Proseguendo nel vitale lavoro di chiarificazione della visione marxista degli avvenimenti di ieri e di oggi, ribadiamo la validità indiscussa delle posizioni del partito nel suo arduo sviluppo

(Resoconti dei rapporti tenuti alla Riunione Generale, Milano, 15-16 dicembre 2018)

(«il comunista»; N° 157; Gennaio 2019)

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Alla presenza dei compagni italiani ed esteri, si è svolta a Milano la Riunione Generale sui seguenti temi:

Sabato 15: Aggiornamento sul movimento dei “Gilet gialli” in Francia; sull’Europa; sulla questione agraria collegata alla Guerra di Spagna.

Domenica 16: sulla prima guerra mondiale e la Rivoluzione d’Ottobre.

La mattina del sabato è stata dedicata alla preparazione della riunione e alle questioni interne.

Si conferma, viste le poche forze a disposizione e i contatti che, seppur lentamente, si stanno sviluppando a livello internazionale, la necessità di una migliore distribuzione dei compiti e un più stretto contributo da parte di tutti i compagni all’attività generale del partito, in particolare alla stampa e alla propaganda.

Una certa rilevanza sta prendendo il lavoro indirizzato alle prese di posizione  pubblicate nel sito e che, come i contatti internazionali dimostrano, stimolano l’interesse verso le posizioni del partito e della corrente di sinistra comunista da cui proveniamo.

 

 IL MOVIMENTO DEI “GILET GIALLI”

 

Sul movimento dei Gilet gialli vi sono state già alcune prese di posizione del partito, pubblicate nel sito, il 22 novembre e il 6 dicembre, alle quali si è aggiunta quella dello scorso 13 gennaio.

 

All’inizio il movimento è partito dalle proteste degli automobilisti contro l’aumento delle tasse sulla benzina deciso dal governo. Successivamente il movimento si è radicalizzato e allargato fino a quello che è stato chiamato l’Atto 1, con una serie di manifestazioni e di blocchi stradali che hanno coinvolto fino a 300.000 persone. Poi il movimento si è dato un appuntamento ambizioso: andare a Parigi e bloccare il governo e il presidente Macron.

Il governo, nel frattempo, è stato a guardare, in attesda di vedere che forza aveva questo movimento; non è passato subito a reprimerlo per timore di radicalizzarlo ancor di più. Nelle settimane successive le proteste hanno assunto un carattere più violento e sono cominciati gli scontri con la polizia. Il movimento di è ridato appuntamento ancora a Parigi (rivendicando il blocco del Parlamento e le dimissioni di Macron), nei sabati successivi contando sul fatto che il movimento era diventato nazionale (tanto da diffondersi anche nel vicino Belgio).

In seguito all’attentato di Strasburgo, quando Macron aveva già promesso una sospensione delle tasse sulla benzina, il governo decide di non tollerare più le manifestazioni nel centro di Parigi. Nello stesso tempo, nel tentativo di abbassare le tensioni, il governo decideva di alzare il salario minimo e le pensioni più basse, mentre cominciava ad impedire, là dove la polizia poteva arrivare, i blocchi stradali. Ciò dimostrava che il suo vero timore era il coinvolgimento dei proletari. Un esempio: alcuni proletari della fabbrica Iveco hanno partecipato ai blocchi stradali del sabato – il lunedì successivo, nella stessa fabbrica, gli operai sono scesi in sciopero.

Macron ha continuato a parlare di riforme che, in realtà, non sono algro che un aumento degli attacchi alle condizioni operaie anche se qualche misera briciola è stata temporaneamente promessa.

Con l’avvicinarsi del Natale una parte dei partecipanti alle manifestazioni, preoccupati di perdere degli affari in vista delle vendite, si è dissociata dal continuare questo tipo di manifestazioni (blocchi stradali ecc.) e si è messa a contro-manifestare. L’estrema destra (FN di Marine Le Pen) ha tentato di influenzare il movimento, ma senza particolare successo. Comunque, più recentemente, si sono viste sui blocchi stradali le bandiere tricolori nazionali.

Il governo ha accelerato le misure di “riforma” in difesa dei grandi patrimoni capitalistici e del grande capitale, misure che già erano nel programma del presidente precedente, il socialista Hollande, il quale però intendeva procedere molto più gradualmente e soprattutto in accordo coi sindacati. Macron, invece, ha messo da parte i sindacati e va per la sua strada... sebbene i sindacati continuino a proclamare che la loro attività è sempre in difesa della pace sociale.

Il movimento dei “Gilet gialli” è un movimento piccoloborghese (come espresso in modo chiaro dalle prese di posizione pubblicate nel sito); perciò è un movimento anti-partito e anti-organizzazione centralizzata, quindi individualista e spontaneista che è nato ed è cresciuto sull’onda di un disagio diffuso degli strati piccoloborghesi ma che è destinato a sgonfiarsi proprio a cuasa degli interessi parziali e contraddittori fra piccoli commercianti, padroncini, piccoli coltivatori ecc. (come appunto l’approssimarsi del Natale ha dimostrato). Ciò non toglie che questo movimento esprima un malessere sociale che in realtà è più profondo e che tocca non solo i piccoli borghesi rovinati dagli effetti della crisi capitalistica e dalle difficoltà dell’economia capitalistica di “crescere”, ma anche la popolazione operaia di cui, come abbiamo visto dalle misere briciole lanciate ai proletari dal governo, la grande borghesia teme la ripresa della lotta.

Ci sono gruppi politici, che si dicono “rivoluzionari”, che vedono nel movimento dei “Gilet gialli” una specie di anticipazione della ripresa della lotta di classe, ma le due cose non sono per nulla una il seguito dell’altra. La presenza indiscutibile di proletari nelle azioni dei blocchi stradali non toglie a questo movimento la sua caratteristica di essere interclassista e, perciò, di essere antiproletario perché gli interessi di classe proletari non fanno parte degli obiettivi di movimenti di questo genere.

E’ ovvio per noi che la forza di classe proletaria si può esprimere soltanto nell’indipndenza del suo movimento e delle sue organizzazioni, nomn certo nel confondersi con gli strati piccoloborghesi.

 

EUROPA: A CHE PUNTO È OGGI?

 

Si riassume qui quanto esposto verbalmente. Due sono i punti critici che caratterizzano la situazione attuale dell’Europa: la Brexit e la politica USA contro l’Europa Unita e contro la Russia (per quanto concerne i paesi dell’Est Europa).

Nel Rapporto il compagno relatore ha ricordato a grandi linee le posizioni del partito sull’Unione Europea, sul suo “mito”, attraverso la costituzione delle diverse organizzazioni (CECA, CEE, EURATOM, UE), sottolineando che l’«Unione Europea» è stata una conseguenza della seconda guerra mondiale, e una “risposta” dei paesi capitalisti avanzati d’Europa a quello che è stato per trent’anni il condominio americano-russo sull’Europa e, in buona misura, sul mondo. La UE è il prodotto di una serie di processi detti di “integrazione” economico-politica, iniziati nel 1951 con l’istituzione della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) e proseguiti nel 1957 con la CEE (Comunità Economica Eurpea), l’Euratom (Comunità europea dell’energia atomica) e infine l’UE (Unione Europea) nel 1992. Col Trattato di Lisbona del 2009 l’unanimità richiesta per far passare le decisioni dell’UE resta solo per le questioni fiscali e la politica estera, mentre per il resto delle decisioni decade la necessità del voto unanime e passa il voto a maggioranza; è riconosciuta, inoltre, per la prima volta, la possibibilità di recedere dall’Unione. Nel 2016, attraverso un referendum, il Regno Unito decide di uscire dall’UE, uscita prevista concretamente entro il dicembre 2020. Attualmente i paesi candidati all’adesione alla UE sono: Albania, Macedonia, Montenegro, Serbia, Turchia, mentre Bosnia/Erzegovina e Kosovo hanno presnetato domanda di adesione. La UE, con l’adesione di dieci Stati dell’Europa dell’Est – successiva al crollo dell’URSS, quando erano ancora membri del cosiddetto “campo socialista” – non è più stata soltanto occidentale, ma si è estesa, e continua ad estendersi, a Est inglobando un numero consistente di paesi ai confini con la Russia. La popolazione attuale dell’UE è di oltre 500 milioni di abitanti (compresi i 64,9 milioni di abitanti del Regno Unito).

La UE non è uno Stato che sostituisce gli Stati nazionali, ma un insieme di istituzioni comuni (Consiglio europeo, Parlamento europeo, Commissione europea, Consiglio dell’Unione Europea) attraverso le quali vengono definiti gli orientamenti generali della UE, si discute e approva o meno l’adesione alla UE di altri paesi, si discute e approva il bilancio dell’UE e la gestione dei fondi, mantiene rapporti internazinali con paesi terzi, discute e adotta normative e politiche che coinvolgono tutti i paesi dell’UE; vi sono poi la Corte di Giustizia interpreta il diritto dell’UE affinché sia applicato allo stesso modo in tutti i paesi membri, si occupa delle controversie tra i diversi paesi membri; la Corte dei Conti che verifica le finanze dell’UE; la Banca Centrale Europea che è responsabile della politica monetaria e della gestione della moneta unica, l’euro. L’euro, la moneta unica messa in circolazione il 1à gennaio 2002, ha sostituito le monete nazionali in 19 dei 28 paesi dell’UE). Ricordando le parole di Lenin sugli “Stati Uniti d’Europa”, si è ribadito che – se mai si costituissero – non potranno che essere una unione reazionaria e attuabile solo attraverso la violenza militare.

Le potenze imperialiste europee maggiori: Regno Unito, Germania e Francia, di volta in volta si sono scontrate e alleate a seconda degli interessi che primeggiavano rispetto ad altri, fino a che la Germania si è dimostrata la più forte. Dal MEC si è passati allo SME e infine all’Euro. Non va dimenticato che i paesi che fanno parte della zona Euro sono solo una parte dei paesi che fanno parte dell’Unione Europea. Il crollo dell’URSS ha facilitato la riunificazione tedesca che, nella realtà, è stata la più grande annessione avvenuta dalla fine della seconda guerra mondiale. Per inciso, possiamo ricordare che il partito, rispetto alla riunificazione tedesca – obiettivo della Germania occidentale sempre cercato – l’aveva pronosticata ma come risultato di uno scontro violento nei rapporti di forza fra Stati che avrebbe sconvolto la geografia europea, cosa che nei fatti non è avvenuta attraverso la guerra aperta tra il “blocco sovietico” e l’Occidente (ossia la terza guerra mondiale). Pronostico sbagliato? Solo in parte, ossia solo per quel che riguarda lo scoppio effettivo della terza guerra mondiale che di fatto è stata solo rimandata nel tempo. Nei fatti, il crollo dell’URSS, il conseguente distacco degli Stati dell’Europa dell’Est dal controllo di Mosca e le guerre indotte nei Balcani (durate dal 1992 al 1999, con la formazione di sei Stati distinti al posto della Jugoslavia titina), hanno rappresentato l’espressione di un vero sconvolgimento violento in Europa; non è stata una guerra “mondiale” nel senso ampio del termine, ma lo è stata in buona misura, sebbene geograficamente “controllata”, poiché una parte considerevole delle potenze imperialistiche del mondo, in particolare gli USA e quelle europee come membri della NATO, sono intervenute nella guerra balcanica con armi, bombardamenti e soldati (1).

Lo sviluppo dell’UE è la dimostrazione del suo successo che si è profilato soprattutto con l’espansione dell’influenza tedesca su tutto il territorio dell’Europa orientale. Con le crisi degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso sono emerse, come abbiamo sempre previsto, acute contraddizioni tra i paesi europei; mentre alcuni sprofondavano, la Germania risultava sempre in positivo tanto da aumentare sempre più il proprio peso all’interno della UE e nel mondo. La Gran Bretagna, da parte sua, si è sempre mostrata poco interessata all’Europa se non dal punto di vista finanziario anche se il rapporto con l’Europa si è dimostrato, nel tempo, più “rassicurante” rispetto a quello con gli USA.

Ma le contraddizioni fra i paesi europei potrebbero presentarsi come particolarmente minacciose per la Germania perché essa è sì il paese più potente dell’Europa continentale, ma non ha la forza di sostenere tutti gli altri paesi in crisi. Perciò, potrebbe addirittura essere la Germania a trovare più conveniente uscire dalla UE, lasciando sprofondare gli altri paesi, piuttosto che affondare con loro. Certo, questa ipotesi non si è profilata concretamente all’orizzonte, non per questo è un’ipotesi inconsistente; ciò non significherebbe, in ogni caso, che la Germania si allontanasse da qualsiasi ipotesi di alleanza con altri paesi per andare avanti “da sola contro il mondo”.

E vale la pena di evidenziare qualche altro aspetto. Nello sviluppo del capitalismo, e in particolare, nel suo stadio imperialistico, ogni grande potenza ha bisogno di alleati per difendere i propri interessi mondiali; in fondo, anche gli Stati Uniti che, alla fine della seconda guerra mondiale si sono dimostrati i padroni del mondo, hanno avuto bisogno di dividere il controllo del mondo con la Russia in un “condominio a due” che, per quanto forzato, ha avuto un ruolo di primaria importanza per la conservazione e lo sviluppo imperialistico mondiale per più di trent’anni. La Gran Bretagna, a sua volta, anche se non è più la grande potenza mondiale com’era nell’Ottocento, è comunque il 10° paese esportatore del mondo ed è una delle principali piazze finanziarie mondiali; con l’uscita dall’UE ha comunque voluto fissare delle priorità rispetto ai suoi interessi imperialistici diretti che non possono essere difesi da un’Unione Europea sempre più condizionata dalla Germania e in un periodo in cui si mostra sempre più un coacervo di contraddizioni e di contrasti interimperialistici che l’ultima crisi generale scoppiata nel 2008 e prolungatasi per diversi anni non fa che potenziare. La Gran Bretagna affonda le proprie radici imperialistiche nel legame stretto che ha con gli USA da moltissimi anni e che, in parte, condiziona la sua stessa politica. Come illustrato in riunione coi dati al 2016, gli investimenti reciproci tra UK e USA sono considerevolmente più importanti che non tra gli altri paesi europei e gli Stati Uniti:

 

USA verso UK 682,4 mld$ - UK verso USA 555,7 mld$;

USA verso Germania 107,7 mld$ - Germania verso USA 291,7 mld$;

USA verso Francia 78,1 mld$ - Francia verso USA 252,9 mldn$;

USA verso Spagna 37,4 mld$ - Spagna verso USA 68,2 mldn$;

USA verso Italia 24,7 mld$ - Italia verso USA 30,0 mld$.

 

In verità l’Europa, negli scambi con gli USA, rappresenta ancora il mercato più importante, visto che il 64% degli investimenti americani vengono diretti in Europa, e il 54% degli investimenti europei vanno negli USA. Ciò non toglie che la parte più voluminosa degli scambi commerciali dei paesi europei (salvo UK e Cipro, ma quest’ultimo solo per ragioni di convenienza particolare della Russia) avvenga tra i paesi europei stessi, come si rileva dalla tabella consegnata in riunione.

Nello stesso tempo sta crescendo l’intercambio con la Cina, non solo tra USA e Cina, ma anche tra i paesi dell’UE e la Cina, tra i quali, in realtà, la Germania è l’unico ad avere un saldo positivo tra import ed export  (72.354 mln contro 87.259 mln; dati 2017).

La Germania, d’altra parte, nella classifica dei primi 100 paesi esportatori (dati 2017), risulta essere al terzo posto con 1.401.000 mld$, mentre il primo posto è della Cina (2.157.000 mln$) e il secondo degli Stati Uniti (1.576.000 mln$.

Il Giappone (683.300 mln$), al quarto posto, è a metà circa della Germania. Se però prendessimo l’Unione Europea come un dato aggregato, questa sarebbe al secondo posto, dietro la Cina, con 1.900.000 mln$, superando quindi, non di poco, gli USA.

A livello di importazioni la classifica dei primi 4 paesi cambia: gli USA sono il paese che importa di più in assoluto (2.352.000 mln$), seguito dalla Cina (1.731.000 mln$) e dalla Germania (1.104.000 mln$), con l’UE quasi alla pari con la Cina (1.727.000 mln$). I dati riferiti alla Cina escludono i dati relativi a Hong Kong e Macao.

Un altro dato, riferito, anche se parzialmente, alla concentrazione capitalistica, lo si può rilevare dalle prime 100 industrie mondiali (dati 2016), e la loro collazione continentale:

 

Americhe: USA, 37 marchi, 4.942.693 mln$ + Brasile, 1 marchio, 81.405 mln$

Totale 5.024.098 mln$

Europa:     29 marchi totali (Germania 8, Francia 7, Regno Unito 5, Italia 3, Svizzera 2, Paesi Bassi 2, Spagna 1, Russia 1)        

Totale 3.259.835 mln$

UE: Germania 962.453 + Francia 700.475 + UK 516.191 + Italia 328.175 + Paesi Bassi 313.661 + Spagna 82.801     

Totale 2.812.374 mln$

Altri paesi: Svizzera 264.697; Russia 91.382

Asia: Cina, 19 marchi, 2.524.176 mln$ + Giappone, 8 marchi, 963.396 mln$ + Corea del Sud, 3 marchi, 327.237 mln$ + Taiwan, 1 marchio, 135.129 mln$+ Singapore, 1 marchio,98.098mln$

Totale 4.048.036 mln$   

 

Dal crollo dell’URSS sono passati 37 anni, e in questo periodo si sono presentate sul mercato mondiale altre potenze economiche con precise mire imperialistiche, prima fra tutte la Cina.

Ma nel continente asiatico, dove il Giappone si conferma, nonostante le sue crisi, potenza imperialistica di prima grandezza, oltre alla Cina sta crescendo in modo accelerato anche la Corea del Sud (oggi è all’11° posto nella classifica FMI degli Stati per il PIL 1.538.030 mln$, subito dopo il Canada e prima di Russia, Australia, Spagna, Messico ecc.), mentre Taiwan (22° posto nella classifica FMI, nota anche come Isola di Formosa, oltre 22 milioni di abitanti, PIL 2017: 579.302 mln$) e Singapore (“città-Stato”, 36° posto nella classifica FMI, 3,772 milioni di abitanti, PIL 2017: 323.902 mln$) presenti con una mastodontica azienda capitalistica a testa nella classifica delle prime cento industrie mondiali, hanno da lunga data un andamento capitalistico essendo state “colonizzate” da paesi già industrializzati: Taiwan dai giapponesi (1895-1945) e dagli americani (dal 1945), e Singapore, prima dagli olandesi (1641-1795), poi dagli inglesi (1795-1965); ed erano, insieme alla Corea del Sud e ad Hong Kong, le famose “Tigri asiatiche” degli anni Novanta, dato il loro rapido e consistente sviluppo economico durato fino alla grande crisi del 1998.

Come sempre avviene nel capitalismo, le più forti concentrazioni capitalistiche trainano e attirano capitali da ogni parte, assumendo il ruolo di vettori principali dello sviluppo capitalistico (lo si è visto, in tempi successivi, in Europa, in America e in Asia), ma, nello stesso tempo, nei periodi di crisi economica e finanziaria, i loro paesi originari rappresentano anche i punti in cui il crollo dell’economia, trainata da loro, diventa più devastante. E’ stato il caso evidente nell’ultima crisi dei subprime americani, propagata all’intera economia finanziaria mondiale e, di conseguenza, all’intera economia reale del mondo, così come è avvenuto nelle crisi precedenti. Sappiamo, d’altra parte, che, allo stesso modo in cui la crescita economica di un paese avanzato non corrisponde necessariamente alla crescita economica degli altri paesi capitalistici avanzati, come non corrisponde ad un effettivo e generalizzato aumento dei salari, così la crisi economica di un paese non corrisponde necessariamente ad una crisi sociale, nel senso di una crisi per la quale le masse proletarie si mettono in movimento sul terreno della lotta di classe. Non ci sono automatismi economici, come non ci sono automatismi sociali. Su di un piano come sull’altro i fattori di crisi si accumulano, nel tempo, provocando avanzate e rinculi fino a quando la combinazione dei diversi fattori di crisi non fa maturare le condizioni di spinta del magma sociale alla ricerca di una via di sfogo, rompendo la spessa calotta di contenimento dei contrasti sociali e squarciando la fitta rete della collaborazione di classse: è in questa situazione che la massa proletaria, di uno o più paesi, si ritrova oggettivamente sul terreno della lotta di classe ed è spinta a difendersi riorganizzandosi in modo indipendente; ed è in questa situazione che appare più chiaro ai proletari più avanzati, più coscienti, che la via da imboccare è la via della ripresa della lotta di classe nella prospettiva rivoluzionaria, perché le “soluzioni” che le classi dominanti borghesi adottano per fronteggiare e superare le proprie crisi non sono soluzioni indolori, al contrario sono soluzioni sempre più dolorose e devastanti sia che si verso una terza guerra mondiale, sia che quest’ultima venga rimandata ma solo per essere sostituita da una situazione di impoverimento e di sfruttamento ancor più bestiali e vasti di quanto non sia già avvenuto in questi ultimi ottant’anni.

Le nostre indagini economiche hanno un senso non tanto per analizzare l’andamento economico del tal paese o del tale trust rispetto agli altri; non tanto per studiare la concorrenza tra aziende e Stati capitalisti e stabilire chi è “più forte” e chi è “più debole” al fine di disegnare delle classifiche. Hanno un senso per scovare nei dati, che le stesse borghesie rilevano per i propri interessi di profitto, di mercato, di produttività, di speculazione, di concorrenza e, in sostanza, di dominio, i fattori di sviluppo e di crisi dell’economia cpaitalistica e, quindi, della società borghese. Misuriamo la febbre della società non per correre al suo capezzale al fine di guarirla, ma per stabilire se quella febbre ha contagiato le masse proletarie e fino a che punto le spinge, o meno, a reagire coi mezzi e i metodi della lotta classista. La bussola marxista del partito comunista rivoluzionario segna sempre il nord rivoluzionario, ma è il maremoto sociale che crea le condizioni affinché il partito di classe abbia la possibilità – se ha mantenuto la rotta programamtica e politica inflessibilmente, e se ha svolto coerentemente la sua attività sul piano teorico, politico, tattico e organizzativo nella società in generale e nelle file proletarie in particolare – di influenzare in modo determinante i reparti più avanzati della classe operaia e di guidare l’intero movimento proletario alla rivoluzione e ai suoi compiti. Ogni nostro sforzo nel fare il punto sullo sviluppo del capitalismo e delle sue contraddizioni, quindi, è parte integrante della lotta rivoluzionaria, ed è parte vitale nella valutazione delle situazioni che, come non smettermno mai di sottolineare, è questione teorica prima ancora che questione politica.

 

RIASSUNTO SINTETICO DELLA QUESTIONE DELLA TERRA NELLO SVILUPPO DELLA LOTTA DI CLASSE DEL PROLETARIATO SPAGNOLO

 

Alla riunione, per accidenti vari, i compagni spagnoli non hanno potuto partecipare. Avevano comunque preparato un Rapporto scritto che, tradotto in italiano, è stato letto e commentato in riunione. Si è trattato di una sintesi introduttiva del lavoro della sezione sulla questione agraria nel corso della lotta di classe del proletariato spagnolo, vale a dire, il problema che va dalla composizione sociale di un proletariato in gran parte situato nelle zone agricole fino alla struttura stessa dell’economia agricola spagnola e la rilevanza della crisi economica nel settore agricolo come catalizzatore delle tensioni sociali che, in modo larvale o esplicito, si erano accumulate dalla metà del XIX secolo. Il Rapporto è stato accompagnato anche da alcune mappe e tabelle in cui si evidenziano graficamente alcuni aspetti della trattazione. Nella Mappa 1 si possono vedere le forze militari ribelli che, all’inizio della Guerra civile di Spagna, controllavano soprattutto le grandi estensioni castigliane, popolate soprattutto da piccoli contadini benestanti, la Navarra reazionaria e la poco popolata Galizia dove l’assenza di concentrazioni proletarie impediva una reale resistenza al colpo di Stato. Nella Mappa 2 sono illustrate le posizioni di entrambi gli schieramenti nei primi giorni di settembre 1936, quando l’esercito guidato da Franco avanzava dall’Andalusia occ. e dall’Estremadura, quindi da sud, verso Madrid e l’esercito di Mola avanzava, sempre verso Madrid, dal nord (Navarra e Castiglia del nord), entrambi senza riuscire a prendere la capitale. Le Mappe 3 e 4 mostrano l’area delle agitazioni agricole durante il periodo della seconda Repubblica (mappa 3) e la distribuzione della terra per tipologia di proprietà (mappa 4). Vi è poi la Tabella n. 1 in cui è riportata la Distribuzione regionale dei proprietari di terra secondo l’estensione delle loro proprietà possedute nel 1959: a dimostrazione del fatto che il processo di concentrazione agraria iniziato in Andalusia, nella Mancha, nella Castiglia del Sud e in Estremadura, dopo la vendita delle terre ammortizzate (di proprietà comunale) in asta pubblica, durò da metà dell’Ottocento fino a metà del Novecento: le vecchie classi signorili si trasformarono così nelle nuove classi di proprietari terrieri semi-borghesi e borghesi. L’aspetto più importante messo in evidenza dalla trattazione è la dimostrazione che lo sviluppo della produzione agricola ha dato luogo, alla fine dell’Ottocento, con la separazione violenta dei contadini dalla terra e la sua alienazione del XIX secolo, alla formazione di rapporti sociali puramente capitalistici in gran parte dell’agricoltura spagnola: i contadini venivano trasformati in braccianti, in proletari agricoli.

Tutto questo periodo è stato caratterizzato da rivolte contadine che, di fronte, si trovarono l’alleanza tra l’oligarchia terriera e le classi industriali delle principali città, cosa che si riflesse ovviamente, anche nella formazione dello Stato centrale; e le rivolte contadine furono accompagnate dalle agitazioni proletarie, in particolare in tutto il sud della Spagna che, durante gli anni ’30, ebbero un ruolo determinante sia nello scoppio della Guerra Civile che nel suo sviluppo. Il rapporto ha poi tratteggiato i risvolti politici di queste lotte, caratterizzando sia l’atteggiamento repressivo del potere borghese instaurato prima e dopo il colpo di Stato, sia la risposta politica da parte contadina e proletaria nella quale emerse come forza politica dominante l’anarchismo che, con la CNT organiziaava sia i proletari agricoli che i proletari industriali, ma tenendoli decisamente separati gli uni dagli altri; non mancò la presenza sindacale socialista, UGT, minoritaria e fondamentalmente collaborazionista, mentre il PSOE propagandava l’assoluto rispetto della legalità. Nel 1936, scioperi e occupazione di terre accompagnarono la vittoria del Fronte Popolare, creando di fatto un clima pre-insurrezionale. Ma la separazione tra proletariato agricolo e proletariato industriale fu una delle maggiori cause della sconfitta nella Guerra civile, oltre ovviamente alla politica del fronte unico politico con le forze borghesi repubblicane. 

Dato che ogni compagni presente ha avuto copia della traduzione in italiano di questo Rapporto, non lo riporteremo in questa circolare.

La questione agraria è da sempre questione fondamentale nella teoria marxista, allo studio della quale è necessario dedicare uno studio approfondito, energie e tempo. I compagni spgnoli sono ben coscienti di questo e hanno in progetto di cogliere l’occasione della trattazione sulla Guerra di Spagna per affrontare questa questione. Naturalmente il campo di studio è vasto e complesso e, dato che le poche forze a disposizione devono dedicarsi alla generale attività di partito legata non solo all’assimilazione teorico-politica ma anche alla propaganda, alle pubblicazioni e all’intervento esterno, d’accordo col centro si definirà la prosecuzione dello studio.

 

SULLA PRIMA GUERRA MONDIALE, POSIZIONI DI LENIN E DELLA SINISTRA COMUNISTA D’ITALIA

 

Questo tema è stato trattato, ma non completato, in diversi articoli pubblicati ne “il comunista”, sotto il titolo “A cent’anni dalla prima guerra mondiale” e precisamente nei nn. 142, 143, 145, 147, 149, 150.

In questa riunione l’obiettivo è stato di riassumere i punti centrali delle posizioni che hanno caratterizzato il marxismo autentico di Lenin per dimostrare poi il parallelo allineamento del marxismo “italiano” rappresentato dalla corrente della Sinistra comunista. La traccia di questo riassunto ce l’hanno data le note Tesi di Aprile per le quali è utile inquadrare la situazione più generale. La guerra, scoppiata nell’agosto del 1914, durava già da due anni e 8 mesi e la situazione delle masse in Russia e dei soldati russi al fronte era sempre più drammatica; la rivoluzione del febbraio 1917 aveva già raggiunto un primo risultato con l’abbattimento dello zarismo, la mobilitazione generale delle masse operaie e contadine che portarono al potere la borghesia russa. Ma, per quanto riguardava la guerra non ci fu soluzione di continuità: i governi borghesi continuarono l’impegno di guerra, la pace tanto attesa dalle masse si allontanava nel tempo. Nello stesso tempo i soviet dei deputati operai, dei contadini e dei soldati – vere organizzazioni di massa della rivoluzione – sulla scorta delle esperienze già vissute nella rivoluzione sconfitta del 1905, si irrobustiscono, diventano nei fatti un “secondo potere”. La situazione in Russia, scoppiata la prima carneficiana mondiale dei popoli, si presenta come era stata prevista da Lenin e dal partito bolscevico all’epoca delle “Due tattiche” (luglio 1905): la Russia era “pronta” per la rivoluzione borghese nella quale la prospettiva marxista vedeva la possibilità di innesto della rivoluzione proletaria, sempre che le condizioni oggettive e soggettive (il movimento delle masse contadine e il movimento operaio, e il partito politico proletario) fossero favorevoli a quell’innnesto; in ogni caso il partito politico proletario doveva prepararsi a questa eventualità e radicarsi non solo nel proletariato urbano ma anche nel proletariato agricolo, i quali, insieme al vasto contadiname povero, in concomitanza della guerra russo-giapponese e le sue conseguenze economiche e sociali, avevano già prodotto una nuova e originale forma organizzativa, i soviet. La tattica generale del partito proletario, rispetto alla guerra imperialista che nel 1914 scoppiò effettivamente, doveva essere quella di impedire l’entrata della Russia zarista in guerra attraverso la lotta rivoluzionaria delle masse contadine povere e degli operai per conquistare il potere e instaurare la dittatura democratica dei contadini poveri e degli operai. Ma di fronte alla guerra imperialista scoppiata e all’entrata in guerra della Russia [non importa da che parte si collocasse], la tattica generale del partito proletario cambiava, nel senso che sosteneva la lotta rivoluzionaria delle masse contadine povere e del proletariato contro la guerra di rapina imperialista e per l’abbattimento del potere zarista, ma con l’obiettivo finale di far trascrescere la rivoluzione da borghese a proletaria, dando al proletariato, e al suo partito di classe, il compito di dirigere la rivoluzione fino alla conquista del potere politico e all’instaurazione della dittatura proletaria. Secondo la valutazione generale della situazione mondiale che ha portato allo scoppio della prima guerra imperialista mondiale, e la sua deflagrazione, le condizioni storiche oggettive erano favorevoli alla rivoluzione antizarista in Russia e alla rivoluzione proletaria in Europa; il tradimento di quasi tutti i partiti socialisti e socialdemocratici della Seconda Internazionale (escluse le correnti di sinistra, come quella bolscevica, la sinistra tedesca di Luxemburg e di Liebknecht, la sinistra italian, il PSI e il partito serbo) che accettarono di sostenere le proprie borghesie nazionali nella guerra imperialista diede un colpo mortale alla possibilità da parte del proletariato europeo di sollevarsi contro le proprie borghesie per impedire la guerra e avviare un processo rivoluzionario sulla linea dettata dal marxismo (come fino all’ultimo i partiti della Seconda Internazionale avevano proclamato di voler fare), ma non stroncò del tutto il movimento operaio nè in Russia nè in Europa. Si possono riassumere tre situazioni che esemplificano le differenti condizioni oggettive e soggettive del movimento proletario di fronte alla guerra: in Russia, in Germania, in Italia.

In Russia, il proletariato, nel suo movimento rivoluzionario trovò alla sua testa, infine, nonostante la grandissima influenza del populismo e dei socialisti-rivoluzionari, il partito bolscevico di Lenin, il partito marxista per eccellenza. In Germania, il proletariato, nella sua formidabile spinta di classe e rivoluzionaria, prima, durante e dopo la guerra imperialista, trovò alla sua testa un partito pletorico e minato dal kautskismo, incapace anche nella sua corrente di sinistra di liberarsi definitivamente di un democratismo di fondo che, aldilà dell’altezza teorica raggiunta da una Rosa Luxemburg e da un Karl Liebknecht, impedì la formazione di un vero partito comunista alla bolscevica. In Italia, il proletariato, sia industriale che agricolo, aveva dimostrato di saper lottare contro la borghesia e contro la guerra tanto da indurre il partito socialista ad avere in generale un atteggiamento anti-bellico, ma sostanzialmente riformistico, che, approfittando della titubanza della borghesia italiana che non entrò immediatamente in guerra a fianco degli alleati austriaci e tedeschi della Triplice (in attesa di capire qual era la convenienza e da che parte infine schierarsi), si prese il lusso di essere “neutrale” (venendo comunque meno all’impegno di lottare contro la guerra e per la rivoluzione) inventandosi una parola d’ordine di raffinata ambiguità: “né aderire né sabotare”. Ma, all’interno del Psi si era formata una corrente di sinistra che in pochissimi anni, dal 1912 al 1914, e negli anni successivi di guerra, maturò una grande esperienza di lotta sia teorica che politica e pratica contro il riformismo, contro il democratismo, contro l’opportunsimo in generale, tanto da poter rappresentare già in quel tempo una valida e solida alternativa al riformismo e al socialsciovinismo. La dimostrazione che il partito socialista italiano godeva di una certa salute “classista”, nonostante avesse espresso sia i più marci ministerialisti come Bonomi e Bissolati, che i più conseguenti riformisti e democratici come Turati e Treves e i più oscillanti sinistri-massimalisti come Lazzari e Serrati, va cercata nella formazione appunto della sinistra marxista (Bordiga e compagni) che non per caso costruì le basi teoriche, politiche e organizzative per la formazione e la fondazione dell’unico Partito comunista in Occidente costituito “alla bolscevica”, cioè su solide basi teoriche e programmatiche marxiste.

Abbiamo così, in un certo senso, la rappresentazione materiale e politica dei tre apici che la lotta proletaria e comunista hanno espresso nel loro massimo fulgore: 1) in Russia, sulla base dell’opera di restaurazione della dottrina marxista, si forma ed agisce il partito bolscevico come guida della rivoluzione proletaria, della dittatura proletaria in Russia e dell’Internazionale Comunista; 2) in Germania, lotta senza quartiere, teorica e politica, contro il kautskismo da parte della sinistra socialdemocratica tedesca, che è però restìa a staccarsi dal grembo materno socialdemocratico evidenziando la propria debolezza sul piano dell’intransigenza marxista che non le ha permesso di comprendere a fondo il vero portato storico del bolscevismo e non le ha permesso di assimilare senza reticenze il concetto che senza l’esercizio della dittatura proletaria da parte del partito comunista unico non c’è dittatura di classe del proletariato, non c’è avanzamento della lotta internazionale per il socialismo; 3) in Italia, lotta prolungata contro il riformismo, il democratismo e il ministerialismo nonostante il paese non fosse sviluppato industrialmente come la Francia, l’Inghilterra e la stessa Germania, ma con un proletariato molto combattivo sia nelle campagne che nelle città, e tale combattività ha fatto da base allo sviluppo di un partito socialista che riuscì a navigare anche in acque turbinose (ad esempio nella guerra italo-turca per la colonizzazione della Libia) senza perdere in generale l’orientamento socialista, ma che, in quanto tale, non riuscì ad assumersi pienamente i compiti di direzione del movimento operaio delegandoli ai sindacati e mantenendo per sè l’attività parlamentare e di propaganda; la corrente di sinistra del Psi si è formata nella lotta contro la massoneria, contro il clericalismo, contro il culturalismo e contro il riformismo che innalzò il principio democratico e i suoi metodi e mezzi come il vero contenuto della “bandiera rossa” proletaria; una corrente di sinistra che, nella sua attività teorica, politica e organizzativa, si dimostrò all’altezza delle posizioni bolsceviche sia sulla guerra che sulla rivoluzione, mostrando di essere l’unica corrente della sinistra marxista occidentale allineata perfettamente sulle posizioni di Lenin.

Si può leggere, ad esempio su un “filo del tempo” del 1949 che: «Nel 1914 la classe operaia ed il partito socialista lottarono in modo risoluto contro la politica borghese di alleanze, di blocchi e di guerra non soltanto quando si trattò di impedire che avesse effetto l’impegno triplicista, ma anche quando il governo borghese, la monarchia, gli stessi nazionalisti della guerra per la guerra (coerenti anche loro) abbracciati all’ombra del tricolore coi democratici classici e coi pochi traditori delle nostre file, si buttarono sconciamente nell’interventismo anglofrancofilo. Questa decisa opposizione del proletariato avente senso di classe ad entrambi i mercati imperialistici della borghesia, mantenuta anche durante la guerra, determinò una situazione utile e attiva per le forze rivoluzionarie, anche se non si svolse storicamente (per ragioni oggettive e di indirizzo insufficiente del movimento) nella trasformazione della guerra delle nazioni in guerra civile, che gloriosamente realizzarono i bolscevichi. Essa doveva preludere, se altre deviazioni e tradimenti non avessero intossicato la via al movimento della classe operaia, alla aperta impostazione di questi problemi non secondo gli interessi del Paese della Patria e della Nazione, ossia della borghesia che ci opprime, ma sulla sola base delle prospettive rivoluzionarie internazionali» (Borghesia italiana fellona, batt.com. 11/1949).

In un articolo delle puntate dedicate alle “Questioni storiche dell’Internazionale Comunista”, ripubblicato sul n. 51 del 1996 de “il comunista” (originariamente su “il programma comunista” del 1954) abbiamo riaffermato che il comunismo, in Italia, nacque adulto. Basterà qui ricordare alcuni dei passaggi:

Il comunismo in Italia e il bolscevismo russo «ebbero un corso parallelo ed il loro incontro nelle file della Terza Internazionale ne sanzionò la perfetta sostanziale unità teorica e programmatica. La Sinistra Italiana contribuì decisamente, l’abbiamo visto, alla stesura delle 21 condizioni di ammissione, che non fu atto di ordine organizzaztivo, ma una svolta politica nel cammino della Rivovluzione, operata senza lotte. Il principio stesso della fondazione della Terza Internazionale aveva suscitato profondi contrasti nel campo rivoluzionario. E’ noto che Rosa Luxemburg era contraria alla costituzione della nuova associaizione internazionale. Ma gli avvenimenti dovevano confutare i suoi argomenti. Dondata nel 1919, la Terza Iternazionale riunì al suo congresso di costituzione piccoli gruppi rivoluzionari: un anno dopo, al secondo congresso, la maggioranza del proletariato socialista europeo ne era l’entusiasta sostenitore. (...) Negli anni 1919-20, la condizione indispensabile dell’azione rivoluzionaria era data dalla formazione di saldi partiti comunisti a fermo programma dittatoriale. Ebbene, tra tutte le correnti marxiste soltanto la Sinistra Italiana puntò risolutamente sulla costituziomne del partito dio classe, mentre altre formazioni si baloccavano con elucubrazioni intellettualistiche che inceppavano lo sviluppo della nuova Internazionale rivoluzionaria. Cosa che i detrattori non ricordiano mai, è che a fare “meno teoria” fu proprio la Sinistra Italiana, non perché incapace, ma per il semplcie fatto che fin dalle sue origini afferrò in blocco e interpretò senza deviazioni ed esitazioni la teoria marxista». «Di tutti i partiti e correnti comunisti aderenti alla Terza Internazionale, quelli che contarono minori contrasti furono proprio il partito comunista di Rusia e il partito comunista d’Italia. Non basta, Almeno fino alla morte di Lenin, le divergenze di vedute registrate nei rapporti tra il “leninismo” e il “bordighismo” puntarono esclusivamente su questioni tattiche». Il comunismo in Italia nacque adulto: «Non attraversò le crisi infantili cui andarono soggetti i reduci del sindacalismo rivoluzionario in Francia, gli spartachisti in Germania, i tribunisti in Olanda, e dulcis in fundo, gli ordinovisti in Italia. Se ben si legge il tanto famoso testo di Lenin su “L’estremismo” ci si avvede che il “morbo” contro cui maggiormente si accanisce il medico Lenin è proprio la insufficiente concezione del ruolo del partito di classe, comune a tutti quanti i movimenti che abbiamo nominato».

Proseguendo quindi il lavoro che per argomento ha la perfetta coincidenza delle posizioni di Lenin e della Sinistra “italiana”, si è voluto riprendere dalle Tesi di Aprile, che, per il loro contenuto sebbene succinto, inquadrano chiaramente la prospettiva e i compiti del partito di classe nella rivoluzione in Russia e nella lotta rivoluzionaria a livello internazionale. Non svilupperemo in questa circolare, che è gi lunga, il tema svolto in riunione, anche perché, per questione di tempo a disposizione, il rapporto non si è potuto completare. Demandiamo perciò la stesura del rapporto alla pubblicazione nei prossimi numeri de “il comunista”. Qui basti mettere in rilievo che le Tesi che Lenin sentì di dover scrivere con estrema urgenza, durante il suo rientro in Russia, intendevano scuotere il partito bolscevico dalle posizioni attendiste e tendenzialmente mensceviche che la direzione del partito in Russia da parte di Stalin e Kamenev aveva imboccato. Le Tesi di Aprile, non per caso, partono dalla considerazione di fondo che la guerra mondiale scoppiata nel 1914 è una guerra imperialista di brigantaggio e che l’opposizione netta e decisa del bolscevismo si doveva attuare sia nei confronti dello zarismo, che nella guerra imperialista era entrato, sia nei confronti del governo “rivoluzionario” borghese instauratosi dopo la rivoluzione di febbraio 1917, che la guerra voleva continuarla. 

 

 

Partito comunista internazionale

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