Massacro a Las Vegas

(«il comunista»; N° 151; Dicembre 2017)

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A Las Vegas, la capitale del gioco d’azzardo e del divertimento più ossessivo d’America, dove lo stesso presidente Trump ha un Trump Tower Casino, “la capitale dell’America dal grilletto facile” - come la chiama il “Corriere della sera” del 3 ottobre scorso - da una stanza al 32° piano del Mandalay Bay Hotel con finestre sigillate, un uomo, dopo averle spaccate, imbracciato un fucile mitragliatore, spara più di cinquecento colpi sulla folla che, nel campo sportivo sottostante, sta assistendo ad uno dei tanti concerti di musica che si tengono in quel campo, il Route 91 Harvest Festival. Sono appena passate le dieci di sera e i primi colpi sparati vengono scambiati per fuochi d’artificio. Ma ben presto la folla si rende conto che si tratta di spari veri e propri, la gente cade ferita e colpita a morte; un fuggi fuggi generale senza sapere dove scappare perché nessuno si rende conto immediatamente da dove provengono gli spari. 59 morti, è il primo conto delle vittime, e più di 500 feriti. In pochi minuti è avvenuta una strage. L’uomo, un 64enne, armato di tutto punto (sembra che nella stanza ci fossero una quarantina di armi tra pistole e fucili, “tutte acquistate legalmente”), prima di farsi catturare dalla polizia, che aveva individuato da dove provenivano gli spari, si è ammazzato.

Le prime indagini sostengono che non si tratta di un “terrorista” legato all’Isis, anche se l’Isis – come ha già fatto altre volte in occasioni simili – ha rivendicato questa sparatoria come se fosse stata ispirata dal Califfato. Gli inquirenti sostengono che si tratta di una persona senza precedenti penali, senza affiliazioni politiche o religiose, senza complici, attrezzatasi e preparatasi per fare una strage proprio a Las Vegas dove ci si va a divertire, a tentare la fortuna e a perdere regolarmente ai Casino somme ingenti. Ha perso la testa per qualche motivo? E’ impazzito improvvisamente? Ha voluto scaricare una vita di delusioni su una folla festante? Pare che non abbia lasciato biglietti in cui motivare il gesto, che non abbia confidato a nessuno il “perché”, né al fratello né alla sua compagna filippina, mandata a trovare la famiglia nelle Filippine un po’ di tempo prima; finora non sono state trovate in nessun luogo tracce concrete della preparazione della strage di Las Vegas, se non armi e munizioni in quantità – almeno così risulta dalle prime indagini di polizia dopo aver perquisito le stanze d’albergo da lui occupate, e le case che aveva abitato a Mequite e, prima ancora, a Reno, sempre in Nevada.

Dunque, ha ragione Trump a sostenere che si è trattato di un “malato di mente” che ha attuato “un atto di pura malvagità”?

Non è la prima volta che negli Stati Uniti, certo anche grazie alla libera circolazione delle armi, avvengono stragi di questi tipo, non imputabili a puro razzismo o al fondamentalismo religioso. I media a grande tiratura ce lo ricordano facilmente. Solo negli ultimi trent’anni, di stragi simili se ne sono avute un bel po’:

-  1984, 18 luglio, McDonald’s di San Ysidro, California: un quarantunenne entra nel ristorante, armato con pistola, carabina e fucile e spara contro il personale e gli avventori; 21 morti 19 feriti; il killer viene, alla fine, colpito da un cecchino della polizia e muore.

-  1999, 20 aprile, Columbine High School, Denver, Colorado: due studenti piazzano due bombe nella mensa scolastica, ma la loro esplosione fallisce, allora prendono le armi dalla macchina e cominciano a sparare: 13 morti tra studenti e professori, poi si suicidano;

-  1999, 2 novembre, alla Xerox  Corporation di Honululu, Hawaii: un tecnico licenziato entra nell’edificio e con una pistola semiautomatica spara ai suoi ex colleghi, uccidendone 7 e ferendone 1; scappa ma alla fine si consegna alla polizia salvandosi la vita.

-  2007, 16 aprile, Campus universitario del Virginia Politechnic Institute, a Blacksburg, Virginia: uno studente di 23 anni spara in due aree del campus, uccidendo studenti e professori, 33 le vittime e 23 i feriti; alla fine si suicida.

-  2011, 8 gennaio, Casas Adobes, Tucson, Arizona: durante un comizio politico della deputata democratica Gabrielle Giffords, all’esterno di un supermercato, un ventiduenne si mescola nel gruppo di persone che ascoltano il comizio e spara, ferendo la deputata e uccidendo 6 persone; viene successivamente rintracciato, arrestato e condannato.

2012, 20 luglio, Aurora, Colorado: in un cinema della città, alla prima del film “Il cavaliere oscuro-Il ritorno”, un venticinquenne, mascheratosi da Joker, poco dopo l’inizio del film inzia a sparare sugli spettatori con diverse armi da fuoco, uccidendone 12 e ferendone 58. Verrà fermato dalla polizia dietro il cinema, senza resistenza da parte sua.

-  2012, 14 dicembre, Scuola elementare di Sandy Hook, Newton, Connecticut: un giovane di vent’anni spara nella scuola elementare della cittadina, dopo aver ucciso la madre; le vittime sono 27 (di cui 20 bambini), un ferito, poi si suicida prima dell’arrivo della polizia.

-  2015, 2 dicembre, San Bernardino, California , Inland Regional Center, un centro sociale per disabili: marito e moglie, mascherati e armati di pistole e fucili, entrano nel centro e fanno fuoco contro tutti quelli che incontrano, uccidendo 14 persone e ferendone 24. In uno scontro a fuoco successivo, mentre scappavano, sono stati a loro volta uccisi dalla polizia.

-  2016, 11 giugno, Discoteca Pulse, Orlando, Florida: una guardia giurata americana di 29 anni entra nella discoteca gay armata di pistola e fucile d’assalto, spara in tutte le direzioni, 58 feriti, 50 i morti, lui compreso, che viene ucciso dai poliziotti che cercavano di liberare gli ostaggi che aveva sequestrato.

-  2017, 1 ottobre, a Las Vegas, un uomo di 64 anni, armato fino ai denti con armi da guerra, spara a raffica da un hotel contro la folla che assisteva ad un concerto country: 59 i morti e più di 500 i feriti (1).

 

La sequenza delle stragi è sempre più orrenda, il conto dei morti continua a salire; sembra una gara a chi – trasformatosi in “killer per un giorno” – ne ammazza di più prima di suicidarsi o di venire ucciso, come in uno di quegli orrendi giochi virtuali che si regalano a Natale e che, in questa società che disprezza la vita umana, diventano sempre più tecnologicamente avanzati e verosimili.

Ma questi morti sono veri, e sicuramente “innocenti”.

Il disagio sociale, una vita di continue delusioni e insoddisfazioni, una serie interminabile di false illusioni e una sequela innumerevole di esempi di corruzione, di degenerazione, di inganni, di vessazioni nella vita domestica come nella vita sociale e nella vita lavorativa, costituiscono la quotidianità per la stragrande maggioranza degli abitanti di ogni paese, immersa in una società che educa costantemente a dare il massimo valore al denaro e alla sopraffazione e il valore minimo alla vita umana; in una società in cui si insegna a cercare sempre un colpevole o il colpevole delle proprie personali delusioni o disgrazie come se tutto dipendesse sempre dalla volontà di ciascun individuo; in una società in cui vige la lotta tra individui, gli uni contro gli altri ed ognuno contro “il mondo”, dove si mostra che l’obiettivo quotidiano di ogni individuo è di sopravvivere in qualche modo, possibilmente a discapito di qualcun altro; in una società dove i sentimenti legati alla vita, alla solidarietà umana, all’aiuto e alla protezione dei più deboli sono calpestati sistematicamente e considerati del tutto inutili nella corsa della competitività più esasperata, negli sforzi per emergere al di sopra degli altri; sentimenti considerati inefficaci nella gara a “chi rischia di più” – perché rischiare, in qualsiasi campo, dà più emozione, dà la sensazione di “vivere” e può comportare di “vincere” qualcosa, appunto, come nel gioco d’azzardo. In una società come questa – la società del capitale – si entra inconsapevolmente, da quando si nasce, in guerra contro tutti! E in guerra è meglio andarci armati...: è questo che in America, nel paese capitalisticamente più avanzato in assoluto, da tutti i punti vista, quindi non solo tecnologico o finanziario, ma anche da quello del cinismo, della competizione, della sopraffazione, del disprezzo della vita umana, dello sfruttamento ossessivo di qualsiasi risorsa, umana o naturale, e di qualsiasi occasione pur di trarre un profitto privato e personale – fosse anche soltanto per un momento nella vita vera o nella vita virtuale –, è questo che in America si insegna fin dalla culla.

Negli Stati Uniti, paese di più di 320 milioni di abitanti, i dati più recenti parlano di almeno 1 milione di fucili d’assalto e più di 300 milioni di pistole automatiche per uso personale in circolazione; il 51% delle famiglie americane possiede armi in casa. Tutto ciò, per i produttori e i venditori di armi, rappresenta un mercato interno floridissimo e per nessuna ragione al mondo la lobby delle armi sarebbe disposta a perdere tanti profitti. Vivendo in un paese violento di base, nel quale la violenza in tutte le direzioni è diventata la norma quotidiana, è “naturale” per ogni americano essere armato. Perché armarsi e abituarsi ad usare le armi fin da piccoli se non per “difendersi” da qualsiasi tipo di “aggressione” alla persona e alla proprietà privata? E perché non usare le armi per imporre ad altri, considerati non meritevoli di rispetto o di rango o di razza “inferiore”, le proprie regole? E perché non usare le armi per esprimere tutta la propria rabbia, la propria insoddisfazione, la propria angoscia o semplicemente per “farla finita” con una vita che non si sopporta più, con una vita da “falliti” e della quale si incolpano altri che vivono o sopravvivono allo stesso modo? 

La società capitalistica, come fa affari succulenti con le disgrazie, con le catastrofi naturali, con le epidemie, fa affari succulenti col mercato delle armi. La società che ha potenziato in modo impressionante la produzione industriale, ma che per far girare alla massima velocità la produzione di profitto ha bisogno di far circolare e vendere alla massima velocità la quantità sempre maggiore di merci che produce, incontra inevitabilmente degli intoppi nel mercato, non solo e non tanto per il numero sempre più alto di industrie che entrano in concorrenza sugli stessi prodotti, ma anche perché ad un certo punto l’enorme quantità di merci prodotte non trova, alla fine di ogni ciclo produttivo, la stessa enorme quantità di acquirenti di quelle merci, ed entra perciò in crisi, in crisi di sovrapproduzione. Perciò ha bisogno, non solo di far consumare più prodotti possibile da ciascun acquirente singolo e nel tempo più ridotto possibile, ma anche di distruggere una parte dei prodotti invenduti per fare spazio alle altre produzioni che incalzano, immesse nel mercato a ritmi sempre più veloci, ma continuando ad usare, sfruttare, consumare, distruggere anche la forza lavoro costretta a valorizzare sempre più il capitale investito. Ma il capitale, che si trasforma in merce e che si ritrasforma in denaro, e quindi in capitale aumentato di valore, ad un certo punto entra in crisi anch’esso, soffocato da un mercato che non gli permette più una libera e illimitata vendita: urge, quindi, che una quantità di merci e di capitali venga distrutta per permettere ai cicli produttivi di riprendere a correre. Cosa c’è di più distruttivo della guerra? Ed è la guerra, ossia la periodica distruzione di sovraproduzione di merci e di capitali, il “toccasana” del capitalismo anche se, come è dimostrato da tutte le guerre dell’epoca capitalistica, tanto più nella sua fase imperialistica, la guerra non risolve definitivamente le contraddizioni sociali, né la lotta tra fazioni antagoniste della borghesia né la lotta fra le classi; al contrario, le rinnova aumentandone la gravità e l’estensione. La turbolenza sociale provocata dalla continua lotta di concorrenza, dalla rovina periodica di larghi strati di popolazione, dalle violenze di ogni tipo che caratterizzano la vita quotidiana sotto il capitalismo, trasmette impalpabilmente sull’intera popolazione, e in particolare sugli strati piccoloborghesi rovinati dalle crisi, una profonda insicurezza che li spinge a reagire con tutta la violenza che individualmente è possibile sviluppare, fino a farla esplodere contro tutto ciò che può apparentemente rappresentare la colpa delle proprie disgrazie, trasformandolo in bersaglio della propria rabbia, distruggendo cose e uccidendo persone.

Ogni capitalista ha bisogno di motivare i potenziali acquirenti perché acquistino la sua merce al posto di quella di un capitalista concorrente, e perciò non si ferma soltanto a fare prezzi più convenienti ma si ingegna ad applicare nuovi materiali, nuovi modelli, nuove tecnologie alle proprie merci per renderle più appetitosedi altre, più accattivanti e “speciali” attraverso campagne di propaganda e di pubblicità atte ad intontire la vasta popolazione di potenziali acquirenti in modo che ognuno di questi acquirenti, di questi “consumatori”, si senta “speciale”, “unico”, distinto dalla massa e al disopra degli “altri”, capace di qualsiasi impresa e in grado di correre qualsiasi rischio. L’azzardo diventa così un modo di vivere, il rischio un modo per raggiungere un obiettivo che non si è riusciti a raggiungere in altra maniera: allora, in campo non si mettono soltanto i propri denari, il proprio patrimonio e la propria forza, si mette anche la propria vita; e, visto che molti altri azzardano e rischiano alla stessa maniera se non di più, entrando in concorrenza diretta su questo piano di falsa affermazione personale, si azzarda e si rischia non da “fessi” e da “deboli”, ma da “vincenti” armandosi e preparandosi ad eliminare tutto ciò che appare, sulla propria strada, come un ostacolo alla propria affermazione personale, cose o persone che siano. Una società che trasuda violenza e aggressività da ogni poro, che illude ogni essere umano di poter essere il fattore esclusivo della propria vita e del proprio futuro, quando in realtà non fa che dimostrare ogni giorno che l’individuo, la persona, il famosissimo io, non valgono assolutamente nulla rispetto ai gruppi di interessi e alle classi sociali che si identificano non come somma di individui, ma come un insieme di interessi economici e sociali in concorrenza e in contrasto perpetuo gli uni contro gli altri; una società che inneggia all’individuo, alla sua coscienza e alla sua volontà, ma nello stesso tempo lo sfrutta peggio di una bestia, lo calpesta, lo massacra, lo getta nell’abisso della disperazione, della droga e dell’alcool, è una società in cui non può che vincere la degenerazione individualista e la violenza cieca e accecante, come mostrano gli atti mostruosi e drammatici della strage di Las Vegas e delle stragi che l’hanno preceduta.

I borghesi per bene, democratici, illuminati, riformisti, traggono da ogni avvenimento di questo tipo una conclusione: ci sono troppe armi in circolazione, c’è troppa libertà nell’acquistarle ed è troppo facile usarle al di fuori dei limiti dell’uso “personale”. Inneggiano ai vari tentativi fatti da alcuni presidenti americani, ultimo quello di Obama, per far passare al congresso una riforma che limitasse l’acquisto delle armi per uso personale alle sole armi di difesa personale, impedendo la libera circolazione dei fucili d’assalto e di tutte le armi da guerra. A parte il fatto che la National Rifle Association (Nra), la potentissima lobby americana che unisce produttori, commercianti e proprietari di armi, ha da sempre foraggiato le campagne elettorali dei presidenti e dei deputati al congresso, sia repubblicani che democratici, è davvero impossibile che una riforma di quelle già tentate in passato possa in qualche modo passare ora; oltre tutto, ogni Stato può essere più o meno lassista in fatto di circolazione delle armi, e il Nevada è noto per essere molto lassista su questo piano. D’altra parte, lo dicono gli stessi borghesi, «la storia americana, cioè il successo dell’invasione, della conquista e dell’occupazione europea del continente e della ribellione indipendentista, è costruita sulle armi da fuoco moderne, le Colt, le Winchester, le Smith & Wesson. L’associazione fra il “six shooter”, il revolver a tamburo nella fondina dello sceriffo o del cowboy, e il “destino manifesto” del pionere nel suo carro coperto è scolpito nel profondo dell’anima nazionale, come lo è la figura del “minuteman”, del ribelle che teneva lo schioppo in dispensa pronto ad imbracciarlo contro i mercenari della Corona britannica» (2). E’ il mito borghese di una nazione nata già borghese, grazie all’occupazione europea del continente, di una nazione che, per nascere, non ha dovuto passare – come in Europa – tutte le fasi storiche del passaggio dallo schiavismo al feudalesimo e da questo alla società borghese. Un mito ancora così forte e così radicato che ha fatto e continua a fare da formidabile sbarramento all’innesto del marxismo in terra americana e che ha impedito finora al proletariato americano di fare esperienze rivoluzionarie simili a quella della Comune di Parigi del 1871 o a quella del proletariato russo del 1917.

Gli esempi passati riferibili soprattutto all’anarchismo (che di base è ideologicamente individualista, perciò borghese) non sono stati fertili per la lotta rivoluzionaria del proletariato americano che è rimasto costantemente imbrigliato nelle maglie di uno spirito ribellistico piccolo-borghese contro il quale combatterono gagliardamente gli IWW e il piccolo partito comunista (che, nel 1921, tra i suoi rappresentanti più noti, aveva Bill Haywood, detto Big Bill), ma che non riuscirono all’epoca, pur sulla scia del movimento rivoluzionario dell’Ottobre '17 e degli anni Venti in Europa, a sviluppare radici solide. All’epoca, nell’immenso paese costituito dagli Stati Uniti d’America, ci si trovava di fronte al fatto che: «Quasi tutto questo popolo, qualunque sia stata in altri tempi la sua religione, adora il vitello d’oro e non s’inginocchia che dinanzi al dollaro onnipotente. Questo culto immorale ha sviluppato, in proporzioni mostruose, l’aggiotaggio e la speculazione sugli alimenti e sugli articoli più necessaari alla vita ed al benesse della popolazione. Una piovra mostruosa – con la tesa a New York (Wall Street) – stringe l’intero paese. I suoi tentacoli potenti avvinghiano tutte le industrie non solo negli Stati Uniti ma anche oltre i mari» (3).

Se qualcosa è cambiato in America e nel suo “popolo” da quell’epoca, è cambiato solo in senso più negativo, quanto al culto del dollaro onnipotente e ai tentacoli del capitale finanziario americano allungatisi in tutto il mondo. Il mito borghese americano, oltre a nutrirsi, come abbiamo riportato sopra, di un romanticismo borghese dalla pistola fumante, si nutre incontestabilmente della divinità più moderna che esista, il dollaro, il vil denaro. E a questa divinità si inchinano non solo i grandi capitalisti che godono delle ricchezze prodotte dagli operaie nello sfarzo delle loro ville e dei loro palazzi, ma soprattutto quella vasta classe media piccoloborghese che si fa campione nella difesa della sua misera proprietà privata e che dilapida ossessivamente le proprie risorse finanziarie nelle scommesse e nei giochi d’azzardo nel tentativo di vincere, nel giro di una notte, una consistente montagna di dollari grazie alla quale sentirsi “grande”, pari ai grandi capitalisti, così da emergere dalla massa e finalmente sentirsi “privilegiata”. Questa impotente mezza classe, oltre a sfornare sindacalisti collaborazionisti, bottegai, piccoli commercianti, piccoli imprenditori e speculatori, manodopera delinquenziale dal colletto bianco e “collezionisti” di armi, sforna anche coloro che, delusi dalla propria vita e mossi da uno spirito vendicativo, piombano nei centri commerciali, nelle scuole, nelle sale da ballo e nei concerti e sparano all’impazzata, colpendo immaginari colpevoli delle loro disgrazie. Sfiancati da delusioni continue e angustiati dall’ambire ad avere privilegi irraggiungibili, trasformano la loro impotenza di classe in potenza individuale da esercitare vilmente, armi alla mano, contro gente inerme. E’ certo che anche loro sono vittime delle contraddizioni sempre più acute della società capitalistica, ma la loro ideologia, le loro ambizioni, i loro atti non sono certo, per i proletari, da condividere poiché, nella misura in cui la lotta di classe proletaria rinasce e si sviluppa, le mezze classi si getteranno contro i proletari.

In America, come in Europa, da tempo è assente la lotta di classe del proletariato, ma è su di essa, sulla sua rinascita che si potrà costituire – come già nel secolo scorso – un polo classista proletario e rivoluzionario nel quale le fortissime contraddizioni sociali e le più disperanti insoddisfazioni accumulate nella vita di ognuno possono essere comprese e  combattute trovando uno scopo sociale collettivo, una prospettiva futura completamente diversa da quella attuale della società capitalistica e da quella che la disperazione delle classi medie fornisce attraverso la collaborazione interclassista o l’azione violenta con l’unico scopo di uccidere; una prospettiva futura nella quale far confluire, attraverso la lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato, il rigetto di una società che adora soltanto il denaro e disprezza la vita umana, trasformando persone comuni in stragisti professionali. Non esistono rimedi da applicare alla società capitalistica, non esistono terapie e cure per la società dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo che possano alleviare l’immenso dolore provocato dalle guerre guerreggiate o dai massacri come quelli di Las Vegas, di San Bernardino, di Orlando o di decine e decine di altre città. La società capitalistica non ha vie d’uscite: ripropone sempre, con aumentati orrore e violenza, lo stesso teatro di sangue. La via d’uscita la possiede soltanto la classe proletaria, la classe dei lavoratori salariati, sfruttati e spremuti fino all’ultima goccia di sudore e di sangue dai capitalisti, la classe che non ha nulla da perdere in questa società se non le proprie catene, e che possiede la forza storica – come dimostrato nelle rivoluzioni del secolo scorso – per affrontare, combattere e vincere la classe borghese ancor oggi dominante. I proletari, per sottrarsi all’influenza mortale dei miti borghesi della democrazia e dell’illusorio benessere, devono prima di tutto rompere con la collaborazione di classe e cominciare a lottare contro la concorrenza organizzata nelle sue fila, ritrovando in questo modo la solidarietà fraterna tra proletari al di sopra di ogni muro, di ogni confine di Stato, di ogni nazionalità, di ogni razza, di ogni genere ed età.

 

4 ottobre 2017

 


 

(1) Vedi “la Repubblica”, 3/10/2017, e “Il Secolo XIX”, 3/10/2017. Secondo questi giornali ogni anno, negli Stati Uniti, ci sono 33mila morti da arma da fuoco.

(2) Vedi “la Repubblica”, 3/10/2017, nell’articolo Gli Stati Uniti delle armi.

(3) Cfr. I problemi rivoluzionari in America, di Bill Haywood, ne “l’Ordine Nuovo”, 25/8/1921; riprodotto in questo setsso numero del giornale.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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