A cent’anni dalla prima guerra mondiale

Le posizioni fondamentali del comunismo rivoluzionario non sono cambiate, semmai sono ancor più intransigenti nella lotta contro la democrazia borghese, contro il nazionalismo e contro ogni forma di opportunismo, vera intossicazione letale del proletariato (5)

(«il comunista»; N° 148;  Aprile 2017)

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Continuiamo la pubblicazione di documenti che controbuiscono a chiarire le posizioni del marxismo rivoluzionario sulla questione della guerra imperialista e della rivoluzione proletaria, questa volta riprendendo le posizioni della Luxemburg che, sotto lo pseudonimo Junius, aveva pubblicato all'inizio del 1916 il suo famoso opuscolo sulla Crisi della socialdemocrazia tedesca, col quale intendeva anche mettere le basi per la ricostituzione dell'Internazionale socialista, e al quale rispose Lenin con il suo solito metodo dialettico di focalizzare i punti di contrasto e gli errori dal punto di vista teorico e dal punto di vista dell'atteggiamento del partito proletario.

 

 

LA CRISI CATASTROFICA DELLA INTERNAZIONALE SOCIALISTA NELLA GUERRA DEL 1914

LE POSIZIONI DI ROSA LUXEMBURG E DI VLADIMIRO LENIN NELLA BATTAGLIA CONTRO IL TRADIMENTO OPPORTUNISTA E PER LA NUOVA INTERNAZIONALE

 

Ci ricolleghiamo, in questa puntata, alla questione delle posizioni della sinistra tedesca (il gruppo Die Internationale, di cui, con Liebknecht, Mehring, Zetkin, la Luxemburg era l’esponente più in vista) di fronte alla guerra e alle posizioni dell’opportunismo, soprattutto kautskiano su cui è utile tornare.

Abbiamo già visto nella puntata scorsa che Lenin, criticando alcune posizioni contenute nella Juniusbroschüre, dissente da Junius (pseudonimo di Rosa Luxemburg) in sostanza su tre punti; punti che riprendiamo dall’articolo apparso ne “il programma comunista” n. 6 del 1960 e intitolato “La crisi catastrofica della Internazionale Socialista nella guerra del 1914”. Ribadiamo quanto lo stesso Lenin afferma nella critica dei difetti e degli errori di Junius, e cioè che:

«Nel dedicare le pagine che seguono alla crirtica dei difetti e degli errori di Junius, dobbiamo mettere bene in rilievo che facciamo questo soltanto perché siamo convinti che, per i marxisti, l’autocritica è indispensabile e che le opinioni che devono servire come base ideologica per la III Internazionale vanno esaminate sotto tutti gli aspetti possibili. L’opuscolo di Junius, in complesso, è un eccellente scritto marxista; e può darsi benissimo che i suoi difetti siano, in una certa misura, accidentali» (1). Non va sottaciuto, d’altra parte, che Lenin, facendo riferimento, ad es., alle tesi esposte nel manifesto del Comitato centrale del Partito operaio socialdemocratico russo del settembre/ottobre 1914, intitolato La guerra e la socialdemocrazia russa (2), e alle risoluzioni della Conferenza delle sezioni estere del POSDR, che si tenne nel febbraio/marzo 1915 a Berna (3), sottolinea che i punti di principio in esse contenuti erano stati definiti, rispetto ai contenuti dell’opuscolo di Junius, con molta precisione e con molta attenzione non solo sui compiti dei marxisti rivoluzionari di fronte alla guerra, ma anche nell’individuazione degli aspetti fondamentali nella critica all’opportunismo e al tradimento della Seconda Internazionale, come  ad esempio il problema del socialsciovinismo, quello dell’organizzazione illegale del partito, il problema della guerra civile in cui la guerra imperialista deve essere trasformata da parte del proletariato rivoluzionario; ma tutto questo lo vedremo nel testo di Lenin che pubblichiamo in coda ai due testi della Luxemburg. 

Il primo punto che Lenin mette in evidenza riguarda l’azione politica nella lotta contro i traditori e per la costituzione della nuova Internazionale; gli altri due concernono questioni di principio, che non sarebbero chiare nelle tesi della Luxemburg. Sono argomenti della massima importanza. Lenin si richiama alla dialettica marxista, e non si può non riconoscere quanto fosse potente nelle sue mani. A prima vista – senza pensare ai turpi “marxisti-leninisti” di allora [siamo nel 1960] che sono al livello di quelli che nel 1914 votarono per la patria e nel 1919 scannarono Carlo e Rosa – sembrerebbe che nel primo punto teorico Lenin fosse a destra, nel secondo a sinistra di Rosa. Ma guai a fermarsi qui.

Primo punto di dottrina. Rosa ha sbagliato a dire che nel 1914 era chiusa l’éra delle guerre “nazionali”. Era giusto, dice Lenin, se ci si riferisce agli Stati in guerra, tutti imperialisti e briganti allo stesso grado, ma non è giusto se si nega il diritto di ribellione, e di separazione dallo stato oppressore, delle nazionalità non autonome statalmente. Lenin cita Turchia, Cina e Persia, a cui certo Rosa non si riferisce, come egli stesso ammette. Egli anticipa le tesi nazionali dei congressi di Mosca sull’Oriente. Ma vanno al riguardo richiamate questioni storiche fondamentali. Per i bolscevichi le unità statali europee di Russia ed Austria andavano spezzate. La rottura in nazioni della seconda fu effetto della vittoria dell’Intesa, la rottura della prima, alla fine del ciclo delle due guerre, non vi è stata.

Nel secondo punto, Lenin rivendica – non per la sola Russia, ma anche per la Germania, come per qualunque altro paese belligerante – la tesi essenziale del bolscevismo e della Internazionale Comunista, ossia la condanna di ogni difesismo della patria, anche invasa dal nemico, e il disfattismo rivoluzionario che augura la disfatta della borghesia indigena, e con la insurrezione la affretta e la utilizza.

Su questo punto, in che cosa avrebbe mancato Junius? Lenin cita un brano polemico con i traditori che dissero di non aver potuto abbandonare la patria nell’ora del pericolo. Secondo Rosa, nel calore della confutazione, il voto dei crediti di guerra non fu un servigio reso alla patria, il cui avvenire non era nella vittoria del kaiser feudale ma in una repubblica pantedesca di popolo. Non era formula felice, e Lenin fu ferito dal fatto che i socialpatrioti russi vi specularono. Questo apprezzamento fu certamente un non felice moto polemico di Rosa Luxemburg, che va giudicato rivivendo le asprezze del tempo e del luogo, ma dava il fianco (vedi il caso dei socialpatrioti russi) a posizioni opportuniste e, in sostanza, collaborazioniste. Patrimonio del marxismo rivoluzionario intangibile fu, in realtà, la massima parola di Lenin: non difesa della Patria ma sabotaggio dello Stato in guerra dall’interno, senza temere di favorire il nemico. Va detto, con un cenno al primo tema, che Lenin ammette la difesa della Patria, ossia una guerra difensiva, per lo Stato del proletariato, dopo che questo avrà conquistata la sua dittatura. Problema di dottrina che si scioglie pensando che una tale guerra di classe sarebbe utile anche se offensiva. In nessun caso, dunque, concessioni al difesismo.

Dunque, quanto alle posizioni della Luxemburg, riprendiamo, come detto, dal “programma comunista” n. 6 del 1960, due suoi testi, e cioè la Circolare del gruppo “Die Internationale” sulle “questioni vitali del socialismo” (con cui la corrente di Sinistra cercò di delimitarsi da ogni formazione eterogenea di falsa ed oscillante opposizione alla politica nazionalpatriottica ufficiale del Partito tedesco), che fu premessa alle Tesi della Luxemburg sul socialismo e la guerra (2), e appunto queste Tesi, testi pubblicati alla fine di questa Premessa.

L’obiettivo delle correnti di Sinistra era non solo di portare la più spietata critica all’opportunismo, ma anche quello di cacciare dall’Internazionale (che doveva evidentemente essere rifondata) tutti i traditori che, dalla fine del 1916, Lenin classificava in due schieramenti: la destra socialdemocratica, manutengola e sicaria della borghesia, e il centrismo, personificato in Kautsky, che si dimostrerà ancora più pericoloso rispetto alla giusta posizione rivoluzionaria del proletariato.

Alla memoria di Rosa non occorrono difensori, scrivemmo all’epoca; immaginavamo che Lenin, in quel periodo rifugiatosi in Svizzera, avesse letto sì l’opuscolo della Luxemburg ma non la citata Circolare, e perciò si fosse fatto un’idea parziale della critica della Luxemburg al centrismo; Rosa, in effetti, sferrò una fiera critica  al concetto di “opposizione” invocando non un “fronte unico” ma una vera unità omogenea di principi e di azione, cosa che dimostra come già allora la Luxemburg prevedeva che si dovesse rompere soprattutto tra centro e sinistra, visto che dalla destra ci si era già separati, molti e molti anni prima delle celebri discussioni della questione tedesca alla Terza Internazionale.

Ora un breve cenno alle cose italiane del tempo. Va notato che i socialisti italiani si trovarono in una posizione privilegiata per il ritardato intervento in guerra dell’Italia. E va sottolineato che la vera sinistra del Partito Socialista Italiano – che era tutto avverso alla guerra – prese una posizione conforme a quella, allora non conosciuta, di Lenin, fin dai primi giorni dell’agosto 1914, come quella chiaramente espressa nell’articolo intitolato In tema di neutralità – Al nostro posto!, pubblicato nell’Avanti! il 16/8/1914 (3), nel quale si previde che la borghesia italiana alleata della Germania e dell’Austria sarebbe stata trascinata in guerra a fianco della Francia e dell’Inghilterra, e nel quale si delineò la politica di opposizione anche a questo intervento da parte del partito proletario per l’eguale carattere imperialista della guerra sui due fronti avversi.

Varie circostanze facilitarono allora la Sinistra “italiana” nell’assumere la giusta posizione rivoluzionaria e marxista fino a realizzare la scissione di Livorno, che ruppe con un centrismo forse meno compromesso di Kautsky. Tutto questo decorso è stato illustrato in successivi studi di partito che diedero come risultato la Storia delle Sinistra comunista, ma all’epoca si potevano già fissare alcuni punti qui riassunti:

1.    Non si trattò di felice impostazione di uomini e di capi, ma di fedeltà di una corrente al marxismo classico. Basti ricordare che il capo della sinistra, Mussolini, uomo ricco di ogni qualità personale, passato fra i traditori, non trovò una sola sezione del partito non solidale col buttarlo fuori.

2.    La posizione felice nella questione coloniale si dovette alla gloriosa lotta contro le imprese d’Africa e la guerra del 1912 con la Turchia, in cui fu chiara la rottura tra il proletariato e la borghesia imperialista.

3.    La posizione sul disfattismo e contro ogni difesa nazionale non fu chiarita tanto in articoli e tesi, quanto nell’episodio di Caporetto dopo la insurrezione di Torino e nella lotta contro le emozioni patriottiche alla Camera della destra turatiana.

4.    La denunzia del gruppo parlamentare e della bonzeria sindacale si ebbe fin da prima della guerra e alla vigilia di questa, quando fu silurato lo sciopero generale contro la mobilitazione.

5.    La posizione contro il centrismo kautskista si ribadì a Livorno quando furono buttati fuori dalla Terza Internazionale gli stessi massimalisti che mentivano sulla accettazione delle tesi comuniste mentre non volevano staccarsi dalla destra sotto il pretesto che non era stata fautrice della guerra; consacrando così la condanna di ogni tolleranza del difesismo ed ogni esitazione sulla dittatura del proletariato, che è la sola antitesi della guerra borghese, del capitalismo e dell’ignobile pacifismo di classe. Negare la difesa della patria e rivendicare il disfattismo rivoluzionario – nel che non vediamo in ritardo la Luxemburg su nessuno dei nostri – erano le premesse della rivendicazione gigante del marxismo che dovemmo ai bolscevichi russi: dittatura, ripudio della democrazia e della socialdemocrazia, terrorismo rivoluzionario.

 

Ed ora i testi della Sinistra del Partito tedesco.

 

CIRCOLARE DEL GRUPPO “DIE INTERNATIONALE” SULLE “QUESTIONI VITALI DEL SOCIALISMO”

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Non dall’esterno ma dall’interno si abbatté sul movimento operaio la catastrofe di agosto, e non per caso ma come necessaria conseguenza dello stato in cui esso si trovava allo scoppio della guerra. Presupposto di ogni potenza politica è la forza d’azione, presupposto di ogni forza d’azione è l’omogeneità della volontà, il cui presupposto è d’altra parte: unanimità sulle finalità e sui mezzi d’azione. Queste premesse si trovavano bensì nei partiti socialisti per le necessità di ogni giorno, ma mancavano quasi dappertutto per le grandi questioni finali. Nello Stato e nell’economia, nella politica interna ed estera, si imponevano anche in Germania, e qui più che altrove, grandi decisioni. La Socialdemocrazia tedesca le evitò; essa si sentiva debole e lo era tanto più quanto più nascondeva i propri acciacchi sotto il pomposo mantello di parole e cifre magniloquenti.

Anche l’Internazionale le eluse: molte volte essa si sfogò in anatemi contro la incombente conflagrazione mondiale; non una volta le questioni fondamentali furono da essa poste in modo univoco; non una volta essa formulò un chiaro programma d’azione contro la guerra; e nemmeno ebbe la forza di scoprire in se stessa le proprie deficienze e intraprendere quindi l’unica via per raggiungere la forza.

Questa ipocrisia interna della politica ufficiale socialista portò all’enorme delusione dell’agosto 1914, delusione che, proprio perché non faceva che sollevare il velo su un dato di fatto, espose tanto più irrimediabilmente al ridicolo l’Internazionale. Essa aveva causato quell’errore di calcolo politico che indirizzò in modo errato il movimento proletario fino all’agosto 1914 e rese tanto più funesto il successivo smarrimento.

La debolezza del movimento era insieme effetto e causa di questa ipocrisia interna, della illusione della forza nutrita di parole e cifre, della politica di assopimento condotta sotto la bandiera dell’unità. Esse impedirono la formazione ideologica e tattica del proletariato, la sua preparazione e un’azione risoluta nel momento decisivo, aiutarono le masse a chiudersi nella gabbia creata dalle istanze superiori del partito; sostituirono l’estasi imponente all’azione di forza, la tentennante routine alla libera iniziativa.

La guerra mise a nudo la malattia e il suo focolaio. Dalla delusione, in cerchi sempre più vasti, nacque l’impulso allo spietato sterminio del tumore maligno. Cerchi sempre più vasti riconobbero che l’attenuazione degli antagonismi, l’inganno dell’unità, sono il più grande dei mali, e che il partito socialista, per assolvere i suoi compiti storici, deve concordare non in apparenza ma in realtà, sui principi del socialismo, dell’internazionalismo e dell’azione rivoluzionaria.

Ma già una nuova parola crea confusione: “Opposizione”. Già comincia nella “opposizione” il decrepito gioco del “far numero”: “unità, unità, unità soprattutto”; non nell’insieme del partito ma questa volta nell’opposizione. Che cosa significa “opposizione”? Un nuovo idolo invece di quello già distrutto? Che cosa significa “concentrazione di forze”? Una nuova ipocrisia invece di quella già smascherata? Che cosa significa “unità”? Una nuova “disciplina” paralizzante, invece di quella già spezzata? Tre volte no!

Sì, se l’opposizione fosse una comunione di coscienze e di volontà, concordi nel principio, capaci di azione e pronti all’azione! Ma essa non lo è. Lavoro comune, se e in quanto esista un accordo, sì. Fronte unico senza chiarificazione, senza concordanza, no! Unione nel subordinare una decisione spietata al dominio di un cauto opportunismo? No! Oggi, sotto la dittatura militare e la tregua civile, nel giorno del crepuscolo degli dei e del diluvio universale, meno che mai!

Un fronte unico esteso fino ai partigiani della politica del 4 agosto che oggi si considerano approssimativamente membri dell’opposizione, il che significherebbe fronte comune sulla base di questa politica? No! E neppure accordo su quella linea di marzo, su quella larga e contorta strada del compromesso, propria del “centro marxista”. Nessun raggruppamento di forze se non sulla retta via indicata dai principi del socialismo internazionale e rivoluzionario e da cui non si può retrocedere di un palmo, l’avvenire non deve essere una copia ancor più triste del triste passato e dello squallido presente.

Non “unità” ma chiarezza soprattutto. Nessuna fiacca tolleranza nemmeno nell’opposizione, ma critica corrosiva e spinta fino in fondo, minuziosa resa dei conti fino all’ultimo centesimo. La strada va dall’inesorabile individuazione e, se possibile, eliminazione delle divergenze fino alla omogeneità di principio e di tattica, quindi alla capacità d’azione, quindi all’unità.

L’unità non può costituire l’inizio del processo di fermento che i partiti socialisti e perfino l’opposizione attraversano, ma solo la sua conclusione. E la scissione purificatrice dovrà essere continuata anche nell’opposizione finché l’internazionalismo, l’assoluta precedenza della lotta di classe internazionale, saranno riconosciuti come principi direttivi del movimento proletario e diventate carne e sangue nella capacità d’azione rivoluzionaria. O deve esserci alla soglia della nuova Internazionale un nuovo annacquamento, una nuova attenuazione delle divergenze? Deve essa ereditare la peggiore e più antica delle maledizioni per le quali l’Internazionale andò in rovina? Meglio allora tornare immediatamente nel vecchio stagno, non è più profondo del nuovo.

Queste lettere devono servire a capirsi, a chiarire i problemi, a prepararsi alla lotta per un incondizionato internazionalismo. Compito della prima lettera era denunziare l’esistenza di importanti contrasti all’interno dell’opposizione e con ciò legittimare il nostro atteggiamento. Le Tesi che seguono sono una ricapitolazione dei punti di vista essenziali dai quali noi consideriamo il nostro compito.

 

TESI LUXEMBURG SUL SOCIALISMO E LA GUERRA

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Un gran numero di compagni di tutte le parti della Germania ha accettato i seguenti principi direttivi, che rappresentano una applicazione del programma di Erfurt ai problemi attuali del socialismo internazionale.

 

1)    La guerra mondiale ha distrutto i risultati del lavoro compiuto in quarant’anni dal socialismo europeo, annullando l’importanza della classe operaia rivoluzionaria come fattore politico di potenza ed il prestigio morale del socialsimo, ha mandato all’aria l’Internazionale proletaria, ha spinto l’una contro l’altra al fratricidio le sue sezioni, ha incatenato le aspirazioni e le speranze delle masse popolari nei più importanti paesi dello sviluppo capitalistico alla nave dell’imperialismo.

2)    Con l’approvazione dei crediti di guerra e la proclamazione della tregua civile i dirigenti ufficiali dei partiti socialisti in Germania, Francia ed Inghilterra (fatta eccezione del partito laburista indipendente) hanno rafforzato alle spalle l’imperialismo, hanno indotto le masse popolari a tollerare pazientemente la miseria e il terrore della guerra, hanno contribuito allo scatenamento sfrenato della furia imperialistica, al prolungamento della strage, e all’aumento del numero delle vittime e si sono resi corresponsabili della guerra e delle sue conseguenze.

3)    Questa tattica delle istanze ufficiali del partito nei paesi belligeranti, in primissima linea in Germania, il paese che era finora alla testa dell’Internazionale, costituisce un tradimento verso i più elementari principi del socialismo internazionale, verso gli interessi vitali della classe operaia, verso tutti gli interessi democratici dei popoli. Con ciò la politica socialista è stata condannata all’impotenza anche in quei paesi i cui capi del partito sono rimasti fedeli ai loro doveri: in Russia, in Serbia, in Italia e – con un’eccezione – in Bulgaria.

4)    La socialdemocrazia ufficiale dei principali paesi, sacrificando la lotta di classe durante la guerra e rimandandola al periodo postbellico, ha dato agio alle classi dirigenti di tutti i paesi di rafforzare enormemente a spese del proletariato le sue posizioni dal lato economico, politico e morale.

5)    La guerra mondiale non serve alla difesa nazionale né agli interessi economici o politici di una qualunque massa popolare, ma è puramente un prodotto di rivalità imperialistiche tra le classi capitalistiche dei diversi paesi per l’egemonia mondiale e per il monopolio nel dissanguamento e nell’oppressione dei territori non ancora dominati dal capitale. Nell’era di questo imperialismo scatenato non possono più esistere guerre nazionali. Gli interessi nazionali servono soltanto ad ingannare le masse popolari per asservirle al loro menico mortale, l’imperialismo. (4)

6)    Dalla politica degli Stati imperialisti e dalla guerra imperialistica non può scaturire libertà e indipendenza per nessuna nazione oppressa. Le piccole nazioni, le cui classi dirigenti sono appendici e complici dei loro compagni di classe dei grandi Stati, non sono altro che pedine nel gioco imperialistico delle grandi potenze e durante la guerra si abusa di loro come delle rispettive masse lavoratrici, come di strumenti, per sacrificarle dopo la guerra agli interessi capitalistici.

7)    In queste circostanze la guerra mondiale odierna, chiunque sia il vincitore o il vinto, rappresenta una sconfitta del socialismo e della democrazia. Qualunque sia l’esito – escluso l’intervento rivoluzionario del proletariato internazionale – essa conduce a un rafforzamento del militarismo, degli antagonismi internazionali, delle rivalità economiche. Essa accresce lo sfruttamento capitalistico e la relazione nella politica interna, indebolisce il pubblico controllo e degrada i parlamenti a strumenti sempre più obbedienti del militarsimo. La guerra mondiale odierna sviluppa così nello stesso tempo tutte le premesse per nuove guerre.

8)    La pace mondiale non può essere assicurata con piani utopistici e in fondo a base reazionaria, come tribunali arbitrali internazionali dei diplomatici capitalisti, accordi diplomatici su “disarmo”, “libertà dei mari”, abolizione del diritto di preda marittima, “federazione degli Stati europei”, “unione doganale medioeuropea”, Stati nazionali cuscinetto et similia. Imperialismo, militarismo e guerre non si potranno evitare o arginare finché le classi capitalistiche eserciteranno indisturbate il loro predominio di classe. L’unico mezzo di oppor loro vittoriosa resistenza e l’unica certezza di pace mondiale sta nella capacità politica di azione e nella volontà rivoluzionaria del proletariato internazionale, di gettare sulla bilancia la sua forza.

9)    L’imperialismo, come ultima fase vitale e come la più alta estrinsecazione dell’egemonia politica mondiale del capitale, è il nemico mortale comune del proletariato di tutti i paesi. Ma esso divide anche con le fasi precedenti del capitalismo il destino di accrescere le forze del suo nemico mortale nella stessa misura in cui sviluppa se stesso. Esso accelera la concentrazione del capitale, lo sbriciolamento del medio ceto, l’incremento del proletariato, risveglia la resistenza crescente delle masse e conduce così all’inasprimento intensivo degli antagonismi di classe. In prima linea contro l’imperialismo dev’essere concentrata, in pace come in guerra, la lotta di classe proletaria. La lotta contro l’imperialismo per il proletariato internazionale è al tempo stesso la lotta per il potere politico dello Stato, la spiegazione decisiva tra socialismo e capitalismo. Lo scopo finale socialista sarà realizzato dal proletariato internazionale soltanto facendo fronte su tutta la linea contro l’imperialismo ed elevando la parola d’ordine “guerra alla guerra” a norma direttiva della sua politica pratica, dedicandovi tutte le sue forze e il massimo spirito di sacrificio.

10)  A questo scopo oggi il compito principale del socialismo consiste nel radunare il proletariato di tutti i paesi in una forza rivoluzionaria vivente, e farne, mediante una potente organizzazione internazionale con una comprensione unitaria dei suoi interessi e dei suoi compiti, con una tattica e una capacità politica di azione unitarie in pace come in guerra, un fattore decisivo della vita politica, compito al quale è chiamato dalla storia.

11)  La Seconda Internazionale è saltata in aria con la guerra. La sua insufficienza si è dimostrata nell’incapacità di mettere un argine efficace al proprio frazionamento nazionale nel corso della guerra e di realizzare una tattica ed azione comune del proletariato in tutti i paesi.

12)  In considerazione del tradimento, da parte delle rappresentanze ufficiali dei partiti socialisti dei principali paesi, degli scopi e degli interessi della classe operaia, visto che esse hanno deviato dal terreno dell’Internazionale proletaria sul terreno della politica borghese-imperialistica, è una necessità vitale per il socialismo costruire una nuova Internazionale dei lavoratori, che guidi e riunisca la lotta di classe rivoluzionaria contro l’imperialismo in tutti i paesi.

 

Per assolvere i suoi compiti storici, essa deve basarsi sui seguenti principi:

 

1)    La lotta di classe nell’interno degli Stati borghesi contro le classi dominanti e la solidarietà internazionale dei proletari di tutti i paesi sono due norme di vita indissolubili della classe operaia nella sua lotta storica mondiale per la propria emancipazione. Non esiste socialismo all’infuori della solidarietà internazionale del proletariato e non esiste socialismo all’infuori della lotta di classe. Il proletariato socialista non può rinunciare né in pace né in guerra alla lotta di classe e alla solidarietà internazionale, senza commettere un suicidio.

2)    L’azione di classe del proletariato di tutti i paesi deve avere come scopo principale in pace come in guerra di lottare contro l’imperialismo e impedire le guerre. L’azione parlamentare, l’azione sindacale, come tutta l’attività del movimento operaio deve essere subordinata allo scopo di opporre in ogni paese nel modo più aspro il proletariato alla borghesia nazionale, porre in risalto ad ogni passo l’antagonismo politico e spirituale che li separa, e contemporaneamente porre in primo piano e render manifesta la fratellanza internazionale dei proletari di tutti i paesi.

3)    Nell’Internazionale sta il centro di gravità dell’organizzazione di classe del proletariato. L’Internazionale decide in tempo di pace sulla tattica delle sezioni nazionali nelle questioni del militarismo, della politica coloniale, della politica commerciale, del primo maggio, e inoltre su tutta la tattica da seguirsi in guerra.

4)    Il dovere di dare esecuzione alle deliberazioni dell’Internazionale è superiore a tutti gli altri doveri dell’organizzazione. Le sezioni nazionali che agiscono contrariamente alle sue deliberazioni, si mettono fuori dell’Internazionale.

5)    Nelle lotte contro l’imperialismno e contro la guerra la forza decisiva può essere impegnata soltanto dalle masse compatte del proletariato. L’obiettivo fondamentale della tattica delle sezioni nazionali deve essere di educare vaste masse alla capacità di azione politica e alla decisa iniziativa, assicurare la coerenza internazionale delle azioni di massa, edificare le organizzazioni politiche e sindacali in modo da garantire per loro tramite in ogni tempo la rapida ed efficace collaborazione di tutte le sezioni e l’attuazione delle volontà dell’Internazionale da parte delle più vaste masse operaie di tutti i paesi.

6)    Compito immediato del socialismo è l’emancipazione del proletariato dalla tutela della borghesia, che si estrinseca nell’influsso dell’ideologia nazionalista. Le sezioni nazionali devono condurre la loro agitazione, nel parlamento come nella stampa, in modo da denunciare la fraseologia tradizionale del nazionalismo come strumento di dominio borghese. L’unica difesa di ogni vera libertà nazionale sta oggi nella lotta di classe rivoluzionaria contro l’imperialismo. La patria dei proletari, alla cui difesa dev’essere subordinato tutto il resto, è l’Internazionale socialista.

 

LENIN:  A PROPOSITO DELL’OPUSCOLO DI JUNIUS

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La critica di Lenin contenuta nella sua risposta all’opuscolo di Junius sulla crisi della socialdemocrazia, di cui qui sopra abbiamo riportato le Tesi e la Circolare ai gruppi di opposizione in seno al partito tedesco, parte dal riconoscimento da parte di Lenin della ferma posizione internazionalista della Luxemburg.

Ma la lettura dell’opuscolo ha indotto Lenin ad intervenire per combattere gli eventuali errori teorici e gli equivoci nei quali, da posizioni non teoricamente inoppugnabili, si può cadere. Sappiamo bene che una delle caratteristiche peculiari di tutta la produzione teorica, programmatica, politica, tattica e organizzativa di Lenin è sempre stata la strettissima aderenza alla teoria marxista che, grazie ad un magistrale maneggio della dialettica, gli permetteva in ogni circostanza di individuare la possibilità di interpretazioni equivoche di tesi giuste ma non definite con il rigore necessario. Ed è stato il caso di alcune tesi contenute nell’opuscolo della Luxemburg: gli errori e gli equivoci si riflettono, in genere, immediatamente in errori e storture nell’azione pratica.

«Il rigore teorico – scrivevamo nella seconda puntata dedicata alla Crisi catastrofica della Internazionale Socialista nella guerra del 1914 (7) – è, per Lenin, il presupposto del rigore spietato dell’azione rivoluzionaria, e non v’è dubbio che la Luxemburg, a volte per mettere alla corda l’avversario portando all’estremo le sue tesi, a volte per un insufficiente sviluppo della propria argomentazione, lascia sussistere nel suo opuscolo – pur così vibrante di passione rivoluzionaria e di sacro sdegno – alcuni equivoci pericolosi nei confronti della posizione verso il ricorrente “centrismo”, le lotte nazionali e la “difesa della patria”. Ma siamo, pur nella polemica “ad alta quota”, fra rivoluzionari che affinano le armi teoriche e pratiche della battaglia di classe: fuori della palude dell’immediatismo “concretista”!». Ricordiamo, per chi leggesse per la prima volta gli scritti dei rivoluzionari marxisti di quel periodo storico, che quei rivoluzionari si chiamavano “socialdemocratici” e che, per distinguersi, dai socialdemocratici di destra si autodefinivano di sinistra; e che, quando Lenin lesse questo scritto non sapeva che si trattava di Rosa Luxemburg.

Ed ecco l’intero testo di Lenin, che riprendiamo da “il programma comunista” del 1960 (8), al quale, per facilitarne la lettura, sono stati posti dei titoletti ai diversi argomenti trattati da Lenin:

 

 

Un opuscolo socialdemocratico dedicato alla questione della guerra è finalmente apparso illegalmente in Germania senza sottomettersi all’infame censura degli Junker.

L’autore, che appartiene manifestamente all’ala “sinistra radicale” del partito, ha firmato il suo opuscolo col nome di Junius (che in latino significa “il più giovane”) e l’ha intitolato: “La crisi della Socialdemocrazia”. In allegato troviamo le “Direttive sui compiti della Socialdemocrazia internazionale”, che vennero già presentate alla Commissione socialista internazionale di Berna, e pubblicate nel n. 3 del suo bollettino; esse provengono dal gruppo “Die Internationale” che, nella primavera del 1915, pubblicò sotto questo titolo una rivista con articoli di Clara Zetkin, Mehring, Rosa Luxemburg, Talheimer, Duncker ecc., e tenne nel corso dell’inverno 1915-1916 una Conferenza [la conferenza dei socialdemocratici di sinistra del 1° gennaio 1916 tenutasi – come si è visto – a Berlino nell’appartamento di Karl Liebknecht per adottare le tesi del Gruppo “Internationale” elaborate da R. Luxemburg] alla quale parteciparono socialdemocratici venuti da tutte le parti della Germania.

L’opuscolo è stato scritto nell’aprile 1915, come dichiara l’autore nell’introduzione datata 2 gennaio 1916, ed è stato stampato “senza alcuna modifica”. “Circostanze esterne” hanno impedito una pubblicazione più rapida. L’opuscolo si occupa tanto della “crisi della Socialdemocrazia” quanto dell’analisi della guerra, confuta la leggenda secondo la quale essa avrebbe un carattere nazionale di liberazione e dimostra che si tratta, sia da parte della Germania che da parte delle altre grandi potenze, di una guerra imperialistica; infine procede alla critica rivoluzionaria dell’atteggiamento del partito ufficiale. L’opuscolo di Junius, redatto in maniera estremamente vivace, ha svolto e continua senza dubbio a svolgere un grande ruolo nella lotta contro l’ex Partito Socialdemocratico Tedesco passato dalla parte della borghesia e degli Junker; ne salutiamo di tutto cuore l’autore.

Quanto ai principi, esso non offre nulla di nuovo al lettore russo al corrente della letteratura socialdemocratica apparsa in lingua russa all’estero dal 1914 al 1916. Dopo aver letto questo opuscolo e paragonati gli argomenti del marxista rivoluzionario tedesco, per esempio, col manifesto del Comitato Centrale del nostro partito del settembre-novembre 1914, con le risoluzioni di Berna del marzo 1915 e coi numerosi commenti ad esse seguiti, si è costretti a riconoscere che gli argomenti di Junius sono molto incompleti e che egli cade in alcuni errori. Ma se dedichiamo lo svolgimento che segue alla critica delle deficienze e degli errori teorici di Junius, sottolineiamo espressamente che lo facciamo per quell’autocritica che è tanto necessaria ai marxisti e come giro d’orizzonte critico su tutte le idee destinate a servire da base ideologica alla III Internazionale. L’opuscolo di Junius è, nel complesso, una eccellente opera marxista ed è molto probabile che i suoi difetti abbiano, almeno fino ad un certo punto, carattere di circostanza.

 

LOTTA CONTRO L’OPPORTUNISMO APERTO E CONTRO L’OPPORTUNISMO MASCHERATO

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La principale deficienza e l’incontestabile passo indietro rispetto alla rivista “Die Internationale” apparsa legalmente (benché proibita fin dalla sua prima apparizione) è che esso tace il legame esistente tra il socialsciovinismo (l’autore non usa questo termine, né quello meno preciso di socialpatriottismo) e l’opportunismo. Junius parla giustamente della “capitolazione” e dello sfacelo del partito socialdemocratico e del “tradimento” dei suoi capi ufficiali; ma non va più oltre. Ora, già “l’Internationale” aveva fatto la critica del “Centro”, vale a dire del kautskismo, e, a giusta ragione, coperto di sarcasmo la sua mancanza di carattere, la sua prostituzione della dottrina marxista, il suo servilismo di fronte agli opportunisti, e aveva cominciato a smascherare il vero ruolo degli opportunisti divulgando, per esempio, il fatto estremamente importante che fin dal 4 agosto 1914 essi avevano redatto un ultimatum con la ferma intenzione di votare in tutti i casi i crediti di guerra. Ora, sia nell’opuscolo di Junius che nelle Tesi, non si parla né dell’opportunismo, né del kautskismo. Ciò è un errore teorico, poiché non si può spiegare il “tradimento” senza metterlo in rapporto con l’opportunismo in quanto tendenza che ha dietro di sé una lunga storia, tutta la storia della II Internazionale. Ed è un errore di politica pratica, poiché non si può né comprendere né superare la “crisi della Socialdemocrazia”, se non si spiega l’importanza e il ruolo dei due orientamenti: quello opportunista aperto (Legien, David ecc.) e quello opportunista mascherato (Kautsky e consorti).

L’opuscolo è un passo indietro in confronto, sotto quest’aspetto, all’articolo storico pubblicato da Otto Rühle nel “Vorwärts” del 12 gennaio 1916, in cui egli dimostra la inevitabilità di una scissione nel partito socialdemocratico tedesco, cosa tanto più strana e inconseguente in quanto nella 12ª tesi della Internationale, si parla senza veli della necessità di una “nuova” Internazionale “di fronte al tradimento dei rappresentanti ufficiali dei partiti socialisti dei principali paesi” e al loro “passaggio sul terreno della politica borghese imperialista”. E’ chiaro che sarebbe perfettamente ridicolo parlare di una partecipazione alla “nuova” Internazionale dell’antico partito socialdemocratico tedesco o in genere di un partito che tolleri nelle propie file i Legien, David e consorti.

Ignoriamo le ragioni di questo passo indietro del Gruppo “Die Internationale”. Il difetto più grave di tutto il marxismo rivoluzionario in Germania è la assenza di una solida organizzazione illegale, che segua sistematicamente la propria via e prepari le masse ai compiti nuovi della storia: una tale organizzazione dovrebbe prendere chiaramente posizione tanto di fronte all’opportunismo quanto di fronte al kautskismo... Ciò è tanto più necessario in quanto i socialdemocratici rivoluzionari hanno perduto in Germania i due ultimi quotidiani, il “Bürger-Zeitung” di Brema e il “Volsfreund” di Brunswick, passati a Kautsky. Il gruppo dei “socialisti internazionalisti di Germania” (ISD) è il solo, fra tutti, che si mantenga a posto.

Sembra invece che alcuni membri del Gruppo “Die Internationale” siano scivolati di recente nel marasma del kautskismo senza principi. Per esempio, Strobel è arrivato a fare dei complimenti a Bernstein e Kautsky nella “Neue Zeit”, e il 15 agosto 1916 ha pubblicato un articolo “Pacifismo e Socialdemocrazia” in cui difende il più triviale pacifismo alla Kautsly, mentre Junius prende posizione nettamente contro i progetti  kautskiani di “disarmo”, di “soppressione della diplomazione segreta” ecc. E’ quindi possibile che esistano in seno al Gruppo “Internationale” due tendenze: una rivoluzionaria e l’altra oscillante verso il kautskismo. Comunque, il primo errore di Junius si trova nella quinta tesi del Gruppo “Internationale”: “... Nell’era dell’imperialismo scatenato, non possono più esistere guerre nazionali. Gli interessi nazionali non servono che ad ingannare le masse e a metterle al servizio del loro nemico mortale, l’imperialismo...”.

L’inizio della quinta tesi, che termina con questa frase, caratterizzava la guerra attuale come imperialista. Ora, è possibile che la negazione delle guerre nazionali in genere sia dovuta ad una esagerazione di circostanza al fine di rafforzare l’idea del tutto giusta che la guerra attuale è una guerra imperialista, e non una guerra nazionale. Ma, poiché può verificarsi anche il contrario e poiché si tratta di una erronea negazione di tutte le guerre nazionali per reazione alla menzognera presentazione della guerra attuale come una guerra nazionale da parte di diversi socialdemocratici, siamo costretti ad essere molto espliciti nella nostra critica.

 

NON ESISTONO PIÙ IN NESSUN CASO GUERRE NAZIONALI?

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Junius ha perfettamente ragione di insistere sull’influenza decisiva dell’”ambiente imperialistico” nella guerra attuale, di mostrare che la Russia sta dietro alla Serbia e che la partecipazione, per esempio, dell’Olanda deriva anch’essa da moventi imperialistici poiché essa, in primo luogo, difende le sue colonie e, in secondo, è alleata ad una delle coalizioni imperialistiche. Ciò è incontestabile in merito alla guerra attuale, e quando Junius mette l’accento sulla lotta contro “lo spettro della guerra nazionale che grava sulla politica socialdemocratica”, bisogna riconoscere che le sue conclusioni sono giuste e perfettamente a posto.

Ma sarebbe falso, esagerando questa verità e deviando dalla giusta linea marxista, pretendere di restare indifferenti a tutte le guerre possibili sotto l’imperialismo trasferendo ad esse il giudizio sulla guerra attuale e dimenticando i moti nazionali contro le potenze imperialistiche. Il solo argomento a favore della tesi secondo la quale “non possono più esistere guerre nazionali” è che il mondo è diviso fra un piccolo numero di “grandi potenze” imperialistiche, e che, per conseguenza, ogni guerra, anche se nazionale in origine, si trasforma prima o poi in guerra imperialistica perché tocca gli interessi di una delle potenze o coalizioni imperialistiche (pag. 81 dell’opuscolo).

L’inesattezza di questo argomento balza agli occhi. Il principio della dialettica marxista consiste, certo, nel riconoscimento che tutte le frontiere nella natura e nella storia sono determinate e quindi rimovibili; che non esiste un solo fenomeno che non possa, in certe condizioni, trasformarsi nel suo opposto. Una guerra nazionale può trasformarsi in guerra imperialista e viceversa. Ad esempio, le guerre della rivoluzione francese cominciarono come guerre nazionali, e lo erano effettivamente. Esse erano rivoluzionarie in quanto difendevano la grande rivoluzione contro il fronte unito delle monarchie controrivoluzionarie. Ma quando Napoleone instaurò l’Impero in Europa e assoggettò tutta una serie di grandi Stati nazionali da tempo esistenti, le guerre nazionali francesi divennero imperialistiche e queste produssero a loro volta guerre nazionali di liberazione contro l’imperialismo napoleonico.

Ma solo un sofista potrebbe cancellare la differenza tra guerra imperialista e guerra nazionale obiettando la possibilità per ciascuna di esse di trasformarsi nell’altra. La dialettica –anche nella storia della filosofia greca – è più di una volta servita da ponte alla sofistica. In contrapposto, noi siamo dialettici che combattiamo i sofismi non già negando la possibilità di ogni trasformazione in genere, ma aiutandoci con l’analisi concreta dei dati d'ambiente e di sviluppo.

E’ altamente improbabile che la guerra imperialistica 1914-1916 si trasformi in una guerra nazionale non solo perché la classe che nello sviluppo storico rappresenta il progresso è il proletariato, e questo tende obiettivamente a trasformare la guerra fra gli Stati in guerra civile contro la borghesia, ma anche perché le forze delle due coalizioni non differiscono che impercettibilmente, avendo il capitalismo finanziario creato dovunque una borghesia reazionaria. Ma non si può proclamare che una tale trasformazione sia impossibile. Se il proletariato europeo restasse impotente per oltre 20 anni; se questa guerra potesse durare un ventennio con vittorie del genere di quelle di Napoleone e portare all’asservimento di una serie di Stati nazionali vitali; se l’imperialismo extraeuropeo (giapponese o americano in primo luogo) potesse egualmente sussistere per altri 20 anni senza trasformarsi in socialismo (in seguito, per esempio, a un conflitto cino-americano), allora una grande guerra nazionale rappresenterebbe certo per il vecchio Mondo una involuzione di parecchi decenni, ma non è impossibile. In realtà è antidialettico, antiscientifico, teoricamente sbagliato, credere che la storia universale progredisca in modo lineare e regolare senza fare, talvolta, giganteschi balzi indietro. C’è di più. Le guerre nazionali nelle colonie e semi-colonie nell’epoca dell’imperialismo sono non solo probabili, ma inevitabili. Nelle colonie e semi-colonie (Cina, Turchia, Persia) vivono circa mille milioni di uomini, ossia più della metà della popolazione totale della terra. Moti di libertà nazionale vi esistono, sia già molto forti, sia in corso di formazione e di sviluppo. Ogni guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. La continuazione della politica di liberazione nelle colonie sarà inevitabilmente la loro guerra nazionale contro l’imperialismo, ed è vero che essa può condurre ad una guerra imperialistica fra le “grandi potenze” imperialistiche, ma può anche non condurvi; tutto dipende da un gran numero di circostanze.

Un esempio: l’Inghilterra e la Francia, nella guerra dei Sette Anni, lottarono per le loro colonie. Vale a dire, condussero una guerra imperialista, possibile tanto sulla base schiavistica del capitalismo primitivo quanto sulla base attuale del capitalismo altamente sviluppato. La Francia fu vinta e perdette una parte delle sue colonie. Qualche anno dopo cominciò la guerra nazionale di liberazione degli Stati nordamericani contro la sola Inghilterra, e la Francia e la Spagna pur possedendo a tutt’oggi alcune parti dell’America del Nord, per odio contro l’Inghilterra, cioè a causa dei loro interessi imperialistici, conclusero un patto d’amicizia con gli Stati che avevano preso le armi contro la metropoli inglese. Truppe francesi unitamente a truppe americane vinsero l’esercito britannico. Abbiamo qui a che fare con una guerra nazionale di liberazione, in cui la concorrenza imperialistica è un elemento aggiuntivo e privo di importanza decisiva, contrariamente a quanto vediamo nella guerra odierna dove neppure il fattore nazionale della guerra austro-serba ha molta importanza di fronte alla competizione imperialistica che determina tutto l’insieme.

E’ dunque chiaro che sarebbe insensato usare la nozione di imperialismo in modo stereotipato e concluderne la “impossibilità” di guerre nazionali.

Una guerra nazionale di liberazione, per esempio della Persia, dell’India e della Cina alleate contro l’una o l’altra delle potenze imperialistiche, è perfettamente possibile, anzi probabile, poiché deriverebbe dal movimento nazionale di liberazione di quei paesi e in tal caso la trasformazione della loro guerra in guerra imperialistica fra le potenze imperialistiche attuali dipenderebbe da circostanze concrete e molto numerose che sarebbe ridicolo voler stabilire in anticipo.

In terzo luogo, non si può, neanche in Europa, considerare impossibili nell’epoca dell’imperialismo, delle guerre nazionali. L’”era dell’imperialismo” ha fatto della guerra attuale una guerra imperialistica; essa produrrà inevitabilmente (finché non verrà il socialismo) nuove guerre imperialiste, ed ha reso completamente imperialistica la politica delle grandi potenze attuali; ma questa “era” non esclude affatto delle guerre nazionali, per esempio da parte dei piccoli Stati annessi o nazionalmente schiacciati contro le potenze imperialistiche.

Così, nell’Europa orientale, essa non esclude affatto moti nazionali su larga scala. Per ciò che concerne l’Austria, Junius vede le cose molto bene, quando non considera soltanto la “economia”, ma anche le condizioni politiche particolari; sottolinea l’intrinseca “incapacità di vita dell’Austria” e constata che la monarchia asburgica non corrisponde all’organizzazione politica di uno Stato borghese, ma a “un sindacato elastico di diverse cricche di parassiti sociali”, e che la “liquidazione dell’Austria-Ungheria è storicamente la continuazione dello smembramento della Turchia e, insieme, una necessità del processo di sviluppo storico”.

Ciò vale anche per certi Stati balcanici e per la Russia. E se immaginiamo un sensibile indebolimento delle “grandi potenze” nella guerra attuale, o supponiamo la vittoria della rivoluzione in Russia, delle guerre nazionali sono perfettamente possibili, e possono riuscire vittoriose. Per cominciare, l’intervento delle grandi potenze imperialiste non può verificarsi in pratica in ogni circostanza.

Inoltre, se si dice genericamente che la guerra d’un piccolo Stato contro uno Stato-colosso è senza avvenire, si deve rispondere che una guerra senza avvenire è pur sempre una guerra, senza contare che certi fenomeni in seno agli Stati-colossi (per esempio l’inizio di una rivoluzione) possono rendere una guerra “senza speranze”, “ricca di speranze”.

 

L’ERRORE TEORICO GENERA L’ERRORE PRATICO

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Non ci soffermeremo oltre sull’affermazione inesatta che “non possono più esistere guerre nazionali”, perché essa è manifestamente un errore teorico, Sarebbe deplorevole che la “sinistra” manifesti nei riguardi del marxismo una mancanza di rigore laddove la fondazione della III Internazionale è possibile solo sul terreno del marxismo più rigoroso. Ma l’errore è nefasto anche agli effetti della politica pratica: ne deriva l’insensata propaganda a favore del “disarmo”, poiché si pretende che possano esistere soltanto guerre reazionarie; se ne deduce un’indifferenza ancor più insensata e negativa di fronte ai movimenti di liberazione nazionale, e quest’indifferenza diviene sciovinismo quando i sudditi delle “grandi” nazioni europee, cioè delle nazioni che opprimono una massa di popoli minori o di colonie, proclamano dottamente: “Non possono più esistere guerre nazionali”. In effetti, guerre nazionali contro le potenze imperialistiche sono non soltanto possibili e probabili, ma inevitabili, e sono progressive e rivoluzionarie indipendentemente dal fatto che il loro successo esiga l’unione degli sforzi di un numero enorme di abitanti dei paesi oppressi (centinaia di milioni nel caso della Cina e dell’India), o che si produca un concorso di circostanze particolarmente favorevole nella situazione internazionale (per esempio, paralisi dell’intervento degli Stati imperialistici a causa della loro debolezza, della guerra, dei loro reciproci antagonismi ecc.) o che l’insurrezione del proletariato contro la borghesia abbia luogo simultaneamente (questo caso, che citiamo per ultimo, è tuttavia il primo del punto di vista di ciò che è più desiderabile e vantaggioso per la vittoria del proletariato).

Sarebbe tuttavia ingiusto accusare Junius di indifferenza per i moti nazionali. Non sottolinea egli stesso, fra le colpe della frazione socialdemocratica, il silenzio sull’esecuzione di un capo indigeno del Camerun per “alto tradimento” (certo per un tentativo di sommossa in relazione alla guerra) e altrove non mette in evidenza – con particolare riguardo ai signori Legien, Lench e altri bricconi che si fanno passare per “socialdemocratici” – che i popoli coloniali sono dei popoli anch’essi? Junius dichiara con assoluta precisione: “Il socialismo riconosce ad ogni popolo il diritto all’indipendenza, alla libertà, alla libera disposizione dei propri destini... Il socialismo internazionale riconosce il diritto delle nazioni alla libertà, all’indipendenza e all’uguaglianza, ma soltanto il socialismo può creare tali nazioni e realizzare il diritto dei popoli a disporre di se stessi”. “Questa parola d’ordine del socialismo”, nota molto giustamente l’autore, “è, come tutte le altre, non la santificazione di ciò che esiste ora, ma una direttiva e uno sprone per la politica attiva, rivoluzionaria, innovatrice, del proletariato” (pag. 77 e 78). Sbaglierebbe dunque chi credesse che tutti i socialdemocratici tedeschi di sinistra siano ridotti all’aridità e alla caricatura del marxismo proprie dei socialdemocratici olandesi e polacchi, che non riconoscono neppure il diritto all’autodecisione sotto il socialismo.

 

NESSUN EQUIVOCO SULLA “DIFESA DELLA PATRIA”

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Un altro errore di Junius si riferisce alla questione della difesa della patria. Ecco un punto politico cardinale in tempo di guerra imperialistica. E Junius ci rafforza nella convinzione che il nostro Partito ha posto il problema nella sola maniera giusta: il proletariato è contro la difesa della patria, in questa guerra imperialistica, a causa del suo carattere reazionario, schiavista e brigantesco, in ragione della possibilità e della necessità di opporle la guerra civile per il socialismo e cercar di trasformare quella guerra in guerra civile.

Junius, da una parte, ha smascherato il  carattere imperialista della guerra attuale (che non è una guerra nazionale), ma dall’altra è caduto nell’errore invero strano di tirar per i capelli un programma nazionale da applicare ad un guerra che non è nazionale! Sembrerebbe incredibile, ma è proprio così!

I socialdemocratici ufficiali del tipo Legien e Kautsky ripetevano con particolare zelo l’argomento della “invasione” per servilismo verso la borghesia che urlava sulla “invasione” straniera appunto per ingannare le masse popolari sul carattere imperialista della guerra. Kautsky, il quale adesso assicura agli ingenui e ai creduloni di essere passato all’opposizione verso la fine del 1914, si riferisce, prima come dopo, a questo “argomento”. Per confutarlo, Junius cita esempi storici molto istruttivi a riprova del fatto che “invasione” e lotta di classe non sono contraddittorie nella società borghese, come vorrebbe la leggenda ufficiale, ma fanno una cosa sola come mezzo ed espressione. Esempio: i Borboni in Francia invocarono l’invasione straniera contro i giacobini; i borghesi dell’anno 1871 le fecero appello contro la Comune. Marx scriveva nella “Guerra civile in Francia”: «Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società sia ancora capace è una guerra nazionale; ed ora è provato che essa è una pura mistificazione dei governi, destinata a ritardare la lotta delle classi, e gettata da parte appena questa lotta di classe si trasforma in guerra civile».

«Ma l’esempio classico per tutti i tempi è la grande rivoluzione francese», scrive Junius, riferendosi all’anno 1793. E ne tira la conclusione seguente: «Come ne testimoniano i secoli, non è lo stato d’assedio, ma la lotta di classe spietata che risveglia il sentimento di sé, lo spirito di sacrificio e la forza morale delle masse popolari, e che è la migliore protezione e la migliore difesa del paese contro il nemico esterno».

Il corollario pratico che ne tira Junius è:

«Certo, i socialdemocratici hanno il dovere di difendere il paese nel caso di una grave crisi storica. E appunto in ciò risiede l’errore madornale della frazione socialdemocratica al Reichstag, che annunziava solennemente, nella sua dichiarazione del 4 agosto 1914: “Noi non abbandoniamo la patria nell’ora del pericolo”, e nello stesso momento rinnegava le sue parole.

«Essa ha abbandonato la patria nel momento del maggior pericolo, poiché in quell’ora il primo dovere nei confronti della patria era di mostrarle le vere cause di questa guerra imperialista; di lacerare il tessuto di menzogne patriottiche e diplomatiche in cui il complotto contro la patria era avvolto; di proclamare energicamente e senza equivoci che, in questa guerra la vittoria come la sconfitta sono ugualmente fatali per il popolo tedesco; di opporsi energicamente a coloro che imbavagliavano la patria con lo stato d’assedio; di proclamare la necessità dell’armamento immediato del popolo, e della sua decisione sulla guerra e sulla pace; di pretendere con fermezza che la rappresentanza del popolo sedesse in permanenza per tutta la durata della guerra, al fine di assicurare un vigile controllo sul governo e sulla rappresentanza del popolo per mezzo del popolo; di esigere l’abolizione immediata di tutte le sospensioni dei diritti civili, poiché solo un popolo libero può difendere efficacemente il suo paese. Infine, al programma imperialista di una guerra tendente alla conservazione dell’Austria e della Turchia, vale a dire della reazione in Europa e in Germania, bisogna opporre l'antico programma veramente nazionale dei patrioti e democratici del 1848, il programma di Marx, Engels e Lassalle, la parola d’ordine di una grande Repubblica Tedesca unita. Ecco la bandiera che si sarebbe dovuta presentare al paese, la bandiera che sarebbe stata veramente nazionale, veramente libera, in conformità sia con le migliori tradizioni della Germania, che con la politica internazionale di classe del proletariato. ...Il grande dilemma fra gli interessi della patria e la solidarietà internazionale del proletariato, il tragico conflitto per cui, “col cuore gonfio”, i nostri parlamentari scivolarono dalla parte della guerra imperialista, non è che pura immaginazione, artificio borghese e nazionalista. In realtà, in guerra come in pace regna un’armonia completa fra interessi del paese e interessi di classe dell’Internazionale proletaria; entrambi esigono lo sviluppo più energico della lotta di classe e l’affermazione più recisa del programma socialdemocratico».

Junius propone dunque di opporre un programma nazionale alla guerra imperialistica. Propone che la classe portatrice del progresso guardi verso il passato anziché verso l’avvenire!

Obiettivamente, in Francia e in Germania, come in tutta l’Europa del 1793 e del 1848, la rivoluzione democratica borghese era all’ordine del giorno. A questa situazione storica obiettiva corrispondeva il programma “veramente nazionale”, cioè il programma nazionale borghese della democrazia di quell’epoca, che fu realizzato nel 1793 dagli elementi più rivoluzionari della borghesia e del “quarto stato” e nel 1848 fu proclamato da Marx a nome dell’insieme della democrazia progressita.  Alla guerra feudale e dinastica fu opposta obiettivamente, a quell’epoca, la guerra nazionale di liberazione. Era questo il contenuto dei compiti storici dell’epoca. Oggi la situazione obiettiva per i grandi Stati europei è diversa. L’evoluzione – astrazion fatta da possibili, momentanei ritorni indietro – non può avvenire che in direzione della società socialista, della rivoluzione socialista. Dal punto di vista dello sviluppo in avanti, dal punto di vista della classe più avanzata, non si può obiettivamente opporre alla guerra imperialista borghese, alla guerra del capitalismo altamente sviluppato, che la guerra contro la borghesia, cioè anzitutto la guerra civile del proletariato contro la borghesia per la conquista del potere, la guerra senza la quale non ci può essere movimento in avanti; e solo in condizioni particolari e determinate un’eventuale guerra per la difesa dello Stato socialista contro gli Stati borghesi.

E’ per questa ragione che certi bolscevichi (i quali, per fortuna, erano poco numerosi e sono stati presto abbandonati da noi per passare al gruppo di “Prisiv”) pronti ad adottare il punto di vista della “difesa condizionata”, cioè della difesa della patria se la rivoluzione avesse trionfato e se fosse stata instaurata in Russia la repubblica, non erano fedeli che alla lettera del bolscevismo, ma ne tradivano lo spirito, poiché la Russia invischiata in una guerra imperialistica delle potenze dominanti di Europa condurrebbe una guerra imperialista anche come repubblica.

Quando Junius afferma che la lotta di classe è il miglior mezzo contro l’invasione non applica la dialettica marxista che a metà, fa un passo sulla buona strada ma devia subito dopo. La dialettica marxista esige un’analisi concreta di ogni situazione storica. Che la lotta di classe sia il miglior mezzo contro l’invasione, è giusto tanto per la borghesia che rovescia il feudalesimo quanto per il proletariato che rovescia la borghesia. Ma appunto perché è giusto per tutte le oppressioni di classe, è troppo generale e insufficiente per ogni caso particolare dato. La guerra civile contro la borghesia è pure una forma di lotta di classe, e solo questa forma di lotta di classe avrebbe liberato l’Europa (tutta l’Europa, non soltanto un paese) dal pericolo dell’invasione. Ma anche una “repubblica pan-germanica”, se fosse esistita dal 1914 al 1916, avrebbe pur sempre condotto una guerra imperialista.

Junius si avvicina molto alla risposta a questo problema e alla sua giusta soluzione: guerra civile contro la borghesia per il socialismo, ma torna subito dopo indietro con la sua immaginaria “guerra nazionale” degli anni 1914-15-16.  Se si considera la questione non dal punto di vista teorico, ma pratico, l’errore di Junius non risulta meno evidente. Tutta la società borghese, tutte le classi della Germania, ivi compresi i contadini, erano per la guerra (in Russia il caso era probabilmente lo stesso; perlomeno la maggioranza dei contadini agiati e medi e una parte molto notevole dei contadini poveri, si trovavano nel cerchio magico dell’imperialismo borghese). La borghesia era armata fino ai denti. In una tale situazione, proclamare un programma di repubblica, di parlamento in permanenza, di elezione degli ufficiali da parte del popolo (“armamento del popolo”) ecc. ...avrebbe, in pratica,  significato “proclamare” la rivoluzione con un programma rivoluzionariamente sbagliato!

Nello stesso brano, Junius dichiara a ragione che non si poteva “fare” la rivoluzione. Negli anni 1914-1916, la rivoluzione era all’ordine del giorno, era contenuta nella guerra e non poteva sorgere che da questa. Ciò che occorreva “proclamare” a nome della classe rivoluzionaria, ciò che occorreva dichiarare senza timore come suo programma, era: è impossibile arrivare al socialismo, in periodo di guerra, senza la guerra civile contro la borghesia più reazionaria e criminale che condanna il popolo a sofferenze indescrivibili. Sarebbe stato necessario pensare ad azioni sistematiche, conseguenti, pratiche, applicabili ad ogni incalzare dello sviluppo della crisi rivoluzionaria, azioni che andassero nel senso della rivoluzione maturante. Queste azioni sono ricordate nelle risoluzioni del nostro partito: 1° voto contro i crediti di guerra; 2° smembramento della “sacra unione”; 3° creazione di un’organizzazione illegale; 4° fraternizzazione dei soldati; 5° appoggio a tutte le azioni rivoluzionarie di massa. Il successo di tutti questi passi conduce immancabilmente alla guerra civile.

La proclamazione di un grande programma storico avrebbe indubbiamente un’enorme importanza; non certo quella del vecchio programma nazional-tedesco scaduto per gli anni 1914-16, ma di un programma socialista ed internazionale del proletariato. “La vostra borghesia fa una guerra di brigantaggio; noi, lavoratori di tutti i paesi belligeranti, vi dichiariamo la nostra guerra, la guerra per il socialismo” – tale è il contenuto del discorso col quale i socialisti avrebbero dovuto presentarsi nei Parlamenti, il 4 agosto del 1914, non come Legien, David, Kautsky, Plekanov, Guesde, Sembat ecc., che hanno tradito il proletariato.

E’ evidente che due specie di considerazioni sbagliate possono aver causato gli errori di Junius. Indubbiamente, egli è deciso contro la guerra imperialista e per la tattica rivoluzionaria: nessuna gioia maligna di Plekanov sulla “difesa della patria” di Junius può cambiare questo fatto, e occorre rispondere immediatamente e chiaramente a possibili, anzi probabili, calunnie del genere.

In primo luogo Junius non si è liberato del tutto dall’“ambiente” dei socialdemocratici tedeschi, anche della sinistra, che temono una scissione e hanno paura di spingere fino in fondo le parole d’ordine rivoluzionarie (9). E’ questo un falso timore e la sinistra dei socialdemocratici tedeschi deve liberarsene e se ne libererà. Lo sviluppo della lotta contro il socialsciovinismo li costringerà a farlo. E la loro lotta contro i propri socialsciovinisti è decisa, energica, franca: questa l’enorme, cardinale differenza di principio fra loro e i Martov che, con un braccio (alla Skobelev), levano la bandiera col motto: “Ai Liebknecht di tutti i paesi”, e con l’altro stringono teneramente la mano a Potressov!

In secondo luogo, è chiaro che Junius avrebbe voluto realizzare qualcosa del genere della “teoria degli stadi” cara ai menscevichi; cioè realizzare il programma rivoluzionario cominciando dallo stadio più comodo, più popolare, più “accettabile” per la piccola borghesia. Una specie di piano inteso a “giocare d’astuzia con la storia”, raggirando il filisteo. Chi potrebb’essere contro la migliore difesa della patria? Ma la vera patria è la Repubblica pangermanica, la miglior difesa è la milizia, il Parlamento permanente ecc. Una volta adottato, un simile programma porterebbe al successivo stadio: la rivoluzione socialista.

E’ probabile che tali considerazioni abbiano determinato, coscientemente o incoscientemente, la tattica di Junius. E’ inutile dire che esse sono sbagliate. Nell’opuscolo di Junius si sente il militante che “è completamente solo”, senza compagni di un’organizzazione illegale abituati a pensare sino in fondo le soluzioni rivoluzionarie e a preparare sistematicamente le masse nel loro spirito. Ma questa mancanza – e sarebbe grave errore dimenticarlo – non è una deficienza personale di Junius, ma è il risultato delle debolezze di tutte le Sinistre tedesche, ingarbugliate come sono da tutte le parti nella rete infame dell’ipocrisia dei Kautsky, della pedanteria e “indulgenza” degli opportunisti.

I partigiani di Junius sono riusciti, per quanto soli, a diffondere dei volantini illegali ed a intraprendere la lotta contro il kautskismo. Essi sapranno, anche per l’avvenire, marciare sulla strada buona.

(luglio 1916

 


 

(1) Cfr. Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, Opere, vol. 22, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 305.

(2) Cfr. Lenin, La guerra e la socialdemocrazia russa, Opere, vol. 21, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 17-26.

(3) Cfr. Lenin, La Conferenza delle sezioni estere del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, Opere, vol. 21, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 141-147.

(4) Queste Tesi – contenute nel testo La crisi della socialdemocrazia – all’epoca erano disponibili solo nel volume Spartakusbriefe, Dietz, Berlino 1958; rintracciabili successivamente, in italiano, nel volume Rosa Luxemburg, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 1976, come Appendice. Principi direttivi sui compiti della socialdemocrazia internazionale, pp. 547-551.

(5) Vedi Storia della Sinistra comunista, vol. I, Edizioni il programma comunista, Milano 1964, pp. 238-244.

(6) Questo è il passo delle Tesi sul quale Lenin interviene, nel suo A proposito dell’opuscolo di Junius, criticandola come “la prima delle concezioni sbagliate di Junius”.

(7) Cfr. La crisi catastrofica della Internazionale Socialista nella guerra del 1914. Le posizioni di Rosa Luxemburg e di Vladimiro Lenin nella battaglia contro il tradimento opportunista e per la nuova Internazionale, in “il programma comunista”, n. 7 del 1960.

(8) Il testo pubblicato nel “programma comunista” n. 7 del 1960, tradotto direttamente in italiano dalla versione in tedesco, lo si può trovare anche nelle Opere complete di Lenin, edite dagli Editori Riuniti nel 1966, nel volume n. 22, alle pagine 304-318.

(9) (Nota di Lenin) Junius commette lo stesso errore nel suo svolgimento su ciò che è più augurabile: vittoria o sconfitta? Egli ne tira la conclusione che entrambe sono egualmente negative (distruzione, aumento degli armamenti ecc.). Questo non è il punto di vista del proletariato rivoluzionario, ma del piccolo borghese pacifista. Se si parla di intervento rivoluzionario del proletariato – ma sfortunatamente Junius e le tesi del Gruppo “Die Internationale” ne parlano in modo troppo generale – bisogna assolutamente che la questione sia posta in altri termini. 1° E’ possibile un intervento rivoluzionario senza il pericolo di una sconfitta? 2° E’ possibile abbattere la borghesia e il governo del proprio paese, senza provocare lo stesso pericolo? 3° Non abbiamo noi sempre dichiarato, e l’esperienza della storia delle guerre reazionarie non ce l’ha mostrato, che le sconfitte facilitano il compito delle classi rivoluzionarie?

 

 

Partito comunista internazionale

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