Siria, troppo importante perché le forze in gioco mollino l’osso!

(«il comunista»; N° 152; Gennaio - Marzo 2018)

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Una guerra in cui si incrociano in acerrimi contrasti gli interessi delle potenze locali, in particolare Iran, Israele, Turchia, e gli interessi delle potenze imperialiste, in particolare Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, e dove il regime di Bashar al-Assad, come le diverse milizie jihadiste o “ribelli” che siano, fungono da bassa forza per il lavoro sporco quotidiano

 

Con i bombardamenti a tappeto dell’aviazione di Damasco e di Mosca sulle città di Idlib e di Goutha orientale, come nel 2016 su Aleppo, la tragedia della popolazione civile siriana è tornata sulle prime pagine dei media internazionali. La guerra scatenata nel 2011 in Siria in cui si affrontavano l’esercito governativo di Bashar al-Assad e le milizie “ribelli”, e durante la quale si è inserita l’azione militare dell’Isis che intendeva costituire un nuovo Califfato sul territorio unito tra Iraq e Siria, non avrebbe potuto durare tanto a lungo senza che vi fossero “vincitori” e “vinti” se, alle spalle delle forze militari “regolari” o “irregolari” che combattevano e combattono sul terreno, non ci fossero state e non ci fossero le potenze imperialiste più forti al mondo.

La Siria, come abbiamo più volte affermato, rappresenta una zona strategica al centro del Vicino Oriente – sia per le potenze capitalistiche regionali sia per le potenze imperialiste – e una volta che il regime della famiglia al-Assad ha cominciato a scricchiolare, e dopo una serie di guerre che hanno fatto crollare la stabilità politica e sociale in Iraq e in Libano, è diventata il centro dei più profondi contrasti tra Iran, Israele, Turchia e Arabia Saudita. Per le potenze imperialiste maggiori, il controllo del Vicino e Medio Oriente è storicamente un obiettivo irrinunciabile. Non solo per il petrolio, il cui possesso e controllo rappresenta già di per sé un movente di contrasto e di guerra, ma anche per la posizione di cerniera tra l’Oriente e l’Europa, tra le vie di comunicazione e commerciali che collegano l’Oceano Indiano e il Mediterraneo e attraverso cui è molto più diretto il controllo dei paesi del Nord Africa e del Corno d’Africa. Le potenze imperialiste, infatti, a partire dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dalla Germania, per poi allargarsi agli Stati Uniti e alla Russia (veri “vincitori” della seconda guerra mondiale) non potevano certo lasciare che un territorio così ricco di risorse petrolifere e così strategico fosse a disposizione soltanto delle numerose famiglie e tribù che da secoli si ritagliavano pezzi di potere e di territorio e si scontravano per mantenerli o per allargarli. Il grande capitale, per funzionare e per valorizzarsi, chiede unità di territorio e un’organizzazione sociale e politica che faciliti i suoi interessi. In parte, dopo la seconda guerra mondiale, questo obiettivo è stato raggiunto, ma con i metodi classici degli accordi interimperialisti, disegnando confini di nuovi Stati non secondo un progresso storico dal punto di vista politico, economico e sociale, ma secondo la forza impositiva di ciascun imperialismo, scegliendo di volta in volta, a seconda delle modificazioni dei rapporti di forza in loco e internazionali, quale gruppo o partito sostenere e quale combattere. La potente leva religiosa poteva essere messa al servizio di questo o di quello, l’importante era che gli interessi capitalistici legati alle risorse energetiche ed economiche possedute da quei territori venissero prima di tutto, anche a costo – come d’altra parte è avvenuto fin dal secondo dopoguerra in poi – di aizzare popoli e gruppi etnici gli uni contro gli altri e sostenere, a seconda dell’interesse immediato di un imperialismo o dell’altro, eserciti e organizzazioni terroristiche ora contro i nemici del momento, ora contro gli amici di prima.

In Siria si sta consumando una immane tragedia che non è altro che la continuazione dell’orribile costo in vite umane richiesto dall’imperialismo e che si svolge per mano di tutti i partecipanti ad una guerra di rapina alla fine della quale – se e quando finirà – pezzi di potere e di territorio verranno spartiti tra i “vincitori” del momento, salvo essere rimessi in discussione dalle stesse forze imperialiste qualche anno dopo.

Pochi mesi fa, il presidente russo Putin, dopo che la Russia è intervenuta pesantemente nella guerra di Siria a sostegno del regime di Bashar al-Assad, affermava che la guerra in Siria “era agli sgoccioli” (1). Vinte, ma non eliminate dalla Siria, le milizie dell’Isis, sia per l’intervento americano sia per quello russo, e soprattutto per le battaglie sostenute vittoriosamente sul terreno dai curdi, e con un regime di al-Assad rinato a nuovo potere di controllo su una parte non indifferente della Siria centrale e meridionale, le parole di Putin potevano apparire di buon auspicio. Ma come è avvenuto in Iraq così sta avvenendo in Siria: la guerra continua, i contrasti che si incrociano nel paese e che coinvolgono gli Stati della regione e le potenze imperialistiche non sono per nulla risolti, anzi, stanno prendendo una piega secondo la quale, a parere di molti osservatori internazionali, americani e inglesi in particolare, l’intervento militare delle potenze imperialiste potrebbe essere intensificato e rivolgersi anche direttamente, o per mezzo di Israele, contro l’Iran, alzando di livello il conflitto attuale.

Indiscutibilmente, gli imperialismi più forti e militarmente preparati, a partire dagli Stati Uniti e dalla Russia, non controllano più il mondo come un tempo. Lo sviluppo del capitalismo, con le sue periodiche crisi sempre più acute, fornisce motivi di contrasto sempre più profondi e non c’è area del mondo che non subisca direttamente o indirettamente le conseguenze di questi contrasti. Nella sua fase imperialista, il capitalismo dimostra che ogni Stato industrialmente più potente ha molti più mezzi economici, politici, diplomatici, finanziari, militari per intervenire sui mercati in difesa dei propri interessi, ma ha molti meno mezzi per “risolvere” le crisi economiche e finanziarie in cui lo sviluppo stesso del capitalismo precipita ciclicamente e che sono all’origine dell’intensificazione dei contrasti che pongono ogni Stato contro gli altri. La guerra di rapina, la guerra tra briganti imperialisti non è che la continuazione della politica brigantesca di ogni imperialismo. Ma, come sempre, sono le masse della popolazione civile, sono i proletari e i contadini poveri a subire le conseguenze più tragiche.

Chi si attende dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, o da summit tra i vari briganti, o dagli appelli alla pace che ogni papa distribuisce regolarmente in occasione di ogni guerra, che tacciano le armi e che le coscienze dei briganti comprendano che è più “giusta” la pace della guerra, non fa che illudersi e illudere che le classi dominanti borghesi, se “vogliono”, possono fermare la guerra, come se potessero fermare i crolli in Borsa, la concorrenza sui mercati nazionali e internazionali, i contrasti che la stessa anarchia produttiva capitalistica e la sfrenata corsa al profitto producono ogni minuto secondo.

Per fermare la guerra di rapina, la guerra scatenata dal capitalismo e dai contrasti tra imperialisti, c’è solo un modo: trasformare la guerra imperialista in guerra di classe, come sosteneva Lenin all’epoca della prima guerra mondiale rivolgendosi ai proletari di ogni paese. Certo, oggi non esiste un movimento proletario di classe come al tempo di Lenin a cui rivolgersi direttamente, con la certezza che esso recepisca l’appello perché ne riconosce l’urgenza e la necessità ed ha la forza di porsi in modo organizzato e diretto da un partito di classe all’altezza del compito. Oggi, il proletariato è ancora prigioniero delle illusioni e degli inganni che le classi dominanti borghesi sfornano continuamente per confondere, disorientare, illudere e poi schiacciare i propri proletari. Ma la storia dello sviluppo capitalistico dimostra che una società divisa in classi contrapposte, raggiunto il grado più alto del suo progresso e della sua espansione, irrimediabilmente va incontro al suo declino fino a precipitare nella sua crisi finale per lasciare spazio ad una nuova società, ad una società finalmente non più divisa in classi, ad una società in cui l’organizzazione economica e sociale è indirizzata esclusivamente a soddisfare le esigenze di vita sociale degli esseri umani e non le esigenze di profitto del capitale. La questione è che per abbattere il potere politico delle classi dominanti borghesi e per trasformare il modo di produzione che sta alla base di ogni società, da capitalista a socialista e, infine, comunista, bisogna passare attraverso la guerra di classe, la rivoluzione proletaria e l’instaurazione della dittatura proletaria al posto della dittatura della borghesia. In questa prospettiva, seppur oggi ancora lontana, hanno lottato e combattuto i marxisti, i comunisti rivoluzionari fin dalla metà dell’Ottocento, nella consapevolezza che i tempi storici dello sviluppo delle società umane riguardano sempre molte generazioni. Così è stato per passare dalla società schiavista alla società feudale; così per passare dalla società feudale e quella capitalista, e così sarà per passare dal capitalismo al comunismo, dalla preistoria umana alla storia umana.

I comunisti rivoluzionari finora sono stati sconfitti dai borghesi capitalisti? Sì, nonostante formidabili vittorie, come nel 1871 con la Comune di Parigi e nel 1917 con la Rivoluzione d’Ottobre in Russia. Ma la storia insegna che la società non può essere cambiata né in un giorno, né in un anno, né in una rivoluzione, e che le classi storicamente rivoluzionarie – come fu la borghesia nei confronti dell’aristocrazia e della nobiltà – devono combattere per generazioni prima che le condizioni generali della guerra di classe siano favorevoli alla vittoria definitiva. La nostra certezza che la classe proletaria, l’unica classe rivoluzionaria dell’epoca capitalistica, vincerà non cede allo sconforto o alla delusione perché le prime rivoluzioni proletarie sono state sconfitte. Chi teme per il proprio potere e per la propria sopravvivenza come classe dominante è la borghesia, ed è per questo che fa di tutto per deviare il proletariato dal suo terreno di lotta, quello della lotta di classe e rivoluzionaria. Noi, comunisti rivoluzionari, lavoriamo nella certezza che il proletariato, spinto dalle stesse contraddizioni e crisi del sistema capitalistico e borghese, ad un certo punto non sopporti più l’oppressione che lo schiaccia e si ribelli con l’unico metodo che la storia gli ha svelato: la solidarietà di classe, l’unione di classe, la rivoluzione di classe!

26 febbraio 2018

 


 

(1) Cfr. www.huffington.post.it , 23/ 2/2018.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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