L’Italia è una nazione... fatta da tanti staterelli?

(«il comunista»; N° 157; Gennaio 2019)

 Ritorne indice

 

 

Sono due i miti dei quali la borghesia italiana andava e va fiera: quello del Risorgimento e quello della Democrazia. Due miti nati e cresciuti sotto una stessa cupola che conteneva la monarchia e il suo contrario, la repubblica; nell’uno e nell’altro caso l’unificazione dell’Italia corrispondeva più ad una espansione del Regno di Sardegna che a suo superamento e a un’unificazione in una sola nazione che le vicende storiche avevano diviso tra molte potenze straniere.

Dalla stessa storia dell’Italia emerge che le tendenze regionaliste e le aspirazioni separatiste, presenti da secoli in Italia, in realtà non sono mai state superate, non sono mai scomparse nonostante la vittoriosa “unità” nel Regno d’Italia, nell’Ottocento, e nella Repubblica democratica, nel Novecento, salvo nel breve periodo storico che corrisponde al ventennio fascista. In questo ventennio, la borghesia italiana si trovò a dover erigere, di bel nuovo, un’organizzazione sociale che superasse l’acuta concorrenza tra le diverse frazioni borghesi presenti nel paese, per poter affrontare l’imminente pericolo, per la sua stessa sopravvivenza come classe dominante, costituito dal movimento rivoluzionario del proletariato. Nel primo dopoguerra, e in collegamento col movimento rivoluzionario proletario europeo, e russo in particolare, il movimento proletario rappresentava concretamente l’alternativa storica al capitalismo, e la vittoria dell’Ottobre russo ne aveva indicato chiaramente la strada. Vale la pena dare uno sguardo, a volo d’uccello, alle origini della classe dominante borghese italiana e alla formazione del suo Stato.

Quello che giustamente era stato chiamato il piemontesismo, che caratterizzava il Regno Sabaudo, accompagnò, sotto vicende costantemente contraddittorie e alleanze contrastanti, tutte le lotte di “liberazione” dalle potenze europee che da secoli dominavano frammenti d’Italia: dai Borboni agli Asburgo, dagli aragonesi ai francesi e ai tedeschi fino allo Stato Pontificio. Un piemontesismo che, appoggiandosi ora su una ora sull’altra potenza europea, giunse al punto di essere - dopo la storica Restaurazione del 1815 che decretò il rafforzamento del potere politico, anche se temporaneo, dell’assolutismo (prussiano e asburgico, soprattutto) - l’unica forza statale, organizzata e armata, in grado sia di approfittare della spinta popolare a “liberarsi” di tutti gli “stranieri”, sia di approfittare dei contrasti tra Francia, Austria-Ungheria e Germania a causa dei quali nessuna delle tre aveva la forza di sconfiggere le altre per colonizzare, da sola, l’intero territorio italiano. Un territorio, quello italiano, molto ambito per la sua posizione geografica centrale nel Mediterraneo – quindi centrale per tutti i traffici commerciali verso l’Oriente vicino e lontano – ma difficile da controllare data la caratteristica peninsulare  con le proprie coste aperte sia ad Est che a Sud e ad Ovest. Engels, nei suoi scritti dedicati all’Italia (in particolare Po e Reno, del 1859, e Nizza, Savoia e Reno, del 1860), rilevava che, per ragioni strategiche e militari, il confine sud della Germania era segnato dal Po e che per questo, all’epoca, era interessata a sostenere l’Austria in tutta l’alta Italia e in particolare nel Lombardo-Veneto; e rilevava che, per le stesse ragioni, il confine della Francia poteva essere spostato fino alla riva destra del Ticino (fiume che segnava il confine del Piemonte sabaudo con la Lombardia austriaca) se mai avesse avuto l’interesse di battere in una guerra il Regno Sabaudo col quale, però, sembrava più conveniente trattare un’alleanza, anche per contrastare la tendenza sabauda ad intrecciare accordi con le potenze tedesca e inglese, nemiche storiche della Francia.

Nel periodo in cui Napoleone con le sue armate stava conquistando mezza Europa, la giovane borghesia italiana si attendeva dalle sue vittorie – come nelle Fiandre, in Olanda, nella Savoia e fino alla sponda sinistra del Reno, così nella sua campagna d’Italia contro l’Austria, nella quale, superate le Alpi e vinto rapidamente lo scontro con il Regno di Sardegna, lanciava le sue truppe a sbaragliare gli austriaci respingendoli fino al Tirolo – la definitiva “liberazione”, almeno per cominciare, dal potere reazionario asburgico arginando i tentativi dello Stato pontificio di estendere il proprio dominio fino alle Venezie. Ma Luigi Napoleone volle invece trattare con Vienna una pace per garantirsi i buoni rapporti con la Russia zarista, accontentandosi della Repubblica Cisalpina che si estendeva fino ad ovest dell’Adige, deludendo così le ambizioni “nazionali” che gli italiani covavano, all’epoca, sotto la protezione dell’esercito francese. Ma «l’Italia era divisa in tanti piccoli Stati, i quali però, riuniti, pur potevano opporre qualche resistenza. Bonaparte fu sì destro – scriveva Vincenzo Cuoco (1) – da dividere i loro interessi. Questa è la sorte, dice Machiavelli (2), di quelle nazioni le quali han già guadagnata la reputazione delle armi: ciascuno brama la loro amicizia, ciascuno procura distornare una guerra che teme». E quegli interessi contrastanti tra i tanti piccoli Stati provocavano ovviamente una divisione che indeboliva l’ambizione politica nazionale degli italiani, ma la cosa più grave, secondo il Cuoco, stava nel fatto che «da duecento anni o conquistati o, quel che è peggio [sottolineato da noi, NdR], protetti dagli stranieri, all’ombra del sistema generale di Europa, senza aver guerra tra loro, senza temerne dagli esteri, tra la servitù e la protezione, avean perduto ogni amor di patria ed ogni virtù militare» (3). Il mito di un’Italia unita, di un’Italia repubblicana sorta dall’intreccio della Repubblica Cisalpina con la Repubblica romana e con la Repubblica napoletana, resisteva presso i poeti, i letterati e i ceti borghesi rivoluzionari, ma per la maggior parte delle borghesie lombarda, veneta, emiliana, toscana, romana, napoletana e siciliana – anelante ciascuna, idealmente, ad una “Italia unita”, ma, praticamente, desiderosa a non sacrificare i propri interessi locali a favore dell’interesse più generale e nazionale – demandava al re sabaudo, che si faceva passare per “la spada d’Italia”, la direzione della rivoluzione nazionale, sperando, gattopardescamente, che nulla in realtà cambiasse. Nei fatti, però, il re sabaudo tradiva ogni promessa “unitaria” e ogni aspirazione “nazionalrivoluzionaria”: nel 1848-49, Carlo Alberto non ebbe il coraggio nemmeno di approfittare delle condizioni estremamente favorevoli che si erano presentate nel marzo 1848 per cacciare l’Austria dall’Italia; tentennò, si disse (nei libri di scuola veniva chiamato pudicamente “Re Tentenna”), in realtà tradì la causa per la quale si era proposto come il “liberatore d’Italia” perché non aveva alcun interesse a sostenere la spinta liberale e rivoluzionaria del popolo che combatté gagliardamente, ma perse («Il popolo italiano – affermava Engels nell’agosto 1848, dopo che gli austriaci, cacciati da Milano nel marzo, la riconquistarono qualche mese dopo, senza che Carlo Alberto e i suoi generali organizzassero una qualsiasi difesa – non ha indietreggiato dinanzi a nessun sacrificio. A prezzo del suo sangue e dei suoi averi esso era pronto a condurre a termine l’opera iniziata e a conquistare con la lotta la sua indipendenza nazionale» (4). E Vittorio Emanuele, poi, nel 1859, nella “guerra d’Italia” condotta da Luigi Napoleone, pur tentando di ritagliarsi un ruolo importante nella guerra contro l’Austria, gettando in campo le proprie finanze e il proprio esercito, non riuscì a svolgere che un ruolo di comprimario di secondo grado, tanto da dover subire le decisioni che Francesco Giuseppe e Bonaparte presero nel trattato di pace di Villafranca che, stabilendo la fine della guerra, ridurrà per l’ennesima volta la “nazione italiana” a oggetto di mercanteggiamento tra le vere potenze: l’Austria cede la Lombardia a Bonaparte, che a sua volta ne fa dono a Vittorio Emanuele, il quale non sarà nemmeno ammesso alle trattative di pace; gli italiani ci hanno messo il sangue (Garibaldi con i suoi cacciatori delle Alpi, le insurrezioni della Toscana, di Parma, di Modena e di Romagna), ma i francesi e gli austriaci decidono quali briciole dare al re piemontese – la Lombardia – mentre Venezia e il quadrilatero delle fortezze (Mantova, Peschiera, Verona, Legnago) restavano all’Austria.

Ma il tradimento verso la rivoluzione italiana – una rivoluzione che nel 1848-49, e ancora tra il 1856 e il 1859, non poteva essere che borghese – non fu soltanto del re sabaudo, ma anche della stessa borghesia perché nei movimenti rivoluzionari di Milano, di Livorno e di Firenze, di Roma, di Napoli e di Palermo, la borghesia italiana  vedeva l’avanzare della rivoluzione di segno proletario e contadino. Le simpatie borghesi ora per gli austriaci, ora per i francesi, ora per il papato, a seconda degli interessi specifici di ogni borghesia provinciale, non erano che l’espressione di un’oscillazione continua tra le potenze che potevano assicurare certi vantaggi, a seconda dei loro specifici interessi di potenza, e a seconda delle circostanze determinate dalle guerre che esse si facevano. Ma il clima rivoluzionario che si respirava in tutta Europa fin dalla grande rivoluzione francese e che era sostenuto dallo sviluppo industriale capitalistico in tutta l’Europa continentale – di cui faceva parte anche il settentrione italiano, motivo concreto dello scontro continuo fra Austria e Francia e, dietro di loro, tra Russia, Prussia ed Inghilterra, scontro nel quale casa Savoia cercava di ritagliarsi la possibilità di annettere al suo regno l’Italia intera – muoveva non solo gli ideali patriottici che Mazzini rappresentò per più di vent’anni, ma anche le masse piccoloborghesi, proletarie e contadine che costituivano la forza d’urto delle insurrezioni contro gli austriaci, contro i borboni, contro il papato e che trovarono in Garibaldi il proprio eroe.

In realtà, l’idea dell’unità nazionale, la borghesia italiana la ricevette «dall’esterno, la elaborò ideologicamente e socialmente, la diffuse tra le classi medie e, non meno che altrove, si servì delle classi lavoratrici come strumento per realizzarla. Ma tale realizzazione fu più che in ogni altro paese infelice e contorta, e la sua fama riposa sull’immenso uso di falsa retorica, di cui fu infarcito tutto il cammino obliquo e opportunista del sorgere dello Stato borghese italiano»; così Bordiga in un articolo del 1946 sulla classe dominante italiana (5). E’ indiscutibile che il processo di formazione in Italia di uno Stato unitario e la costituzione del potere da parte della borghesia hanno presentato aspetti particolari che ne hanno ritardato, rispetto alle altre grandi nazioni europee, il processo di compimento. Abbiamo già detto della particolare struttura geografica del territorio italiano, sul quale hanno insistito invasioni e migrazioni di popoli di ogni provenienza, costituendo, dopo il collasso del sacro romano impero, stati e staterelli il cui equilibrio in epoca medievale non fu mai rotto da una forza capace di porre «le basi di uno Stato dinastico, aristocratico, teocratico, unitario, come avvenne negli altri grandi paesi». Qui basti ricordare quanto scrivevano Vico e Machiavelli; e non va dimenticata l’influenza reale della Chiesa, e del suo Stato pontificio, sul gioco delle forze europee che insistevano sul territorio italiano, e che, con le sue lotte, «determinò la situazione correntemente definita come dipendenza dallo straniero e suddivisione in molteplici staterelli semi-autonomi».

Le vicende storiche diedero la possibilità al Piemonte, sconfitto dall’Austria nel 1848, di approfittare, nel 1859, della vittoria francese sugli austriaci e facendosi regalare la Lombardia, e dirigendo quindi le sue mire verso il Sud. «Gli è facile liquidare gli staterelli vassali dell’Austria, ma deve sostare dinnanzi agli Stati del Papa per ordine del Padrone Francese. Tuttavia ha l’abilità di impadronisrsi senza colpo ferire di tutto il Sud d’Italia, occupato da Garibaldi, sotto pretesto di avergli mercanteggiato l’appoggio inglese ed offrendogli la solita cortese alternativa tra la figura di eroe nazionale e la nuova galera monarchica. Per avere il Veneto occorre, dopo Magenta e Soferino vinte dai francesi, attendere Sadowa vinta dai Prussiani, malgrado le dure batoste di Custoza e di Lissa. Infine, il retorico e pomposo coronamento dell’unità con Roma capitale è realizzato, ancora una volta, non certo attraverso la buffonesca breccia di Porta Pia, ma grazie alle armi prussiane di Sedan». Nei fatti, sgombrato il terreno dalla pomposa retorica sulla “liberazione dell’Italia” da parte dell’esercito sabaudo, «lo staterello piemontese, gonfiatosi a nazione italiana, non era che un servo sciocco dei grandi poteri europei e la sua monarchia dalle pretese glorie militari una ditta per affittare capitani di ventura e noleggiare, a vicenda, carne da cannone a francesi, spagnoli, austriaci; in ogni caso, al militarismo più prepotente e al miglior pagatore. Solo a questi patti un paese posto in così critica posizione poteva esibire per molti secoli una apparente continuità politica».

Nel 1861 nasce, quindi, lo Stato unitario italiano, sotto l’egida di un monarca che da Re di Sardegna diventa Re d’Italia (ma, tanto per non cambiare, continua a mantenere il titolo di Re di Sardegna), con il sostegno dei gruppi più progrediti della classe capitalistica del Nord che «assoggetarono a sé l’economia della penisola, conquistando utili sbocchi e mercati e venendo in molte zone a paralizzare lo sviluppo economico-industriale locale che, sebbene ritardato, si sarebbe esplicato efficacemente sotto un diverso rapporto di forze politiche», e con quello della classe dei proprietari terrieri del centro e del Sud che «non esitò affatto a porsi sotto l’egida del nuovo Stato – sempre a conferma della nessuna sopravvivenza di orientamenti feudalistici fra questi strati – ma anche la cosiddetta e famigerata classe dirigente del Mezzogiorno, composta di intellettuali, professionisti ed affaristi, e che si unì al potere dello Stato Italiano in una perfetta simbiosi basata sul concorde sfruttamento dei lavoratori e dei contadini». La dinastia e la burocrazia statale piemontese, da parte sua, riuscì a conquistare l’Italia sfruttando le «forze positive della classe borghese che, attraverso le molto fortunate e per nulla gloriose guerre di indipendenza, riuscì ad attuare la sua rivoluzione sociale, spezzò i predominî feudali e clericali e, secondo la classica funzione della borghesia mondiale, seppe farsi del proletariato il più efficace alleato, e costruirgli nel nuovo regime lo sfruttamento più esoso. L’operaio italiano fu tradizionalmente il più ricco di libertà retoriche e il più straccione del mondo».

La nuova classe dominante, la borghesia italiana, capace di intuire per tempo da che parte era il più forte per potercisi accodare, cambiando alleati senza troppi scrupoli, caratterizzava in questo modo il suo atteggiamento “naturale” in politica estera, che ritroveremo con clamorosa evidenza in occasione della prima guerra imperialistica mondiale: da alleato dell’Austria e della Germania nella Triplice Alleanza, a un anno circa dallo scoppio della guerra, e passato, con un primo tradimento, in posizione neutrale, cambierà fronte, intervenendo nel conflitto, con un secondo tradimento, al fianco dei nemici di ieri. E’ istruttivo constatare come «nel 1914, i vari consulenti della politica dinastica esitarono a pesare il pro e il contro circa l’orientamento in cui andava indirizzato il classico calcio dell’asino. E’ notevole rilevare che i gruppi nazionalistici dipendenti dall’industria pesante passarono audacemente dal sostenere l’intervento triplicista alla più accesa campagna per l’intervento contro l’Austria, il che dimostra che, per la moderna borghesia industriale, i fini della guerra sono materiali e non ideologici. La clamorosa conversione non impedì agli interventisti della sinistra democratica, socialistoidi o repubblicani, di accogliere a braccia aperte questi alleati nella campagna guerrafondaia del 1915, comprovando così che la genesi del fascismo ebbe la sua incubazione nella storia politica della classe dominante in Italia fin dalla costituzione nazionale».

Il ritardo con cui si attuò in Italia la rivoluzione borghese, sul piano sociale e politico, spiega in un certo senso il ritardo col quale la teoria rivoluzionaria del marxismo si diffuse fra le masse, mentre prevalevano in modo importante le tendenze anarchiche «che non costituiscono che l’esaperazione, per nove decimi letteraria, del liberalismo borghese e dell’individualismo illuminista. Ciò spiega anche come, prima di una solida tendenza marxista, si dilineino nel proletariato correnti da un lato riformiste e collaborazioniste, dall’altro di indirizzo sindacalista sul tipo francese sorelliano. Su tutto sovrasta ancora il mito dell’anticlericalismo». Ciò però non ha impedito alla corrente marxista di formarsi e svilupparsi in una lotta politica di alto profilo, già sul piano della lotta intransigente contro la democrazia, contro l’interclassismo favorito dall’anticlericalismo, contro la massoneria che era l’organizzazione più reazionaria della borghesia a quell’epoca, e contro il riformismo. Non per caso, al momento dello scoppio della guerra mondiale, il Partito socialista era nelle mani della frazione intransigente rivoluzionaria; e il proletariato in Italia, grazie alla preparazione classista a cui si dedicò incessantemente il Partito socialista, reagì molto meglio che in altri paesi all’opportunismo di guerra. «La coscienza politica della classe lavoratrice permise di resistere al dilagare delle tre menzogne fondamentali della propaganda interventista destinata a far tacere ogni palpito di azione e di lotta di classe: la difesa della Democrazia contro l’imperialismo teutonico, il trionfo del principio di nazionalità con la liberazione dei fratelli irredenti, la difesa del sacro suolo della patria contro l’invasione straniera». Ebbene, quel formidabile patrimonio classista del giovane proletariato italiano, contro cui hanno combattuto tutte le forze della conservazione borghese – tendenze e partiti opportunisti compresi – non è stato sufficiente per fermare il ciclone della guerra, e non è stato sufficiente perché il ritorno, finita la guerra, di combattività classista fosse vittoriosamente indirizzato alla conquista del potere politico e all’instaurazione della dittatura di classe, come era già avvenuto in Russia.

L’insufficienza politica, e quindi anche pratica, del Partito socialista, prima, durante e dopo la guerra, condusse lo stesso partito a deviare dalla rotta rivoluzionaria marxista, nonostante i proclami e l’adesione all’Internazionale Comunista, e a sprecare tempo prezioso ed energie potenzialmente rivoluzionarie, indirizzandone l’azione verso obiettivi che soltanto a parole richiamavano le grandi finalità rivoluzionarie, ma che in concreto imbrigliavano le lotte proletarie nel pantano della lotta parlamentare e riformista. La borghesia, in ogni caso, sentiva che il montare della lotta di classe proletaria poteva sfociare nella lotta rivoluzionaria vera e propria, ed è di fronte a questo pericolo che si decise ad accompagnare la repressione violenta dello Stato con le azioni squadristiche del nascente fascismo. Se poi il fascismo riuscì ad essere la soluzione borghese migliore per la salvezza del potere borghese e del capitalismo, lo si deve alla combinazione di diversi e concomitanti fattori. Il primo fattore, il più spettacolare, fu «l’organizzazione fascista mussoliniana, con le sue squadre, i gagliardetti neri, i teschi, i pugnali, i manganelli, i bidoni di benzina, l’olio di ricino, e tutto questo truce armamentario». Il secondo fattore, quello decisivo, fu «l’intera forza organizzata dell’impalcatura statale borghese, costituita dai suoi organismi. La polizia, quando la vigorosa reazione proletaria respingeva e pestava i neri, ovunque interveniva attaccando e annientando i rossi vincitori, mentre assisteva indifferente e soddisfatta alle gesta fasciste quando erano coronate da successo. La magistratura, che nei casi di delitti sovversivi e “agguati comunisti” distribuiva trentine di anni di galera ed ergastolo in pieno regime liberale, assolveva quei bravi ragazzi degli squadristi di Mussolini, pescati in pieno esercizio di rivoluzione e di assassinio. L’esercito, in base ad una famosa circolare agli ufficiali del ministro della guerra Bonomi, era impegnato ad appoggiare le azioni di combattimento fascista; e da tutte le altre istituzioni e caste (dinastia, chiesa, nobiltà, alta burocrazia, parlamento) l’avvento dell’unica forza venuta ad arginare l’incombente pericolo bolscevico era accolta con plauso e con gioia». Il terzo fattore, non meno importante, fu «il gioco politico infame e disfattista dell’opportunismo socialdemocratico e legalitario. Quando si doveva dare la parola d’ordine che all’illegalismo borghese dovesse rispondere (non avendo potuto o saputo precederlo e stroncarlo sotto le sporche vesti democratiche) l’illegalismo proletario, alla violenza fascista la violenza rivoluzionaria, al terrore contro i lavoratori il terrore contro i borghesi e i profittatori di guerra fin nelle loro case e nei luoghi di godimento, al tentativo di affermare la dittatura capitalista quello di uccidere la libertà legale borghese sotto i colpi di classe della dittatura proletaria, si inscenò invece la imbelle campagna del vittimismo pecorile, si dette la parola della legalità contro la violenza, del disarmo contro il terrore, si diffuse in tutti i modi tra le masse la propaganda insensata che non si dovesse correre alle armi, ma si dovesse attendere l’immancabile intervento dell’Autorità costituita dallo Stato, la quale avrebbe ad un certo momento con le forze della legge e in ossequio alle varie sue carte, garanzie e statuti, provveduto a strappare i denti e le unghie all’illegale movimento fascista». Si è visto come è finita: disarmato il proletariato sia politicamente che praticamente, il fascismo ebbe facile vittoria e il 24 ottobre 1922 poté inscenare la buffonata della marcia su Roma.

Una volta allontanato il pericolo della rivoluzione proletaria e schiacciati tutti i tentativi classisti del proletariato, per la classe dominante borghese rimanevano il problemadi trovare il modo di tacitare, almeno sul piano delle esigenze di vita elementari, i bisogni della classe proletaria, duramente colpita dalla guerra e dalle sue conseguenze; e il problema di trovare la formula politica per portare i capitalisti e i proletari ad essere partecipi del buon andamento delle fabbriche e dell’economia nazionale. Non c’era nulla di assolutamente nuovo da escogitare: si trattava di applicare in modo centralizzato la vecchia politica della collaborazione di classe, che faceva da sfondo al riformismo socialista e che divenne la pietra miliare del fascismo. Alla fine, fascisti ed antifascisti – al di là delle differenze dei metodi e dei mezzi utilizzati per tenere il proletariato incatenato al carro borghese – dimostrano di essere in piena continuità di fondo, poiché entrambi pongono la collaborazione fra le classi alla base delle proprie politiche, entrambi intendono legare i proletari alle sorti dell’economia capitalistica attraverso la somministrazione di ammortizzatori sociali, entrambi difendono lo Stato borghese, ideologicamente, come un organismo al di sopra delle classi, ma , praticamente, come il vecchio e conosciuto da Marx Consiglio d’amministrazione del capitalismo nazionale.

Grazie all’opera sistematica di deviazione opportunista delle forze proletarie, la propaganda antifascista sfocerà nella ridicola prestesa di un rinnovato Risorgimento italiano che, con la Resistenza partigiana, si vorrà far passare come una gloriosa rivincita patriottarda e progressista sul fascismo che si volle spacciare per un regime reazionario preborghese e feudale. In realtà il fascismo non fu che la politica imperialista alla massima concentrazione e centralizzazione che le condizioni di allora potevano permettere, altro che regime preborghese! Alla fine della seconda guerra imperialista mondiale, «la borghesia italiana, la stessa che si servì di Mussolini, che plaudì a lui, che lo seguì nella guerra finché fu fortunata, firma coi suoi nemici un armistizio che non può pubblicare, perché con esso ha tentato di risalire dal vortice che la inghiotte a tutte spese di quelle classi che da decenni ha ignobilmente sfruttate e che spera di poter seguitare ad opprimere, se non come padrona assoluta, come aguzzina di nuovi padroni». Ed è quel che è avvenuto, per qualche decennio dopo la guerra, quando era l’America a dettare le condizioni, e poi, quando l’America ha cominciato a perdere il potere assoluto sul mondo del secondo dopoguerra, al padrone americano di ieri cominciarono ad aggiungersene altri, sui diversi scacchieri: Gran Bretagna, Francia, Germania...

La democrazia post-fascista, non fece che ereditare dal fascismo la sua politica sociale (collaborazione fra le classi + ammortizzatori sociali), ma in veste parlamentare, mentre lo Stato democratico, nella repressione delle lotte operaie, non si è differenziato per nulla da quello fascista. E questo fa sicuramente parte della politica unitaria della borghesia italiana che, per quanto dalle origini spurie, è stata obbligata dallo stesso sviluppo del capitalismo nazionale a superare le proprie divisioni interne. Divisioni che, però, non sono scomparse.Ma la democrazia ha bisogno dei suoi miti, e il successo di quello del Risorgimento italiano, che in numerose occasioni è stato propagandisticamente molto efficace, trasformando le masse proletarie e contadine in carne da cannone per gli interessi delle classi borghesi, non solo nelle guerre d’indipendenza dell’Ottocento, ma anche nella prima guerra imperialista mondiale, considerata come la “quarta” guerra d’indipendenza visto che, alla fine, il tradimento verso gli alleati della Triplice ha fatto guadagnare, all’italianità, Trento e Trieste; e ancora nella seconda guerra imperialista mondiale, quando per l’ennesima volta il tradimento verso i precedenti alleati, in questo caso del fascismo, ha lanciato la borghesia italiana nelle braccia delle Democrazie occidentali che, in realtà, si sono rivelate i nuovi padroni. Una borghesia che ha bisogno di rivendere, in più di cent’anni, al proprio proletariato, ad ogni occasione storica di grande rilevanza, il mito di un Risorgimento per l’unità della nazione, in qualche modo svela i limiti della sua tanto amata sovranità; nello stesso tempo, rivela che l’unità nazionale tanto proclamata è qualcosa per cui si possono sacrificare degli interessi parziali se questi non vengono intaccati in modo sensibile, ma è qualcosa che può essere sempre messa in discussione perché quegli interessi parziali potrebbero avere in determinate situazioni la priorità. In fondo, il vecchio separatismo siciliano, la tendenza dell’Alto Adige ad accorparsi all’Austria che episodicamente si manifesta, il conflitto tra regioni a statuto speciale (e che grazie a questo godono di molti privilegi economici) e le altre regioni, sono stati e sono segnali di una “unità nazionale” che, in certe situazioni di grave crisi, determinate ad esempio dalla guerra, per essere mantenuta e difesa, ha bisogno di un pugno di ferro che – secondo le vicende storiche che hanno portato alla formazione dell’Italia borghese – potrà essere solo straniero. Nel frattempo, la classe borghese italiana seguita ad opprimere la classe proletaria come aguzzina di nuovi padroni.

 

(1 – continua)

 


 

(1)   Cfr. Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, BUR, Milano 1966, p. 45.

(2)   Cfr. Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, II, 1, “Opere scelte”, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 249-252.

(3)   Cfr. V. Cuoco, Saggio storico..., cit., p. 46.

(4)   Cfr. F. Engels, La lotta di liberazione in Italia e la causa del suo attuale insuccesso (“Neue Rheinische Zeitung”, 12 agosto 1848), in Marx-Engels, Sul Risorgimento italiano, Editori Riuniti, Roma 1959, p. 60.

(5)   Cfr. La classe dominante italiana ed il suo Stato nazionale, in “Prometeo”, anno I, n. 2, agosto 1946. Le citazioni successive sono riprese dallo stesso testo.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice