Catalogna, frangiflutti della Spagna

(«il comunista»; N° 156; Novembre 2018)

 Ritorne indice

 

 

E’ uscito, come supplemento al periodico El proletario, lo Speciale Cataluña a cura della nostra sezione spagnola, di cui pubblichiamo di seguito l’editoriale.

 

 

E’ passato un anno dal “referendum sull’autodeterminazione” organizzato dal governo della Generalitat in Catalogna. Un anno in cui si sono susseguite le votazioni, l’intervento della polizia nazionale e della Guardia Civil di stanza nel porto di Barcellona e in alcune città rurali della Catalogna, uno “sciopero nazionale” in difesa del “diritto di decidere” e contro la repressione dello Stato, un’effimera “Repubblica catalana”, l’intervento del governo centrale dell’autonomia catalana, l’esilio e la prigione delle alte cariche del governo coinvolte nel “processo di indipendenza”, nuove elezioni alla Generalitat e, inoltre, la caduta del governo del PP sponsorizzata dal PSOE e difesa all’unanimità dai gruppi nazionalisti della Catalogna e dei Paesi Baschi.

Da un anno ormai, ogni giorno, senza eccezioni, la stampa e la televisione denunciano un conflitto larvato e continuo in Catalogna: dalle cariche della polizia del 1° ottobre alle manifestazioni per l’unità nazionale, dai nastri gialli  (1) ai messaggi del Re Filippo VI, dal teatrino legale contro i leader nazionalisti all’accusa da parte della giustizia belga riguardo il giudice Llarena... la “questione catalana” è diventata lo scoglio con cui deve fare i conti un paese nel quale il precario equilibrio politico e sociale raggiunto dopo la “Transizione” verso la democrazia sembra essere completamente incrinato. E, certamente, l’instabilità rivelata dalla “questione catalana” mostra, a sua volta, la vera natura della crisi economica, politica e sociale che la borghesia spagnola e tutte le sue frazioni locali stanno attraversando.

Il “problema catalano” fu una delle questioni centrali che la borghesia spagnola dovette affrontare, quando la morte di Franco diede la spinta finale per la riorganizzazione politica e giuridica del regime uscito dalla Guerra Civile. Durante i quasi 40 anni di “questione catalana” (cioè il posto che l’autogoverno della Catalogna potrebbe occupare nell’ordinamento costituzionale spagnolo), tale “questione” è stata costantemente rinviata ad un futuro che non arrivava mai. Secondo la moderna storiografia borghese, che riduce il ventesimo secolo spagnolo ad una lotta tra democrazia e dittatura culminata con il trasferimento pacifico del potere dall’una all’altra, il problema è risolto prima di essere posto: essendo l’autogoverno della Catalogna una formula politica “progressista” e la dittatura militare una formula autoritaria, queste cozzavano una contro l’altra, e solo il patto politico del ’78 poté compenetrare l’idea di uno Stato centralizzato e di una Catalogna con ampi livelli di autonomia. A proposito di questa interpretazione storica, che ha il suo contrappunto nella versione, molto minoritaria, che pone l’autogoverno come formula socialmente reazionaria e la democrazia e l’unità nazionale come suo opposto, basta dire che la stessa crisi politica, che ha afflitto il paese dal 2011, ha fatto crollare tutti i suoi postulati: la realtà di forze sociali incarnate in classi con interessi diversi, e sempre in lotta tra di loro, può anche occultarsi per un certo periodo di tempo nel quale queste forze sembrano aver firmato una tregua, ma non tarda ad emergere quando si torna al normale corso degli eventi.

La verità è che l’autogoverno catalano, che nella Costituzione del 1978 e nel successivo ordinamento territoriale è formulato come autonomia, ha in sé un peso storico che difficilmente può essere sottovalutato. Come tale, il termine si riferisce direttamente alle libertà feudali che la Catalogna poteva rivendicare contro le tendenze centralizzanti della monarchia borbonica sin dal XVIII secolo. Diciamo “poté rivendicare” per sottolineare che tali libertà feudali fanno parte più di un passato mitico che di una realtà storica dimostrabile: questo vale per la Catalogna come per la Castiglia e il loro ruolo come formula politica per l’equilibrio delle forze sociali nel periodo precapitalistico della penisola, scomparve nella misura in cui tali forze si svilupparono superando i confini locali, scontrandosi sia con i limiti “autoctoni” della loro crescita sia con quelli imposti dalle altre potenze commerciali. Le libertà feudali della Catalogna non sono state schiacciate dal centralismo castigliano, non c’è mai stata una lotta tra forze “centraliste” e altre “decentralizzatrici”, solo che lo sviluppo del contesto economico, politico e sociale della Catalogna mandò a monte l’indipendenza che le garantiva un certo livello di evoluzione delle forze produttive su scala locale e mondiale. Dall’egemonia commerciale catalana nel Mediterraneo alla sua liquidazione, a causa delle nuove potenze marittime italiane e della modificazione delle rotte commerciali prodotta dallo sbarco in America degli eserciti castigliani, così come dalla potenza politica del regno di Aragona alla sua alleanza con la Corona di Castiglia, relegata successivamente ad un ruolo secondario nello scenario euro-americano: nessuna di queste fasi facilitava l’imposizione centralista, ma facilitava lo sviluppo delle diverse tendenze che, all’epoca, costituiva l’immenso potere della Catalogna nel passaggio dal mondo feudale al capitalismo embrionale nei secoli XV e XVI. L’autogoverno catalano, in questa fase dello sviluppo storico, è stato il governo delle classi feudali, che videro giungere il loro declino per mezzo delle stesse forze sociali che avevano dato la sua peculiare fisionomia alla Catalogna precapitalista.

In effetti, l’autogoverno catalano è un’invenzione retrospettiva del XIX secolo. Dopo la guerra di successione (1703-1713), l’imposizione della monarchia borbonica, difesa dalla Corona di Castilla e dalla Francia, a scapito della monarchia asburgica, difesa a sua volta dalla Catalogna e dall’Inghilterra, quest’ultima alla testa di una coalizione di stati europei, condusse alla brutale repressione delle istituzioni politiche che rappresentavano la Catalogna di fronte al re. Furono soppressi privilegi, diritti, prebende economiche e si relegarono le leggi civili e commerciali catalane ad una posizione subordinata rispetto a quelle della monarchia che, ora sì, pretese di dare impulso alla centralizzazione, coerentemente con i modelli di assolutismo europeo. Ma la sconfitta militare della Catalogna, la sua inclusione nell’embrione dello Stato centralizzato che incarnava il dispotismo borbonico, fu seguita da un fiorente sviluppo economico che, con lo sviluppo dell’agricoltura a livelli mai raggiunti all’interno, ha gettato le basi per la generazione di ricchezza che contrastava con i falliti esperimenti di industrialismo di stato tentati dai diversi governi di Madrid e che portarono a un’espansione commerciale che fece da base al boom economico catalano. Si trattò, quindi, di una situazione che è tipica dello sviluppo delle società capitalistiche e degli scontri sanguinosi che lo accompagnano: la Catalogna, sconfitta nella difesa delle sue libertà su beni di terzi contro il centralismo, finisce per diventare uno dei nuclei centrali dello sviluppo economico. Catalogna si è completamente integrata nella monarchia spagnola e divenne uno dei motori economici, dando luogo allo sviluppo della regione in senso puramente capitalistico su cui rinascerà la questione dell’”autogoverno” su basi completamente diverse.

Per il marxismo, le idee, le dottrine e le bandiere per le quali si sono combattute e si combattono, su tutti i terreni, le grandi battaglie della storia, sia in campo politico e militare che in  campo filosofico, scientifico o morale, costituiscono dei riflessi delle vere forze economiche e sociali le cui convulsioni determinano lo sviluppo storico e che determinano l’adozione da parte delle classi sociali in lotta di queste ideologie. Senza cadere in alcun tipo di relativismo, ciò implica negare validità eterna ai principi con cui una classe sociale, un popolo o una nazione, combattono in un dato momento. Nel caso della Catalogna, questa questione, che emana direttamente dalla comprensione determinista della storia, significa che dietro gli slogan di indipendenza, autogoverno o, più recentemente, autonomia, ci sono le forze sociali che, in certi momenti storici, hanno spinto le diverse classi sociali dominanti a una politica di confronto con le altre classi che sostenevano i postulati unificanti e centralisti. E, quindi, la stessa rivendicazione dell’autogoverno catalano, della difesa delle istituzioni tradizionali della Catalogna, ecc. ha un valore concreto nel passaggio dal modo di produzione feudale al modo di produzione capitalistico, ma un altro del tutto diverso al tempo del pieno sviluppo del modo di produzione capitalistico. Il ricorso a elementi di propaganda comuni ad entrambi, la difesa della tradizione o l’idealizzazione delle forme arcaiche di governo, non sono iscritte nel DNA del “popolo catalano” (un concetto che mettiamo tra virgolette perché non ha maggiore validità storica rispetto agli altri), ma appaiono e scompaiono secondo vicissitudini storiche molto specifiche.

Le tendenze centrifughe in Catalogna, il localismo politico, il regionalismo, così come il radicamento in questa zona di correnti come il carlismo, il repubblicanesimo o il cantonalismo, sono determinate dalla dinamica propria del capitalismo in Spagna, sviluppato in modo estremamente disuguale in ognuna delle regioni in cui, oltre ai fattori classici (esproprio di piccoli contadini, precedente base mercantile ecc.) si devono cercare caratteristiche locali che le differenziavano in modo molto marcato. Nelle parole di Marx:

«Le grandi monarchie si formarono nel secolo XVI e si affermarono dovunque grazie alla decadenza delle opposte classi feudali: l’aristocrazia e le città. Però, negli altri grandi stati europei la monarchia assoluta si presentò come un centro di civiltà, come la promotrice dell’unità sociale. Fu in quegli stati il laboratorio dove si mescolarono ed elaborarono i diversi elementi della società in maniera tale da indurre le città ad abbandonare l’indipendenza locale e la sovranità medievale in cambio della legge generale delle classi medie e del dominio comune della società civile.

In Spagna, al contrario, mentre l’aristocrazia si inabissava nella degradazione senza perdere i suoi peggiori privilegi, le città persero il loro potere medievale senza guadagnare in importanza moderna.

Fin dallo stabilirsi della monarchia assoluta, le città vegetarono in uno stato di continua decadenza. Non possiamo qui elencare le circostanze politiche ed economiche che rovinarono il commercio, l’industria, la navigazione e l’agricoltura in Spagna. Per il presente basta ricordare semplicemente l’esistenza di questa rovina. Con il declino della vita commerciale e industriale delle città divenne sempre più scarso il traffico interno e meno frequente il contatto tra gli abitanti delle varie regioni, si trascurarono i mezzi di comunicazione e furono abbandonate le grandi strade. Così, la vita locale della Spagna, l’indipendenza delle sue province e dei municipi, le diversità di condizioni della società, fenomeni basati originariamente sulla configurazione fisica del paese e sviluppati storicamente secondo le diversità dei modi con cui le varie regioni si erano emancipate dalla dominazione araba per formare piccole entità indipendenti, tutto ciò si vide addirittura rinforzato e confermato dalla rivoluzione economica che inaridì le fonti dell’attività nazionale. In questo modo, la monarchia assoluta trovò in Spagna una base materiale che, per la sua stessa natura, respingeva il centralismo. Essa stessa, inoltre, fece quanto fu in suo potere per impedire che si sviluppassero interessi comuni basati in una divisione nazionale del lavoro e in una moltiplicazione del traffico interno – unica e vera base sulla quale poter creare un sistena amministrativo uniforme e leggi generali.

Così, la monarchia assoluta spagnola, malgrado la sua apparente somiglianza con le monarchie assolute dell’Europa in genere, deve essere piuttosto catalogata vicino alle forme di governo asiatiche. Come la Turchia, la Spagna continuò a essere un conglomerato di repubbliche mal governate con alla testa un sovrano nominale. Il dispotismo presentava caratteri diversi nelle varie regioni a causa dell’arbitraria interpretazione della legge generale da parte dei vicerè e dei governatori. Tuttavia, malgrado il suo dispotismo, il governo non riuscì a impedire che continuassero ad esistere nelle varie regioni i diversi diritti e costumi, monete, bandiere o colori militari, oltre ai vari sistemi fiscali. Il dispotismo orientale non intacca l’autogoverno municipale se non quando questo si oppone direttamente ai suoi interessi, e permette molto volentieri a queste istituzioni autonome di continuare la loro esistenza purché sollevino le sue delicate spalle dalla fatica di qualsiasi incarico e gli risparmino il disturbo di una regolare amministrazione» (2).

Nel caso catalano, e anche, in misura minore, nel caso basco, gallego e anche castigliano o andaluso, la persistenza di questa autonomia municipale, la cui base era il proprio sviluppo economico ineguale, ma che avanzava ogni volta in modo più nitido, era il contesto in cui cominciarono a svilupparsi le fondamenta della società capitalistica, che, sebbene trainata dalla creazione degli elementi fondamentali di un mercato nazionale a partire dal XVIII secolo, non è riuscito a superare le barriere locali fino a buona parte del diciannovesimo secolo.

Le idee di autogoverno, autonomia o indipendenza nazionale apparirono quando questi limiti locali  allo sviluppo han cominciato ad essere un ostacolo, quando smisero di essere un mantello protettivo che permetteva la convivenza con forme sociali più arretrate nel resto del paese diventando una barriera che metteva in subordine la crescita tipicamente industriale capitalista della Catalogna ad un’economia nazionale le cui caratteristiche si scontrarono frontalmente con essa.

In altre occasioni (vedi El proletario, nn. 15, sett-nov. 2017, e 16, genn-mag. 2018) abbiamo trattato lo sviluppo del capitalismo in Spagna e in Catalogna, e nel numero 17 si può leggere la parte dell’articolo La questione della nazionalità in Spagna dedicato specificamente alla Catalogna. Così ora è sufficiente rilevare che il presunto “irredentismo nazionalista” catalano ha a che fare con circostanze storiche molto concrete, che i loro slogan, i loro ideali e i supposti principi irrinunciabili non sono tali, ma appaiono come il risultato di una lotta nella quale assumono valore per giustificare una delle parti in lotta nelle loro aspirazioni, dando loro legittimità e trovando un quadro “teorico” in cui possono inserirsi.

La crisi del capitalismo che ha avuto inizio negli anni 2007-2008, ha comportato in Spagna la rottura non totale ma parziale del grande patto di Stato sigillato nel 1978 con la firma della Costituzione e la promessa di un graduale sviluppo autonomo. Questo patto, una volta garantite le principali preoccupazioni della borghesia nazionale (cioè il fronte unito di tutte le sue fazioni e dei grandi partiti socialdemocratici e comunisti contro il proletariato), ha sollevato la necessità di incastrare ciascuna delle sue forze locali cercando di equilibrare le loro esigenze con la configurazione di un forte Stato centrale. Il problema non è banale. La configurazione storica della Spagna, configurazione in cui è stato inquadrato lo sviluppo del capitalismo e che è stata rafforzata da questo, è fortemente anticentralista. La prova è che, date le esigenze dettate dalla crisi capitalista mondiale degli anni ’70 e il necessario cambiamento politico dopo la morte di Franco, la risposta data dalla borghesia spagnola è stata la formazione di uno Stato praticamente confederale, dove il riconoscimento delle “nazionalità storiche” ha dato origine alla configurazione di un’autonomia molto forte, con competenze (in un primo momento potenziali, ma poi reali) su praticamente tutti gli aspetti della vita economica, politica, giuridica e sociale del paese. Per compensare questa forza dirompente e sottoporla ad un progetto politico centralista era necessario concedere lo statuto di autonomia per altre 14 regioni, il che confermava l’incapacità di strutturare lo Stato spagnolo senza attendere che fossero le pesanti forze centrifughe a strutturarlo.

Durante i quasi quarant’anni di dittatura di Franco, queste forze non scomparvero, ma si sottomisero, in particolare durante i primi 20 anni dopo la vittoria militare del 1939, a esigenze molto più importanti rispetto alle rivendicazioni locali. In realtà, la borghesia catalana e basca avevano già ceduto sulle loro esigenze regionaliste e nazionaliste prima del golpe del 1936: da parte catalana, dal 1931, le organizzazioni politiche che avevano abbracciato decenni prima il progetto nazionalista si posero apertamente in favore della difesa dell’unità nazionale e, soprattutto, in difesa dello Stato repubblicano che doveva salvaguardare l’ordine capitalista (si veda l’articolo dedicato all’insurrezione del 1934 in Catalogna); per quanto riguarda i  baschi, nel 1936, la difesa dello Statuto di autonomia richiesto negli anni precedenti bruciò loro tra le mani e ci sono voluti solo un paio di mesi per organizzare il loro passaggio, armi e bagagli, all’esercito nazionale che garantì loro la pace sociale in cambio della cessione in sua difesa di ogni velleità regionalistica. La borghesia conosce bene la lezione: “prima la pancia e poi la danza”; innanzitutto garantirsi un dominio ferreo sul nemico di classe, il proletariato, mantenendo stabile l’estorsione di plusvalore e garantendo il saggio di profitto che si estrae dal lavoro salariato, e, nello stesso tempo, non sospendere la lotta contro le altre fazioni, gruppi e correnti della stessa borghesia.

