Francia: bilancio delle elezioni

Il teatrino politico borghese si riorganizza per una migliore difesa del capitalismo

(«il comunista»; N° 149;  Giugno 2017)

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Il movimento La République en marche, formato poco più di un anno fa da Macron e dai suoi finanziatori, non ha soltanto vinto le elezioni presidenziali con quasi il doppio dei voti raccolti da Marine Le Pen, ma ha avuto successo anche nelle elezioni politiche il mese successivo. Macron e il suo nuovo partito si sono assicurati di fatto il 70% dei seggi in parlamento, la maggioranza assoluta.C'è chi grida al "pericolo" del "partito unico", ma è la democrazia borghese che prevede la maggioranza assoluta! I vecchi partiti tradizionali, dal socialista al "comunista",logorati dopo decenni di osceno collaborazionismo con la borghesia dominante, evidentemente non garantiscono più il controllo sociale come un tempo. Bisognava "cambiare", la borghesia si è data da fare: dal suo cilindro è uscito un Macron. Il perché e il come è avvenuto lo spiega l'articolo che qui pubblichiamo. 

 

L’interminabile campagna per le elezioni presidenziali, durata quasi un anno, con le sue molteplici e sensazionali ripercussioni, si è conclusa con l’elezione di un giovane “uomo nuovo”, Macron. Egli ha ottenuto 20 milioni 753 mila voti (il 66% delle schede valide) contro 10 milioni e 643 mila (il 34% delle schede valide) della sua concorrente, Marine Le Pen. Le astensioni sono state più di 12 milioni  che si aggiungono a 4 milioni di schede bianche o nulle, cifre particolarmente alte. Le elezioni legislative di giugno non hanno fatto che confermare questo risultato. Risultato “inatteso”: solo qualche mese fa la maggioranza dei cosiddetti “politologi esperti” e dei politicanti, stimavano che la candidatura di Macron fosse votata all’insuccesso a causa della sua posizione centrista, “né a sinistra né a destra”, senza la presenza di un partito con un minimo di radicamento sociale, con dei quadri politici poco esperti, privo di qualunque programma politico degno di questo nome. Fino alla fine, certi analisti (e i candidati concorrenti) non vedevano nel successo crescente della sua campagna che una “bolla mediatica” pronta a scoppiare in ogni momento piuttosto che il risultato aleatorio di un concorso di circostanze, e in Macron un candidato “fragile” e, in fondo, “giovane ma sfortunato”!

 

Gli insegnamenti dell’elezione presidenziale

 

La denuncia da parte dei marxisti della menzogna democratica, la loro lotta contro le illusioni elettorali e per l’astensionismo rivoluzionario, non hanno nulla a che vedere con il classico indifferentismo anarchicheggiante verso le elezioni. Queste, in effetti, sono un momento-chiave della vita politica borghese e in quanto tali esse devono essere combattute e non ignorate. Una delle loro funzioni è di permettere l’espressione e la soluzione delle divergenze tra le frazioni della classe dominante; ma il loro scopo principale è il mantenimento della pace sociale (1), ossia della paralisi del proletariato, l’abbandono da parte di quest’ultimo dei suoi interessi di classe e la sua adesione agli imperativi del capitalismo (mascherati sotto il nome di “patria”, di “economia nazionale” ecc.). E’ sotto questa angolazione che è possibile analizzare le elezioni, determinare le cause dei cambiamenti e tirare degli insegnamenti utili per il proletariato.

Non bisogna essere certo molto perspicaci per comprendere che la vittoria di Macron e la disfatta dei due partiti che da trent’anni costituiscono i pilastri del teatro politico borghese non devono nulla al caso. A sinistra, il Partito Socialista, profondamente screditato dopo i successivi attacchi anti-operai, la persistenza dell’alta disoccupazione tra le masse e il degrado delle condizioni di vita di larghi settori della popolazione durante il quinquennio di Hollande (al punto da farlo rinunciare a ripresentarsi  come candidato per la presidenza), è sprofondato ad un livello mai conosciuto da 50 anni: il suo candidato Benoit Hamon (che appartiene, tra l’altro, alla sua “ala di sinistra”) con il 6,3% dei voti ha ottenuto praticamente lo stesso risultato che ottenne nel 1969 Defferre (5%), il candidato della moribonda e marcia fino al midollo SFIO (2), quando Hollande aveva superato, solo 5 anni fa!, il 28,6%. A destra, il candidato dei Repubblicani (nuova denominazione del vecchio partito gaullista) ha resistito molto meglio, visto che ha raggiunto il 20%. Ma le profonde divisioni interne del suo partito gli ha fatto perdere ogni possibilità di qualificarsi per il secondo turno, dato che è arrivato in terza posizione (quando all’inziio della campagna tutti i sondaggi lo davano largamente vincitore).

La spinta elettorale e poi la vittoria di Macron non possono essere spiegate come effetti soltanto mediatici, come se si trattasse di una moda passeggera, di una sorta di infatuazione improvvisa verso un giovane premier. Al di là delle contingenze e delle varie peripezie, esse si spiegano con l’usura, la perdita di efficacia, in una parola l’incapacità crescente della “vecchia politica”, come affermano i Macronisti, di rispondere ai bisogni generali del capitalismo francese: tanto sul piano del suo reale adattamento ai nuovi rapporti interimperialisti (dal punto di vista economico, contrariamente all’alleato-concorrente tedesco, il capitalismo francese non riesce ad uscire dal marasma, mentre sul piano della politica estera l’impasse delle sue posizioni troppo filo-americane e anti-russe è apparso evidente con la nuova amministrazione Trump), quanto sul piano della pace sociale, come dimostrato dalla tendenza crescente del governo socialista a voltare le spalle all’intesa con gli apparati sindacali e a privilegiare la repressione (le brutalità della polizia di fronte al movimento contro la legge El Khomri (3) hanno fatto più di mille feriti solo a Parigi, molte centinaia di manifestanti sono sotto processo, colpiti talvolta da condanne al carcere ecc.).

Sicuramente alcuni influenti organi di stampa hanno appoggiato efficacemente la candidatura di Macron, sostenuto e finanziato da gruppi capitalisti del settore delle Nuove Tecnologie (4); questa candidatura ha beneficiato fin dall’inizio, inoltre, della convergenza di quadri del PS, del governo e di alti funzionari.

L’ostinazione di Fuillon, vincitore delle primarie della destra grazie al sostegno attivo delle reti cattoliche integraliste, a conservare il suo programma economico “d'urto liberale”, ha probabilmente contribuito alla sconfitta della sua candidatura quanto la devastante rivelazione degli “impieghi fittizi” di sua moglie e dei suoi figli. Numerose personalità politiche e responsabili borghesi hanno disapprovato pubblicamente il suo programma temendo che la sua brutalità innestasse degli scontri sociali (5).

La maggior parte delle strutture del partito Les Repubblicains ha rifiutato di fare campagna per il “suo” candidato, mentre una parte dei responsabili prendeva contatto con Macron. E’ così che quest’ultimo è diventato, a poco a poco, il candidato borghese “naturale” con il grande vantaggio di apparire agli occhi degli elettori come un uomo politico nuovo e senza macchia, dunque tale da non suscitare a priori reazioni così negative fra i proletari come un Fillon, primo ministro di Sarkozy per 5 anni.

Ma, a dispetto della sua “giovane” età (39 anni), l’ex banchiere dei Rothschild è tutto fuorché un uomo nuovo. Sotto Hollande egli è stato, fin dall’inizio, nella segreteria presidenziale, “la cinghia di trasmissione fra le grandi imprese e il potere” (6). E’ stato in seguito nomimato ministro dell’economia, cosa che gli ha permesso di emanare diverse misure di “liberalizzazione” economica rispondenti ai voleri del padronato, conformemente all’orientamento governativo filo-capitalista.

Ma le vicissitudini di questa azione hanno convinto lui e i suoi sponsor che bisognava superare i blocchi di natura politica se si voleva andare più lontano negli attacchi antiproletari. La famosa legge El Khomri non era che un primo passo del tutto insufficiente per i capitalisti; ma quando quella legge aveva suscitato manifestazioni proletarie di strada, essa non era stata sostenuta dalla destra in parlamento, cosa che aveva esposto il governo ad una mozione di censura da parte di deputati PS “frondisti” che avrebbe potuto farlo cadere (7). La questione di sapere se questi deputati volessero davvero far cadere il governo, o se, più verosimilmente, non si trattasse che di un gesto demagogico, è del tutto secondaria rispetto al fatto che il governo Valls incontrava molte difficoltà nel far passare la sua legge, certamente a causa della pressione del malcontento di piazza, anche se quest’ultimo era fortemente canalizzato dai sindacati.

La conclusione tratta probabilmente dai circoli borghesi influenti era che questo governo, senza ormai più fiato, aveva definitivamente esaurito la sua utilità al servizio del capitalismo; doveva quindi cedere il posto ad uno nuovo che potesse farsi forte della legittimità fornita da una vittoria elettorale; ma bisognava, nello stesso tempo, che questo nuovo governo avesse l’abilità di non provocare inutilmente i proletari.

E’ in ogni caso in seguito a questo episodio che gli sponsor di Macron lo convinsero a lasciare il governo e a creare un movimento politico indipendente superando la tradizionale contrapposizione destra-sinistra della politica borghese. La sua schiacciante vittoria, che si spiega con il fatto di confrontarsi al secondo turno elettorale con la candidata del Fronte Nazionale, e la formazione del suo governo con ministri di destra, di sinistra e di centro, hanno accentuato lo smarrimento dei partiti borghesi tradizionali che si interrogano preoccupati sul loro avvenire o preparano le loro alleanze.

La vittoria di Macron è stata salutata calorosamente dai circoli padronali (8); basta dare un esempio, che riassume il sentimento generale di questi ambienti, quello di un direttore generale di una grande azienda che, a proposito di Macron, ha detto: “Egli favorisce il business, ma con una facciata sociale. Questo è l’importante, perché accresce le possibilità che i lavoratori seguano il suo programma” (9).

 

Il ruolo dell’estrema destra

 

Come nel 2002 di fronte a Chirac, il Fronte Nazionale è servito nuovamente a provocare un riavvicinamento pressoché generale intorno al futuro vincitore designato delle presidenziali. Il “riflesso democratico”, che fa sostenere un candidato borghese classico contro un candidato borghese di estrema destra, è stato però questa volta meno potente di 15 anni fa. La propaganda sul preteso pericolo che avrebbe corso la democrazia se avesse vinto il FN ha indiscutibilmente perso la sua forza.

Da una parte perché il FN si è sforzato da qualche anno di cambiare immagine, arrivando ad adottare un orientamento riformista demagogico destinato ai proletari (il suo programma comprende misure sociali come il ritorno della pensione a 60 anni, l’abrogazione della legge El Khomri ecc.); e anche perché è riuscito a riunire intorno a sé altre forze borghesi (come il piccolo partito gaullista di Dupont-Aignant,  la corrente cattolica tradizionalista “La manif pour tous” ecc.).

Ma soprattutto perché il ricordo del movimento contro la legge El Khomri (di cui il vecchio ministro dell’economia era il vero responsabile) era ancora sufficientemente forte da rendere difficile votare Macron per molti elettori proletari. Durante i raduni del primo maggio si è potuto constatare che numerose discussioni avevano al centro questo tema, e che una parte, minoritaria senza dubbio, ma significativa dei manifestanti si dichiarava ostile ad un sostegno a Macron: Non è certo un caso se fra i due turni elettorali la propaganda dei grandi media non ha mai smesso di denunciare l’astensionismo.

La borghesia francese considera che il FN è molto utile all’opposizione, da una parte per spingere gli elettori verso le urne in nome della difesa della democrazia “minacciata”, e dall’altra per dividere i proletari fomentando la xenofobia e il razzismo; ma la borghesia francese non ha alcun interesse a permettere che il FN acceda al potere, non solo a causa dei suoi orientamenti economici (uscita dall’euro e dall’Unione europea ecc.) ma soprattutto perché ciò rischierebbe di sicuro di causare scontri che essa vuole proprio evitare.

I dirigenti del FN non si facevano evidentemente alcuna illusione sulla possibilità di vittoria di Marine Le Pen; quest’ultima si posizionava chiaramente come la futura oppositrice n. 1 di Macron, su una piattaforma social-nazionalista, rivolta agli elettori di sinistra pur avendo come obiettivo di recuperare una parte della destra classica.

Ma il suo risultato, peggiore di quanto sperato, ha segnato la sconfitta di questo orientamento contraddittorio; e non è detto che il FN sfugga alla ricomposizione generale delle forze politiche borghesi, alla luce della manifestazione delle sue linee di frattura interna fra le correnti favorevoli a un adattamento al consenso borghese sull’Europa e all’abbandono della retorica “sociale”, e le altre che insistono, al contrario, sulla “sovranità” ecc. Comunque vadano le cose, la persistenza di una forza di estrema destra su base nazionalista e xenofoba anti-proletaria dipende indubbiamente dal fatto che essa è l’espressione di certi strati piccoloborghesi e di aristocrazia operaia il cui status e le cui posizioni sociali, relativamente privilegiati, sono minacciati dall’aggravarsi della concorrenza e dalle modificazioni dello sfruttamento capitalista.

Va ricordato che, anche se questa estrema destra è una forza antiproletaria, essa non rappresenta affatto una minaccia fascista, per la semplcie ragione che la borghesia non ha oggi alcun motivo di ricorrere al fascismo in quanto la democrazia è un metodo ancora ampiamente sufficiente a ottenere la sottomissione del proletariato.

 

Il successo di “La France insoumise”

 

Una delle caratteristiche di queste elezioni è stato il successo, anch’esso inatteso, di “La France insoumise” ("La Francia non sottomessa"), raggruppamento elettorale per la candidatura Mélenchon con il sostegno del PCF. Mélenchon ha ottenuto più di 7 milioni di voti, cioè il 19,6% dei suffragi espressi (contro il solo 11% ottentuto nella precedente elezione presidenziale); se ha mancato (di poco) l’obiettivo di arrivare in terzo superando Fillon, è comunque riuscito, spostando a proprio favore i voti di Hamon – il candidato del PS e degli ecologisti – ad imporsi a sinistra.

La sua capacità di allargare la sua base elettorale, particolarmente fra gli elettori del PS, si è basata in gran parte su una virata a destra; nei suoi meeting l’Internazionale è stata rimpiazzata dalla Marsigliese, le bandiere rosse da quelle tricolori, le parole “lavoratori” e “compagni” da “la gente”, il sostegno ai lavoratori immigrati senza-documenti dalla denuncia degli stranieri “che rubano il pane ai lavoratori francesi” ecc. ecc. Il cosiddetto “sovranismo” annunciato da Mélenchon, che si traduce in un nazionalismo antitedesco, sbocca su posizioni filoimperialiste in perfetta continuità con il socialimperialismo del PCF. Le Pen, lanciando un appello ai suoi elettori per il secondo turno non ha affatto forzato la sua linea attribuendo a Mélenchon un attestato di apprezzamento perché “a differenza della sua campagna del 2012, questa è stata più pacata e positiva. Non si trattava più di prendersela, come all’epoca, con i patrioti ma, al contrario, di rivolgersi alla Nazione mirando alla sua unità” (10).

Va ricordato che Mélenchon non era, in realtà, candidato alla presidenza della Repubblica, ma alla costituzione di una forza sufficientemente credibile che potesse occupare il posto lasciato vacante sullo scacchiere politico dalla rapida decadenza dei vecchi partiti riformisti PS e PCF (11).

L’esistenza di una forza di tal genere è indispensabile per controllare politicamente il proletariato; essa serve da barriera per l’ordine borghese fornendo come alternativa al malcontento operaio e alla sua spinta di lotta uno sfiatatoio inoffensivo sul terreno elettorale e parlamentare. In previsione di nuovi e più pesanti attacchi alle condizioni di vita e di lavoro dei proletari, la sua assenza costituisce un problema che potrebbe trasformarsi in una minaccia per la stabilità del sistema di dominio borghese. Il successo elettorale di Mélenchon non può essere sufficiente a riempire questo vuoto; “La France insoumise” anche se può rivendicare decine di migliaia di sostenitori connessi via web (Mélenchon, ad es., ha organizzato una consultazione a mezzo internet fra i suoi sostenitori per stabilire l’atteggiamento da tenere nei confronti di Macron), non è un partito. Le “reti sociali” possono essere molto utili per diffondere informazioni e allargare i movimenti d'opinione, ma non possono rimpiazzare un'organizzazione strutturata e radicata fra i proletari.

 

La “estrema” sinistra: nel campo dei lavoratori o in quello del riformismo?

 

Una volta di più i gruppi detti di “estrema sinistra” (in realtà per niente estremisti), “trotskysti” (in realtà i primi a tradire gl’insegnamenti dell’autore di “Terrorismo e comunismo”), Lutte Ouvrière e NPA hanno partecipato al grande circo elettorale, mentre i Lambertisti, divisi in due frazioni rivali (il Parti Ouvrier Indépendent e il Parti Ouvrier Indépendent et Démocratique) non hanno avuto quest’anno la forza per parteciparvi.

I loro risultati sono senza dubbio ben lontani da quelli raggiunti 15 anni fa, alle presidenziali del 2002, nelle quali 3 candidati che si richiamavano al trotskismo avevano ottenuto in totale un po’ più del 10% dei voti al primo turno (contro 1,73% di quest’anno); dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che i successi elettorali sono effimeri che non possono di per sé cambiare i rapporti di forza reali fra i partiti, e ancor meno fra le classi.

Ma, soprattutto, attraverso la loro presenza mediatica nel corso della campagna, queste candidature hanno contribuito a rafforzare, nelle frange di lavoratori in rotta con il riformismo tradizionale, il martellamento da parte della propaganda borghese secondo cui le elezioni sono il solo mezzo per modificare l’ordine costituito. Ci si potrà obiettare che il NPA e LO affermano che non bisogna farsi illusioni sull’importanza delle elezioni.

Dichiarazioni di questo genere, in effetti, esistono, ma non valgono un granché se si considera che queste organizzazioni consacrano una parte molto importante delle loro forze, delle loro energie militanti e delle loro risorse materiali alla partecipazione sistematica a tutte le elezioni: questi fatti dimostrano, al contrario, che per loro le elezioni sono molto importanti!

Senza dubbio questi gruppi non danno più alla loro partecipazione elettorale degli obiettivi così ambiziosi come in passato: non si tratterebbe più, come nel 2012, di farne “una tappa importante nella costruzione del partito rivoluzionario” (Lutte Ouvrière), utilizzandola per contribuire a “far sgombrare Sarkozy”, “una necessità assoluta”, promuovere “un piano d’emergenza anticapitalista” (NPA), ma più semplicemente di “dare voce al campo dei lavoratori”. Utilizzare la “tribuna elettorale”, dunque, ma per dire che cosa?

Tutti hanno potuto constatare che i candidati di questi partiti non hanno fatto alcuna propaganda anche solo vagamente rivoluzionaria; che essi si sono limitati a portare avanti rivendicazioni come il blocco dei licenziamenti, la difesa dei servizi pubblici ecc.: è la voce del riformismo che essi hanno fatto sentire!

I proletari (noi preferiamo usare questo termine a quello più vago di “lavoratori” o “mondo del lavoro”, che sono spesso usati di proposito dagli opportunisti di ogni specie per inglobarvi gli strati della piccola borghesia) non possono “farsi sentire” che attraverso la lotta e sul loro terreno di classe, e non attraverso la scheda elettorale e sul terreno della democrazia borghese. Il problema, in realtà, non è quello di farsi sentire (da chi se non dai borghesi?), ma di imporre un rapporto di forze sufficiente per fermare o far indietreggiare il nemico di classe quando non si ha la forza di rovesciarlo. L' “estrema sinistra” elettoralista che chiama regolarmente i proletari a partecipare al circo elettorale, e avanza rivendicazioni di riforma del capitalismo, li devia nello stesso tempo dal terreno di classe e dalla preparazione alla futura lotta rivoluzionaria.

 

Cosa si deve aspettare il proletariato

 

Al momento, il nuovo governo non ha ancora annunciato in modo preciso i suoi obiettivi. Ma, dai documenti rivelati dalla stampa, si deduce che esso intende dare risposta a delle rivendicazioni padronali per facilitare i licenziamenti, i contratti di lavoro temporanei ecc. Si sa che intende procedere rapidamente per far passare delle “riforme” per “liberare” il lavoro – in poche parole, delle controriforme per abrogare alcune restrizioni allo sfruttamento dei proletari che erano state concesse nei periodi di espansione economica allo scopo di mantenere la pace sociale.

«Con questa sequela di “bombe”, il governo è certo di provocare pesantemente tutti i sindacati e di far scendere in strada decine di migliaia di persone», scrive allarmato Le Monde, riportando le intenzioni del nuovo governo (12). E’ certo che il governo ha previsto di evitare lunghi dibattiti parlamentari, legiferando per decreto, non perché tema un'opposizione dei deputati, ma perché non vuole lasciare il tempo ad un movimento di lotta di svilupparsi; questo è anche il motivo perché questi decreti sono previsti durante il periodo estivo, in cui è più difficile che i proletari si mobilitino.

E’ però un governo che si sforza di sminare il terreno, coinvolgendo l’opportunismo sindacale nella discussione delle future misure – cosa che non aveva fatto il governo socialista con la legge El Khomri. I primi contatti gli hanno permesso di registrare l’appoggio non solo della centrale ultra-collaborazionista CFDT (che è diventata, nelle ultime elezioni sindacali, il primo sindacato di Francia nel settore privato, superando la CGT), ma anche della FO, che aveva giocato al sindacato combattivo nel movimento contro la legge El Khomri (13); quanto alla CGT, pur dichiarando di non essere d’accordo con gli orientamenti del governo, si è felicitata che il dialogo sia possibile. Dimostrazione supplementare che le sue dichiarazioni marziali di qualche mese fa secondo le quali la lotta contro la legge El Khomri e altre misure antioperaie sarebbe ripresa, non era altro che polvere negli occhi. Un magazine a grande tiratura titolava qualche settimana fa: «Così si va a sbattere. Emmanuel Macron resisterà alla CGT e all’estrema sinistra?» (14).

In realtà, la CGT e gli altri sindacati collaborazionisti (ben più dell'“estrema sinistra” di Mélenchon o dei trotskisti) sono le carte principali della borghesia nel prossimo periodo, come lo furono nel periodo precedente. Gli attacchi capitalisti causeranno inevitabilmente delle risposte da parte dei proletari; negli scontri sociali che inevitabilmente si scatenaeranno, i grandi apparati sindacali si adopereranno per sterilizzarli e isolarli e per canalizzare le lotte verso la sconfitta.

Questo si può già constatare nei conflitti locali o parziali che sono scoppiati o che si sono prolungati senza rispettare l’abituale “tregua elettorale”, come lo sciopero degli operai della Whirlpool, la lotta degli operai della GMS (impresa legata a Renault e Peugeot posta in risanamento giudiziario) che in aprile occupavano la loro fabbrica piazzando degli ordigni esplosivi per distruggere le macchine, o quello dei trasportatori di benzina in maggio.

I sindacati sono riusciti a far riprendere il lavoro ai camionisti senza che nulla fosse stato ottenuto, se non un incontro col ministro del lavoro (!), proprio mentre il loro sciopero raggiungeva il massimo dell'efficacia provocando una mancanza di carburante nella regione parigina; lo stesso dicasi per i lavoratori della GMS, convinti a tornare al lavoro dopo alcune promesse sulla ripresa dell’azienda; ma all’inizio di giugno non si è concretizzato ancora nulla... Quanto a Whirlpool, é stato Macron stesso a salutare l’intersindacale che «si è assunta le sue responsabilità», «non ha ecceduto», non ha «bloccato tutto» come alla Goodyear e negozia un “piano sociale” con la direzione. Gli operai hanno ripreso il lavoro in attesa di eventuali finanziatori... La conclusione è chiara: il metodo delle organizzazioni collaborazioniste conduce ineluttabilmente alla sconfitta, nei piccoli come nei grandi conflitti.

Con le attuali elezioni la borghesia ha dato l’avvio ad una ricomposizione del suo sistema politico per rispondere più adeguatamente ai bisogni del capitalismo francese. In ultima analisi la causa di questa riorganizzazione è la ricerca di uno sfruttamento più efficiente e più certo del proletariato, bersaglio degli attacchi che si preparano nei segreti dei conciliaboli fra alti funzionari, rappresentanti padronali e bonzi sindacali.

Per farvi fronte, anche il proletariato stesso sarà costretto a “riorganizzarsi”, cioè a rompere con la “organizzazione” – ma in realtà la disorganizzazione – che gli è imposta da tutte le forze dell’opportunismo politico e sindacale, tutti agenti della collaborazione di classe, e a ritrovare la via della riorganizzazione indipendente di classe, sul terreno della lotta economica e immediata come su quello politico e rivoluzionario.

Questa via non potrà essere né automatica né rapida e richiederà notevoli sforzi. Ma tutti i passi che, sotto la spinta degli scontri sociali, saranno fatti in questa direzione – nella direzione della ricostituzione del partito rivoluzionario comunista e delle organizzazioni classiste della lotta “economica” utilizzando i metodi e i mezzi della lotta di classe – saranno fruttuosi, perché saranno questi passi che permetteranno al proletariato di prepararsi con possibilità di successo allo scontro storico decisivo con la classe nemica e tutto il suo sistema economico e politico.

Le elezioni possono accomunare le larghe masse nel culto della democrazia, le grandi manovre politiche borghesi possono avere successo – come succede da decenni – ma il fossato tra le classi non fa che approfondirsi sempre più. E’ da questo profondo e ineluttabile contrasto tra le classi che rinascerà, presto o tardi, la lotta di classe rivoluzionaria.

(le prolétaire, 9/6/2017)

 


 

(1)   Non è un caso che una delle questioni finali del dibattito televisivo tra i candidati sia stata: come unire i francesi?

(2) SFIO, Sezione Francese dell'Internazionale Operaia, dal 1905 al 1969, quando confluì nel Partito Socialista Francese. Defferre, nel 1931 aderisce alla SFIO, dal 1945, dopo essere stato sindaco di Marsiglia, è eletto deputato all'Assemblea Nazionale; sarà più volte ministro fino al 1957 e nel 1969 il candidato unico del Partito Socialista raccogliendo quel misero 5% citato. Con F. Mitterrand presidente, Defferre sarà il n.2 del governo in quanto ministro di Stato, fino al 1986, quando improvvisamente muore.

(3) La legge El Khomri, una specie di job act alla francese, ha reso il lavoro molto più precario e flessibile a seconda delle esigenze capitalistiche.

(4)   Ma fra i suoi primi finanziatori vi erano anche dei capitalisti dell’economia tradizionale, come Henry Hermand, un ricco miliardario (morto nel frattempo) che aveva fatto fortuna creando centri commerciali. Hermand aveva già finanziariamente sostenuto la carriera politica del vecchio Presidente del Consiglio centrista, Mendès-France negli anni ’50 (!) e più recentemente quella dell’anziano Primo ministro socialista Rocard.

(5)   In un noto editoriale, il Financial Times, la voce degli ambienti finanziari della City londinese, aveva scritto, a proposito di questo programma, che l’economia francese non aveva proprio bisogno di una “rivoluzione”. Fillon si era limitato a soprassedere ai suoi progetti di drastica riduzione della copertura sanitaria della sicurezza sociale in seguito alla protesta che essi avevano suscitato.

(6)   Le Monde Diplomatique, maggio 2017.

(7)   I tentativi di depositare delle mozioni di censura da parte dei deputati PS “frondisti” si sono incagliati quasi subito.

(8)   Entusiasta, Gattaz, presidente del Medef (la Confindustria francese) ha dichiarato: “siamo su una nuvola”, Le Figaro, 16/5/2017.

(9)   Financial Times, 11/5/217.

(10) Secondo Le Nouvel Observateur (21/5/17) le autorità avrebbero preparato diverse misure in caso di vittoria della Le Pen per “raffreddare la situazione politica”, affrontare le manifestazioni di “estrema sinistra”, “di cui alcune potevano portare a moti pericolosi” e per “assicurare la sicurezza dello Stato” attaverso misure di polizia come l’utilizzazione di “armi letali” contro i manifestanti ecc.

(11) htpp://www.ouest.france.fr/politique/marine-le-pen/marine-le-pen-appelle-les-electeurs-de-melenchon-faire-barrage-macron-4956079. La Le Pen diceva di aver notato che “delle belle Marsigliesi erano state intonate dai partigiani de La France insoumise”...

(12) L’ex senatore e ministro socialista ha dichiarato apertamente: “io non voglio indebolire il PS, io voglio rimpiazzarlo”. La sua difficile alleanza con il PCF è durata poco: quest’ultimo, riaggregandosi al PS come ad un salvagente per tentare di salvare i suoi ultimi elettori, ha buone probabilità di essere trascinato nel suo naufragio.

(13) E’ vero che la nuova ministra del lavoro, Myriam El Khomri, è, secondo la stampa, molto apprezzata da FO. E non a caso: l’ex negoziatore di FO è stato nominato direttore aggiunto del gabinetto ministeriale, visto che il direttore è un quadro di Medef. Il bonzo e il quadro padronale vanno così a lavorare insieme contro i proletari. Almeno, le cose saranno chiare!

(14) Le Point, 23/5/2017.

 

 

Partito comunista internazionale

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