Elezioni: cadaveri che chiedono voti!

(«il comunista»; N° 152; Gennaio - Marzo 2018)

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La gigantesca finzione propagandistica che la democrazia borghese alimenta ad ogni tornata elettorale, in Italia si è conclusa il 4 marzo, proiettando nuovi e vecchi partiti nell’ormai rancido teatrino della politica parlamentare alla ricerca di “un posto al sole”, posto che equivale a prebende, privilegi, vantaggi personali e di gruppo, posizioni di potere atte a chiedere e a distribuire favori a tutto un sottobosco di politicanti che hanno a cuore solo il proprio tornaconto personale come i sempre attuali casi di corruzione, ad ogni livello e di ogni dimensione, dimostrano ampiamente.

Eppure, in un paese come l’Italia, che fa continuamente emergere, dal suo ormai congenito marciume politicantesco e malversatorio, fatti che alimentano scandali su scandali, nelle masse chiamate alle urne si è consolidata una sorta di abitudine (“l’occasione fa l’uomo ladro”) e di malcelata giustificazione (“così fan tutti”); in un paese in cui religione e politicantismo si mescolano continuamente e dove le cosiddette “infiltrazioni mafiose” fanno ormai parte di un modus vivendi su cui è sempre più arduo distinguere il legale dall’illegale, il corrotto dal non corrotto, il responsabile dal non responsabile, quanto guadagnano e in quanti si spartiscono il bottino; in un paese come questo, la chiamata alle urne tutto sommato ha sempre un certo successo, nonostante il riflusso e il disgusto talvolta facciano temere agli elettoralisti un calo consistente di partecipazione. A queste ultime elezioni ha partecipato circa il 72% dei cosiddetti “aventi diritto”, un po’ meno delle precedenti, ma sempre un’alta percentuale se confrontata con altri paesi occidentali. Le masse, nonostante tutto, continuano a partecipare alle elezioni anche se, da decenni, il cosiddetto “ceto politico” dimostra costantemente di ingannare consapevolmente il popolo a cui si rivolge, gonfiando sempre più le promesse che non manterrà mai. Per di più, tutti i contendenti hanno cantato i soliti ritornelli sulla maggiore occupazione, sulla diminuzione delle tasse, sulla maggiore sicurezza, sulla legalità, sui diritti ecc. ecc. in una girandola senza fine, colorandosi in modi diversi giusto per distinguersi uno dall’altro. Alla partecipazione fa da contraltare l’astensione; la nausea per un sistema che non riesce – e non riuscirà mai – a cambiare, unita ad una sorta di depressione provocata da un’impotenza generale rispetto ad un apparato che appare insostituibile e invincibile, è alla base, in genere, di un’astensione dalla politica, un disgusto per un ceto politico che ha dimostrato di approfittare della fiducia chiesta solo per assicurarsi i privilegi da “onorevoli” che, d’altra parte, la legge borghese stessa prevede. Ma è un’astensione da parte di chi, tutto sommato, crede nel sistema democratico e spera che in un futuro più o meno prossimo, qualcuno emerga dalla massa e abbia la forza di trascinarla verso un miglioramento effettivo nelle condizioni quotidiane di vita e di lavoro. In effetti, coloro che ancor oggi vanno a votare e coloro che si astengono partono dalla stessa illusione: quella che, attraverso il sistema democratico, si possano, se non cancellare del tutto, almeno attenuare di molto le diseguaglianze sociali.

Ben altro è l’astensionismo rivoluzionario che distingue da sempre la corrente della Sinistra comunista a cui apparteniamo e che è la tattica antiparlamentare che sottende alla preparazione rivoluzionaria del partito di classe e delle masse proletarie. Preparazione che oggi, ne siamo ben coscienti, riguarda un modestissimo numero di militanti che dedicano le proprie energie a tener viva la tradizione rivoluzionaria del proletariato e del movimento comunista, nella certezza che quella tradizione sarà riconquistata dal proletariato quando i fattori favorevoli alla conservazione sociale e alla reazione borghese verranno meno sotto i colpi di una crisi economica e di guerra che spingerà nuovamente le masse proletarie sul terreno della lotta di classe.

Ma torniamo alle diseguaglianze sociali: queste, nella società capitalistica, non potranno mai essere superate; non è questione di “volontà” del singolo partito o del singolo capo politico, o di una coalizione di partiti e di capi. E’ il sistema economico che caratterizza la struttura della società capitalistica che si basa sulle diseguaglianze sociali condizionando totalmente la sua sovrastruttura politica: il capitalista che sfrutta l’operaio lo fa non perché è un aguzzino, ma perché solo attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato intasca il profitto. Può essere paternalista o aguzzino, ma il capitalista, se vuole mantenere il suo ruolo sociale e difendere i suoi interessi di classe, deve sfruttare e continuare a sfruttare il lavoro salariato, dunque deve mantenere la diseguaglianza tra se stesso – in quanto proprietario dei mezzi di produzione e dei prodotti finali da portare al mercato – e la massa operaia che lavora per lui. In ogni paese capitalista è dimostrato che, nel momento in cui la massa operaia alza la testa, si ribella alle condizioni in cui è costretta a lavorare e a vivere, il capitalista può contare immediatamente su una forza ulteriore, oltre a quella economica che già possiede: quella delle forze dell’ordine, quella dello Stato che, guarda caso, per quanto democratico sia, è in realtà al servizio degli interessi capitalistici e, quindi, è chiamato a difendere prima di tutto e soprattutto gli interessi dei capitalisti. Non importa che a diventare aguzzino dei suoi operai sia il padrone; succede anche questo, e non solo nei campi di raccolta di pomodori o delle olive, ma anche nelle fabbriche dai nomi altisonanti, come la Thyssen Krupp. Ciò che importa alla società borghese, e quindi alla classe dei capitalisti, è che la massa operaia si pieghi alle esigenze dell’economia capitalistica nelle diverse situazioni, in quelle di prosperità come in quelle di crisi. Quando la sua economia è prospera, e dunque gode di un ciclo di forte espansione, allora il capitalismo si permette di concedere miglioramenti e garanzie alle masse operaie; e li concede non per buon cuore, e non solo perché le masse operaie hanno duramente scioperato per ottenerli, ma perché è anche suo interesse allargare la capacità di consumo delle larghe masse vista la grande capacità di produzione raggiunta dal suo sistema economico. Ma in periodi di crisi, in periodi di sovrapproduzione, quando i mercati sono intasati e non assorbono più l’enorme quantità di prodottti che vi vengono riversati da ogni parte del mondo, allora i capitalisti, che non sono mai disposti a perdere profitti, scaricano sulle masse operaie senza alcun ripensamento gli effetti della crisi del loro sistema economico, e così piovono licenziamenti, vengono abbattuti i salari, viene cancellata tutta una serie di “garanzie” che gli ammortizzatori sociali prevedevano ed aumenta vorticosamente la concorrenza tra i proletari; dunque aumentano esponenzialmente le disuguaglianze!

Tutto questo, che ogni operaio conosce perfettamente perché lo ha vissuto e lo vive sulla propria pelle, non può avvenire senza che le organizzazioni politiche e sindacali, che influenzano direttamente e indirettamente le masse proletarie, abbiano dato il loro apporto di collaborazione col sistema economico e politico della società capitalistica. Capitalismo e democrazia vanno quindi perfettamente a braccetto: capitalismo vuol dire, in sintesi, dittatura del capitale sulla società perché tutto si muove secondo i suoi interessi generali e secondo le leggi che li difendono; democrazia vuol dire, in sintesi, velare la reale dittatura del capitale, ideologicamente e praticamente con tutta una serie di sovrastrutture atte a far passare il totalitarismo capitalistico come un sistema accettato da tutte le classi e al quale partecipano e collaborano tutte le classi, tutto il famoso “popolo”, quindi anche la classe del proletariato. La democrazia, per i capitalisti, svolge un doppio ruolo: nasconde la realtà totalitaria e sfruttatrice del capitalismo, e quindi gli esistenti antagonismi di classe, sotto le vesti di un’entità tendenzialmente unitaria – il popolo –, e devia la classe proletaria, dalla sua lotta in difesa esclusiva dei suoi interessi di classe, sul terreno dell’interesse “comune” tra le classi, sul terreno della collaborazione fra le classi. A deviare il proletariato ci pensano le organizzazioni politiche e sindacali falsamente rappresentanti dei lavoratori: esse sono i campioni del collaborazionismo con i poteri capitalistici, siano essi rappresentati dallo Stato o dalle associazioni padronali.

Certo, dopo decenni di collaborazionismo, da un lato, e di sconfitte proletarie sul terreno della lotta immediata in difesa delle loro condizioni di vita e di lavoro, dall’altro, non ci si può aspettare che i proletari  si rendano conto di colpo di essere la classe produttrice che possiede, virtualmente, una forza sociale gigantesca che potrebbe essere usata non per salvare l’economia nazionale, le aziende o la patria – tutte cose che interessano principalmente la classe borghese – ma per strappare alla classe dei capitalisti, per iniziare, miglioramenti sostanziali alle condizioni di vita e di lavoro e, in prospettiva, per lottare contro gli apparati politici, economici, sociali e militari con cui la classe dei capitalisti difende strenuamente il proprio potere; potere che è sostanzialmente quello di continuare a sfruttare la classe proletaria per trarre dal suo lavoro salariato il massimo possibile di profitti.

La democrazia, perciò, ha una funzione vitale per il sistema borghese, perché alimentando la collaborazione tra le classi, e praticandola grazie a tutte le forze dell’opportunismo operaio, non solo abitua la classe operaia a far suoi gli interessi borghesi in tempo di pace, ma la abitua a collaborare con la classe dominante borghese in vista anche del tempo di guerra.

Che poi, nelle elezioni che si sono svolte ora, come in elezioni precedenti, molti voti operai – così dicono le indagini borghesi – si siano spostati, ad esempio, dal Partito Democratico, non tanto alla sua sinistra, quanto alla Lega e al Movimento 5 Stelle, non è che una dimostrazione ulteriore del fatto che il PD, partito ex-”comunista”, ex-dei lavoratori, ex-di sinistra, andato al governo e adottando platealmente politiche di difesa degli interessi capitalistici, ossia politiche chiaramente antioperaie, ha deluso le aspettative delle masse operaie – illusorie, certo, ma sempre aspettative sollecitate dalla sua propaganda – che, perseverando nell’illusione di ottenere col voto dei miglioramenti o, perlomeno, di bloccare dei peggioramenti, si sono rivolte ad altri partiti concorrenti.

La grande “novità” di queste elezioni italiane è rappresentata dal successo del Movimento 5 Stelle, che è risultato il primo partito, sebbene non con una maggioranza tale da garantirgli l’andata al governo; certamente le rinunce al vitalizio da parlamentari, la decurtazione degli stipendi da parlamentari, la rinuncia ai doppi stipendi e ai rimborsi elettoriali, hanno contribuito a dare a questo partito un’aura morale di un certo spessore attirando personalità e voti motivati appunto dalla cosiddetta questione morale; ma non si illudano gli operai (anche i liberali e i picisti di un tempo erano “onesti”, ma questo non ha impedito loro di sostenere il sistema capitalistico e l’entrata nella guerra imperialista parteggiando per una frazione borghese, quella democratica, contro l’altra frazione borghese, quella fascista) e, a parte il lancio di un fumoso “reddito di cittadinanza” che illude tutti e nessuno contemporaneamente, ciò che essi devono aspettarsi da questo partito è sintetizzato dal suo capo politico, Di Maio, che, al TG2 del 10 gennaio scorso, dichiarava che “dobbiamo lasciare in pace le imprese perché devono creare valore”, come dire: operai, non dovete mettere in difficoltà le aziende in cui lavorate con scioperi o richieste inopportune, perché queste devono “creare valore”. Ma come creano valore le imprese? Sfruttando di più e meglio la forza lavoro, ossia allargando la forbice tra il guadagno dell’azienda, e quindi dei capitalisti, e i salari operai, aumentando quindi le disuguaglianze.

Un’altra “novità” di queste elezioni riguarda la Lega, che si è liberata formalmente del suo simbolo che la relegava al solo Nord per farsi recepire come un partito “nazionale” e “sovranista” (“prima gli italiani”) e che è risultata il primo partito della coalizione di destra insieme al partito di Berlusconi e ai fascisti-democratici ex-Msi, ex-An ed ora Fratelli d’Italia. Ma quello che accomuna tutti i partiti che si sono presentati a questa tornata elettorale, siano considerati di destra o di sinistra, di centro-destra o di centro-sinistra, è stata la più ampia genericità dal punto di vista del programma di governo. Come dicevamo, tutti hanno promesso genericamente di occuparsi dei giovani, del lavoro, della sicurezza e di risolvere il problema dell’immigrazione; l’unico che diceva qualcosa di più era il PD che portava in giro i suoi “successi” di governo: il jobs act, gli 80 euro e, naturalmente, l’accordo con la Libia perché gli immigrati non partano più dalle sue spiagge per sbarcare sulle nostre coste: ossia la sua politica di difesa del capitalismo nazionale e, quindi, sostanzialmente, antioperaia. E tutti, naturalmente, giurano sulla Costituzione repubblicana, e qualcuno come il capo della Lega, Salvini, ha voluto strafare giurando sul Vangelo cristiano, e su un’economia che deve ridiventare competitiva a livello mondiale. Gli operai stiano zitti, e lavorino!, al massimo, mettano una croce sulla scheda elettorale...

La classe operaia è stata turlupinata per l’ennesima volta? Sì.

L’inganno è congenito alla democrazia, perché la “libertà di scelta”, la “libertà di opinione”, la “libertà di voto” non sono e non possono essere libertà effettive, ma condizionate: sono condizionate pesantemente dalla realtà di una società divisa in classi, in cui la classe borghese domina sulla società perché possiede tutto e su questo potere ha eretto il suo Stato, che ha il compito precipuo di difenderlo da ogni nemico (borghese concorrente o classe antagonista), mentre l’altra grande classe, quella proletaria, pur essendo numericamente maggioritaria, non possiede nulla, perciò nemmeno la libertà, se non quella di morire di fatica o di fame. La democrazia prevede “diritti uguali per tutti” e declama che la “legge è uguale per tutti”, quando tutti sanno che non è mai stato così: chi ha denaro e potere, ha potere anche nei diritti e sulla legge. La democrazia prevede la “libertà di impresa”: certo, perché ogni impresa, ogni azienda, si basa sul sistema economico dominante, il sistema capitalistico, che, per funzionare, deve produrre sfruttando la forza lavoro salariata; più e meglio la sfrutta e più funziona, e più è “libera” di ingrandirsi e sfruttare masse più numerose di operai; se funziona vuol dire che fa profitto, profitto che può essere reinvestito per migliorare e ingrandire l’azienda o per speculare in borsa trasformandosi in capitale finanziario e superare non solo i confini della propria azienda ma i confini della propria nazione. Il denaro non ha confini, come lo sfruttamento del lavoro salariato, che, nel rapporto tra capitale e lavoro, mette nelle stesse condizioni i proletari di ogni paese, di ogni età, di ogni razza, di ogni genere. E’ per questo che i proletari non hanno patria!

La democrazia tenta di nascondere tutto questo, tenta di attenuare gli antagonismi che la stessa società borghese produce, e soprattutto tenta di assopire e deviare la lotta che le classi operaie di ogni paese sono e saranno spinte a condurre in difesa dei propri interessi.

I comunisti rivoluzionari, sulla linea storica del marxismo, basano la loro lotta antiborghese non su argomenti sentimentali, morali o ideologici, ma sulla determinazione materiale delle forze sociali. La classe proletaria non è sorta per volontà dei proletari, è nata ad opera della borghesia, cioè della classe che, trasformando il modo di produzione antico e a isole chiuse nel modo di produzione industriale e capitalistico, ha espropriato violentemente masse di contadini e piccoli artigiani per ridurli a proletari senza riserve, per costringerli a lavorare sotto salario per vivere. Con l’industria è nata la classe proletaria, i moderni schiavi salariati, la classe dei senza riserve, la classe che produce la ricchezza sociale, ma che è dominata dalla classe che possiede tutto: i mezzi di produzione e tutta la produzione, cosa che le permette di assoggettare anche lo Stato a cui viene affidato il compito di difendere il sistema capitalistico che si basa, appunto, sulla proprietà privata e sull’appropriazione privata della ricchezza sociale prodotta; un sistema, d’altra parte, che vive sulla concorrenza e della concorrenza, come vive nella più vasta anarchia di mercato e, perciò, nei contrasti fra capitalisti sempre più acuti man mano che il capitalismo si sviluppa e abbraccia tutto il mondo. Questo è semplicemente totalitarismo capitalistico, e non c’è nessuna forma democratica che possa cambiare questa realtà.

L’unico vero cambiamento sociale non sta nell’uso “diverso” della democrazia, ma nella lotta di classe del proletariato, nella lotta della classe produttrice dell’intera ricchezza sociale, contro la proprietà privata e l’appropriazione privata di questa ricchezza. Quando occorre, ossia di fronte alla ribellione delle classi operaie contro lo strapotere borghese, le classi dominanti gettano nella spazzatura la loro democrazia, e si dichiarano apertamente per quello che sono: classi dominanti, appunto, classi totalitarie che, per difendersi dall’attacco delle classi proletarie, usano tutti i mezzi materiali e gli strumenti politici ritenuti indispensabili e non necessariamente uno alla volta. D’altra parte, il fascismo è nato proprio grazie alla democrazia: di fronte poi al pericolo serio da parte della classe borghese di perdere il potere a causa del movimento rivoluzionario del proletariato, la classe borghese ha dato al partito fascista il compito non solo di reprimere gli scioperi e le manifestazioni operaie, ma di eliminare le stesse organizzazioni operaie democraticamente formate, sostituendo l’insieme della sovrastruttura politica e statale con forme apertamente totalitarie. Anche dal punto di vista economico il fascismo è stato utile al capitalismo, perché con la sua centralizzazione e con il suo metodo della collaborazione fra le classi (adottato attraverso le corporazioni fasciste) ha indirizzato il capitalismo ad affrontare la nuova fase storica, segnata dall’epoca delle guerre e delle rivoluzioni, con un’organizzazione politica, economica e sociale più efficace dal punto di vista della sua tenuta. Ma quando, con l’avanzare di ulteriori crisi mondiali dell’economia capitalistica e con il pericolo del risveglio delle classi operaie alla ribellione contro gli effetti devastanti di quelle crisi, i maggiori paesi imperialistici del mondo sono scesi nuovamente in guerra tra di loro, la democrazia – in questo caso antifascista – è tornata a svolgere un ruolo importante per coinvolgere il proletariato mondiale a sostenere ognuno la borghesia del proprio paese contro i proletari dei paesi fascisti, indicati all’epoca come i nemici da battere. La concorrenza tra proletari che la borghesia alimenta in permanenza, ha funzionato ancora e, grazie all’opera dell’opportunismo stalinista, è diventata nuovamente l’arma  più efficace per far sacrificare milioni di proletari nella guerra imperialista a favore esclusivamente della conservazione sociale, del mantenimento e dello sviluppo del sistema capitalistico, con tutte le sue conseguenze in termini di sfruttamento, diseguaglianze, affamamento di interi popoli, guerre di rapina in mezzo mondo, repressioni e massacri senza fine.

Il capitalismo si veste, a seconda delle esigenze e delle caratteristiche nazionali, delle forme di governo le più disparate, ma è certo, come diceva Lenin, che il regime democratico è la più efficace forma di governo della borghesia perché riesce a coinvolgere le masse proletarie alla difesa dello Stato borghese e, quindi, del capitalismo.

Ecco perché il proletariato dovrà trovare la forza, nello stesso corso di sviluppo delle crisi capitalistiche e dell’acutizzarsi dell’antagonismo di classe con le classi borghesi, di riconquistare l’unico terreno su cui la sua forza sociale può ridiventare forza di cambiamento, forza rivoluzionaria: il terreno dell’aperta lotta di classe, indipendente da ogni ideologia e da ogni apparato della borghesia, e indirizzata esclusivamente a difendere gli interessi di classe della stragrande maggioranza della popolazione di ogni paese, il proletariato. Lottare contro il capitalismo, per i proletari, significa innanzitutto lottare contro gli effetti che il capitalismo ha sulle loro condizioni di vita e di lavoro esistenti; in questa fase della lotta, che definiamo immediata, i proletari si allenano alla lotta anticapitalistica, fanno esperienze e si organizzano per continuare a lottare perché sanno che il percorso di lotta sarà lungo e che il nemico di classe ha molte armi a sua disposizione; ma è una fase della lotta che è proiettata inevitabilmente ad essere superata da una fase superiore, di lotta politica perché lo stesso potere borghese, attraverso l’intervento delle forze dello Stato, eleva lo scontro di classe al livello della lotta politica più generale. Allora non sarà questione di diritti da rivendicare e da difendere, o di più o meno democrazia: sarà finalmente chiaro che la questione sociale si misura sui rapporti di forza tra la classe borghese e la classe proletaria, le due classi sociali determinanti della società. Sappiamo bene che questo non è il quadro di oggi, come non è nemmeno quello della ripresa della lotta di classe del proletariato. Ma è in questa prospettiva che si muovono le forze sociali, e tutto il gran darsi da fare dei partiti democratici – non importa se di sinistra, di destra o di centro, o se estremisti difensori della democrazia contro rigurgiti fascistoidi – perché i proletari si sentano “protagonisti”, ad ogni tornata elettorale, di “scelte” che solo l’ideologia democratica può credere e far credere che siano “libere” e “personali”, è un darsi da fare per intorbidire le acque, per annebbiare le menti e non far vedere che, in realtà, sul palcoscenico della politica borghese si sta interpretando un’ennesima farsa in cui si muovono personaggi che non sono altro che cadaveri di lunga data o appena composti che tentano di rivitalizzare la società putrescente e fetida del capitalismo.  

(1 - continua)

 

 

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