Alla potenziale minaccia costituita da un proletariato fortemente inquadrato in organizzazioni sindacali (e diciamo potenziale, perché tragicamente il proletariato spagnolo, completamente dominato dalle organizzazioni socialdemocratiche, staliniste e anarchiche, non riuscì mai a raggiungere il terreno della lotta politica strettamente classista) le si poteva contrapporre solo l’azione dell’esercito nazionale spagnolo: non erano sufficienti le bande armate falangiste, né la polizia regolare né gli uomini armati di qualsiasi tipo messi in circolazione dai padroni catalani e, poi, nemmeno la piccola borghesia organizzate intorno a Esquerra Republicana. Di conseguenza, le borghesie catalana e basca capirono perfettamente che il valore dell’unità nazionale poggiava sull’aumento della pace sociale, sull’annientamento della lotta di classe del proletariato. Sottomissione, quindi, al Movimento Nazionale, rinunciando temporaneamente a qualsiasi particolarismo locale, ad ogni pretesa di autogoverno ecc. A questo, inoltre, si aggiuse una situazione internazionale per la quale entrambe le borghesie, ma soprattutto quella catalana, non potevano essere indifferenti (come non lo fu la nobiltà catalana nel 1640 o nel 1703) e che rafforzarono la loro solidarietà con lo Stato spagnolo. I lunghi anni bui, dal 1939 fino al piano di stabilizzazione del 1959, videro la borghesia catalana (e, in misura minore, i baschi) marciare, impassibile al gesto, mano nella mano all’esercito e al suo leader. Solo lo sviluppo economico spagnolo, che ha avuto luogo a partire dai primi anni ’60, nella misura in cui si avviava di nuovo sulle radicatissime basi della struttura economica nazionale, ha permesso alla rivendicazione dell’autogoverno di riemergere, ma in un contesto di rilassamento delle imposizioni militari sull’insieme della società e di crescita di uno strato piccoloborghese che divenne il paladino di una simile rivendicazione.

Nel 1978, quando si trattava di gettare le basi per la riforma dello Stato franchista, la crisi del capitalismo era riuscita ad esacerbare di nuovo le tendenze decentralizzatrici e la bandiera dell’autonomia si alzò come alibi delle esigenze di una borghesia catalana interessata a raggiungere con quella riforma maggiori quote nel controllo fiscale e tributario (il che significa che il plusvalore prodotto in Catalogna resti patrimonio esclusivo della borghesia catalana al comando delle agenzie autonome di governo), come pure un maggiore controllo sulle investimenti statali in Catalogna e, per ultimo, ma non meno importante, la creazione di organismi democratici direttamente subordinati ad essa e incaricati di controllare la classe proletaria unendola attorno alla difesa della “patria catalana”. Finita non solo la dittatura, ma anche la fase di boom economico che ha portato alla crisi capitalista del 1974, le rivendicazioni di autogoverno riemersero con la forza che richiedeva la situazione: la vecchia tesi di Marx e di Engels che affermava che la Spagna era realizzabile in termini borghesi solo sotto la forma federale, una tesi lanciata nel periodo di ascesa rivoluzionaria delle borghesie europee e spagnola, si riaffermò in termini negativi dando luogo ad uno Stato quasi confederale in piena epoca imperialista.

Nel capitalismo, la pace è solo la preparazione di una nuova guerra. Questa affermazione vale non solo per gli scontri tra stati imperialisti che hanno riempito il mondo di cadaveri con le molteplici guerre imperialiste e di rapina che hanno avuto luogo dal 1914. Vale anche per qualsiasi tipo di confronto sociale che ha le sue basi nel caos e nel disordine generati inevitabilmente dal modo di produzione capitalistico. Vale, quindi, per spiegare la natura transitoria degli accordi tra rivali, tra borghesie concorrenti, tra la borghesia e il proletariato e tra la borghesia e qualsiasi strato delle classi intermedie che esiste nella società capitalista. Così, anche i grandi patti sociali come quello stabilito in Spagna dopo la morte di Franco e che per decenni si pretendeva inamovibile e incontestabile, sono soggetti a una critica costante dagli stessi fatti, una critica che esprime la natura dei suoi firmatari che si scagliano ripetutamente contro le altre fazioni cercando, a seconda delle forze disponibili, di strappare la parte della torta che corrisponde loro. Scontri larvati e continui che diventano, in certe situazioni, scontri aperti e cruenti: giunto il tempo della crisi, della caduta del profitto e della riduzione a livelli minimi dei tassi di profitto, diventano insufficienti le prebende che ogni gruppo rivale ha riservato per se stesso; ritorna la guerra.

Nel caso della Catalogna, che è il caso della Spagna, la crisi del capitalismo, iniziata negli anni 2007-2008, ha reso insopportabile, per la maggior parte della borghesia, semplicemente il dover mantenere il patto sociale concordato trent’anni prima, vale a dire la ripartizione in forma di ridistribuzione fiscale del plusvalore strappato ai proletari, e il mantenere un sistema di “garanzie” per cui ciascuna comunità autonoma si converte in emittente e ricevente di fondi per bilanciare disuguaglianze economiche del paese. Ciò, aggiunto alla riconfigurazione della struttura industriale del paese, alla concorrenza sempre più acuta per monopolizzare gli investimenti di capitale sotto forma di infrastrutture ecc., ha dato origine a quel confronto che è stato nascosto sotto la bandiera giuridico-politica del processo. Superata l’esigenza di autogoverno, che era fatto per scopi pratici sotto una forma, la autonoma, che non garantiva tutte le nuove esigenze della borghesia e piccola borghesia catalane, l’indipendenza appare come la bandiera di questo movimento. Indipendenza intesa, ovviamente, come mero slogan, una chiamata per riunire attorno alla difesa dell’economia locale la piccola borghesia e altri strati intermedi della società che sono stati particolarmente colpiti dalla crisi. E con questa rivendicazione di indipendenza tornano ad apparire le giustificazioni quasi mitologiche del “differenziale catalano”, torna in auge il revisionismo storico, la reinterpretazione del ruolo che ha storicamente svolto Catalogna in Spagna ecc. La rivendicazione dell’indipendenza è lo slogan di un determinato settore della borghesia catalana che cerca di inquadrare il proprio esercito sociale per lottare sul terreno della riconfigurazione politica dello Stato spagnolo. È, quindi, uno slogan apertamente reazionario, che si porta dietro l’esigenza primordiale di pace sociale e la soggezione della classe proletaria agli interessi della classe nemica.

Il percorso di questa rivendicazione, cioè quello dello scontro tra borghesi catalani e spagnoli, sarà determinato dalla capacità di ciascuna delle parti in lotta di vedere che le perdite, che lo scontro comporterebbe, sarebbero maggiori di quelle che implicherebbe cedere. Nel mezzo rimane, e rimarrà a lungo, la classe proletaria, mobilitata da una parte e dall’altra, in difesa delle bandiere e delle richieste che non sono le sue e che, riuscendo a mettersi alla loro testa, non fanno che approfondire la crisi che la colpisce realmente: la crisi politica e organizzativa che la mantiene schiava della classe borghese.

 


 

(1) I nastri gialli simboleggiano la protesta contro gli arresti che hanno falcidiato il governo catalano dopo la dichiarazione di “indipendenza”.

(2) Vedi K. Marx, La rivoluzione in Spagna, Guaraldi Editore, Firenze 1976, in La Spagna rivoluzionaria, pubblicato nel New York Daily Tribune, n. 4179, 9 settembre 1854, pp 106-108; anche in K.Marx-F.Engels, Scritti febbraio 1854-febbraio 1855, edizioni Lotta Comunista, Milano settembre 2011, pp. 351-352.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice