Viva l'Ottobre rosso, di ieri e di domani!

(«il comunista»; N° 151; Dicembre 2017)

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LA BORGHESIA TENTA DI ESORCIZZARE CONTINUAMENTE I VALORI STORICI E COMUNISTI DELLA RIVOLUZIONE D'OTTOBRE, MA IL MOVIMENTO TELLURICO DELLA RIVOLUZIONE PROLETARIA TRAVOLGERÀ COMUNQUE L'INTERO MONDO CAPITALISTICO E TUTTI I SUOI DIFENSORI!

 

«Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con implacabili persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti campagne di mezogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a “consolazione” e a mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce. La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale “trattamento”. Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia».

Inizia con queste parole uno dei testi più noti e importanti di Lenin: Stato e rivoluzione, testo che per Lenin – di fronte all’improvviso e gigantesco tradimento dei partiti socialisti ufficiali, membri della Seconda Internazionale, rispetto allo scoppio della prima guerra imperialista mondiale (e in particolare del partito tedesco, il cui capo, Kautsky, era all’epoca anche il teorico marxista più influente internazionalmente) – rispondeva all’urgente compito di ristabilire la vera dottrina di Marx sullo Stato in una lotta serrata contro le molteplici deformazioni del marxismo che avevano impestato il movimento operaio mondiale. La stessa cosa che successe alla dottrina marxista è poi avvenuta anche nei confronti del contenuto squisitamente rivoluzionario e comunista della rivoluzione d’Ottobre e dei primi anni della dittatura proletaria in Russia.

Ma perché puntare innanzitutto sul tema dello Stato? E’ Lenin stesso che ce lo spiega, nella Prefazione alla sua prima edizione dell’agosto 1917: «Il problema dello Stato assume ai nostri giorni una particolare importanza, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista politico pratico. La guerra imperialista ha accelerato e acutizzato a un grado estremo il processo di trasformazione del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato. L’oppressione mostruosa delle masse lavoratrici da parte dello Stato, il quale si fonde sempre più strettamente con le onnipotenti associazioni dei capitalisti, acquista proporzioni sempre più mostruose. I paesi più avanzati si trasformano – ci riferiamo alle loro “retrovie” – in case di pena militari per gli operai».                    

Già con l’opera precedente, del 1916, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, nonostante gli equilibrismi che dovette applicare per evitare il più possibile la censura, Lenin dimostra, basandosi sul «complesso dei dati relativi alle basi della vita economica di tutti gli Stati belligeranti e di tutto il mondo» (Prefazione alle edizioni francese e tedesca, del 1920), che «la guerra del 1914-18 fu imperialista (cioè di usurpazione, di rapina, di brigantaggio) da ambo le parti, che si trattò di una guerra per la spartizione del mondo, per una suddivisione e nuova ripartizione delle colonie, delle “sfere di influenza” del capitale finanziario, e via dicendo» (ibidem); una guerra che, per gli scopi di spartizione del mondo in sfere di influenza, non avrebbe potuto svolgersi se non attraverso la fusione sempre più stretta tra le “onnipotenti associazioni dei capitalisti” e lo “Stato borghese” predisposto ad opprimere in forme sempre più mostruose le masse lavoratrici di ogni paese. Dunque il problema dello Stato è il problema centrale sia per il dominio della classe borghese sia per la rivoluzione proletaria che quel dominio deve combattere e spezzare.

Durante tutta la fase storica che portò allo scoppio della prima guerra imperialista mondiale, le classi dominanti – borghesi e aristocratico-reazionarie – nei confronti del movimento operaio, delle sue lotte, delle sue organizzazioni classiste, dei suoi tentativi rivoluzionari e dei suoi capi, si comportarono esattamente come affermato nella citazione tratta dal volumetto di Lenin su Stato e rivoluzione: la lotta della classe borghese (e tanto più la lotta delle classi dominanti preborghesi, come nel caso dello zarismo), oltre a tentare di soffocare ogni lotta indipendente della classe operaia, ha sistematicamente odiato e perseguitato i capi rivoluzionari del proletariato, incarcerandoli, diffamandoli, calunniandoli ed ha costantemente mistificato la dottrina di emancipazione di cui erano portatori. Più il movimento operaio si sviluppava, dimostrandosi forte, influente, organizzato, capace di minacciare seriamente il potere borghese, più la classe dominante borghese, insieme alla classica oppressione militare e poliziesca, profondeva risorse economiche, politiche, sociali per falsificare i principi, il programma, le prospettive storiche del proletariato in lotta per la propria emancipazione. L’opportunismo, cioè la politica della pace sociale, degli accordi fra le classi, della collaborazione fra le classi – in pace e in guerra – ha basi materiali ben precise: si fonda su “garanzie economiche”, anche minime, ma stabili nel tempo e sulla concorrenza tra proletari; è su queste basi materiali che l’opportunismo fonda la sua politica democratica, parlamentarista, di collaborazione interclassista. I capi operai, meglio se rivoluzionari, sono oggetto costante di grande attenzione da parte della borghesia e dei suoi organi di difesa, sia dal punto di vista economico-pratico, sia dal punto di vista politico-ideologico. Cosa c’è di meglio, per i borghesi, se non comprare gli avversari più importanti e influenti sul proletariato in modo da trascinare sotto le proprie bandiere (azienda, economia nazionale, patria, valori nazionali ecc.) masse proletarie molto più numerose che non usando la violenza repressiva? E’ esattamente quel che il potere borghese ha attuato in ogni paese, con più successo nei paesi capitalistici avanzati nei quali poteva e può contare su risorse economiche maggiori e dove, grazie alla sovrastruttura burocratica, amministrativa e militare, centrale e periferica, con le sue molteplici stratificazioni, può offrire garanzie e privilegi ad un vasto strato di capi e capetti operai attirati nell’alveo di quella che Engels chiamò efficacemente aristocrazia operaia, e che del riformismo e del suo prolungamento naturale alla collaborazione di classe ha fatto la propria dottrina.

E’ risaputo che Lenin, dopo aver trattato in modo succinto ma efficace e teoricamente ineccepibile la dottrina marxista riguardo la rivoluzione, lo Stato e la dittatura del proletariato sulla base dell’esperienza della Comune di Parigi e della storia dell’opportunsimo da Bernstein a Kautsky, interruppe lo svolgimento dei temi previsti per Stato e rivoluzione (in particolare il Cap. VII. L’esperienza delle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917) per un semplice motivo: la crisi politica, vigilia della rivoluzione d’Ottobre 1917, a proposito della quale, nel suo Poscritto del 30 novembre 1917, affermava che «è più piacevole e più utile fare “l’esperienza di una rivoluzione” che non scrivere su di essa». E questa esperienza è stata assolutamente magnifica, non solo per Lenin, ma per tutti i rivoluzionari e i proletari che, in Russia, innanzitutto, e nel resto del mondo, a quell’esperienza hanno dato il massimo contributo possibile con la loro lotta e con i loro tentativi rivoluzionari sulla scia della rivoluzione d’Ottobre.

Le borghesie dei paesi imperialisti occupate a farsi la guerra per spartirsi il mondo in zone di controllo e di influenza diverse da quelle ereditate dal periodo dello sviluppo “pacifico” del capitalismo, furono letteralmente terremotate non tanto dal movimento rivoluzionario che scosse la Russia e fece cadere lo zarismo, ma dal fatto che quel movimento rivoluzionario – capeggiato dal proletariato e guidato dal partito bolscevico di Lenin – avrebbe potuto abbattere non solo il potere zarista, ma anche il potere borghese di Kerensky, che tutto voleva meno che terminare la guerra iniziata dallo zarismo. La rivoluzione di Febbraio 1917 portò a termine la spinta rivoluzionaria che nel 1905 – in seguito alla guerra russo-giapponese e alle drammatiche condizioni di sopravvivenza del vasto contadiname russo e delle masse proletarie delle grandi città – aveva fatto vacillare il potere zarista: è stata una rivoluzione borghese attesa da tutte le borghesie europee, ma, nello stesso tempo, temuta perché l’intervento del proletariato organizzato e politicizzato nei soviet aveva cominciato a dimostrare che la sua forza sociale, unita alla forza sociale rappresentata dal movimento delle masse contadine, poteva non solo “liberare” la Russia dai vincoli medioevali e reazionari rappresentati dalla zarismo aprendosi molto di più di quanto non avesse fatto fino a quel tempo al capitalismo internazionale, ma avrebbe potuto innestare la lotta rivoluzionaria socialista in collegamento con il movimento socialista e rivoluzionario europeo occidentale, e in particolare quello tedesco che era il più forte e il più temuto. Una rivoluzione socialista che poi, in effetti, scoppiò nell’Ottobre del 1917.

All’orizzonte dei contrasti fra le grandi potenze capitalistiche, accresciuti enormemente nel primo quindicennio del secolo XX, c’era la guerra mondiale, cioè una guerra che rispondeva, in un certo senso, a tutte le questioni legate ai rapporti di forza fra i capitalismi più potenti sul piano coloniale e sul piano dei rapporti diretti fra di loro. La concorrenza sul mercato mondiale era diventata talmente incontenibile, data la crisi di sovraproduzione che tendeva ad asfissiare le economie sì potenti ma costrette a fette di mercato troppo limitate rispetto alla loro potenzialità produttiva e finanziaria – come quella tedesca – da richiedere oggettivamente l’unica soluzione che l’economia capitalistica conosca in questi casi, cioè lo scontro militare fra le maggiori potenze mondiali e la rimessa in discussione delle rispettive zone di influenza, quindi la guerra, in questo caso mondiale, con le sue conseguenti enormi distruzioni grazie alle quali il sistema produttivo dei più grandi e forti paesi avrebbe conosciuto una nuova giovinezza, mentre le masse lavoratrici del mondo intero, e in particolare dei paesi colpiti dalla guerra, avrebbero conosciuto oltre che un’ecatombe di morti su ogni fronte di guerra sacrificati sull’altare del profitto capitalistico, anche la continuazione, a guerra finita, della schiavitù salariale e dello sfruttamento sempre più bestiale.

Che il capitalismo, nel corso del suo sviluppo, vada inesorabilmente incontro a crisi e guerre è un dato incontrovertibile ormai riconosciuto anche dai borghesi che non smettono, però, di agitare le parole della pace e dei diritti dei popoli come se pace e diritti dei popoli dipendessero semplicemente dagli “uomini di buona volontà”, come recita ipocritamente la Chiesa. La pace, sotto il capitalismo, è in realtà un periodo di tregua tra le guerre: questa è la conclusione che Lenin, da marxista coerente com’era, tira dall’esame critico dell’imperialismo. Perciò se si vuole impedire che la guerra capitalistica scoppi, o interromperla se è già scoppiata, non c’è alcuna soluzione borghese che possa essere adottata: la soluzione può essere solo di segno proletario e comunista, dunque può essere soltanto la trasformazione della guerra borghese e imperialista in guerra civile, in guerra rivoluzionaria condotta col fine di abbattere il potere borghese, di spezzare lo Stato borghese che lo gestisce e lo difende, e di instaurare la dittatura di classe del proletariato.

E’ esattamente questo l’obiettivo principale della rivoluzione proletaria e comunista, in qualsiasi paese capitalista del mondo, tanto più in qualsiasi paese imperialista del mondo. Lo è stato, in realtà, anche per la Russia del 1917, cioè per un paese che a quell’epoca doveva ancora storicamente completare la fase della rivoluzione borghese nel senso, non solo della fine della monarchia assoluta, ma dell’impianto e della diffusione dell’economia capitalistica su un territorio che si stendeva su due continenti, ma che, in forza del capitalismo già presente, soprattutto nelle grandi città e in forza della vicinanza con il capitalismo sviluppato in Europa occidentale, e in forza delle mire annessionistiche e imperialistiche del potere zarista, si presentava come un potenziale alleato nella guerra mondiale a favore dello schieramento bellico che mirava a contrastare la spinta degli imperi centrali – Germania e Austria – dunque per i paesi dell’Intesa che contavano sugli imperialismi francese e britannico direttamente interessati a contenere l’espansionismo tedesco, e sull’imperialismo americano che aveva relazioni strettissime con la finanza e l’industria inglesi. Ma lo zarismo svolgeva anche un altro ruolo di primaria importanza, per se stesso, ed anche per le potenze imperialistiche europee: era il più organizzato e forte potere reazionario esistente, capace di intervenire sia in Occidente che in Oriente non solo per difendere i propri interessi e possedimenti coloniali ma anche per fare un servizio per conto terzi – ossia per conto di potenze che potevano essere temporaneamente interessate a reprimere, in determinate aree geopolitiche, rivolte e rivoluzioni sia di carattere borghese che di carattere proletario.  Non per nulla, in moltissime occasioni, la Russia zarista ha dato una mano ora alla Prussia ora alla Gran Bretagna, ora alla Francia ora all’Austria-Ungheria, ma l’obiettivo di fondo era sempre lo stesso: mantenere il controllo dei movimenti “rivoluzionari”, in particolare in Europa, reprimendoli a dovere, perché non contrastassero con gli interessi del momento o futuri del potere zarista e delle monarchie o delle borghesie che al momento, o in futuro, potevano essere debitrici verso Pietroburgo (o Pietrogrado, che dir si voglia) per i servizi ottenuti a loro vantaggio.

«L’impero russo forma – come hanno dimostrato in modo evidente il 1848 e il 1849 – l’ultimo grande contrafforte della reazione nell’Europa occidentale. Avendo la Germania omesso di provocare un’insurrezione in Polonia e di colpire lo Zar sul terreno della lotta armata nel 1848 (...), questo stesso Zar poté, nel 1849, schiacciare la rivoluzione ungherese spintasi fino alle porte di Vienna, erigersi a giudice supremo fra l’Austria, la Prussia e gli staterelli tedeschi a Varsavia nel 1850, e rimettere in funzione il vecchio Bundestag. Ancora pochi giorni fa – sui primi di maggio 1875 a Berlino – lo Zar ha ricevuto, esattamente come venticinque anni or sono, l’omaggio dei suoi vassalli e ha dimostrato d’essere per sempre l’arbitro dell’Europa. Nessuna rivoluzione può ottenere vittoria definitiva nell’Europa occidentale finché l’odierno Stato russo le sussiste accanto. Ma il vicino più immediato di questo è la Germania; sarà la Germania a sostenere il primo urto con gli eserciti russi della reazione. Perciò la caduta dello Stato russo, il crollo dell’Impero zarista, è una delle conzioni preliminari della vittoria finale del proletariato tedesco» (queste le parole di Engels nel suo famnoso scritto Le condizioni sociali in Russia, 1875) (1).

Il rovesciamento del potere zarista era, dunque, fin dai tempi di Marx ed Engels, atteso come risultato di grande importanza per tutta l’Europa, e per lo stesso movimento operaio socialista, e materialisticamente ovvio, data la situazione generale creatasi in seguito alle speculazioni fraudolente del periodo 1871-1873 cui partecipò l’alta finanza russa, precipitando il paese in una profonda crisi finanziaria e rovinando per anni l’industria e il commercio russo, rovina dalla quale la Russia non si riprese nemmeno con la guerra contro la Turchia che, al contrario, fece precipitare ancor più l’economia e la finanza russe gettando le grandi masse contadine russe, e lo stesso proletariato, in situazione di estrema miseria e fame (2). Situazione di fronte alla quale si imponeva come urgente il compito rivoluzionario che la borghesia avrebbe dovuto adempiere già da metà Ottocento in poi, e per il quale non poteva non essere interessato anche il proletariato come, d’altra parte, in ogni occasione storica di superamento dei vecchi ordinamenti sociali in cui i poteri reazionari resistevano alla pressione delle nuove classi progressite, all’epoca, per l’appunto, borghesia, contadiname povero e proletariato.

Ma in Russia non maturarono condizioni favorevoli alla rivoluzione borghese come era accaduto in Europa occidentale, e la borghesia – come d’altra parte in Germania – non aveva per nulla carattere rivoluzionario come quella francese, preferendo sviluppare i propri affari, e mantenere i propri privilegi, all’ombra del potere zarista. Ci volle il 1905 proletario, ci volle la partecipazione dello zarismo alla prima guerra imperialista mondiale e poi il 1917 nuovamente proletario, per imprimere alla Russia un corso storico che nella realtà aveva già messo le basi da tempo, ma che non aveva trovato all’appuntamento con la storia una classe borghese pronta a svolgere il suo compito storico. La prima guerra mondiale scosse violentemente tutte le classi sociali e tutti i suoi strati, polarizzando il proletariato e le masse contadine povere al suo seguito da un lato e tutte le altre classi e mezze classi al lato opposto: si era aperta l’era delle guerre e delle rivoluzioni. Secondo quanto previsto da Marx ed Engels, “una volta spinta la Russia alla rivoluzione, tutta la faccia dell’Europa si muterà” (3).

Ed è ciò che avvenne. In Russia la rivoluzione, iniziata nel febbraio 1917, dominanti ancora le illusioni democratiche e parlamentariste, e terminata nell’Ottobre dello stesso anno con la vittoria del proletariato rivoluzionario, sotto la guida del partito bolscevico di Lenin, colpì a morte sia il potere zarista che il potere borghese di Kerensky. Fu instaurata la dittatura di classe del proletariato, esercitata dal partito bolscevico, in perfetta continuità storica e programmatica con la Comune di Parigi del 1871, ma con alcune differenze sostanziali: il potere proletario non ebbe alcun timore nel sottomettere al proprio fermo controllo la banca centrale e il commercio estero e a rendere pubblici tutti i “segreti di Stato” sia politico-diplomatici che militari; non si fece illudere dalle sirene democratiche che volevano l’Assemblea Costituzionale che invece fu eliminata; sciolse l’esercito e armò al suo posto il “popolo”, cioè il proletariato e il contadiname povero che avevano costituito i soviet; passò la proprietà della grande industria e della terra al nuovo Stato proletario; negò non solo alle classi aristocratiche e nobiliari ma anche alla classe borghese qualsiasi rappresentanza e attività politica, ma, soprattutto, decise di ritirare la Russia dalla guerra proponendo alle potenze belligeranti una pace “senza annessioni e senza indennità” anche se a prezzo particolarmente alto, come in realtà fu, dovendo lasciare in mani tedesche circa un quarto dei territori posseduti in Europa con tutta la loro popolazione. Il potere proletario e bolscevico sapeva bene che ritirare la Russia dall’alleanza di guerra con le potenze dell’Intesa avrebbe dato alla Germania la possibilità di utilizzare la propria potenza economica e militare per strappare alla Russia molto territorio, ma l’interesse di classe del proletariato non solo russo, ma europeo e, quindi, mondiale, era di dimostrare concretamente che la guerra imperialista – guerra di rapina per eccellenza, e massacro di proletari su entrambi i fronti a vantaggio esclusivo delle forze del capitale – poteva essere interrotta solo trasformandola in guerra di classe alla quale chiamare i proletari di tutti i paesi, e in primo luogo i proletari dei paesi belligeranti, perché lottassero in ciascun paese contro la propria borghesia! Tutto ciò poteva essere prospettato e attuato soltanto da una rivoluzione proletaria vittoriosa e da un potere di classe dittatoriale instaurato sulle rovine dello Stato borghese: nessuna forza popolare, democratica, liberale, poteva o avrebbe potuto giungere allo stesso risultato, dando al proletariato di ogni paese la prospettiva concreta della lotta per l’emancipazione generale dal capitalismo. E la partecipazione alla rivoluzione russa del vasto contadiname russo, liberatosi da secoli di isolamento e di ignoranza politica, dimostra come solo il proletariato rivoluzionario aveva storicamente la forza di trascinarlo in un movimento storico più grande e di saper combattere e vincere la pressione soffocante degli strati sociali borghesi e pre-borghesi che, attraverso gli apparati burocratici e fiscali, lo costringevano ad una vita di miseria e di fame.

La rivoluzione russa, nell’Ottobre 1917, prese le caratteristiche peculiari della rivoluzione proletaria e comunista, e fu questo che fece tremare i polsi a tutte le cancellerie del mondo. La guerra imperialista continuò e, nonostante le lotte contro la guerra che si produssero nei diversi paesi europei – in Germania in particolare, ma anche in Italia (vedi i tumulti di Torino per il pane e contro la guerra dell’agosto 1917) – e gli ammutinamenti nei fronti, come in Francia, e le fraternizzazioni tra i soldati delle rispettive linee “nemiche”, come tra italiani e austriaci, le potenze imperialistiche la portarono a termine dopo più di 4 anni di massacri e milioni di morti e feriti. I vincitori – Gran Bretagna, Francia e Italia – si spartirono il bottino (i territori e le zone di influenza non solo in Europa ma anche in Africa, nel Medio e in Estremo Oriente), mentre le potenze che persero la guerra dovettero cedere territori e cospicue risorse finanziarie. Ma la guerra, che fu la “soluzione” borghese alla crisi di sovrapproduzione e ai contrasti interimperialistici giunti ad un livello di tensione incontenibile, non fece che preparare – giusta l’affermazione contenuta fin dal 1848 nel Manifesto del partito comunista – i fattori di crisi più generali e violenti, come dimostra la storia capitalistica successiva, a partire dalla seconda guerra imperialista mondiale e proseguendo nella sequenza interminabile di guerre “regionali” che, a loro volta, mentre danno temporaneo sfogo a tensioni di crisi economiche e finanziarie che si susseguono ciclicamente senza soste, preparano nel contempo ulteriori fattori di crisi e di guerra, in una spirale che appare senza fine fino a quando la lotta di classe del proletariato non rinascerà e si rafforzerà nei paesi più importanti del mondo, trasformandosi in lotta rivoluzionaria alla bolscevica.

E usiamo consapevolmente il termine “alla bolscevica”, come usiamo consapevolmente il termine “comunista”, anche se questi termini, con la vittoria della controrivoluzione borghese e dello stalinismo, hanno subìto – e non poteva essere diversamente – la più oscena falsificazione che potesse mai essere consumata. E’ stato fatto passare, infatti, per “socialista”, per “comunista”, il processo di sviluppo economico in Russia che lo stesso Lenin – date le condizioni storiche di arretratezza economica della Russia del tempo – aveva chiaramente definito come capitalistico; è stato fatto passare per “socialista”, per “comunista”, un potere politico, e quindi uno Stato, che si erano trasformati – in forza della vittoria controrivoluzionaria – in potere borghese, in Stato borghese, dopo una lenta e purtroppo inesorabile degenerazione politica. La guerra che le classi borghesi di tutto il mondo avevano condotto contro la rivoluzione d’Ottobre, contro la dittatura proletaria instaurata in Russia, contro la resistenza del proletariato russo agli attacchi delle bande bianche e dei controrivoluzionari e reazionari russi sostenuti dalle civilissime potenze democratiche di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, non riuscì a sconfiggere, in tre anni di guerra civile – dal 1918 al 1921 – il potere proletario bolscevico. Gli imperialisti ebbero bisogno di una forza politica particolarmente insidiosa, ancor più velenosa di quella che fece fallire la Seconda Internazionale di fronte alla prima guerra imperialista e che portò la grandissima parte dei partiti socialisti e socialdemocratici del mondo a parteggiare per i propri governi borghesi, tradendo completamente la causa proletaria e rivoluzionaria per la quale avevano sottoscritto proclami e manifesti fino a qualche mese prima dello scoppio della guerra.

La degenerazione stalinista del partito bolscevico e del marxismo portò alla formulazione della teoria del “socialismo in un solo paese”, teoria che condensa tutto il processo di revisione e di falsificazione del marxismo che iniziò già con le prime ondate opportuniste da Marx ed Engels vivi in poi, e che doveva inevitabilmente sfociare nella teoria del "mercato socialista", con tutto il seguito di merce, denaro, profitto, azienda, salario, proprietà privata ecc. Queste categorie al 1000% capitalistiche furono etichettate come “socialiste” con il pretesto che erano gestite da uno Stato, ereditato dalla vittoria rivoluzionaria, e definito “socialista” anche quando ormai era stato trasformato in uno Stato borghese, cioè completamente al servizio dello sviluppo capitalistico dell'economia russa, e con l'introduzione di una “pianificazione economica centralizzata” come fosse di per sé il simbolo del socialismo attuato, mentre rispondeva all'esigenza di avviare un industrialismo di Stato grazie al quale bruciare le tappe dello sviluppo capitalistico.

Le forze produttive, che in Russia non poterono contare sull'apporto indispensabile della vittoria rivoluzionaria nell'Europa capitalistica sviluppata, indirizzate obbligatoriamente a sviluppare capitalismo – perché formasse la base economica indispensabile per la sua trasformazione in socialismo sotto la guida della dittatura proletaria – nell'isolamento in cui la dittatura proletaria in Russia era stata confinata, esercitavano inesorabilmente una gigantesca pressione che soltanto il movimento del proletariato rivoluzionario non solo russo, ma almeno europeo, avrebbe potuto sopportare mantenendo salda la rotta rivoluzionaria in Russia (ricordiamo i vent'anni di Lenin, se non addirittura i cinquant'anni di Trotsky) in attesa della ripresa della lotta rivoluzionaria dei proletariati dei paesi capitalisticamente avanzati e della loro vittoria. 

Il bolscevismo, al quale ci riferiamo, è quello richiamato nel breve articolo apparso ne Il Soviet, del 23 febbraio 1919 e intitolato Il bolscevismo, pianta d'ogni clima (4), che era diretto contro i rappresentanti della democrazia italiana (e, ante litteram, contro i revisionisti e gli stalinisti che successivamente abbracceranno esattamente le stesse posizioni), sostenendo che il bolscevismo non era fenomeno russo bensì internazionale e che, non solo, allignava già da un pezzo in Italia - Il Soviet ne era una dimostrazione - ma allignava nel mondo: «Bolscevismo e socialismo sono la stessa cosa – vi si afferma – e per combattere il pregiudizio patriottico e il sofisma della difesa nazionale noi non abbiamo atteso che Lenin e i bolscevichi, nostri compagni di fede e di tendenza da lunghi anni, riuscissero a trionfare in Russia; e anche senza il loro glorioso e luminoso esempio, il giorno che le vicende storiche ci avessero portato alla vittoria, avremmo fatto come loro hanno fatto». Era forse per una strana combinazione che la Sinistra comunista d'Italia e i bolscevichi al tempo di Lenin avessero le stesse posizioni?  No, certo. «Noi ed essi lavorammo e lavoriamo per lo stesso programma, per la lotta di classe che nega la solidarietà nazionale, per il socialismo rivoluzionario, per la conquista del potere e per la dittatura dei lavoratori, dei senza-patria. Perché questa dottrina e questo metodo non furono improvvisati nel 1917, su commissione del Kaiser, come solo l'incommensurabile asinità dei professori di discipline sociologiche poté credere, ma fin dal 1847 erano stati proclamati dall'Internazionale Socialista; (...) Il bolscevismo vive in Italia, e non come articolo d'importazione, perché il socialismo vive e lotta ovunque vi sono sfruttati che tendono alla propria emancipazione».

All'epoca, in Russia, il compito di distruggere il feudalesimo toccò al proletariato rivoluzionario, al quale toccò anche di sviluppare l'economia capitalistica nelle forme più consone ad un ferreo controllo politico al fine di difendere il potere politico conquistato e di utilizzarlo anche nella lotta di classe rivoluzionaria a livello internazionale. Lo stalinismo, al contrario, chiuse nelle “frontiere nazionali russe” il movimento proletario, lo illuse di “costruire socialismo” nei confini nazionali e al di fuori di ogni internazionalismo comunista, mentre costruiva capitalismo nazionale e metteva basi più forti di quanto non fossero a disposizione del vecchio zarismo per la tipica politica capitalistica e imperialista, quella delle annessioni e del colonialismo.

Una volta morto Stalin e gli stalinisti della prima ora, e di fronte al crollo del vecchio potere politico che diresse l'URSS, portandola a partecipare alla seconda guerra imperialista massacrando e facendo massacrare milioni di proletari, a ricavarne vantaggi in termini di annesioni e di zone d'influenza diretta – controllate militarmente – nell'Europa dell'Est, nel Caucaso e nell'Estremo Oriente, e a sottoporre il mondo intero ad un controllo imperialistico in condominio con gli Stati Uniti d'America; di fronte al crollo di quel potere politico falsamente identificato da ogni borghesia del mondo come “socialista”, da ogni cancelleria, da ogni media, da ogni intellettuale di fama si  alzò il grido: il comunismo è morto, il capitalismo ha vinto!

Che il capitalismo abbia vinto, non abbiamo mai avuto problemi a riconoscerlo. Siamo gli unici che, fin dagli anni Venti, nei dibattiti internazionali, nelle tesi e nelle valutazioni delle situazioni avevamo previsto che, scivolando verso tattiche e metodi troppo elastici il movimento comunista internazionale sarebbe andato incontro a gravi deviazioni che avrebbero aperto le porte ad un opportunismo ancor più micidiale e velenoso di quello di Bernstein e di Kautsky. La Sinistra comunista d'Italia tenne duro sull'intransigenza teorica e politica, difese la valutazione del tutto negativa e distruttiva non solo delle tattiche democratiche e parlamentari, ma anche delle parole e dei concetti di democrazia, e di fronte alla sconfitta generale del movimento comunista, in Russia e in ogni altro paese, ne accettò il dato storico materialisticamente e dialetticamente, pronta a rimettersi al lavoro, appena le condizioni storiche lo avessero permesso, per tirare tutte le più importanti lezioni delle controrivoluzioni e il bilancio dinamico della rivoluzione comunista d'Ottobre e della sua successiva sconfitta.

Il comunismo non è mai morto perché, in realtà, non vi è stata ancora la vittoria completa della rivoluzione proletaria e comunista nel mondo, passaggio indispensabile perché la dittatura internazionale del proletariato possa avviare la completa trasformazione economica della società dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione comunista. Noi, partito comunista internazionale, abbiamo assunto il compito di lavorare in continuità teorica, programmatica, politica, tattica e a livello organizzativo con la linea che va da Marx-Engels a Lenin, alla fondazione dell'Internazionale Comunista e del PCd'I, alla Sinistra comunista d'Italia per l'abbattimento del capitalismo di tutti i paesi a partire dai grandi Stati industriali più avanzati del mondo.

 

 

Partito comunista internazionale

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