Le crisi capitalistiche dell’Ottocento e del Novecento

(«il comunista»; N° 153; Maggio 2018)

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Senza andare troppo indietro nel tempo, alle origini del capitalismo, e quindi alle origini delle sue crisi – famosa la bolla dei tulipani del 1637 (1) – basterà dare uno sguardo alle grandi crisi capitalistiche dell’Ottocento e del Novecento per comprendere che il capitalismo, nel suo stesso costante sviluppo, non fa che confermare ad ogni crisi quanto sostenuto dal marxismo fin dal Manifesto del 1848, ripreso da noi centinaia di volte: «Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse».

Questi concetti vengono ripresi da Marx più volte nella sua opera maggiore, Il Capitale, come ad esempio nel Libro I: «L’enorme capacità di espansione a grandi sbalzi del sistema di fabbrica, e la sua dipendenza dal mercato mondiale, hanno per effetto necessario una produzione febbrile e quindi una congestione dei mercati, con la contrazione dei quali subentra una paralisi. La vita dell’industria si trasforma in una successione di periodi di vitalità media, prosperità, sovraproduzione, crisi e ristagno. L’insicurezza e l’instabilità, alle quali il sistema di macchine condanna l’occupazione e quindi le condizioni di esistenza dell’operaio, diventano normali con questa variazione periodica del ciclo industriale. Tralasciando le fasi di prosperità, infuria tra i capitalisti la lotta più violenta per la loro parte individuale di spazio sul mercato, parte che è direttamente proporzionale al basso prezzo del prodotto. Oltre alla rivalità, così scatenata nell’impiego di macchinario perfezionato che sostituisce forza lavoro, e di nuovi metodi di produzione, interviene ogni volta un punto in cui si cerca affannosamente di ridurre il prezzo della merce mediante forzata compressione del salario al di sotto del valore della forza lavoro» (Libro I, cap. XIII, par. 7).

E ancora, sempre nel Capitale, Marx precisa ulteriormente: «Si producono periodicamente troppi mezzi di lavoro e troppi mezzi di sussistenza per farli funzionare come mezzi di sfruttamento degli operai a un certo tasso di profitto. Si producono troppe merci per poter realizzare e riconvertire in nuovo capitale il valore in esse contenuto, e il plusvalore ivi incluso, nelle condizioni di distribuzione e di consumo date dalla produzione capitalistica, cioè per compiere questo processo senza esplosioni costantemente ricorrenti. Non si produce troppa ricchezza. Ma si produce periodicamente troppa ricchezza nelle sue forme capitalistiche, antagonistiche» (Libro III, cap. XV, par. 3).

Da questi brani non si può non dedurre che il destino della società borghese è segnato, e gli stessi borghesi, per quanto si arrampichino sugli specchi per trovare delle soluzioni affinché le crisi economiche e finanziarie del capitalismo siano finalmente domate, sono costretti ad ogni crisi a riporsi il problema di quali strumenti adottare per far sì che la devastazione prodotta dalle crisi non si riproduca, ma devono ogni volta ammettere che gli strumenti adottati non risolvono mai il problema. Allora come uscirne? Continua il Manifesto, concludendo il concetto sopra riportato: «Le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa. Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari» (2), che con la loro rivoluzione atterreranno finalmente il capitalismo, aprendo il cammino storico al superamento definitivo di ogni società divisa in classi.

Le crisi periodiche del capitalismo – scrivevamo, ad esempio, nel rapporto alla riunione generale di partito del maggio 1975 (3) – non sono dunque “accidentali” nella vita del capitale: le sono inerenti e necessarie come la respirazione alla vita dell’uomo. Esse mandano regolarmente in fumo tutti i vantaggi che il capitale pretendeva di “garantire” alla classe operaia nei periodi di espansione: fanno dell’incertezza e dell’instabilità la situazione normale della classe operaia e ne aggravano periodicamente le condizioni di vita perché si concludono sempre nell’invio sul lastrico di una parte dei proletari e nella riduzione del salario per il loro insieme. Questi semplici brani di Marx vibrano solenni ceffoni a tutti gli opportunisti, i quali vorrebbero fra credere che il capitale ed il suo Stato possano “garantire” alcunché alla classe lavoratrice o che sia interesse di quest’ultima “difendere l’economia nazionale” o “l’azienda”, mentre le economie nazionali e le aziende si difendono proprio a colpi di licenziamenti e bassi salari.

 

Le crisi capitalistiche dell’Ottocento

 

Il XX secolo, dopo che già per ben 13 volte la crisi del sistema capitalistico aveva accompagnato il suo sviluppo nel secolo XIX, si aprì con la crisi del 1907 (nota come Panico del 1907), crisi che è stata preceduta da una fitta serie di crisi, in particolare negli Stati Uniti, di cui può essere utile fare un breve quadro.

1857 (bolla speculativa delle imprese ferroviarie statunitensi); 1866 (bancarotta della banca britannica Overend, Gurney and Company); 1873 (inizio della grande depressione del XIX secolo, iniziata con la crisi della borsa di Vienna, rimbalzata negli Stati Uniti col fallimento della grande banca newyorkese Jay Cooke & Company e poi diffusasi in Gran Bretagna, Francia e Germania); 1884 (siamo nel periodo della depressione 1882-1885, quando in Europa erano esaurite le riserve d’oro e il Dipartimento del tesoro degli Stati Uniti bloccò gli investimenti in tutto il paese, mandando in fallimento importanti società di investimento e moltissime aziende); 1890 (crisi economica e finanziaria che ha colpito l’Argentina, dovuta ad un eccesso di credito irrestituibile che mandò in crisi il Banco Nacional e la filiale argentina della Barings Bank collegata alla Banca d’Inghilterra); 1893 (negli Stati Uniti, 500 banche chiuse, 15.000 imprese fallite, disoccupazione al 25% in Pennsylvania, al 35% a New York, al 43% nel Michigan e, in contemporanea crollo del prezzo del grano causato dalla crisi argentina del 1890); 1893 (crisi bancaria in Australia dove nei due/tre anni precedenti affluirono montagne di capitali, soprattutto dall’estero, attratte da interessi e profitti strabilianti, tanto che questa esuberanza di capitale disponibile produsse un movimento generale di speculazione bancaria, mineraria e soprattutto fondiaria).

In tutti i trattati di economia si rileva che il capitalismo, verso gli ultimi decenni dell’Ottocento, in particolare negli Stati Uniti che, all’epoca, insieme alla Germania, stavano entrando nel mercato internazionale con capacità produttive mai riscontrate prima, si infilò in un periodo di crisi particolarmente lunga a cui venne dato il nome di Grande Depressione, cioè del periodo che va dal 1873 al 1896. Si trattò in effetti di una crisi le cui conseguenze modificarono gli equilibri precedenti: nel decennio 1870-1880 il predominio economico inglese, basato sul cosiddetto “imperialismo del libero commercio”, finisce e, nello stesso tempo, come detto poco sopra, Stati Uniti e Germania, grazie all’aumentata capacità produttiva, invadono i mercati esteri con le proprie merci, aumentando considerevolmente la concorrenza con le potenze capitalistiche più vecchie, Gran Bretagna e Francia, mentre nel mercato cominciavano a pesare anche altri paesi, ad industrializzazione più lenta ma significativa, come l’Italia, la Russia e il Giappone. L’aumento della produttività industriale lo si deve al concentrarsi, in un breve periodo, di innovazioni e scoperte tecnologiche fondamentali per l’economia; dopo il 1870 si è sviluppata l’età dell’acciaio, dell’elettricità, del petrolio, della chimica, settori che richiedevano alta intensità tecnologia e cospicui capitali, e il cui sviluppo poggiava su una produzione costante e di massa scientificamente organizzata per ottenere il massimo risultato di produttività ai costi minimi. Ma tale sviluppo industriale richiedeva un fabbisogno sempre crescente di capitale che non poteva essere soddisfatto se non attraverso il finanziamento bancario diretto o il ricorso alla borsa che è il luogo in cui si contrattano i titoli, privati o pubblici che siano. Le aziende tendono così a concentrarsi, a diventare società per azioni, azioni che vengono vendute in borsa per finanziare le imprese; aumenta inevitabilmente il peso del capitale finanziario controllato dalle banche che, a loro volta, impossessandosi dei pacchetti azionari di maggioranza, determinano il successo o l’insuccesso delle imprese. Il capitale finanziario prende così sempre più il predominio sul capitale industriale, agricolo e commerciale, e tale capitale finanziario, essendo meno sottoposto ai tempi obbligati della produzione industriale o agricola, richiedendo più velocità di circolazione e, quindi, di valorizzazione, si predispone a passare con velocità crescente da un settore di investimento ad un altro, da un paese all’altro, da una borsa all’altra, da una speculazione all’altra, aumentando in questo modo i fattori di rischio e di crisi; insieme alla sovraproduzione di merci si assiste così ad una sovraproduzione di capitali. Il mondo borghese, costretto nelle maglie del capitalismo e delle sue leggi, mentre progredisce tecnologicamente e scientificamente in un settore, produce nello stesso tempo fattori di crisi a tutti i livelli – industriale, agricolo, commerciale, valutario, finanziario, sociale – che non sono altro che crisi di sovraproduzione nelle quali «la società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie – come si legge nel Manifesto del 1848! (4)  –; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussitenza, troppa industria, troppo commercio»: troppa civiltà, troppi mezzi di sussitenza, troppa industria, troppo commercio per un mercato mondiale che non riesce ad assorbire, ai prezzi che garantiscano un tasso medio di profitto ai capitalisti, tutte le merci e tutti i capitali che il capitalismo produce. Il problema non sta nel progresso tecnologico e scientifico, sta nel fatto che questo progresso è costretto nelle maglie delle leggi economiche e politiche del capitalismo. 

Dal 1873 al 1896, dicevamo, si sviluppano in pratica tre fasi di recessione economica derivanti da quel fenomeno che il marxismo aveva già individuato, e che la stessa borghesia dovrà ammettere, chiamato crisi di sovraproduzione. 1873-79, 1882-1884, 1890-1896, sono tre periodi, a breve distanza uno dall’altro, in cui si verificarono in contemporanea sia una crisi industriale che una crisi agricola. Crisi industriale: determinata da un enorme aumento della capacità produttiva e un mercato che non riesce ad assorbire la quantità di merci prodotte; quindi, ad un eccesso di produzione corrisponde un forte squilibrio tra l’offerta e la domanda, provocando un abbattimento dei prezzi, un calo dei profitti delle grandi industrie, fallimenti in serie e aumento della disoccupazione nei maggiori paesi industrializzati. Crisi agricola: la elevata produttività agricola non solo nei paesi di vecchio capitalismo, ma soprattutto nei paesi a capitalismo più giovane (Stati Uniti, Argentina, Australia, Nuova Zelanda), e il miglioramento dei trasporti navali e ferroviari, fanno affluire sul mercato europeo ingenti quantità di cereali a basso costo; si assiste perciò ad un forte calo dei profitti dei prodotti cerealicoli europei, a insistenti richieste di intervento statale in economia e a protezione dei mercati interni e, quindi, alla fine del liberoscambismo e all’inizio di un marcato protezionismo da parte della maggioranza dei paesi europei. Queste crisi, per conseguenza, provocano un gigantesco flusso migratorio dai paesi europei verso i paesi d’oltreoceano (soprattutto Stati Uniti, Canada, Argentina, Brasile). Le crisi, ovviamente, non toccano soltanto le merci e i capitali, ma anche le classi meno abbienti e proletarie che, spinte dalla necessità di sopravvivere, sono costrette a spostarsi verso i paesi in cui, all’epoca, appariva più probabile soddisfare quelle necessità. D’altronde, è esattamente quello che succede dagli anni ’80 del Novecento in poi ad intere popolazioni africane e asiatiche che, perdipiù, non cercano soltanto di fuggire dalla fame ma, molto più spesso, dalle guerre e dalle loro devastazioni.

 

Le crisi capitalistiche del Novecento e la Grande Depressione

 

Dal 1896 al 1906 si assiste ad un periodo di generale ripresa economica, grazie alla quale i diversi Stati stabiliscono una serie di accordi con i quali tentavano di controllare lo sviluppo del capitalismo per non cadere più nelle crisi conosciute nel secolo XIX. Ma la crisi del 1907 porta nuovamente in evidenza  le sempre più forti contraddizioni del sistema economico capitalistico.

La crisi finanziaria del 1907 negli Stati Uniti, conosciuta anche come Panico dei banchieri del 1907, scoppia all’interno di un periodo di recessione economica tra il maggio 1907 e il giugno 1908 in cui la lunga contrazione economica presentava un -11% per la produzione, un -26% nelle importazioni, mentre la disoccupazione saliva dal 3% all’8% e perfino l’immigrazione, che rappresentava un vantaggio per un’economia affamata di braccia da sfruttare, scese a 750.000 persone nel 1909 rispetto al milione e 200 mila del 1907. Nell’ottobre del 1907 fallisce un tentativo di manipolazione del prezzo della azioni della United Copper Company; le banche che avevano prestato il denaro per la speculazione subirono una vera e propria corsa agli sportelli da parte dei correntisti, corsa che si diffuse ad altre banche e società fiduciarie affiliate, portando in una sola settimana al collasso la terza fiduciaria di New York per dimensione, la Knickerbocker Trust Company. Il panico si diffuse rapidamente in tutta la nazione, ma l’intervento del finanziere J.P. Morgan (già intervenuto in soccorso del Dipartimento del Tesoro durante la crisi del 1893), che impegnò grandi somme di sua personale proprietà e convinse altri banchieri a fare lo stesso, riuscì a salvare il sistema bancario. Non esisteva ancora una banca centrale in America, ma l’anno dopo, sotto la presidenza di Roosevelt, fu istituita e prese il nome di Federal Reserve.

Nel 1910, una serie di operazioni speculative nel mercato azionario di Shanghai lo mandarono in crisi. Queste speculazioni riguardavano le azioni della gomma. L’industria automobilistica mondiale stava crescendo, e i due paesi che primeggiavano nell’esportazione della gomma, gli Stati Uniti (57 milioni di $ nel 1908, 70 milioni di $ nel 1909) e la Gran Bretagna (840mila £ nel 1908, 1,41 mln di £ nel 1909), stimolarono i prezzi della gomma. La grande richiesta di gomma per le industrie automobilistiche sollecitò gli speculatori di borsa, e così anche il mercato azionario di Shanghai relativo alle riserve di gomma fu investito da questo vento di facili guadagni e le banche cominciarono a prestare capitali per acquisirne i titoli. Ma a metà anno gli Stati Uniti adottarono una politica di blocco del consumo di gomma, a giugno il prezzo della gomma calò drasticamente sul mercato internazionale facendo fallire, a luglio, tre banche cinesi. All’inizio del 1910 a Shanghai c’erano 91 banche cinesi; questa crisi finanziaria ne fece fallire 48; nell’importante provincia di Zhejiang chiusero 18 banche e cinque società finanziarie su sei. Il prezzo della gomma non risalì più, nemmeno allo scoppio della prima guerra mondiale.

Ma è la grande crisi scoppiata nell’ottobre del 1929 che è stata considerata da tutti i governi imperialisti, e dagli economisti di grande o piccola fama, come la crisi capitalistica mondiale di riferimento, quella che ogni Stato teme e deve temere e che perciò cerca di “scongiurare”: i poteri borghesi riconoscono in essa la micidiale devastazione di risorse produttive, economiche, finanziarie e umane che quella crisi provocò, non solo negli Stati Uniti – per la quale ripresero la denominazione di Grande Depressione  usata per il periodo di fine Ottocento – ma in tutto il mondo capitalistico sviluppato. I dati che riprendiamo qui di seguito sono ricavati da alcuni studi accennati in nota (5).

La causa fondamentale della crisi del 1929 è la stessa che ha prodotto le crisi capitalistiche precedenti: la sovraproduzione di merci e di capitali. Ma quella del 1929 assume caratteristiche decisamente particolari in quanto le sue cause e i suoi effetti furono immediatamente mondiali. Tutte le cosiddette “grandezze economiche” che definiscono lo stato di progresso o di regresso dell’economia di un paese (produzione, occupazione, redditi, salari, consumi, investimenti, risparmi) si ridussero notevolmente e non solo negli Stati Uniti, ma in tutti i paesi capitalistici avanzati. Il crollo della borsa di Wall Street nel famoso giovedì nero (il 24 ottobre 1929), seguito da un venerdì nero, da un lunedì nero, da un martedì nero ecc. ecc., non è stato che un forte segnale dei fattori di crisi che si erano accumulati negli anni precedenti. Dal 24 ottobre, in cui ben 13 milioni di azioni vennero vendute a prezzi molto più bassi di quelli d’acquisto, al 29 ottobre (il famoso martedì nero), in cui le azioni vendute a bassissimo prezzo sono state 16 milioni: in neanche una settimana, il crollo di Wall Street accese la miccia per il crollo di tutte le borse mandando in crisi l’economia mondiale, con effetti che non potevano certo risolversi in poco tempo; infatti la crisi economica generale durò fino al 1933, quando l’economia mondiale cambiò direzione con una ripresa che non sarebbe durata a lungo  visto che nel 1939 le grandi potenze imperialiste si scontrarono nuovamente nella seconda guerra mondiale.

Come dicevamo, l’origine della crisi generale scoppiata nell’ottobre del 1929 va cercata nel periodo del primo dopoguerra. La prima guerra imperialista mondiale aveva di fatto sconvolto tutti gli equilibri interimperialisti precedenti; d’altra parte, come sottolineava Lenin, la guerra mondiale non era che lo scontro tra gli interessi mondiali delle più forti economie imperialiste per spartirsi il mondo: i vincitori avrebbero dettato le nuove condizioni della spartizione, i vinti avrebbero dovuto subirle, ma nella consapevolezza di entrambi che quelle condizioni sarebbero state rimesse in discussione negli anni successivi, in ragione dello stesso sviluppo del capitalismo e della modificazione dei rapporti di forza tra i diversi paesi imperialisti.

 Fino allo scoppio della prima guerra mondiale, la Gran Bretagna era stata il “banchiere del mondo” e la sua sterlina era stata il pilastro del sistema monetario internazionale: infatti tutti i prodotti era prezzati in sterline. La Gran Bretagna, proprio per la sua posizione economica e finanziaria rispetto a tutti gli altri paesi, era anche il principale centro assicurativo del mondo (i famosi Lloyds di Londra) e, grazie alla sua enorme flotta mercantile, era anche al centro del mercato dei noli. Ma con la guerra, il paese, per essere all’altezza dei compiti di dominio mondiale che intendeva mantenere, dava fondo a tutta la sua potenzialità economica e finanziaria per prepararsi alla guerra che non si sarebbe svolta soltanto in Europa – anche se inevitabilmente l’Europa era al centro di tutti i maggiori contrasti interstatali – ma avrebbe colpito tutti i mercati mondiali sui quali i paesi imperialisti più aggressivi, come gli Stati Uniti e il Giappone stavano conquistando spazi sempre più importanti; paesi che, a differenza della Gran Bretagna, rivelavano un incremento maggiore in tecnologia, in innovazioni applicate ai processi industriali e all’apparato produttivo complessivo, il che li poneva come i suoi maggiori concorrenti sul mercato mondiale. In Europa, d’altra parte, era la Germania a rappresentare il più temibile concorrente che, nel frattempo, rafforzata la sua economia e la sua alleanza con l’Austria e l’Italia, per sopravvivere e per sviluppare le sue ambizioni imperialiste doveva forzatamente opporre alle potenze che da ovest e da est avrebbero potuto schiacciarla, e spartirsela, il massimo della sua aggressività economica e militare.

A parte la minaccia rappresentata dal movimento rivoluzionario del proletariato, che in Russia con la vittoria dell’Ottobre 1917 aveva dato il via ad un corso storico mondiale che avrebbe potuto cancellare per sempre non solo il dominio delle maggiori potenze capitalistiche in Europa, ma il capitalismo stesso come sistema di produzione e organizzazione sociale, resta il fatto che l’economia capitalistica, pur precipitata nella crisi economica e di guerra, dimostrò tutta la sua formidabile resistenza al declino e alla morte. La guerra stessa, con le sue devastazioni e la distruzione di enormi masse di prodotti, di capitali e di uomini, poteva essere l’occasione storica, vista la rinascita del movimento comunista internazionale sotto la guida del partito bolscevico e dell’Internazionale Comunista, per trasformare in ogni paese – secondo la prospettiva lanciata da Lenin – la guerra imperialista in guerra civile, in guerra rivoluzionaria. Quell’occasione fu colta solo in parte: la rivoluzione in Russia, l’instaurazione della dittatura proletaria esercitata dal partito bolscevico di Lenin, la spinta  e l’appoggio al movimento proletario in Europa e nel mondo perché avanzasse nella preparazione della rivoluzione comunista, erano effettivamente indirizzati verso la rivoluzione internazionale – rivoluzione che mise in moto anche le popolazioni dei paesi arretratissimi che all’ordine del giorno avevano innanzitutto la rivoluzione antifeudale e antidispotismo asiatico, prima ancora che la rivoluzione proletaria, ma che con il loro movimento contribuivano a mettere in serissima difficoltà le potenze imperialiste che le dominavano –; spinta e appoggio che furono fermati non solo dagli aperti e dichiarati nemici di classe, i poteri borghesi che decuplicarono la loro forza economica, sociale, politica e militare di resistenza, ma anche dalle forze dell’opportunismo socialsciovinista e collaborazionista che, lavorando dall’interno dei proletariati di ogni paese e dei partiti che stavano alla loro testa, rappresentarono un micidiale cancro che svuotò sistematicamente le loro organizzazioni del contenuto di classe che le caratterizzava, trasformandole in organizzazioni di aperto sostegno della politica di conservazione borghese o eliminandole se resistevano a questo attacco controrivoluzionario.

E uno degli esempi di rinascita della virulenza imperialista, grazie alla guerra mondiale, lo diedero proprio gli Stati Uniti che, tra l’altro, non avevano subito le distruzioni che invece subirono tutti i paesi europei. La vittoria contro gli Imperi centrali, mentre aveva comunque indebolito Gran Bretagna e Francia, pose gli Stati Uniti in una situazione di estremo vantaggio. La partita che aveva in palio il dominio sul mondo si giocava in particolare tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, alleati in guerra ma sul mercato mondiale concorrenti agguerritissimi. La Gran Bretagna, alla fine della guerra, si ritrovò più debole sul piano produttivo ma anche su quello finanziario, mentre gli Stati Uniti, cresciuti notevolmente sul piano economico e finanziario, da paese “debitore” erano diventati un paese “creditore” dell’Europa (gli Stati Uniti, tra il 1924 e il 1929, investirono 6.400 miliardi di dollari all’estero, ma soprattutto in Germania e nell’Europa dell’est). Fenomeno, quest’ultimo, che si ripresentò anche alla fine della seconda guerra imperialistica. Wall Street, il mercato finanziario di New York, si poneva così in alternativa alla Borsa di Londra, facendo lentamente perdere forza a quest’ultima, soprattutto sul piano del credito. Nel 1920 la sterlina si era svalutata rispetto al dollaro statunitense intorno al 22% e le politiche monetarie adottate da Londra non riuscirono a riportare la sterlina ai valori prebellici, anzi facilitarono la caduta dei prezzi interni e dei tassi di profitto e di interesse rispetto a quelli esteri, indebolendo le esportazioni e, ovviamente, facendo aumentare le importazioni. L’economia britannica andò verso una crisi molto grave che ebbe conseguenze sul piano sociale in termini di disoccupazione, abbattimento dei salari, restrizione delle “garanzie” normative precedentemente ottenute dai sindacati; da qui la reazione proletaria con il lungo sciopero dei minatori del 1926, e quelli di solidarietà dei portuali e di molti altri settori; scioperi che però non favorirono la ripresa della lotta di classe finalizzata alla rivoluzione come sarebbe stato negli auspici dell’Internazionale Comunista di Lenin, ma che furono invece deviati nelle infinite negoziazioni tra i vari sindacati di categoria e il governo, e nel collaborazionismo.

Gli Stati Uniti, al contrario, registrarono un vero e proprio boom economico fino al 1929. La macchina produttiva statunitense si sviluppava freneticamente in diversi settori: nell’edilizia e nelle industrie collegate; nell’automobile e nelle industrie collegate del petrolio, dell’acciaio, della gomma; nelle infrastrutture stradali e nei trasporti su gomma; nell’industria elettrica (la cui produzione raddoppiò tra il 1923 e il 1929). Gli stessi processi produttivi subirono una razionalizzazione che determinava uno sfruttamento più scientifico della manodopera salariata, abbattendo i cosiddetti “tempi morti” (il famoso “taylorismo”) e riducendo al massimo i movimenti da parte dei lavoratori, movimenti ritenuti inutili (un esempio su tutti: la catena di montaggio che Henry Ford adottò nella sua industria automobilistica). Nel 1920 gli Stati Uniti producevano 2,3 milioni di automobili, e nel 1923 salivano a 3,7 milioni di veicoli; la Francia, che nel 1920 era il secondo produttore di auto al mondo, ne produceva 40.000; l’auto, mentre in Europa era un prodotto di lusso, in America era già un prodotto di massa (nel 1929, il 55% delle famiglie americane ne possedeva una). E così per gli apparecchi radio, i frigoriferi, le lavatrici, i ventilatori: tra il 1922 e il 1929 questi elettrodomestici passavano da 60.000 a 10 milioni e 250 mila. E la cinematografia americana, attraverso le grandi case produttrici di Hollywood, conquistava una vera supremazia nel mondo, diffondendo il messaggio che ormai era l’american way of life, il faro per lo “stile di vita” moderno...

Il reddito nazionale negli Stati Uniti (ossia il valore dell’intero prodotto di un anno del sistema economico di un paese, ossia produzione, distribuzione, servizi, consumi, risparmi, investimenti ecc.) tra il 1923 e il 1929 aumentò del 23%, contro un aumento della popolazione del 9% e della forza lavoro dell’11%. La disponibilità di capitali era enorme e gli Stati Uniti la usarono per concedere prestiti non solo ai paesi europei che, usciti dalla guerra in condizioni pessime, avevano estremo bisogno di capitali freschi per riattivare le loro macchine produttive, ma anche al Canada, ai paesi dell’America Latina e dell’Asia. Tra il 1925 e il 1929 gli Stati Uniti prestarono all’estero circa 3 miliardi di dollari e siccome le monete erano tornate ad ancorarsi all’oro, e il dollaro funzionò come moneta equiparabile all’oro, gran parte dell’oro del mondo si concentrò a Fort Knox, che nel 1929 aveva nei suoi forzieri il 38% dell’oro del mondo.

La Germania, paese vinto nella guerra mondiale, ma dalla civiltà industriale ed economica di prima categoria, fu il paese europeo che più di tutti beneficiò dei prestiti americani, grazie ai quali potè riprendersi dal crollo economico nel dopoguerra. Molti dei capitali americani prestati alle industrie e alle banche tedesche, investiti perciò nell’economia tedesca, furono utilizzati non solo per riattivare l’apparato produttivo tedesco, ma come in ogni economia avanzata, furono reinvestiti nella più attraente borsa del mondo, quella di New York (tra il 1924 e il 1925, il numero dei valori scambiati raddoppiò); è così che i capitali speculativi, confidando nel ritmo e nell’intensità dello sviluppo statunitense, furono sorpresi dal crollo di Wall Street nell’ottobre 1929.

In realtà, l’eccezionale sviluppo del credito, generalmente erogato da banche private e quindi legato solo a calcoli di profitto immediato, serviva all’economia statunitense sia per poter piazzare nel proprio mercato interno il massimo dell’enorme quantità di prodotti fabbricati, sia per aumentare con virulenza le esportazioni soprattutto verso il mercato europeo; e quando, su questo versante, i capitali prestati non riuscivano a valorizzarsi secondo le aspettative delle banche prestatrici di denaro, prendevano inevitabilmente la via della speculazione borsistica: solo nel 1928 il volume dei titoli in movimento nella Borsa di New York passò da 433 a 757 milioni, portando il valore globale delle quotazioni in Borsa da 27 a 67 miliardi. Insomma, la grande capacità produttiva, abbinata alla grande disponibilità di capitali da investire, porta l’economia americana ad un eccesso di offerta – come l’hanno chiamata gli economisti – che mette in crisi tutti i mercati che non riescono ad assorbirla e, quindi, a dare continuità al ciclo di valorizzazione dei capitali. L’eccesso di offerta non è che sovraproduzione: la crisi di sovraproduzione, prevista da Marx fin dal 1848, si ripresentò, ma questa volta con una potenza molto più elevata di quanto non fosse accaduto negli ultimi cinquant’anni dell’Ottocento, provocando una crisi che durò dal 1929 al 1932 con effetti devastanti su tutte le economie del mondo. Non poteva non succedere: il capitalismo statunitense non esportò solo merci e capitali nel mondo, ma anche la crisi. Negli USA il PIL in quegli anni calò del 47%, in Italia il calo fu del 33%, in Francia del 28%, in Germania, il paese europeo più colpito, del 47%. I grandi paesi che non furono toccati direttamente, e con gli stessi effetti, da questa crisi furono l’URSS, data la sua chiusura al mercato internazionale, chiusura che però terminò con la sua partecipazione alla seconda guerra imperialista mondiale, e il Giappone, in cui i capitali americani non erano ancora particolarmente presenti.

 L’economia internazionale praticamente era tenuta in piedi dall’economia americana e dal capitalismo finanziario americano, e nel momento in cui gli Stati Uniti, a causa del crollo di Wall Street, cominciarono a richiamare i capitali prestati a breve termine per far fronte alla crisi nel proprio paese, sottraendoli alle attività in cui erano stati investiti, sia nel mercato nazionale che nel mercato internazionale, la crisi si diffuse in tutto il mondo. La crisi finanziaria si propagò rapidamente sull’economia reale, in tutti i paesi, e nel triennio successivo, tra il 1930 e il 1932, la crisi toccò livelli mai visti prima.

I dati riportati qui di seguito possono dare un’idea della portata della crisi mondiale di allora.

Posta uguale a 100 la produzione industriale del 1929, ecco la situazione nei paesi più sviluppati al 1932: Stati Uniti 53; Germania 53; Canada 58; Polonia 63; Cecoslovacchia 64; Italia 67; Belgio 69; Francia 72, Ungheria e Romania 82, Gran Bretagna e Olanda 84; Svezia 89; Norvegia 93; Giappone 98; URSS 183.

Anche il dato della disoccupazione dà un segnale ben preciso della crisi sociale innestata dalla crisi economica: nel 1929 in Gran Bretagna il tasso di disoccupazione supera il 10%, in Germania il 13,4%, negli Stati Uniti intorno al 20%, ossia dai 2 milioni circa del 1929 agli oltre 13 milioni del 1932. I salari americani diminuirono in media del 40%, i prezzi del 20%; le importazioni passarono dai 4400 mln di dollari del 1929 ai 1323 mln di dollari nel 1933 e le esportazioni, nello stesso periodo, da 5240 a 1610 mln di dollari.

Come reagirono gli Stati Uniti alla crisi? “Difendendo” prima di tutto la propria economia: rimpatriarono massicciamente i crediti erogati all’estero, danneggiando soprattutto Germania e Austria, oltre che la Gran Bretagna, paesi in cui avevano maggiormente esportato i propri capitali; istituirono un’alta tariffa doganale sulle importazioni, inasprendo in questo modo il protezionismo, inducendo gli altri paesi a fare altrettanto e, imponendo molti limiti alle varie categorie di merci importate, colpirono le economie di tutti gli altri Stati nello stesso momento in cui, attraverso le vendite nel mercato più ricco del mondo, avrebbero potuto far fronte, se non estinguere del tutto, i propri debiti in dollari. Ovviamente la risposta protezionista da parte degli altri Stati non si fece attendere: iniziarono Germania e Francia, seguì la Gran Bretagna che nel 1931 impose anch’essa dazi del 50% su diverse categorie di merci, e via via gli altri paesi. Ogni paese tendeva a chiudersi nei propri confini e a mantenere i rapporti commerciali internazionali nei limiti ritenuti necessari, adottando al proprio interno politiche di dura contrazione dei salari e, quindi, dei consumi, ma tentando di compensare queste politiche con la più larga collaborazione tra capitalisti e operai dando in cambio alcune “garanzie” alle masse lavoratrici sul piano sociale (l’Italia fascista, per prima, adottò la politica degli “ammortizzatori sociali” che poi divenne la caratteristica delle politiche sociali non solo nella Germania hitleriana, e in parte nella Russia staliniana, ma, dopo la seconda guerra imperialista mondiale, in tutti i paesi capitalisti del mondo). Tra il 1929 e il 1933 il commercio mondiale registrò una forte contrazione, il 61% circa. Lo scontro economico e finanziario tra gli Stati Uniti e il resto del mondo aumentò di forza ogni anno che passava e, inevitabilmente, si preparavano i fattori di crisi militare che nel 1939 portarono allo scoppio della seconda guerra imperialista mondiale.

Negli Stati Uniti, gli effetti della crisi portarono la classe dominante borghese a ripensare profondamente la propria politica economica e finanziaria. Allo sfrenato liberalismo, che aveva spinto gli ambienti economici e finanzari di punta a lanciarsi nel vortice delle attività speculative attraverso le quali accumulare rapidamente facili guadagni, non poteva che esserci una risposta tendenzialmente opposta che prese il nome di New Deal (Nuovo corso), con il quale gli Stati Uniti, sotto la presidenza di T.D. Roosevelt, tra il 1933 e il 1938, avviarono un processo di riforma economica con il quale tentarono di affrontare e “risolvere” i problemi posti dalla Grande Depressione del 1929-1932. Questo nuovo corso consisteva in pratica nel caratterizzare l’economia del paese con un deciso intervento e controllo da parte dello Stato; né più né meno di quello che tentarono di fare il fascismo in Italia e il nazismo in Germania. «Tutta l’economia capitalistica nel periodo successivo alla prima guerra mondiale – scrivevamo nel 1946 (6) – si è orientata verso forme generalizzate di intervento e di controllo statale, e l’esperimento totalitario nazifascista ha, allo stesso modo dell’esperimento americano del New Deal, assolto la funzione di permettere e favorire l’accumulazione capitalistica e di controbilanciare le forze determinanti della caduta tendenziale del saggio del profitto in una fase caratterizzata dal succedersi di violente crisi economiche e perciò dalla ricorrente minaccia di altrettanto violente crisi sociali». Il tentativo, quindi, era di dimostrare agli stessi capitalisti e alle classi lavoratrici che dalla crisi economica e sociale in cui il sistema li aveva precipitati si poteva uscire grazie a politiche economiche e sociali più rigorose e per le quali i capitalisti stessi dovevano avere “meno libertà” nell’accumulare ricchezze affidandosi soltanto agli alti e bassi del mercato. I provvedimenti del New Deal possono essere sintetizzati così: avvio di una vasta serie di lavori pubblici, allo scopo di ridurre la disoccupazione; sussidi agli agricoltori perché diminuissero la produzione o perché distruggessero una parte del raccolto per evitare la caduta dei prezzi; rilancio industriale affidato ad un Ente nazionale per la ripresa industriale (una sorta dell’IRI fascista) e controllo dei prezzi attraverso dei codici di “concorrenza leale” per la quale si stabilivano per legge minimi salariali e un numero fisso di ore lavorative settimanali; l’espansione della spesa statale provocava un inevitabile aumento del debito pubblico, perciò fu eliminato il pareggio del deficit statale rispetto agli introiti e si stampò carta moneta oltre al rapporto precedente con le riserve auree, svalutando il dollaro cosa che facilitò le esportazioni; si fissarono indennità per la disoccupazione, per l’invalidità e le pensioni di vecchiaia; imposte progressive sui redditi; riconoscimento giuridico dei sindacati. Dunque, l’aperta politica di collaborazione tra le classi veniva in questo modo decretata ufficialmente anche negli Stati Uniti, aprendo anche in questo grande paese l’epoca del Welfare State, dello Stato assistenziale.

«L’interventismo statale – scrivevamo nel 1981 a proposito della politica economica borghese in tempo di crisi, tipo quella del 1929 (7) – quello che impropriamente si chiamò il “capitalismo organizzato”, “organizzando” entro certi limiti le economie nazionali, rinviò senza dubbio la crisi. Ma la generalizzò, nella misura in cui la posta in gioco era la lotta per la sopravvivenza di interi capitali nazionali impegnati a riversare sui fratelli-nemici la propria sovrabbondanza di merci e a difendere interessi estesi a tutto il pianeta. Ora – anche a prescindere da antagonismi politici e strategici – è inevitabile che tutto ciò sfoci in un conflitto mondiale destinato a non potersi più svolgere su un piano puramente economico. E’ dunque la stessa struttura economica dell’imperialismo che rende ineluttabile la guerra imperialistica mondiale. E questa guerra completa la massiccia distruzione di capitale e, anche, di forze lavoro, di cui il capitalismo ha bisogno per rigenerarsi».

Quella specifica politica del New Deal poteva risolvere la crisi di sovrapproduzione? Ovviamente no, visto che ogni capitalismo nazionale tendeva a scaricare sugli altri la propria sovraproduzione di merci e di capitali. L’aumento del deficit statale non poteva non portare con sé altri fattori di crisi; negli anni stava aumentando troppo e perciò nel 1937 il governo di Washington cominciò a restringere la spesa statale e, con essa, cominciarono ad indebolirsi anche gli ammortizzatori sociali instaurati nel 1933 e i capitalisti stessi tendevano a riprendersi un po’ del terreno perduto sul piano delle proprie “libertà” di movimento arrivando addirittura ad uno “sciopero bianco del capitale” (come venne definito), che consistette in un decremento consistente degli investimenti. Aumentò nuovamente la disoccupazione e il governo ricorse nuovamente, per evitare tensioni sociali troppo forti, ad un aumento della spesa pubblica. 1938: siamo alla vigila della seconda guerra mondiale, Germania e Giappone rappresentavano una seria minaccia per gli altri paesi europei e per gli Stati Uniti, perciò Washington avviò un forte incremento delle spese per gli armamenti, cosa che all’immediato ridusse la disoccupazione ma in previsione di un massacro mondiale. «La concorrenza internazionale – continua l’articolo appena citato – aveva raggiunto un tale grado di asprezza, che a poco a poco tutte le nazioni erano passate, prima, al protezionismo, poi ad una più o meno radicale autarchia. Il commercio mondiale si era rapidamente rattrappito, l’economia mondiale si era frantumata in più blocchi ognuno raccolto intorno ad una enorme potenza imperialistica e caratterizzato da numerosi aspetti semi-autarchici. Erano sorte zone economiche che prendevano nome dall’imperialismo in esse dominante: blocco della sterlina, blocco del dollaro, blocco dello yen ecc.; ognuna di esse cercava di mobilitare le riserve nazionali, di creare una domanda artificiale mediante una politica di spese a largo raggio e, quindi, di indebitamento dello Stato, di sostenere interi rami d’industria pericolanti; ognuna di esse lanciava ambiziosi programmi pubblici di assorbimento della disoccupazione, fissava prezzi e salari, cartellizzava l’economia, varava piani economici pluriennali. Fu la politica da allora indissolubilmente legata al nome di Keynes», il quale però «si era limitato a teorizzare quella che era ormai da tempo una realtà – la mobilitazione di tutte le risorse dei capitali nazionali, per mettersi economicamente e anche militarmente in grado di difendersi e togliere di mezzo i concorrenti. La politica economica del fascismo tedesco o italiano e quella del governo statunitense (il New Deal) non sono perciò che il simbolo di una tendenza generale». Questo lo scrivevamo nel 1981, ma non è che la lettura della realtà imperialistica per come si è svolta, e per come si svolge tuttora, nel corso delle sue crisi che dal piano economico (economico nel senso più ampio) tendono inevitabilmente a svilupparsi sul piano sociale, politico e infine militare. La propaganda borghese, in generale, tende a considerare la mobilitazione di guerra come un fatto separato dalla crisi economica, «in realtà, la guerra mondiale non è che la proiezione su un piano macroscopico di tutti i contrasti d’interessi fra capitali organizzati nazionalmente, ma agenti internazionalmente» (8). L’”uscita dalla crisi”, dunque, come volevasi dimostrare, si attuò precipitando il mondo nella seconda guerra imperialistica mondiale.

Erano passati appena vent’anni dalla fine della prima guerra imperialista mondiale e di nuovo il capitalismo internazionale si ritrovò a fronteggiare la sua ennesima crisi mondiale con il mezzo più catastrofico a sua disposizione: la guerra. La crisi capitalistica non aveva vie d’uscita se non quelle, da un lato, di distruggere la massa più imponente possibile di prodotti che l’elevata capacità produttiva, non solo degli Stati Uniti, ma, sulla loro scia, di tutti gli altri paesi capitalisti avanzati, rovesciava su un mercato mondiale che non riusciva più ad assorbire; dall’altro, di stabilire un nuovo ordine mondiale sulla base dei rapporti di forza tra i diversi Stati imperialisti che la guerra mondiale avrebbe decretato. E così fu. L’immane distruzione di cose e di uomini che rappresentò la seconda guerra imperialista mondiale, fu, per la classe operaia del mondo e per buona parte delle popolazioni europee e asiatiche, un bagno di sangue senza fine; per il capitalismo mondiale fu, invece, un bagno di giovinezza che gli consentì di affrontare i decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale con maggiori stimoli e con una fame di profitto ancor più vorace.

E’ noto che la seconda guerra mondiale è stata fatta passare come uno scontro tra due supposti sistemi politici ed economici opposti, uno democratico e l’altro fascista, uno liberista e l’altro statalista e centralizzatore. Sebbene sul piano istituzionale e politico la democrazia e il fascismo abbiano sovrastrutture differenti, la base materiale, economica, su cui poggiano è esattamente la stessa: è il modo di produzione capitalistico, il capitalismo. L’intervento statale in economia, come nel New Deal, lo ritroviamo sia in un paese democratico come gli Stati Uniti, che in un paese fascista come l’Italia o la Germania di quel tempo. Non è il Capitale ad essersi assoggettato allo Stato, ma è lo Stato che è stato assoggettato al Capitale. L’interventismo, il dirigismo, la gestione statale (che poi non sono altro che le ricette del riformismo classico) «sono aspetti comuni di ogni regime politico borghese nella fase di massima esasperazione dei suoi contrasti interni, espressioni convergenti sul piano internazionale della politica di conservazione capitalistica» (9). In realtà, quindi, il New Deal non è che una di quelle forme che «segnano un passo avanti nella spietata dominazione di classe della borghesia, un’esaltazione dello sfruttamento della forza lavoro ad opera del Capitale» (10). Ciò che il fascismo ha lasciato in eredità alla democrazia, come abbiamo da sempre sostenuto, al di là della sua sconfitta militare, è proprio questa forma di spietata dominazione della classe borghese, una dittatura capitalista e imperialista nascosta dal velo ideologico della democrazia e da apparati, come il parlamento, che servono esclusivamente per confondere e ingannare il proletariato portandolo ad impegnare la sua forza sociale contro i propri interessi di classe facendogli credere che la soluzione dei suoi problemi quotidiani e futuri va cercata solo nella collaborazione interclassista.

La differenza tra democrazia e fascismo, o, se vogliamo, tra rooseveltismo e fascismo, ha le sue radici solo nei diversi rapporti di forza tra le classi. In Italia, come successivamente in Germania, il fascismo è stata la «risposta ad una minaccia rivoluzionaria diretta del proletariato: la sua estrinsecazione fu dunque essenzialmente politica e si tradusse nel pacifico abbandono delle forme democratiche e nel violento e aperto esercizio della dittatura di classe che, partendo dall’obiettivo primo di liquidare con la forza le organizzazioni di classe del proletariato, doveva concludersi per logica conseguenza – per la necessità cioè di opporre alla minaccia unitaria del proletariato un fronte altrettanto e più compatto – nella soppressione del pluripartitismo e del parlmentarismo borghesi». Il New Deal, e dunque il rooseveltismo, invece «nasce come risposta non ad una pressione rivoluzionaria diretta del proletariato, ma all’immediato cataclisma di una crisi economica senza precedenti: ai fini della risoluzione di questa crisi, mentre la terapia economica si svolgerà sul binario classico dell’interventismo fascista, il mantenimento delle forme politiche democratiche e la conservazione degli organismi sindacali operai non costituiva una remora, ma permetteva manovre di conservazione più elastiche e ramificate, che sventavano i possibili contraccolpi sociali e politici della crisi con metodi, anziché di coazione, di corruzione, la classica corruzione democratica». Ecco perché il corso di sviluppo del fascismo e del rooseveltismo sono stati, fin dall’inizio, diversi. Infatti, continua l’articolo: «Non  stupisce perciò che il fascismo abbia trovato la sua “via economica” solo al termine di una lunga esperienza di dominio politico, conseguente e privo di esitazioni, questo, come incerta e contraddittoria, quella (il primo fascismo mussoliniano è perfino ortodosso in campo economico, e con movenze liberiste), mentre il New Deal si presenta di colpo come strumento di difesa economica e, in un certo senso, serve di paradigma mondiale alle nuove esperienze di interventismo statale nell’economia, proprie dei regimi totalitari del decennio 1930-1940, come alle più consumate tecniche di sfruttamento delle forme politiche democratiche ai fini della difesa sociale, proprie delle democrazie di oggi» (11).

 

Il proletariato ridotto ancora a classe per il capitale

 

Che fine aveva fatto il movimento proletario di classe? Che fine avevano fatto il movimento comunista e  l’Internazionale Comunista?

La sconfitta della rivoluzione e del potere proletario e comunista in Russia, seguita alla sconfitta del movimento proletario e comunista europeo negli anni 1918-1923, lasciò il proletario non solo russo ed europeo, ma mondiale, senza la guida rivoluzionaria che lo aveva portato alla vittoria nell’Ottobre 1917 e alla costituzione dell’Internazionale Comunista nel 1919. La vittoria delle classi borghesi sui proletariati di Germania, di Francia, d’Italia, d’Ungheria, di Polonia non fu dovuta a vittorie militari in campo aperto.

I poteri borghesi più forti al mondo, alleati con le forze della reazione zarista, tentarono di rovesciare militarmente il potere bolscevico in una lunga guerra civile che nel 1921 terminò, ma con la vittoria dell’armata rossa sugli eserciti bianchi: il potere proletario e comunista non fu battuto sul terreno militare; a batterlo furono le forze dell’opportunismo che prese il nome di stalinismo e che condensò l’azione più che decennale dell’opportunismo riformista e sciovinista grazie al quale il proletariato europeo, che poteva avere nel proletarito tedesco la sua più alta espressione di forza sociale ed economica antiborghese, fu deviato dal suo percorso rivoluzionario e debilitato politicamente e organizzativamente. La crisi del 1929 e degli anni successivi, preceduta dal grande sciopero dei minatori del 1926 in Gran Bretagna (sabotato dai sindacati inglesi capeggiati dai riformisti ai quali, per “ragioni di Stato”, il potere sovietico in mano alla destra del partito bolscevico, al fine di mantenere con la Gran Bretagna un rapporto economico ritenuto indispensabile visto il completo isolamento a livello mondiale, continuò a dare tutto il suo appoggio), e dal tentativo rivoluzionario da parte del proletariato cinese del 1927 (verso il quale la tattica stalinista dell’I.C., con la direttiva data al partito comunista cinese di aderire al controrivoluzionario Kuomintang, contribuì alla sua cocente sconfitta) avrebbe potuto essere un’ulteriore occasione per la ripresa rivoluzionaria delle classi proletarie del mondo, dando alle parole di Lenin sulla volontà del partito comunista di resistere al potere anche per vent’anni in attesa del risveglio di classe dei proletari d’Europa, un significato concreto ed una conferma storica non solo della necessità della rivoluzione proletaria al fine di avviare la trasformazione generale della società capitalistica in una società socialista, ma della reale guerra di classe del proletariato moderno contro le borghesie di ogni paese in continuità storica con la Comune di Parigi del 1871 e della Rivoluzione d’Ottobre del 1917.

Grazie certamente alla forza di resistenza delle classi borghesi capitalistiche dei paesi più industrializzati, capaci comunque di adottare politiche economiche e sociali in grado di mantenere il controllo politico e sociale nonostante le forti tensioni provocate dalla profondità delle crisi del loro sistema economico, e grazie all’apporto decisivo per la conservazione sociale da parte delle forze opportuniste che dedicarono tutte le loro energie perché la politica della collaborazione tra le classi avesse successo, i proletariati dei paesi capitalisti furono ricondotti sul terreno della complicità con le proprie classi dominanti, dopo che il terreno dello scontro di classe e della rivoluzione proletaria era stato stravolto e inquinato pesantemente dallo stalinismo, e dopo che lo stalinismo – vera arma “segreta” della contorivoluzione borghese – eliminata fisicamente la vecchia guardia bolscevica e schiacciati sotto una terribile repressione gli strati proletari che resistevano sul terreno di classe e rivoluzionario, aveva riportato la piena vittoria nel paese che aveva conosciuto gli anni gloriosi della rivoluzione proletaria e comunista internazionale. Questa sconfitta ha avuto effetti negativi su tutto il corso storico successivo del proletariato mondiale, ben più vasti e prolungati nel tempo di quanto non ebbe la sconfitta della prima dittatura proletaria al mondo, quella della Comune di Parigi. Ne risentiamo gli effetti ancor oggi.

 


 

(1) La bolla dei tulipani nel 1637 fu la prima grande crisi finanziaria innescata dall’utilizzo di strumenti finanziari con finalità speculative e coinvolse tutto il sistema economico europeo di quei tempi. All’epoca si arrivò a considerare il bulbo del tulipano come un solido investimento, in quanto rappresentava un “concentrato di fiori futuri”; venne quindi utilizzato come un’embrionale forma di “future” sul tulipano. Vedi www.consob.it/web/investor-education/la-bolla-dei-tulipani.

(2) Cfr. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, I. Borghesi e proletari, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, p. 108.

(3) Cfr. Corso dell’imperialismo e crisi, Riunione Generale del 17-18 maggio 1975, in “il programma comunista” n. 16/1975.

(4) Marx-Engels, Manifesto, citato, pp. 107-108.

(5) Vedi ad es. J.K.Galbraith, Il Grande Crollo, Boringhieri, Torino 1972; E. De Simone, Storia Economica, Franco Angeli, Milano 2012; Luigi De Rosa, La crisi economica del 1929, Le Monnier, Firenze 1979; C.P. Kindleberge, La grade depressione nel mondo 1929-1939, Etas, Milano 1982. Vedi anche www.consob.it/crisi-del-29.

(6) Cfr. Le nazionalizzazioni arma del capitalismo, in “Prometeo”, n. 4, dicembre 1946.

(7) Vedi L’apprendista stregone sulla via della guerra mondiale. Politica economica borghese in tempo di crisi: 1929-1981, in “il programma comunista, n. 22 del 1981.

(8) Ibidem.

(9) Cfr. Il New Deal, o l’interventismo statale in difesa del grande capitale, in “Prometeo”, n. 3-4, luglio-settembre 1952.

(10) Ibidem.

(11) Ibidem.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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