L’Italia e i suoi disastri idrogeologici

Cause fisiche? NO! solo cause sociali!

(«il comunista»; N° 156; Novembre 2018)

 Ritorne indice

 

 

Non c’è stagione che non presenti un’Italia disastrata. Il 2018, tra smottamenti, frane, incendi, esondazioni, alluvioni, mareggiate, tempeste e vento, va considerato davvero come annus horribilis.

In questo caso, come nel 99% dei casi precedenti, e come nei casi successivi finché si vivrà sotto il capitalismo, la fatalità non c’entra nulla, come non c’entrano nulla le punizioni di un Dio dei cieli che si abbattono sull’umanità peccatrice. La morfologia e la conformazione idrogeologica dell’Italia sono note da qualche secolo, come d’altra parte quella di molti altri paesi sottoposti ad una continua attività geologica e vulcanica (il Giappone, ad es.); il progresso scientifico abbinato ad una tecnologia avanzata della società moderna dovrebbero essere in grado di costruire delle mappe sufficientemente precise per organizzare la vita economica e sociale della specie umana sul pianeta tenendo conto, anticipatamente, dell’attività reale delle forze naturali e di come impatta su di esse l’attività economica e sociale dell’uomo. Ma per quanto si conosca la situazione idrogeologica del Bel Paese, ogni stagione porta con sé il suo carico di catastrofi e di morti.

La società moderna è la società del capitale e il capitale, nel suo sviluppo storico, dopo aver rivoluzionato i modi di produzione precedenti, rivoluzionando le tecniche di produzione che il nuovo modo di produzione capitalistico esigeva per poter funzionare e svilupparsi al massimo, ha nello stesso tempo ridotto le contraddizioni delle società di classe precedenti, sostituendole però con contraddizioni molto più profonde e acute, tali da non poter essere risolte se non parzialmente e temporaneamente, producendo soltanto fattori che tendono a incancrenire e acutizzare ancor più le nuove contraddizioni.

Ma quali sono le contraddizioni di fondo che non permettono alla società borghese di affrontarle con esatta conoscenza di tutti gli elementi materiali, economici, sociali e politici, e con metodi organici, capaci di ridurle fino a superarle completamente? Sono i rapporti di produzione specifici del capitalismo che, generalizzandosi sempre più, non fanno che scontrarsi con i rapporti di proprietà e sociali tipici della società capitalistica. La produzione dei beni necessari alla vita e all’organizzazione sociale della specie, sotto il capitalismo, è caratterizzata da un’anarchia generale perché organizzata per aziende in concorrenza tra di loro, ed è in ogni caso completamente al servizio della produzione e della valorizzazione del capitale; i bisogni della specie umana vengono schiacciati dai bisogni della valorizzazione del capitale; i beni necessari alla vita sociale umana, trasformati in merci, quindi in valori di scambio, passano all’ultimo posto nella scala delle priorità. L’intera società è quindi organizzata non per soddisfare le esigenze della vita sociale umana in equilibrio con la natura e nel suo rispetto, ma le esigenze del capitale. Il capitale si valorizza attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato, ma al solo fine di aumentare la parte di capitale costante (mezzi di produzione) rispetto al capitale variabile (salari), grazie al quale rapporto il capitale cresce, asservendo in questo modo le masse salariate e l’intera umanità; è naturale per il capitalismo, quindi, procedere attraverso le costruzioni e le successive distruzioni, soprattutto nel periodo storico – il nostro – in cui le crisi che attraversa sono tutte segnate dalla sovraproduzione, cioè da tutte le produzioni che il mercato, nazionale e mondiale, non riesce ad assorbire; per “liberarlo” ad altri flussi di merci, e di capitali, le masse precedenti devono essere distrutte per lasciare spazio alle nuove, in una diabolica spirale senza fine.

Il capitalismo è incapace di prevenire le proprie crisi; tutti i mezzi messi in campo per attenuarle, allontanarle nel tempo o parzialmente superarle, non sono in grado di evitarne l’aggravamento e, infine, lo scoppio, più o meno generalizzato, fino all’estremo sbocco nella guerra generale che non è altro che la più vasta distruzione di merci, di capitali e di esseri umani, ringiovanendo in questo modo il capitalismo e le sue forze di produzione, dandogli una nuova chance di iperfolle produzione ed espansione fino alla successiva crisi generale.

Ogni guerra, e soprattutto quelle mondiali, sono una straordinaria boccata d’ossigeno per il capitalismo; ma, come sappiamo, la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi, con mezzi militari, con mezzi distruttivi molto concentrati e utilizzati contemporaneamente in gradissime quantità e su territori più vasti possibile. Se è la continuazione della politica che attua normalmente la borghesia, significa che questa politica porta necessariamente, inevitabilmente, a quello sbocco. Significa che questa politica contiene non solo gli elementi di costruzione, ma anche quelli di distruzione. E quando gli elementi di distruzione, nei normali processi produttivi capitalistici, non sono quantitativamente e qualitativamente sufficienti per valorizzare i capitali investiti, allora sono benvenuti tutti quei metodi di costruzione che si caratterizzano per il loro contenuto “nascosto” di distruzione o di autodistruzione. Crollano edifici e ponti, si aprono voragini nelle strade, cadono aerei, naufragano navi, deragliano treni, muoiono operai nelle acciaierie, nei cantieri, nei porti, nei campi, scoppiano tubi, vanno a fuoco depositi di materiali di ogni tipo, boschi e foreste, si allagano strade, campi, città intere, franano pezzi di montagna. Insomma, non c’è stagione in cui non vi siano disastri con gravi danni materiali e con morti e feriti; non c’è luogo dove l’uomo possa vivere sicuro, dove possa stare bene e dove le generazioni possano succedersi senza preoccupazioni di sorta. Se non c’è il terremoto, c’è l’uragano, sennò c’è la guerra, o la siccità e la conseguente carestia, o semplicemente la miseria e la fame per la maggioranza degli uomini, e masse imponenti di esseri umani sono costrette a spostarsi, a migrare o a morire; la società del capitale, da parte sua, ancora dominatrice incontrastata sulla vita dell’intera umanità, è lì pronta a sfruttare a beneficio del profitto capitalistico qualsiasi sciagura che lei stessa causa. E in questa schifosa missione, la borghesia capitalistica è accompagnata da una pubblica amministrazione che poggia su un impianto burocratico talmente intriso di leggi e leggine, regolamenti, prassi e procedure, bilanci e contabilità varie, e tutti in contraddizione gli uni con gli altri, da impedire qualsiasi intelligente intervento tempestivo e risanatore, e soprattutto di prevenzione. Le risorse per questi interventi oggettivamente ci sarebbero, ma vengono sistematicamente utilizzate nelle emergenze, che si susseguono una all’altra, e che aprono le porte alle speculazioni, alle corruzioni, agli sprechi, al malaffare, alla criminalità.

Quale dannata condanna si è meritata la specie umana?

Quando non sono la costruzione malfatta, la scarsa o mancata manutenzione degli impianti, l’inquinamento industriale, la cementificazione forsennata, ad esser causa delle sciagure, o le guerre, Sua Maestà il Capitale può contare su terremoti, alluvioni, mareggiate, uragani, eruzioni vulcaniche, maremoti, “bombe d’acqua”, piogge persistenti: le sue opere idrauliche, di protezione e di contenimento o di sbancamento e di anarchica urbanizzazione, sono lì a dimostrare che il loro progetto iniziale non risponde mai al sano criterio di prevenzione e di previsione, al sano criterio di un armonico insediamento dei gruppi umani su territori di cui si conoscono, e si rispettano, le caratteristiche morfologiche e geologiche insieme ad una reale e proficua conoscenza scientifica dei fenomeni climatici e ambientali, ma risponde al prioritario interesse del profitto capitalistico, dell’insieme della classe capitalistica come del singolo capitalista, che usa ed abusa di qualsiasi occasione per i propri interessi e vantaggi. E l’Italia è un esempio emblematico di quel che stiamo dicendo.

Dal punto di vista geologico, l’Italia è un territorio relativamente giovane; infatti l’attuale conformazione della penisola italiana ha le sue radici nell’era denominata Quaternaria, periodo geologico nel quale ancor oggi viviamo e nel quale si sono verificati e si verificano numerosi e disastrosi terremoti e manifestazioni vulcaniche ancora attive (Etna, Stromboli, Vulcano). Tutto ciò prova che la penisola italiana è caratterizzata da un’attività geologica continua e intensa. Non a caso gli scienziati dal Seicento all’Ottocento hanno studiato a fondo i fenomeni geologici dell’Italia, a cominciare dal danese Niccolò Stenone, naturalista, geologo e vescovo cattolico del Seicento, considerato il padre della geologia e della stratigrafia, per continuare col francese Déodat de Dolomieu, nel Settecento, e con il geologo scozzese Charles Lyell, dell’Ottocento, che con i suoi Principi di geologia, pose le basi della moderna geologia (1), e con mille altri. Sviluppatasi, sulla base di questi lunghi e preziosi studi e scoperte, la moderna geologia e vulcanologia ha raccolto dati e tracciato mappe in grado non solo di definire il territorio italiano geologicamente giovane, perciò sottoposto a frequenti processi di assestamento che si manifestano attraverso i terremoti e l’attività vulcanica, ma anche di identificare le zone in cui questi fenomeni si verificano con più frequenza fornendo così oggettivamente le informazioni che dovrebbero servire per pianificare l’attività sociale tenendo conto delle conseguenze negative che tale attività, incrociata con l’attività geologica e vulcanica dei territori, può determinare. Il progresso della scienza e della tecnica, tanto decantato ad ogni passo, dovrebbe servire ad evitare i disastri definiti “naturali”, ma che naturali, nella realtà capitalistica, non sono. La conoscenza scientifica moderna serve solo a spiegare, a disastri avvenuti, che si non sarebbe dovuto costruire sulle pendici del vulcano o sui greti e sulle golene dei fiumi, che non si sarebbero dovuti intombare torrenti e fiumi, non si sarebbe dovuto deforestare selvaggiamente, non si sarebbe dovuto cementificare e urbanizzare in modo così devastante, in pianura e in montagna e in riva al mare, tanto da impermeabilizzare grandi settori di campagna che prima assorbivano l’acqua piovana e quella esondata dai fiumi ecc. ecc. Vecchi detti contadini affermano che il fiume, prima o poi, si riprende quel che gli è stato tolto, e a questi fanno eco i detti dei vecchi pescatori che affermano per il mare la stessa cosa e cioè che, prima o poi, il mare si riprende quel che gli si è rubato...

Secondo uno studio dell’Ania (l’associazione nazionale delle imprese assicuratrici), interessata ovviamente a far sì che un maggior numero di case vengano assicurate contro i danni provocati dalle “catastrofi naturali”, in Italia «quasi 8 abitazioni su dieci sono esposte a un rischio alto o medio-alto di venire coinvolte da catastrofi naturali» (2). Il che significa che l’80% delle abitazioni esistenti in Italia è stato costruito in situazioni di alto e medio-rischio di subire danni importanti o distruzione a causa di terrremoti, alluvioni, frane ecc. Ma il danno, come tutti sanno, non è solo materiale: ci sono di mezzo morti e feriti. L’Italia, nel 2016, nella classifica della mortalità a causa delle “catastrofi naturali” è al settimo posto, dopo Cina, India, Ecuador ecc. (3). In tutto il mondo, affrrma la stessa fonte, ci sono stati 411 milioni di persone colpite da disastri provocati da catastrofi “naturali”, un numero 4 volte superiore al 2015, quando le persone colpite erano 98 milioni; e si sa che i dati sono regolarmente inferiori al reale perché nelle regioni più povere e arretrate non è facile raccogliere queste informazioni. Inutile dire che i miliardi di euro spesi, ad esempio in Italia, per ricostruzioni post-sismiche, dal 1968 al 2014 sono stati 120 (dati Consiglio Nazionale italiano Ingegneri), «quando ne sarebbero bastati 94 per mettere in sicurezza edifici pubblici e privati nelle zone a più elevato rischio sismico» (4), naturalmente salvando parecchie vite umane; e parliamo solo dei danni da terremoto...

 

Un Paese che frana

 

Questo è il titoletto di un capitolo contenuto nel volume scritto dal noto geologo Mario Tozzi, Catastrofi, dove, ad esempio, si può leggere quanto segue:

«In Italia avviene, in media, uno smottamento ogni 45 minuti e periscono, per frana, sette persone al mese. Già questo è un dato poco compatibile con un  Paese moderno, ma se si scende nel dettaglio si vede che, dal 1918 al 2004, si sono riscontrate sul nostro territorio addirittura 15.000 frane di un certo rilievo. E la situazione non è certo migliore per quanto riguarda le alluvioni: oltre 5000 le gravi, sempre dal 1918, spesso intimamente connesse agli smottamenti. Come nel bacino idrogeologico dell’Arno, per esempio, talmente sconciato che se domani si ripetessero le piogge del famigerato novembre 1966 i danni sarebbero cento volte più gravi. Questo nonostante oggi la protezione civile sia molto più efficiente che in passato. Un bacino come quello del Po avrebbe bisogno di tre miliardi di euro per essere sistemato, circa due sarebbero necessari per il Tevere, da sommare a tutti quelli che occorrerebbero per le decine di bacini minori. Le alluvioni e le frane sono un fenomeno naturale, ma non lo sono le migliaia di morti che esse provocano né le azioni dell’uomo che le innescano. Tutto questo è ben noto fino dai tempi della Commissione De Marchi, che nel 1966 fotografò, per la prima volta in modo organico, il dissesto idrogeologico del territorio italiano raccogliendo i dati in otto volumi in cui si suggerivano anche alcuni interventi indispensabili e ritenuti urgenti già allora. Sono passati decenni eppure c’è ancora chi si stupisce di fronte all’ennesima emergenza; non solo: la situazione è stata aggravata dalla massa assurda di nuove costruzioni, da centinaia di chilometri di strade, dai disboscamenti insensati e dagli incendi mirati. Eppure – a differenza dei terremoti – le frane possono essere previste e, a volte, la stessa toponomastica viene in soccorso nell’individuazione dei siti a rischio, spesso recandone il segno indelebile nei secoli» (5), come nel caso, citato, della Val Vigezzo, dove furono costruiti degli insediamenti turistici in luoghi chiamati “la Valanga” e “la Rovinona”, o come nel caso più recente dell’hotel di Rigopiano costruito alle falde di un monte sottoposto a frequenti sbriciolamenti, o nel caso della diga del Vajont, costruita nella valle sopra Longarone e sotto il Monte Toc (il nome la dice lunga: toc vuol dire pezzo, è un monte che cade a tocchi, a pezzi), e che nel 1963, franando nell’invaso della diga provocò un’onda d’acqua e fango che distrusse Longarone facendo più di 2000 morti...

L’Italia, secondo gli studi dell’Ispra (6), è uno dei paesi europei maggiormente colpiti da fenomeni franosi. In Italia, nel 2017, sono 620.808 le frane rilevate dall’IFFI (Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia), su un totale di 750.000 circa in Europa. E che questo non sia un fenomeno eccezionale è dimostrato dalla cadenza annuale di centinaia di eventi principali di questo genere: 172 nel 2017, 146 nel 2016, 311 nel 2015, 211 nel 2014, 112 nel 2013 ecc. Tali fenomeni «causano vittime, feriti, evacuati e danni a edifici, beni culturali e infrastrutture lineari di comunicazione primarie» (7). Riferendosi soltanto alle aree a pericolosità da frana, l’Ispra ha realizzato una mosaicatura di queste aree, rilevando che il 20% del territorio nazionale, corrispondente in gran parte alle zone alpine, subalpine e appenniniche è, appunto, a pericolosità da frana, definendo i vincoli e le regolamentazioni d’uso del territorio affinché vi sia «una corretta pianificazione territoriale» che, sistematicamente, vengono ignorati.

L’attitudine, da parte delle amministrazioni pubbliche e del politicantume italiano, ad ignorare le indicazioni che gli stessi istituti di geologia e di vulcanologia danno basandosi sui dati che rilevano dopo ogni disastro da decenni, si accompagna normalmente alla mancata manutenzione degli alvei dei fiumi e alla pratica dell’abusivismo, rispetto alla quale anche quegli amministratori che vorrebbero intervenire per impedirlo o per abbattere le costruzioni abusive, in buona misura edificate in siti ad alta e medio-alta pericolosità (da frana, da alluvione, da smottamento, da incendio ecc.), non sono in grado di farlo a causa delle intricate procedure legali e di quella pratica politica, tutta italiana, di condonare gli abusi edilizi.

La recente tragedia che ha colpito, il 4 novembre scorso, due famiglie a Casteldaccia, in provincia di Palermo, coi suoi 9 morti, è dovuta sì all’esondazione del corso d’acqua ingrossato improvvisamente a causa delle fortissime piogge, ma soprattutto al fatto che la villetta che avevano preso due anni fa in affitto era stata costruita sul letto del fiumiciattolo Milicia e che, esondando, l’ha allagata completamente con acqua e fango sorprendendo tutti i presenti. Questo fatto è un ennesimo esempio di come la legge del profitto capitalistico non ha nessuna pietà, tanto più quando si intreccia con l’incuria del territorio e degli alvei dei fiumi, con l’abuso sistematico, con il ginepraio di leggi, leggine e ricorsi al Tar che allungano i tempi di esecuzione delle ordinanze di demolizione quando vengono, anche se di rado, emesse ma non eseguite, o da varie e sotterranee infiltrazioni malavitose. Sulla villetta di Casteldaccia, contrada Cavallaro, costruita a bordo del fiume Milicia, pendeva dal 2008 un ordine di demolizione che il Comune non ha mai eseguito, perché, in un primo tempo, i proprietari avevano presentato un ricorso al Tar; passati tre anni, il ricorso si era estinto per “perenzione” (istituto giuridico secondo cui l’inerzia delle parti costituisce preambolo per la chiusura del processo amministrativo); poi, dal 2011, il Comune avrebbe dovuto dare esecuzione all’ordinanza, ma non lo fece... (8). Risultato? 9 morti affogati nel fango! Quest’anno, l’ondata di maltempo con piogge torrenziali, venti a 180/200 km/h, frane, smottamenti, mareggiate, ha messo in luce per l’ennesima volta l’alto prezzo che si paga alla mancata prevenzione dei disastri “naturali” i cui danni non sono solo materiali, e già questi sono stati ingenti, ma si portano appresso sempre un carico di morti: i morti sono 32, gli sfollati e coloro che hanno perso tutto sono qualche migliaio. Ben 11 regioni (su 20 che costituiscono il territorio italiano) hanno chiesto lo “stato di emergenza”, ma le cause di questa emergenza è conosciuta da decenni ed ogni volta che succede un disastro è come se capitasse per la prima volta!

«Secondo il progetto Aree vulnerate italiane (Avi) del Cnr – scrive ancora il geologo Mario Tozzi (9) – il totale del territorio a rischio di frane,  comunque vulnerabile dal punto di vista idrogeologico, in Italia, è pari al 47,6%. Quasi il 15 per cento del totale nazionale delle frane, e quasi il 7% delle inondazioni, avvengono in Campania (1600 in 75 anni), dove 230 comuni (da Ricigliano a Sorrento) su 551 sono a rischio di smottamento; le vittime legate a eventi di tale natura, negli ultimi cinquant’anni, sono state in questa regione quasi 400 sulle 4000 nazionali. La superficie esposta al rischio di frane e alluvioni è, in Campania, pari al 50,3 per cento. Dal momento che il Trentino-Alto Adige sfiora l’86 per cento – in vetta alla graduatoria – le Marche arrivano all’85 e il Friuli-Venezia Giulia è ben al di sopra del 50, viene da chiedersi come mai in Campania quel rischio potenziale si traduca più spesso che altrove in catastrofe (...). Basilicata, Calabria e Sicilia, dal canto loro, hanno comunque oltre il 60% del loro territorio a rischio». Non è quindi un caso che tra le regioni che hanno chiesto allo Stato centrale lo “stato di emergenza”, per ottenere ovviamente più stanziamenti per gli interventi necessari, siano quelle già note per l’alto rischio idrogeologico come Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Calabria, Sicilia, Liguria, Veneto ecc.

 

I capitalisti levano il calice, di fronte ai terremoti, così come di fronte ad ogni alluvione

 

Prendendo in considerazione il bacino del Po, si ha un’ulteriore dimostrazione di come l’attività capitalistica distrugga ogni possibilità di tirare le necessarie lezioni dalle catastrofi, già avvenute nei secoli, al fine di pianificare gli insediamenti umani riducendo al minimo assoluto gli effetti che la Terra, nella sua morfologia e nella sua conformazione idrogeologica, come nel suo movimento costante, provoca ineluttabilmente. Tutti i geologi sostengono, almeno fino ad oggi, che i terremoti non sono prevedibili, anche se l’esperienza tratta da tanti fenomeni sismici dovrebbe indirizzare in modo più accorto la presenza umana nelle aree interessate dall’attività sismica. Allo stesso tempo, i geologi sostengono che i fenomeni franosi, gli smottamenti, le alluvioni sono sicuramente prevedibili. E questo fa dire che «dove c’erano boschi ben tenuti e mancavano opere di canalizzazione esasperata, le acque meteoriche impiegavano il doppio del tempo per raggiungere il fiume; in altre parole, lo scorrimento superficiale era più lento, le possibilità di evaporazione e di infiltrazione erano maggiori e il territorio ne risultava, di conseguenza, più protetto. Permeabilità del suolo, tipo e densità di vegetazione sono dunque fattori decisivi a parità di pioggia caduta: opere di irreggimentazione indiscriminata, disboscamenti e incendi “preparano” il terreno a un’erosione accelerata le cui inevitabili conseguenze catastrofiche si fanno sentire al primo evento piovoso che oltrepassi le medie stagionali» (10). E di eventi piovosi che oltrepassano le medie stagionali (almeno, secondo i rilevamenti che coprono un periodo di un secolo circa, quindi, dal punto di vista udometrico e idrometrico, poca cosa) se ne sono verificati parecchi negli ultimi anni e se ne verificheranno ancora molti, in tutto il mondo. Ma ciò che risalta immediatamente, ogni volta, di fronte ai disastri corrispondenti alle precipitazioni di grande intensità e quantità, è la costante mancanza dei servizi necessari e di opere di manutenzione e di miglioramento riguardo gli alvei e gli argini dei fiumi e dei torrenti, per non parlare dell’intombamento dei corsi d’acqua e della cementificazione del suolo.

Una gran parte della popolazione italiana attuale si ricorda ancora molto bene dell’alluvione del Polesine, una delle più disastrose avvenute in Italia. Era il 14 novembre 1951, e dopo alcuni giorni di pioggia intensa su tutto il nord Italia alpino e prealpino, con gli affluenti sia di destra che di sinistra che portavano al Grande Fiume molta più acqua del solito, e il mare che non riceveva più facendo crescere il fiume di 3 cm l’ora; la sera del 13 novembre, in provincia di Rovigo, ha ceduto un argine di golena a S. Maria Maddalena (frazione di Occhiobello) e la mattina del 14 il Po ha rotto l’argine maestro a Paviole (frazione di Canaro) e, in brevissima successione, a Bosco e a Malcantone (ancora Occhiobello); in pochissime ore vengono allagati 40.000 ettari di campagna. Le tre bocche di rotta principali erano molto ampie, misuravano 220 m la prima, 204 m la seconda e 312 m la terza, e rimasero attive per 37 giorni, dal 14 novembre al 20 dicembre 1951. In tutto questo tempo le acque del Po inondarono anche la città di Rovigo e numerosi paesi fra cui Adria, Loreto, Cavarzere, dunque anche in provincia di Venezia. L’acqua si mescolava con la terra dei campi, allagava le case, si portava via tutto quel che trovava, i mobili delle case, gli animali, le persone: furono 91 i morti in provincia di Rovigo, e in totale furono 138, con 180.000 senza tetto. I danni all’agricoltura furono enormi: oltre 13.000 animali morti o dispersi, 100.000 tonnellate di grano  perdute, oltre 21.000 ettari di coltivazioni danneggiati. Si contarono 52 ponti distrutti, 1200 abitazioni e 9000 strutture agricole distrutte o seriamente danneggiate (11). Il primo grande disastro in Italia dopo la fine della seconda guerra imperialista; primo di una serie interminabile. 

Ma i servizi di guardia alle piene esistevano; ben tre istituzioni pubbliche avevano il compito di prevenire ed affrontare la situazione (il Genio Civile, il Magistrato alle Acque di Venezia e il Ministero dei Lavori Pubblici, oltre alla Prefettura e alla Provincia, competenti rispettivamente per gli aspetti idraulici, dell’ordine pubblico e del soccorso alle popolazioni interessate), ma fu subito evidente che proprio queste istituzioni non fecero quel che dovevano. Sull’alluvione del Polesine, nel giornale di partito di allora scrivemmo: «E’ assai sintomatico per la diagnosi dell’attuale fase del regime capitalistico che un alto funzionario del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici si sia lasciato andare a dire che i servizi di guardia alle piene hanno defezionato al momento buono: il solo che costituiva lo scopo per cui li si stipendia in permanenza; questo lo stile della moderna burocrazia» (12).

Altro aspetto permanente del  regime capitalistico riguarda il lavoro del passato. Nell’articolo del 1951 ora citato, si riporta il parere di scrittori di riviste tecniche di allora, come ad esempio: “Si spendono decine di miliardi per effetto degli allagamenti (e domani centinaia), dopo aver sistematicamente lesinati e negati i pochi fondi per le opere di manutenzione e persino per la chiusura delle rotte”, mentre ci si impegna sistematicamente a progettare nuove opere, meglio se grandi opere. Gli stessi borghesi, ieri come oggi, confessano che le risorse necessarie alla manutenzione e alla conservazione delle opere esistenti sono nettamente inferiori a quelle necessarie per costruirne di nuove. «Il capitale – si può leggere ancora nel “filo del tempo” citato – è ormai reso inadatto alla funzione sociale di trasmettere il lavoro dell’attuale generazione alle future e di utilizzare per questa il lavoro delle passate. Esso non vuole appalti di manutenzione, ma giganteschi affari di costruzione: per renderli possibili, non bastando i cataclismi della natura, il capitale crea, per ineluttabile necessità, quelli umani, e fa della ricostruzione post-bellica “l’affare del secolo”» (13). Non solo della ricostruzione post-bellica, ma di ogni ricostruzione tout court!

 

Una mortuaria lista dei disastri

 

Basta andare su internet e digitare: alluvioni e inondazioni in Italia, per scoprire l’enorme quantità di eventi disastrosi avvenuti nel nostro Bel Paese. Mettendo in evidenza anche soltanto quelli più gravi, per numero di morti e feriti, per numero di sfollati e di danni alle case, alle campagne e alle infrastrutture, dalla fine del secondo macello mondiale ad oggi se ne contano più di 70, che hanno colpito quasi tutte le regioni, anche se alcune più di altre.

Per darne un quadro ecco un breve riassunto con alcuni dati che possono dare l’idea dei disastri umani e materiali. Dopo l’alluvione del Polesine del novembre 1951 di cui abbiamo già parlato, scorriamo il tragico film dal 1954 ad oggi (14).

1954, 25-26 ottobre. Colate di fango e detriti inondarono Salerno e alcuni paesi limitrofi con danni enormi alla popolazione e alle cose: 318 tra morti e dipersi, 157 feriti, 5.500 sfollati e senza tetto. Strade e ferrovia di collegamento tra Napoli e il Sud distrutte in più punti.

1963, 9 ottobre, la tragedia del Vajont. Fra 240 e 300 milioni di m³ di roccia si staccarono dal Monte Toc precipitando nel lago artificiale della diga del Vajont. L’onda causata dal crollo della montagna, alta decine di metri, superò la diga, quasi senza danneggiarla, e in 7 minuti raggiunge la cittadina di Longarone, distruggendola completamente e facendo oltre 2000 morti.

1966, 3-4 novembre. Una piena dell’Arno inonda la città di Firenze provocando danni ingenti sia al patrimonio storico e artistico della città, sia alle 5 province del bacino dell’Arno. 48 morti, 5 dispersi, 46.600 sfollati e senza tetto. Negli stessi giorni ci furono precipitazioni eccezionali in tutto l’arco alpino orientale, nella pianura veneta e nella bassa padana, che causarono inondazioni e frane in trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Veneto ed Emilia Romagna. I morti furono 88, gli sfollati più di 42.000.

1970, 7-8 ottobre. Genova e provincia: esondazione dei fiumi Polcevera, Leiro e Bisagno. Strade e ferrovie interrotte in più punti; 35 morti, 8 dispersi, 1 ferito. 200 gli sfollati. Danno economico stimato per la sola città di Genova: 45 miliardi di lire.

1982, 13 dicembre. Una grande frana si mise in moto a nord del porto di Ancona. Furono danneggiati 2 ospedali e la Facoltà di Medicina; 280 edifici distrutti o seriamente danneggiati. La frana divelse la ferrovia e danneggiò la strada costiera per 2,5 km. Più di 3.300 persone furono evacuate, in 500 persero il lavoro. Danni economici stimati: 1.000 miliardi di lire.

1985, 19 luglio. Val di Stava. Le strutture di ritenzione di due laghi artificiali utilizzati per scopi minerari, nei pressi di Tesero, in Trentino, crollarono causando la più estesa colata di fango avvenuta in Italia. 230 milioni di m³ di detrito, fango e acqua colarono a velocità sostenuta lungo la Valle del torrente Stava e in pochi minuti raggiunsero il paese di Tesero. 268 morti, 30 feriti, 70 edifici distrutti. Danno economico stimato: 8,5 miliardi di lire.

1987, 17-19 luglio. La Valtellina venne investita da centinaia di frane e colate di detrito; il fiume Adda e i suoi affluenti esondarono in più punti. Il 28 luglio una valanga di roccia di 35 milioni di m³ si staccò dal Monte Zandilla, a sud di Bormio, e precipitò nella Valle dell’Adda ostruendola. 49 morti, 12 dispersi, 31 feriti, 20.000 evacuati. Danni in 162 comuni, stimati tra i 1.000 e i 2.000 miliardi di lire.

1994, 2-6 novembre. Piemonte. Decine di inondazioni e migliaia di frane causarono 172 vittime di cui 78 morti, 93 feriti e 1 disperso. Evacuati 9.500; 496 comuni danneggiati soprattutto nelle loro infrastrutture: 10 ponti distrutti, 100 ponti danneggiati.10.000 persone disoccupate. I danni maggiori nella Valle del fiume Tanaro, tra Alba, Asti e Alessandria. Danni economici stimati tra i 15.000 e i 25.000 miliardi di lire, pari all’1,2% del PIL del 1994.

1996, 19 giugno. Versilia, oltre 450 mm di pioggia in 4 ore: 13 morti e centinaia di senza tetto per inondazioni e frane. Il paese di Cardoso, situato nel fondovalle del torrente Cardoso, prospiciente il Parco naturale delle Alpi Apuane, fu distrutto, e semidistrutto il Ponte Stazzemese.

1998, 5-6 maggio. Alluvione di Sarno e Quindici, tra Salerno, Avellino e Caserta. 160 morti, di cui 137 solo a Sarno, 70 feriti, 5 dispersi. Dal monte Pizzo d’Alvano, colpito da intense piogge, si produssero numerose colate di detrito che interessarono i suoli vulcanici non consolidati. Dopo questa ennesima tragedia, il governo dell’epoca emanò una nuova legislazione sulle procedure per la valutazione del rischio frana e di inondazione in Italia.

Ma i disastri idrogeologici non si fermarono!

2000, 10 settembre. Calabria, Soverato. La piena del torrente Beltrame cancellò il Camping “Le Giare”: 11 morti, 4 dispersi, 25 feriti. Danni gravi in tutta la Calabria jonica.

2000, 13-16 ottobre. Val d’Aosta, Piemonte, Liguria. L’Italia nord-occidentale venne colpita da intense piogge (caddero fino a 600 mm di pioggia in 48 ore) che produssero numerose frane, colate di detrito e inondazioni. Al termine del drammatico evento si contarono 37 fra morti e dispersi, oltre 40.000 sfollati, 3.000 disoccupati, e un danno economico stimato (nel 2001) in 2,5 miliardi di euro.

2003, tra il 29 agosto e il 23 settembre. In tre diversi eventi, il 29 agosto, all’inizio e verso la fine di settembre, in tre regioni diverse, a Pontebba, in provincia di Udine, in provincia di Taranto e nel Carrarese, morirono 6 persone; tutti gli eventi, provocati da piogge intense e conseguenti frane (300 mm di pioggia in 6 ore a Pontebba, da 212 mm in tre ore e poi 300 mm in altre 6 ore nel tarantino fecero straripare il fiume Lenne, e infine 200 mm di pioggia in sole due ore e mezza nel carrarese, fecero straripare il torrente Carrione), causarono gravi danni alle campagne, e alle cittadine; numerosi i ponti crollati e le strade danneggiate. Danni economici stimati in 28 milioni di euro nel solo comune pugliese di Palagiano (famosa “città delle clementine”).

2005, 25 settembre - 2006, 30 aprile e 3 luglio. Nella prima data, a Terracina (Lazio) violente precipitazioni causarono diverse colate di fango sui quartieri periferici; crollarono muri e si allagarono strade e cantine; danni e diversi feriti. Nell’aprile 2006, a Ischia, una frana colpì un quartiere e fece crollare una villetta, morirono 4 persone; 200 gli sfollati. Nel luglio 2006, in Calabria, a Vibo Valentia, 190 mm di pioggia in due ore causarono l’esondazione dei torrenti della zona, attivando frane, colate e valanghe di detriti, facendo 4 morti.

2008, 29 maggio e 22 ottobre. In maggio, a Villar Pellice, in provincia di Torino, a causa delle forti piogge, si generò una colata detritica torrentizia che travolse alcune case. 4 morti. In ottobre, in Sardegna, a Capoterra, in provincia di Cagliari, esondazioni improvvise del Rio S. Gerolamo; colate di acqua e detriti solidi abbatterono alcuni ponti. 5 morti.

2009, 18 luglio e 1° ottobre. Il 18 luglio, una frana di 60mila m³ di acqua e ghiaia si staccò dal monte Antelao, nel Cadore, precipitò sull’abitato sottostante e uccise 2 persone. Il 1° ottobre, in provincia di Messina, forti piogge generarono una serie di colate detritiche che travolsero molte abitazioni e automobilisti tra Giampilieri e Scaletta Zanclea. 36 morti.

2010, da settembre a novembre, quattro eventi alluvionali. Il 9 settembre, sulla costa Amalfitana, in provincia di Salerno esondò il torrente Dragone che scorre sotto l’abitato di Atrani, danni alle case e alle strade, 1 morto. Il 4 ottobre, la Liguria fu colpita da forti piogge che fecero straripare il torrente Chiaravagna, a Sestri Ponente, Genova, mettendo sott’acqua anche Pegli, Bolzaneto, Pontedecimo e Varazze (provincia di Savona). 1 morto. Il giorno dopo, il 5 ottobre un violento temporale scaricò 100 mm di pioggia in meno di due ore nella zona di Prato, in Toscana, causando la morte di 3 persone; diverse case e strade allagate e macchine tessili distrutte.

2011, marzo, giugno, ottobre e novembre. Il 3 marzo, vennero colpite la Romagna e, soprattutto, le Marche. Morirono 5 persone, 4 delle quali sorprese in auto dall’esondazione dei fiumi. Danni diffusi soprattutto nelle province di Teramo, Ascoli Piceno, Fermo, Macerata e Ancona. L’11 giugno, in provincia di Parma, a Collecchio e Fornovo di Taro, fortissime piogge causarono danni per circa 7, 6 milioni di euro, colpirono 50 attività produttive e 185 famiglie. 1 morto. Il 25 ottobre, alluvione nello spezzino e in Lunigiana, 13 morti. Il 4 novembre, alluvione a Genova e in Val Bisagno. 6 morti. Il 22 novembre, in provincia di Messina, una colata di fango travolse e uccise tre persone a Barcellona Pozzo di Gotto e a Scarcelli.

2012, 11-12 novembre, in Toscana. L’11 in provincia di Massa e Carrara, esondarono i torrenti della zona, numerose frane, colpite 5.000 abitazioni, 300 sfollati. 1 morto. Il 12, in provincia di Grosseto, esondarono il fiume Albegna, l’Ombrone, il Chiarone. Colpiti in particolare i centri abitati di Albinia, Marsiliana e Capalbio. 6 morti, tre dei quali per il crollo di un ponte a Capalbio.

2013, 18 novembre. Sardegna nord-orientale, Olbia, Nuoro, Uras, Bitti, Onanì, Torpè i centri abitati più colpiti. Precipitazioni molto intense andarono avanti per oltre 20 ore. Ponti crollati, campagne allagate, viabilità in tilt. Piene record dei fiumi Cedrino e Posada. 18 i morti in totale.

2014, maggio, agosto, ottobre, novembre. Sei eventi alluvionali. Il 3 maggio, nelle Marche, nel comune di Senigallia, cedette l’argine destro del fiume Misa riversando nelle strade adiacenti un muro d’acqua e fango, estendendosi poi verso la zona sud della città di Senigallia con interi quartieri sommersi anche da 2 metri di acqua e fango. Le forti piogge causarono piene, allagamenti e disagi anche nelle province di Pesaro e Urbino. 1 morto. Il 2 agosto, in provincia di Treviso, a Refrontolo, la piena del torrente Lierza investì un centinaio di persone raccoltesi per una manifestazione locale. 4 persone morirono nel tentativo di salvare le proprie automobili. Il 9-10 ottobre, Genova e il suo entroterra vennero colpiti da forti piogge che devastarono il piccolo paese di Montoggio. 1 morto. Il 5 novembre, alluvione a Carrara. Il solito fiume Carrione, in piena, ruppe l’argine all’altezza di Avenza, invadendo d’acqua l’abitato di Marina di Carrara. Sfollate alcune centinaia di persone, danneggiati case e fondi commerciali, in particolare quelli situati lungo il corso del fiume; un terzo del territorio, circa,  finì sott’acqua. Danni stimati per 100 milioni di euro. 1 morto. Il 10 novembre toccò invece alla Liguria. A Chiavari esondarono i torrenti Campodonico e Rupinaro allagando buona parte del centro storico e della stazione ferroviaria, mentre alle spalle di Chiavari, a Carasco, esondò il fiume Entella. 2 morti. Il 15 novembre, alluvione nuovamente a Genova: esondarono i torrenti Polcevera, a Pontedecimo e Bolzaneto, e il Cerusa a Voltri, nelle zone delle fabbriche, unitamente a molti altri corsi d’acqua come il Busalletta e il Migliarese, a Busalla, il rio Ruscarolo e il rio Fegino a Borzoli, il rio Torbella a Rivarolo. Sott’acqua finirono molti quartieri genovesi: Pontedecimo, Bolzaneto, Rivarolo, Certosa, Pegli, Sestri Ponente, Cornigliano, Sampiedarena. Allagamenti anche in provincia di Savona e Imperia; disastri nella piana di Albenga con molti danni alle attività agricole. 1 morto. Vasti allagamenti anche nelle province di Alessandria (per la piena dei fiumi Bormida, Orba e Stura) e a Milano, nella zona nord per il solito straripamento del fiume Seveso e per la piena del fiume Lambro.

2015, settembre e ottobre. Il 14 settembre, la provincia di Piacenza fu devastata dalle esondazioni improvvise dei fiumi Nure e Trebbia, dovute al maltempo e all’ammasso di detriti; diverse le località colpite. 3 morti. 31 ottobre/1 novembre. Alluvione nella Calabria jonica. Ingenti i danni. Colpita soprattutto la locride (un torrente in piena ruppe i binari della ferrovia), dove crollò una carreggiata del ponte Allaro sulla statale 106, ancora oggi non ricostruito. 1 morto.

2017, 9-10 settembre, alluvione a Livorno, città investita da una tempesta di pioggia, vento, fulmini che, in poche ore, rovesciò la stessa quantità di pioggia che normalmente cade in 8 mesi. La scarsa manutenzione del territorio e dell’alveo del fiume Ardenza provocò un disastro a uomini e cose. 9 morti, danni calcolati per oltre 3 milioni di euro.

E arriviamo agli eventi più recenti: il 20-30 ottobre 2018 sono colpiti la provincia di Belluno e l’alto Agordino. Centinaia di frane e smottamenti hanno interessato anche il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia. Strade crollate ed erose dall’acqua. Torrenti e laghi esondati hanno invaso i centri abitati. In Trentino, il vento fortissimo, fino a 180 km/h, ha scoperchiato case e abbattuto interi boschi, anche quelli degli abeti rossi, legno pregiato con cui vengono costruiti i violini Stradivari (stimati 2 milioni di m³ di alberi schiantati, circa 14 milioni di alberi); 26 strade interrotte. Danni ad abitazioni, imprese e attività economiche varie, stimati in 300 milioni. In Friuli Venezia Giulia, a sua volta, colpito anch’esso dalla tempesta d’acqua e dal vento a 180 kmh, si sono registrate 18.500 persone senza elettricità e telefono; migliaia di ettari di bosco distrutti, strade scomparse, fiumi e torrenti esondati, un ponte crollato. I danni, soprattutto tra la Carnia e la provincia di Pordenone, sono stati stimati in 500 milioni di euro.

Il 30-31 ottobre, in Liguria c’è stata una specie di “apocalisse”. Al vento fortissimo e alle forti pioggie si è unita la rabbia del mare. Da Arenzano ad Alassio, il mare si è ripreso la costa che l’uomo gli aveva malamente strappato cementificando tutto il possibile e l’impossibile: le passeggiate a mare, le strade costiere e la stessa ferrovia in parallelo, le abitazioni prospicienti la riviera, i porti e i porticcioli turistici costruiti tenendo conto soprattutto degli affari e dei profitti: la furia del mare ha colpito tutto senza eccezioni. E la stessa cosa è accaduta nella riviera di Levante, a Rapallo, a Santa Margherita, a Portofino, l’intero Tigullio, e sul litorale tra Chiavari e Lavagna, e nello spezzino. Cabine dei lidi che non esistono più, spiagge scomparse, sabbia e sale che hanno invaso le strade e i quartieri rivieraschi, barche da pesca, da diporto e yacht scaraventati sulle case e nelle piazze, dighe foranee frantumate, come quella di Rapallo.

Siamo ben lontani dalla conoscenza della morfologia del territorio, delle coste e del mare che avevano le antiche Repubbliche marinare di Genova e di Noli, e ben lontani dalla conoscenza del territorio che avevano gli stessi antichi romani che costruivano le strade a monte e non in riva al mare... 3 novembre, dell’alluvione a Casteldaccia abbiamo già parlato sopra.

In questi giorni il conto totale porta a 32 morti. La prima tragedia, il 28 ottobre, è avvenuta a Crotone: 4 operai vengono travolti da una frana mentre stavano aggiustando il collettore di una rete fognaria nel giardino del loro stesso datore di lavoro mentre pioveva abbondantemente. Il 29 ottobre il vento uccide altre 6 persone, il 30 perdono la vita altre 6 persone; l’1 novembre altri 4 morti, e poi i 12 morti in Sicilia di cui 9 soltanto a Casteldaccia.

Dunque, altri morti e altre distruzioni immolati al profitto capitalistico e su cui le lacrime ipocrite dei governanti e dei politicanti di ogni risma nascondono, ma malamente, le vere cause di tante tragedie.

 

Capitalismo, economia della sciagura

 

Non smetteremo mai di denunciare le cause di fondo di queste tragedie, e di chiamare i proletari ad aprire gli occhi e le menti sulla realtà del capitale e del regime borghese che ne difende gli interessi in ogni situazione, in ogni paese, in ogni occasione, contro ogni evidenza; un regime politico e sociale che non sarà mai in grado di risolvere i danni che lui stesso produce; un regime che usa l’inganno della democrazia al solo fine di mantenere le grandi masse proletarie, autoctone e immigrate, sottomesse alle leggi del capitale, alla legge del profitto capitalistico: una legge che non ammette deroghe, nemmeno da parte degli stessi borghesi, facendo fare loro il ruolo di apprendisti stregoni mentre, nella realtà quotidiana, il loro ruolo è quello di essere i più perfidi e cinici aguzzini del lavoro vivo, del lavoro salariato, dunque, in primis, del proletariato.

«Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia» (15), affermava Marx nella sua opera più famosa, dopo aver dimostrato, con tutte le formule necessarie, il reale processo capitalistico di produzione. «Il capitale ha la funzione demoniaca di incorporare lavoro vivente, nel lavoro morto, diventato cosa», commentavamo nel “filo del tempo” intitolato “Omicidio dei morti” (16), concludendo «Che gioia che gli argini del Po non siano immortali, e vi si possa oggi allegramente “incorporare lavoro vivente”! Progetti e capitolati sono stati approntati in pochi giorni! Ma bravi: avete il diavolo in corpo». Di fronte ad ogni catastrofe, appena finito di contare i morti e i dispersi, emergono rapidamente “progetti e capitolati”, magari approntati in tempi precedenti alla tragedia, e pronti per essere deliberati tanto da iniziare nel giro di poco tempo la tanto attesa “ricostruzione”. Col ponte Morandi a Genova non è forse avvenuto lo stesso? Anche per il Ponte Morandi, come per tutte le altre catastrofi, anche quelle chiamate “naturali”, come i terremoti, le alluvioni, le frane, vale la regola generale che nel “filo del tempo” appena citato viene così sintetizzata: «Il capitale moderno, avendo bisogno di consumatori perché ha bisogno di produrre sempre di più [il mito della continua “crescita economica” è tipico del capitalismo, ndr], ha tutto l’interesse ad inutilizzare al più presto possibile i prodotti del lavoro morto per imporne la rinnovazione con lavoro vivo, il solo dal quale “succhia” profitti» (17). Guerra e disastri accompagnano da sempre il capitalismo: vera economia della sciagura.

Dopo l’alluvione di Livorno del settembre 2017, scrivevamo: «I tempi della natura sono molto diversi dai tempi che servono al borghese per misurare la quantità di profitto capitalistico che può intascare rispetto all’investimento effettuato... 50 anni nella storia della terra non sono niente, sono un battito d’ali; 50 anni nella storia del capitalismo sono, per i borghesi, un periodo lunghissimo in cui può succedere di tutto, per il bene o il male delle sue tasche. Il capitalista non ragiona sui tempi lunghi, sui tempi storici, sui tempi della natura, ma sui tempi di produzione del profitto capitalistico che sono tempi stretti, velocissimi e nei quali ogni capitalista può guadagnare o perdere con estrema facilità; basta osservare i listini di Borsa. Il capitalista – e così il suo Stato, il suo governo, i suoi politici e i suoi amministratori pubblici – non ragiona nemmeno in termini di prevenzione, perché prevenzione significa investire oggi su qualcosa che non dà immediato profitto e perciò risulterebbe capitale sprecato; ma ragiona molto bene sulle disgrazie, sulle catastrofi, sui disastri perché questi, una volta avvenuti e fatti i calcoli dei danni, si presentano come opportunità per grossi affari sia in termini di emergenza sia in termini di ricostruzione, come succede dopo ogni terremoto, ogni alluvione, ogni frana, ogni “catastrofe naturale”» (18). Non c’è da cambiare una virgola; anzi, c’è da ribadire quanto affermato nell’ultimo “filo del tempo” citato: «Tutte le operazioni produttivistiche dell’economia italiana e internazionale sono dal più al meno tanto distruttivistiche quanto lo sconvolgimenti padano: l’acqua entra da una parte e scappa dall’altra. Un tale problema è insuperabile in campo capitalistico. Se si trattasse del piano di fare in un anno le armi per dare ad Eisenhower [oggi, per darle a Trump, ndr] le sue cento divisioni, la soluzione si trova. Sono tutte operazioni a ciclo breve ed il capitalismo va a nozze se la commessa di diecimila cannoni ha il termine di cento giorni e non di mille. Non per nulla c’è il pool dell’acciao! Ma il pool dell’organizzazione idrogeologica e sismologica non si può fare, a meno che l’alta scienza del tempo borghese non riesca davvero a provocare in serie, come i bombardamenti, anche le alluvioni e i terremoti» (19).

 

 


 

 

(1) La geologia è la branca delle scienze della Terra che studia la terra e i processi che la plasmano e la cambiano; la stratigrafia studia la datazione delle rocce e i rapporti reciproci tra unità rocciose, in particolare per le rocce sedimentarie. Niccolò Stenone, considerato padre della geologia e della stratigrafia, è vissuto tra il 1638 e il 1686. Déodat de Dolomieu, marchese francese, geologo, vissuto tra il 1750 e il 1801, scoprì la dolomia, una roccia delle Alpi molto particolare, da cui il nome alle Dolomiti; scoprì e diede il nome a molti minerali nuovi o sconosciuti (dal berillo allo smeraldo, dalla celestite all’antracite ecc.). Charles Lyell, vissuto dal 1797 al 1875, contemporaneo e amico di Darwin e sostenitore critico della sua teoria, per la sua opera principale, Principi di geologia, è considerato il padre della geologia moderna.

(2) Cfr. il fatto quotidiano, 13/10/2017.

(3) I dati sono del CRED (Centre for the Epidemiology of Disaster), e sono riportati da www.huffingtonpost.it.

(4) Ibidem.

(5) Vedi, Mario Tozzi, Catastrofi. Dal terremoto di Lisbona allo tsunami del sudest asiatico: 250 anni di lotta tra l’uomo e la natura, Rizzoli, 2005, p. 113-114.

(6) Cfr. www.isprambiente.gov.it/it/temi/suolo-e-territorio/dissesto-idrogeologico/le-frane

(7) Ibidem.

(8) Vedi www.ilsecoloxix.it/p/italia/2018/11/05/ADvkYwRC-maltempo_vittime_sicilia.shtml

(9) Vedi, Mario Tozzi, Catastrofi, cit. p. 115.

(10) Ibidem, p. 123.

(11) Vedi Alluvione del Polesine del novembre 1951, wikipedia; la Nuova Ferrara, 14/11/2010; Eventi idrogeologici catastrofici nel dopoguerra in Italia, http: // sici. irpi. cnr. it/   storici_italia.htm

(12) Cfr. l’articolo sull’alluvione del Polesine, Piena e rotta della civiltà borghese (serie “Sul filo del tempo”), pubblicato nell’allora giornale di partito “battaglia comunista” n. 23 del 1951; poi raccolto nel volume Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Iskra edizioni, Milano 1978, p. 30.

(13) Ibidem, p. 31.

(14) Cfr. http: // sici. irpi. cnr. it/  storici _italia.htm, ma anche https://it.wikipedia.org/wiki/Lista_di_alluvioni_e_inondazioni_in_Italia

(15) K. Marx, Il capitale, Einaudi, Torino 1975, Libro I, cap. 8, pp. 281-282.

(16 e 17) Omicidio dei morti,  in Drammi gialli e sinistri..., cit, p. 38 e p. 40.

 (18) Vedi l’articolo Lo stupro del territorio in un’Italia idrogeologicamente e morfologicamente fragile ha fatto registrare altri disastri e altri morti, “il comunista” n. 150/2017.

(19) Vedi Omicidio dei morti, in Drammi gialli e sinistri..., cit. p. 42.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice