messo al posto di concetti economici determinati.

Che cosa è “giusta ripartizione”?

Non affermano i borghesi che l’odierna ripartizione è “giusta”? E non è essa in realtà l’unica ripartizione “giusta” sulla base dell’odierno modo di produzione? Sono i rapporti economici regolati da concetti giuridici oppure non derivano, al contrario, i rapporti giuridici da quelli economici? Non hanno forse i membri delle sètte socialiste le più diverse concezioni della “giusta” ripartizione?

Per sapere che cosa si deve intendere in questo caso sotto la frase “giusta ripartizione,” dobbiamo confrontare il primo paragrafo con questo. Quest’ultimo paragrafo suppone una società in cui “i mezzi di lavoro sono proprietà comune e il lavoro complessivo è organizzato su una base collettiva”, mentre nel primo paragrafo vediamo che “il frutto del lavoro appartiene integralmente, a ugual diritto, a tutti i membri della società”.

“A tutti i membri della società”? Anche a quelli che non lavorano? E dove se ne va allora il “frutto integrale del lavoro”? Solo ai membri della società che lavorano? E dove se ne va, allora, “l’ugual diritto” di tutti i membri della società?

Ma “tutti i membri della società” e “l’ugual diritto” sono evidentemente solo modi di dire. Il nocciolo sta nel fatto che, in questa società comunista, ogni operaio deve ricevere un lassalliano “frutto del lavoro” “integrale.”

Se prendiamo la parola “frutto del lavoro” nel senso del prodotto del lavoro, il frutto del lavoro sociale è il prodotto sociale complessivo.

Ma da questo si deve detrarre:

Primo: quel che occorre per reintegrare i mezzi di produzione consumati.

Secondo: una parte supplementare per l’estensione della produzione.

Terzo: un fondo di riserva e di assicurazioni contro infortuni, danni causati da avvenimenti naturali ecc. Queste detrazioni dal “frutto integrale del lavoro” sono una necessità economica, e la loro entità deve essere determinata in parte con un calcolo di probabilità in base ai mezzi e alle forze presenti, ma non si possono in alcun modo calcolare in base alla giustizia.

Rimane l’altra parte del prodotto complessivo, destinata a servire come mezzo di consumo.

Prima di arrivare alla ripartizione individuale, anche qui bisogna detrarre:

Primo: le spese d’amministrazione generale che non rientrano nella produzione.

Questa parte è ridotta sin dall’inizio nel modo più notevole rispetto alla società attuale, e si ridurrà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando.

Secondo: ciò che è destinato alla soddisfazione di bisogni sociali, come scuole, istituzioni sanitarie ecc.

Questa parte aumenta sin dall’inizio notevolmente rispetto alla società attuale e aumenterà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando.

Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro, ecc., in breve, ciò che oggi appartiene alla cosiddetta assistenza ufficiale dei poveri.

Soltanto ora arriviamo a quella “ripartizione,” che è la sola che, sotto l’influenza di Lassalle, grettamente viene presa in considerazione dal programma, cioè la ripartizione di quella parte dei mezzi di consumo che viene ripartita tra i produttori individuali della comunità.

Il “frutto integrale del lavoro” si è già nel frattempo cambiato nel frutto del lavoro “ridotto”, benché ciò che viene sottratto al produttore nella sua qualità di individuo privato torni a suo vantaggio direttamente o indirettamente nella sua qualità di membro della società.

Come è scomparsa la frase del “frutto integrale del lavoro”, scompare ora la frase del “frutto del lavoro” in generale.

Nell’interno della società collettivista, basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato in prodotti appare qui come valore di questi prodotti, come una proprietà reale da essi posseduta, poiché ora, in contrapposto alla società capitalistica, i lavori individuali non esistono più come parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto. L’espressione “frutto del lavoro”, che anche oggi è da respingere a causa della sua ambiguità, perde così ogni senso.

Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla sua propria base, ma viceversa, come sorge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le “macchie” della vecchia società dal cui seno essa è uscita. Perciò il produttore singolo riceve - dopo le detrazioni - esattamente ciò che le dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità individuale di lavoro. Per esempio: la giornata di lavoro sociale consta della somma delle ore di lavoro individuale; il tempo di lavoro individuale del singolo produttore è la parte della giornata di lavoro sociale fornita da lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro sociale. Egli riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto equivale a un lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’altra.

Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di valori uguali. Contenuto e forma sono mutati, perché nella nuova situazione nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché d’altra parte niente può diventare proprietà dell’individuo all’infuori dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio di merci equivalenti: si scambia una quantità di lavoro in una forma contro una uguale quantità in un’altra.

L’uguale diritto è qui perciò sempre, secondo il principio, diritto borghese, benché principio e pratica non si accapiglino più, mentre l’equivalenza delle cose scambiate nello scambio di merci esiste solo nella media, non per il caso singolo.

Nonostante questo progresso, questo ugual diritto è ancor sempre contenuto entro un limite borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l’uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro.

Ma l’uno è fisicamente o moralmente superiore all’altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo; e il lavoro, per servire come misura, dev’essere determinato secondo la durata o l’intensità, altrimenti cessa di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto disuguale, per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente l’ineguale attitudine individuale e quindi la capacità di rendimento come privilegi naturali. Esso è perciò, pel suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto. Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di un’uguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato: per esempio, in questo caso, soltanto come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa. Inoltre: un operaio è ammogliato, l’altro no; uno ha più figli dell’altro, ecc. ecc. Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, l’uno riceve dunque più dell’altro, l’uno è più ricco dell’altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale.

Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista, quale è uscita dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa condizionato, della società.

In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza sociale scorrono in tutta la loro pienezza, - solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere:  Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!

Mi sono occupato ampiamente del “frutto integrale del lavoro” da una parte, dall’altra parte dell’“ugual diritto,” della “giusta ripartizione”, per mostrare quanto si vaneggi, allorché da un lato si vogliono nuovamente imporre come dogmi al nostro partito concetti che, in un certo momento, avevano un senso, ma che ora sono diventati frasi antiquate; e, dall’altro lato, quanto la concezione realistica, così faticosamente acquisita al partito ma che ora si è radicata in esso, viene di nuovo deformata con fandonie ideologiche di carattere giuridico e simili, così comuni tra i democratici e i socialisti francesi.

Prescindendo da quanto si è detto sin qui, era soprattutto sbagliato fare della cosiddetta ripartizione l’essenziale e porre su di essa l’accento principale.

La ripartizione dei mezzi di consumo è in ogni caso soltanto conseguenza della ripartizione dei mezzi di produzione. Ma quest’ultima ripartizione è un carattere del modo stesso di produzione. Il modo di produzione capitalistico, per esempio, poggia sul fatto che le condizioni materiali della produzione sono a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa è soltanto proprietaria della condizione personale della produzione, della forza-lavoro. Essendo gli elementi della produzione così ripartiti, ne deriva da sé l’odierna ripartizione dei mezzi di consumo. Se i mezzi di produzione materiali sono proprietà collettiva degli operai, ne deriva ugualmente una ripartizione dei mezzi di consumo diversa dall’attuale. Il socialismo volgare ha preso dagli economisti borghesi (e, a sua volta,  una parte della democrazia l'ha ripresa dal socialismo volgare) l’abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di rappresentare il socialismo come qualcosa che si muova principalmente attorno alla distribuzione. Dopo che il rapporto reale è stato da molto tempo messo in chiaro, perchè tornare nuovamente indietro?

 

4. “L’emancipazione del lavoro dev’essere l’opera della classe operaia, di fronte alla quale tutte le altre classi costituiscono una sola massa reazionaria”.

 

La prima strofa è presa dalle parole introduttive degli Statuti internazionali, ma in forma “migliorata.” Ivi si dice: “L’emancipazione della classe operaia dev’essere opera degli operai stessi”. Qui invece “la classe operaia” ha da liberare... che cosa? “Il lavoro”. Capisca chi può.

In cambio l’antistrofa è una citazione di Lassalle della più bell’acqua: “di fronte alla quale (alla classe operaia) tutte le altre classi costituiscono una sola massa reazionaria”.

Nel Manifesto comunista si dice:

“Di tutte le classi, che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono colla grande industria, mentre il proletariato ne è il prodotto più genuino”.

La borghesia è concepita qui come classe rivoluzionaria - in quanto organizzatrice della grande industria - rispetto alle classi feudali e ai ceti medi, i quali vogliono difendere tutte le posizioni sociali che sono l’immagine di modi di produzione antiquati. Queste ultime classi non costituiscono dunque insieme alla borghesia una sola massa reazionaria.

D’altra parte il proletariato è rivoluzionario rispetto alla borghesia, perchè, cresciuto egli stesso sul terreno della grande industria, si sforza di strappare alla produzione il carattere capitalistico, che la borghesia cerca di eternare. Ma il Manifesto aggiunge che “i ceti medi... diventano rivoluzionari in vista della loro imminente caduta nelle condizioni del proletariato”.

Anche da questo punto di vista è dunque un assurdo affermare che esse costituiscano insieme alla borghesia e ai feudali, per giunta, “una sola massa reazionaria” rispetto alla classe operaia.

Nelle ultime elezioni si è forse detto agli artigiani, ai piccoli industriali, ecc. e ai contadini: di fronte a noi voi costituite insieme ai borghesi e ai feudali una sola massa reazionaria?

Lassalle sapeva a memoria il Manifesto comunista, come i suoi fedeli le scritture sacre redatte da lui. Se egli dunque lo ha falsato in modo così grossolano, ciò è stato fatto soltanto allo scopo di giustificare la sua alleanza con gli avversari assolutisti e feudali contro la borghesia.

Nel paragrafo che stiamo esaminando, inoltre, la sua sapiente sentenza viene citata a sproposito, senza alcun legame con la citazione caricaturale dello Statuto dell’Internazionale. Si tratta dunque qui semplicemente di un’impertinenza, e tale da non dispiacere al signor Bismarck; una di quelle vigliaccherie a buon mercato, quali ne ha il Marat di Berlino. (1)

 

5. “La classe operaia agisce per la propria liberazione anzitutto nell’ambito dell’odierno Stato nazionale, essendo consapevole che il necessario risultato del suo sforzo, che è comune agli operai di tutti i paesi civili, sarà l’affratellamento internazionale dei popoli”.

 

In opposizione al Manifesto comunista e a tutto il socialismo precedente, Lassalle aveva concepito il movimento operaio dal più angusto punto di vista nazionale. Lo si segue in questo, e ciò dopo l’azione dell’Internazionale!

S’intende da sé che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma “per la forma”. Ma “l’ambito dell’odierno Stato nazionale”, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente “nell’ambito” del mercato mondiale, politicamente “nell’ambito” del sistema degli Stati. Ogni buon commerciante sa che il commercio tedesco è al tempo stesso commercio estero, e la grandezza del signor Bismarck consiste appunto in una specie di politica internazionale.

E a che cosa il Partito operaio tedesco riduce il suo internazionalismo? Alla coscienza che il risultato del suo sforzo “sarà l’affratellamento internazionale dei popoli”, frase presa a prestito dalla Lega borghese della libertà e della pace (2), e che deve passare come equivalente dell’affratellamento internazionale delle classi operaie nella lotta comune contro le classi dominanti e i loro governi. Nemmeno una parola, dunque, delle funzioni internazionali della classe operaia tedesca! E così essa deve render la pariglia alla propria borghesia, già affratellata contro di essa, con la borghesia di tutti gli altri paesi, e alla politica di cospirazione internazionale del signor Bismarck.

In realtà l’internazionalismo del programma è infinitamente al di sotto perfino di quello del partito del libero scambio. Anche questo partito sostiene che il risultato del suo sforzo è “l’affratellamento internazionale dei popoli”. Ma esso fa pure qualche cosa per rendere internazionale il commercio e non si accontenta di sapere che tutti i popoli, nel proprio paese, a casa loro, fanno del commercio.

L’attività internazionale delle classi operaie non dipende in alcun modo dall’esistenza della “Associazione internazionale degli Operai”. Questa fu soltanto il primo tentativo di creare un organo centrale di quella attività; tentativo che, per l’impulso che dette, ebbe un risultato permanente, ma, nella sua prima forma storica, non poteva più essere continuato a lungo dopo la caduta della Comune di Parigi.

La Norddeutsche di Bismarck aveva completamente ragione quando annunciava, con soddisfazione del suo padrone, che il partito operaio tedesco aveva ripudiato, nel nuovo programma, l'internazionalismo (3).

 

II

 

Prendendo le mosse da questi principi, il Partito operaio tedesco si sforza di raggiungere con tutti i mezzi legali lo Stato libero e  la società socialista; l’abolizione del sistema del salario con la legge bronzea del salario e dello sfruttamento sotto ogni aspetto; la eliminazione di ogni disuguaglianza sociale e politica”.

 

Sullo Stato “libero” ritornerò più tardi.

Dunque, per l’avvenire, il Partito operaio tedesco dovrà credere alla “legge bronzea del salario” di Lassalle! Perché essa non vada perduta, si commette l’assurdo di parlare della “eliminazione del sistema del salario” (si doveva dire: sistema del lavoro salariato) con la “legge bronzea del salario”. Se elimino il lavoro salariato, elimino naturalmente anche le sue leggi, siano esse “bronzee” oppure flosce. Ma la lotta di Lassalle contro il lavoro salariato si aggira quasi esclusivamente attorno a questa cosiddetta legge. Per provare, dunque, che la sètta lassalliana ha vinto, si deve eliminare il “sistema del salario con la legge bronzea del salario” e non senza di essa.

Della “legge bronzea del salario”, com’è noto, a Lassalle non appartiene che la parola “bronzea”, che egli ha preso a prestito dalle “eterne, grandi, bronzee leggi” di Goethe. La parola bronzea è un sigillo con cui gli ortodossi si riconoscono tra di loro. Ma se accetto la legge con l'impronta di Lassalle, e perciò nel senso che egli le ha dato, debbo accettarla anche con la sua giustificazione. E quale è questa giustificazione? Come ha dimostrato Lange subito dopo la morte di Lassalle, è la teoria della popolazione di Malthus (predicata dallo stesso Lange). Ma se questo è esatto io non posso eliminare la legge, se anche elimino cento volte il sistema del lavoro salariato, perché in questo caso la legge non regola soltanto il sistema del lavoro salariato, ma ogni sistema sociale. Ed è precisamente poggiandosi su questo che gli economisti hanno dimostrato da cinquant’anni e più che il socialismo non può eliminare la miseria essendo questa di origine naturale, ma può solo renderla generale, distribuirla su tutta la superficie della società ad un tempo.

Ma tutto questo non è la cosa principale. Prescindendo completamente dalla falsa concezione della legge da parte di Lassalle, il vero rivoltante regresso consiste in questo:

Dopo la morte di Lassalle si è fatto strada nel nostro partito il criterio scientifico che il salario non è ciò che sembra essere, cioè il valore e rispettivamente il prezzo del lavoro, ma solo una forma mascherata del valore, rispettivamente del prezzo della forza-lavoro. Con ciò tutta la vecchia concezione borghese del salario, come la critica finora diretta contro di essa, è stata una volta per sempre gettata a mare e si è messo in chiaro che l’operaio salariato ha il permesso di lavorare per la sua propria vita, cioè di vivere, solo in quanto lavora, per un certo tempo, gratuitamente, per il capitalista (e quindi anche per quelli che insieme col capitalista consumano il plusvalore); che tutto il sistema di produzione capitalistico si muove attorno al problema di prolungare questo lavoro gratuito prolungando la giornata di lavoro o sviluppando la produttività, cioè con una maggiore tensione della forza-lavoro, ecc.; che dunque il sistema del lavoro salariato è un sistema di schiavitù, e di una schiavitù che diventa sempre più dura nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro, tanto se l’operaio è pagato meglio, quanto se è pagato peggio. E dopo che questo criterio si è fatto sempre più strada nel nostro partito, si ritorna ai dogmi di Lassalle, benché ormai si debba sapere che Lassalle non sapeva che cosa fosse il salario, ma, seguendo gli economisti borghesi, prendeva la parvenza per la sostanza della cosa.

E’ come se tra gli schiavi venuti finalmente a capo del mistero della schiavitù e diventati ribelli, uno schiavo prigioniero di concetti antiquati scrivesse nel programma della ribellione: la schiavitù dev’essere abolita, perché il mantenimento degli schiavi nel sistema della schiavitù non può sorpassare un certo massimo poco elevato!

Il semplice fatto che i rappresentanti del nostro partito sono stati capaci di commettere un così enorme attentato al criterio diffuso nella massa del partito, mostra da solo con quale insolente leggerezza, con quale mancanza di coscienza essi si sono accinti alla redazione del programma di compromesso!

Invece dell’indeterminata frase conclusiva del paragrafo “l’eliminazione di ogni disuguaglianza politica e sociale,” si doveva dire: che con l’abolizione delle distinzioni di classe, scompaiono da sé tutte le disuguaglianze sociali e politiche che ne derivano.

 

Il Partito operaio tedesco, per spianare la via alla soluzione della questione sociale, chiede l’istituzione di cooperative di produzione con l’aiuto dello Stato, sotto il controllo democratico del popolo lavoratore. Le cooperative di produzione si debbono creare, per l’industria e per l’agricoltura, in tali proporzioni, che da esse sorga l’organizzazione socialista del lavoro complessivo”.

 

Dopo la “legge bronzea del salario” di Lassalle, lo specifico del profeta. La via viene “spianata” in degna maniera. In luogo della esistente lotta di classe, subentra una frase da gazzettiere: “la questione sociale” alla cui “soluzione” si “spiana la via.” Invece che da un processo di trasformazione rivoluzionaria della società la “organizzazione socialista del lavoro complessivo” “sorge” dall’“aiuto dello Stato”, che lo Stato dà a cooperative di produzione, che esso, e non l’operaio, “crea”. Che si possa costruire con l’aiuto dello Stato una nuova società, come si costruisce una nuova ferrovia, è degno dell’immaginazione di Lassalle.

Per un resto di pudore l’“aiuto dello Stato” viene posto sotto il controllo democratico del “popolo lavoratore”.

In primo luogo, “il popolo lavoratore” in Germania consta nella sua maggioranza di contadini e non di proletari.

In secondo luogo, “democratico” significa in tedesco “secondo la volontà del popolo” (volksherrschaftlich). Ma che cosa vuol dire “il controllo secondo la volontà del popolo esercitato dal popolo lavoratore”? E per un popolo di lavoratori, poi, il quale ponendo allo Stato queste rivendicazioni dimostra di avere piena coscienza di non essere al potere e di non essere maturo per il potere!

E’ superfluo estendersi qui sulla critica della ricetta data da Buchez sotto Luigi Filippo, in antitesi ai socialisti francesi e accettata dagli operai reazionari dell’Atelier (4). La cosa principale inoltre non consiste nell’avere fatto entrare nel programma questa cura specifica miracolosa, ma nell’essere andati indietro dalla posizione del movimento di classe a quella del movimento delle sètte.

Il fatto che gli operai vogliono instaurare le condizioni della produzione cooperativa su una scala sociale, e per cominciare nel loro paese, su una scala nazionale, significa soltanto che essi lavorano al rivolgimento delle attuali condizioni di produzione, e non ha niente di comune con la fondazione di società cooperative con l’aiuto dello Stato. Ma, per ciò che riguarda le odierne società cooperative, esse hanno un valore soltanto in quanto sono creazioni operaie indipendenti, non protette né dai governi né dai borghesi.

 

Vengo ora al capitolo democratico.

 

A. “Base libera dello Stato”.

 

Dapprima, secondo il II capitolo, il Partito operaio tedesco mira allo “Stato libero.”

Stato libero: che cosa è questo?

Non è affatto scopo degli operai, che si sono liberati dal gretto spirito di sudditanza,  rendere libero lo Stato. Nel Reich tedesco lo “Stato” è “libero” quasi come in Russia. La libertà consiste nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa, e anche oggigiorno le forme dello Stato sono più libere o meno nella misura in cui limitano la “libertà dello Stato”.

Il Partito operaio tedesco - almeno se fa proprio questo programma - mostra come in esso non sono penetrate a fondo le idee socialiste; perché, invece di trattare la società presente (e ciò vale anche per ogni società futura) come base dello Stato esistente (e futuro per la futura società), tratta piuttosto lo Stato come un ente indipendente, che ha le sue proprie basi spirituali e morali libere.

E ora veniamo al deplorevole abuso che il programma fa delle parole “Stato odierno”, “società odierna” e al malinteso ancora più deplorevole, che esso crea circa lo Stato a cui dirige le sue rivendicazioni!

La “società odierna” è la società capitalistica, che esiste in tutti i paesi civili, più o meno libera di appendici medioevali, più o meno modificata dallo speciale svolgimento storico di ogni paese, più o meno evoluta. Lo “Stato odierno,” invece, muta con il confine di ogni paese. Nel Reich tedesco-prussiano esso è diverso che in Svizzera; in Inghilterra è diverso che negli Stati Uniti. “Lo Stato odierno” è dunque una finzione.

Tuttavia i diversi Stati dei diversi paesi civili, malgrado le loro variopinte differenze di forma, hanno tutti in comune il fatto che stanno sul terreno della moderna società borghese, che è soltanto più o meno evoluta dal punto di vista capitalistico. Essi hanno perciò in comune anche alcuni caratteri essenziali. In questo senso si può parlare di uno “Stato odierno,” in contrapposto al futuro, in cui la presente radice dello Stato, la società borghese, sarà perita.

Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna.

Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato.

Ma il programma non si occupa né di quest’ultima né del futuro Stato della società comunista.

Le sue rivendicazioni politiche non contengono nulla oltre all’antica ben nota litania democratica: suffragio universale, legislazione diretta, diritto del popolo, armamento del popolo ecc. Esse sono una pura eco del partito popolare borghese, della Lega per la pace e la libertà. Esse sono tutte rivendicazioni che, nella misura in cui non sono esagerate da una rappresentazione fantastica, sono già realizzate. Ma lo Stato in cui esse sono realizzate non si trova entro i confini del Reich tedesco, ma nella Svizzera, negli Stati Uniti ecc. Questa specie di “Stato futuro” è uno Stato odierno benché esistente fuori “dell’ambito” del Reich tedesco.

Si è però dimenticata una cosa. Poiché il Partito operaio tedesco dichiara espressamente di muoversi entro “l’odierno Stato nazionale” e quindi entro il suo Stato, entro il Reich tedesco-prussiano - altrimenti le sue rivendicazioni sarebbero in massima parte prive di senso, perché si rivendica solo ciò che non si ha - esso non dovrebbe dimenticare la cosa principale, e cioè che tutte quelle belle cosette poggiano sul riconoscimento della cosiddetta sovranità del popolo e perciò sono a posto solo in una repubblica democratica.

Poiché non si ha il coraggio - e saviamente, giacché le circostanze impongono prudenza - di esigere la repubblica democratica, come fecero i programmi operai francesi sotto Luigi Filippo e sotto Luigi Napoleone, non si sarebbe dovuto ricorrere alla finta, che non è né “onesta” (5), né “dignitosa,” di richiedere cose, che hanno senso solo in una repubblica democratica, ad uno Stato che non è altro se non un dispotismo militare, mascherato di forme parlamentari, mescolato con appendici feudali, influenzato già dalla borghesia, tenuto assieme da una burocrazia, difeso con metodi polizieschi; e per giunta assicurare solennemente a questo Stato che ci si immagina di strappargli qualcosa di simile con “mezzi legali”.

La stessa democrazia volgare, che vede nella repubblica democratica il regno millenario e non si immagina nemmeno che appunto in questa ultima forma statale della società borghese si deve decidere definitivamente con le armi la lotta di classe - la stessa democrazia volgare sta ancora infinitamente al di sopra di questa specie di democratismo entro i confini di ciò che è permesso dalla polizia e non è permesso dalla logica.

Che, in realtà, s’intende per “Stato” la macchina del governo, ossia lo Stato, in quanto costituisce un organismo a sé, separato dalla società in seguito a una divisione del lavoro, lo mostrano già le parole: “il Partito operaio tedesco richiede come base economica dello Stato un’imposta progressiva unica sul reddito ecc.”. Le imposte sono la base economica della macchina del governo e niente altro. Nello Stato futuro esistente nella Svizzera questa rivendicazione è quasi soddisfatta. Una imposta sul reddito presuppone le diverse fonti di reddito delle diverse classi sociali, quindi la società capitalistica. Non vi è quindi nulla di sorprendente nel fatto che i fautori della riforma finanziaria di Liverpool - dei borghesi col fratello di Gladstone alla testa, avanzino la stessa rivendicazione.

 

B. “Il Partito operaio tedesco chiede come base spirituale e morale dello Stato:

 

l. Educazione popolare generale ed uguale per tutti ad opera dello Stato. Istruzione generale obbligatoria, insegnamento gratuito”.

Educazione popolare uguale per tutti? Che cosa ci si immagina con queste parole? Si crede forse che nella società odierna (e solo di essa si tratta) l’educazione possa essere uguale per tutte le classi? Oppure si vuole che anche le classi superiori debbano essere coattivamente ridotte a quella modesta educazione - la scuola elementare - che sola è compatibile con le condizioni economiche, non solo degli operai salariati, ma anche dei contadini?

“Istruzione generale obbligatoria. Insegnamento gratuito”. La prima esiste anche in Germania, il secondo nella Svizzera e negli Stati Uniti per le scuole elementari. Se in alcuni Stati dell’America del Nord anche gli istituti di istruzione superiore sono “gratuiti,” in linea di fatto ciò significa soltanto che si sopperisce alle spese per l’educazione delle classi dirigenti coi mezzi forniti in generale dalle imposte. Lo stesso vale, per giunta, per l’“assistenza giuridica gratuita” richiesta al paragrafo A. 5. La giustizia penale è dappertutto gratuita. La giustizia civile si aggira quasi esclusivamente intorno a conflitti di proprietà; tocca quindi quasi esclusivamente le classi possidenti. Debbono esse fare le loro cause a spese delle tasche del popolo?

Il paragrafo sulle scuole avrebbe dovuto per lo meno chiedere delle scuole tecniche (teoriche e pratiche) oltre alla scuola elementare.

E’ assolutamente da respingere una “educazione del popolo per opera dello Stato”. Fissare con una legge generale i mezzi delle scuole elementari, la qualifica del personale insegnante, i rami d’insegnamento ecc., e, come accade negli Stati Uniti, sorvegliare per mezzo di ispettori dello Stato l’adempimento di queste prescrizioni legali, è qualcosa di affatto diverso dal nominare lo Stato educatore del popolo! Piuttosto si debbono ugualmente escludere governo e Chiesa da ogni influenza sulla scuola. Nel Reich tedesco-prussiano (e non si ricorra alla vana scappatoia di dire che si parla di uno “Stato futuro”; abbiamo veduto come stanno le cose a questo proposito) è lo Stato, al contrario, che ha bisogno di un’assai rude educazione da parte del popolo.

Ma l’intero programma, nonostante tutta la fanfara democratica, è completamente ammorbato dallo spirito di fede servile nello Stato, proprio della sètta lassalliana, e, ciò che non è meglio, dalla fede democratica nei miracoli, o è piuttosto un compromesso tra queste due specie di fede nei miracoli, entrambe ugualmente lontane dal socialismo.

Libertà della scienza,” dice un paragrafo della Costituzione prussiana. Perché dunque parlarne qui!

Libertà di coscienza”! Se in questo periodo di Kulturkampf  (6) si volevano ricordare al liberalismo le sue vecchie parole d’ordine, ciò si poteva fare solo in questa forma: ognuno deve poter soddisfare tanto i suoi bisogni religiosi quanto i suoi bisogni materiali senza che la polizia vi ficchi il naso. Ma il partito operaio doveva pure in questa occasione esprimere la sua convinzione che la “libertà di coscienza” borghese non è altro che la tolleranza di ogni specie possibile di libertà di coscienza religiosa, e che il partito operaio si sforza, invece, di liberare le coscienze dallo spettro della religione. Ma si preferisce non andare oltre il limite borghese.

Sono giunto alla fine, perché l’appendice che segue nel programma, non ne costituisce un elemento caratteristico. Perciò mi esprimerò qui assai brevemente.

 

2. “Giornata di lavoro normale”.

 

Nessun partito operaio di nessun altro paese si è limitato ad una tale rivendicazione indeterminata, ma tutti hanno sempre fissato la durata della giornata di lavoro che considerano normale nelle circostanze del momento.

 

3. “Limitazione del lavoro delle donne e divieto del lavoro dei fanciulli”.

 

Il regolamento della giornata di lavoro deve già includere la limitazione del lavoro delle donne, in quanto si riferisce a durata, interruzioni ecc. della giornata di lavoro; altrimenti può solo significare esclusione del lavoro delle donne dai rami di lavoro che sono specialmente nocivi per l’organismo femminile o incompatibili col sesso femminile per ragioni morali. Se si pensava a questo bisognava dirlo.

Proibizione del lavoro dei fanciulli”! Qui era assolutamente necessario dare i limiti d’età.

La proibizione generale del lavoro dei fanciulli è incompatibile con l’esistenza della grande industria, ed è perciò un vano, pio desiderio. La sua realizzazione - quando fosse possibile - sarebbe reazionaria, perché se si regola severamente la durata del lavoro secondo le diverse età e si prendono altre misure precauzionali per la protezione dei fanciulli, il legame precoce tra il lavoro produttivo e la istruzione è uno dei più potenti mezzi di trasformazione della odierna società.

 

4. “Sorveglianza da parte dello Stato dell’industria di fabbrica, artigiana e domestica”.

Trattandosi dello Stato tedesco-prussiano si doveva chiedere concretamente che gli ispettori possano venir licenziati solo per via giudiziaria; che ogni operaio possa denunziarli ai tribunali per violazione del loro dovere; che debbano essere dei medici.

 

5. “Regolamento del lavoro carcerario”.

 

Domanda meschina in un programma generale operaio. In ogni caso bisognava dire chiaramente che non si vuole, per paura della concorrenza, che i delinquenti comuni siano trattati come bestie e che si tolga loro l’unico mezzo di correggersi, il lavoro produttivo. Eppure questo era il minimo che ci si potesse attendere da socialisti.

 

6. “Una efficace legge sulla responsabilità”.

 

Si doveva dire che cosa s’intende per legge “efficace” sulla responsabilità per gli infortuni.

Si osservi inoltre come, trattando della giornata normale di lavoro, si è trascurata quella parte della legislazione di fabbrica che riguarda le misure sanitarie e la protezione contro i pericoli, ecc. La legge sulla responsabilità entra in azione soltanto quando vengono violate queste prescrizioni.

In breve, anche quest’appendice si distingue per la sua redazione trasandata.

Dixi et salvavi animam meam.

(3- Continua)

 


 

(1) E' molto probabile che in questo caso Marx parli di Hasselmann, direttore del "Neuer Sozialdemokrat", organo centrale dei lassalliani.

(2) Associazione fondata nel 1867 a Ginevra, contro la quale la Prima Internazionale, su stimolo di Marx, combattè a fondo

(3) Si tratta ovviamente di un articolo pubblicato in questo giornale di Bismarck.

(4) E stata la prima pubblicazione operaia in Francia, uscita a Parigi tra il 1840 e il 1848; era di tendenza cristiano-sociale.

(5) E' un gioco di parole: Ehrlich, in tedesco significa onesti; onesti venivano chiamti gli eisenacchiani, cioè gli aderenti al Partito socialdemocratico dei lavoratori tedeschi fondato a Eisenach nel 1869. Tra i suoi fondatori vi erano W. Bracke, al quale Marx indirizza la sua Critica al programma di Gotha, W. Liebknecht, A. Bebel.

(6) Per Kulturkampf (lotta per la cultura) qui si riferisce all'offensiva di Bismarck contro il partito cattolico tedesco (il "Centro") a partire dal 1870.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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