La teoria marxista va difesa con una costante opera di ribadimento della sua fondamentale invarianza, in ogni ambito della lotta del comunismo rivoluzionario contro ogni sua deviazione, ogni suo aggiornamento, ogni sua revisione

(«il comunista»; N° 159; Maggio 2019)

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Negli ultimi tempi, alcuni lettori ci hanno posto alcune domande allo scopo di chiarire diverse questioni. Tra le più frequenti c'è la richiesta relativa a che cosa ci distingue dagli altri raggruppamenti politici che si definiscono "partito comunista internazionale" o che, denominandosi in altri modi, rivendicano origini teoriche e politiche riconducibili alla Sinistra comunista d'Italia.

Sulle differenze con gli altri gruppi che si definiscono, come noi, partito comunista internazionale, abbiamo chiarito le nostre posizioni nei nostri organi di stampa le prolétaire e il comunista fin dalla crisi del 1982-84 che mandò in pezzi il partito costituitosi nel 1952. Ci distinse fin da subito il lavoro per un bilancio politico di quella crisi,  collegato alle risposte che il partito aveva già dato rispetto alle crisi precedenti, a partire da quella del 1951-52 che portò alla prima decisiva scissione tra il gruppo che continuerà a pubblicare "battaglia comunista" e il gruppo che pubblicherà "il programma comunista". Non è il casodi riprendere qui l'elenco degli articoli; invitiamo gli interessati a consultare il sito, www.pcint.org, sezione Thèmes-Temi,  voce: 3.5 Critica dei gruppi che si definiscono gruppi della "Sinistra comunista".

Spesso, alle richieste di chiarimento delle differenze tra noi e gli altri gruppi, si aggiungevano quelle rispetto alle posizioni  dei comunisti di fronte alla questione delle lotte di liberazione nazionale, alla questione dei sindacati e alla questione del partito in relazione allo Stato proletario e ai soviet. Di recente un lettore ci ha posto domande su tutte e tre le questioni ora citate. Rendiamo  pubblico il contenuto della risposta, togliendo ovviamente i riferimenti personali, perché in esso abbiamo cercato di raccogliere elementi fondamentali per la definizione di come e perché i comunisti rivoluzionari hanno affrontato e affrontano quei problemi.

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LOTTE DI LIBERAZIONE NAZIONALE

 

I comunisti devono prendervi parte?

 

Una premessa, anzitutto. Questa è una delle questioni più dolenti per i partiti che si definiscono proletari, comunisti, marxisti, leninisti. E’ stato anche uno dei nodi su cui si sono prodotte, nel nostro partito di ieri, lacerazioni e scissioni (nel 1951-52 da “battaglia comunista”, nel 1973 da “il partito comunista” di Firenze, e nel 1983-84 la “questione palestinese e mediorientale” fu il detonatore che fece esplodere il nostro partito).

Per prima cosa pensiamo che la cosa migliore sia di riprendere i punti definiti nel 1953 dal nostro partito (poco più di un anno dopo la scissione da “battaglia comunista”) riguardo le “rivoluzioni multiple” e contenuti nel fascicoletto “Sul filo del tempo” del 1953, rintracciabile e scaricabile dal nostro sito: www.pcint.org. In ogni caso eccoli:

 

LE RIVOLUZIONI MULTIPLE

 

 1. La posizione della sinistra comunista si distingue nettamente (oltre che dall’eclettismo di manovra tattica del partito) dal bruto semplicismo di chi riduce tutta la lotta al dualismo sempre ed ovunque ripetuto di due classi convenzionali, sole ad agire. La strategia del moderno movimento proletario ha precise e stabili linee valevoli per ogni ipotesi di azione futura, che vanno riferite a distinte “aree” geografiche in cui si suddivide il mondo abitato, e a distinti cicli di tempo.

2. L’area prima e classica dal cui gioco di forze fu tratta la prima volta l’irrevocabile teoria del corso della rivoluzione socialista è quella inglese. Dal 1688 la rivoluzione borghese ha soppresso il potere feudale e rapidamente estirpate le forme di produzione feudali, dal 1840 è possibile dedurre la concezione marxista sul gioco di tre essenziali classi: proprietà borghese della terra – capitale industriale, commerciale, finanziario – proletariato, in lotta colle due prime.

3. Nell’area europea occidentale (Francia, Germania, Italia, paesi minori) la lotta borghese contro il feudalesimo va dal 1789 al 1871, e nelle situazioni di questo corso si pone l’alleanza del proletariato coi borghesi quando lottano colle armi per rovesciare il potere feudale mentre già i partiti operai hanno rifiutata ogni confusione ideologica colle apologie economiche e politiche della società borghese.

4. Col 1866 gli Stati Uniti di America si pongono nelle condizioni dell’Europa Occidentale dopo il 1871, avendo liquidato forme capitalistiche spurie con la vittoria contro il sudismo schiavista e rurale. Dal 1871 in poi, in tutta l’area euramericana, i marxisti radicali rifiutano ogni alleanza e blocco con partiti borghesi e su qualunque terreno.

5. La situazione pre-1871, di cui al punto 3, dura in Russia e in altri paesi dell’est europeo fino al 1917, e si pone in essi il problema già noto dalla Germania 1848: provocare due rivoluzioni, e quindi lottare anche per i compiti di quella capitalista. Condizione per un passaggio diretto alla seconda rivoluzione proletaria era la rivoluzione politica in occidente, che venne meno, pure avendo la classe proletaria russa conquistato da sola il potere politico, conservandolo per alcuni anni.

6. Mentre nell’area europea di Oriente può oggi considerarsi compiuta la sostituzione del modo capitalista di produzione e di scambio a quello feudale, nell’area asiatica è in pieno corso la rivoluzione contro il feudalesimo, e regimi anche più antichi, condotta da un blocco rivoluzionario di classi borghesi, piccolo-borghesi e lavoratrici.

7. L’analisi svolta ormai ampiamente illustra come in questi tentativi di doppia rivoluzione si siano attuati vari esiti storici: vittoria parziale e vittoria totale, sconfitta sul terreno insurrezionale con vittoria sul terreno economico-sociale e viceversa. Fondamentale è per il proletariato la lezione delle semi-rivoluzioni e delle controrivoluzioni. Classici tra tanti esempi sono: Germania post 1848: doppia sconfitta insurrezionale di borghesi e proletari, vittoria sociale della forma capitalista e graduale stabilirsi di potere borghese. Russia post 1917: doppia vittoria insurrezionale di borghesi e proletari (febbraio e ottobre), sconfitta sociale della forma socialista, vittoria sociale della forma capitalista.

8. La Russia, almeno per la parte europea [attenzione, siamo nel 1953, oggi 2019 si deve considerare anche la parte asiatica, NdR], ha oggi un meccanismo di produzione e scambio già capitalistico in pieno, la cui funzione sociale è riflessa politicamente in un partito e un governo che ha esperito tutte le possibili strategie di alleanze con partiti e Stati borghesi dell’area di occidente. Il sistema politico russo è un frontale nemico del proletariato e ogni alleanza con esso è inconcepibile, fermo restando che aver fatto vincere nella Russia la forma capitalistica di produzione è risultato rivoluzionario.

9. Per quei paesi dell’Asia, ove ancora domina l’economia locale agraria di tipi patriarcali e feudali, la lotta anche politica delle «quattro classi» è un elemento di vittoria nella lotta internazionale comunista, pur quando ne sorgano in via immediata poteri nazionali e borghesi, sia per la formazione di nuove aree atte alla posizione delle rivendicazioni socialiste ulteriori, sia per i colpi portati da tali insurrezioni e rivolte all’imperialismo euroamericano.

 

Per quanto riguarda in generale l’Africa, investita molto più tardi che non l’Asia dai movimenti rivoluzionari borghesi nazionali ed anticoloniali, dobbiamo giungere all’epoca successiva alla seconda guerra mondiale e in particolare al ventennio che va dal 1955 al 1975 in cui si è svolta la maggioranza delle “lotte di liberazione nazionale”, dall’Algeria al Congo, dal Togo al Camerun all’Alto Volta (ora Burkina Faso), dal Kenia al Sudafrica fino all’Angola e al Mozambico.

Quanto all’America Latina, il quadro è ben diverso, poiché in questi paesi il capitalismo (sia europeo che americano) si è intallato con gradi di sviluppo superiori a quelli presenti in Africa; la gran parte dei paesi ha conquistato l’indipendenza dalle potenze coloniali, soprattutto da Spagna e Portogallo, all’inizio del 1800 (Brasile 1822, Argentina 1816, Cile 1818, Perù e Venezuela 1821 in seguito alle rivoluzioni guidate da Simon Bolivar, Colombia 1819, Bolivia 1825, Ecuador 1822, Nicaragua e Costa Rica 1821, Messico 1821, Guatemala 1839, Paraguay 1811, Uruguay 1825 ecc.), perciò il tema dell’indipendenza nazionale dalle vecchie potenze coloniali in America Latina non si poneva più, mentre vi si irradiava a poco a poco l’influenza nordamericana attuata sia con occupazioni dirette che attraverso governi strettamente legati o sostenuti da Washington.

La valutazione che abbiamo dato per le rivoluzioni africane è sostanzialmente la stessa data per le rivoluzioni in Asia; l’impianto del modo di produzione capitalistico si realizzò quasi esclusivamente nei settori dello sfruttamento delle risorse minerarie e della produzione agricola di prodotti come caffè, cacao, mais, canna da zucchero ecc., e delle necessarie vie di comunicazione per raggiungere i porti e per dare al commercio – normalmente controllato dalle grandi compagnie europee o americane – la massima facilitazione.

Dopo la seconda guerra mondiale, dicevamo, la “questione nazionale e coloniale” si poneva per i paesi africani e per i paesi asiatici dove il vecchio colonialismo veniva sostituito dal nuovo colonialismo finanziario caratteristico delle potenze imperialistiche. Le guerre di “liberazione nazionale” prendevano così il carattere non tanto della classica rivoluzione borghese antifeudale – sebbene questa avesse ancora un compito storico attivo da completare sia in Asia sia soprattutto in Africa – quanto di una indipendenza politica delle borghesie nazionali dei vari paesi dalla borghesia imperialista dei paesi dell’Europa occidentale, degli Stati Uniti, della stessa Russia che, anche sotto Stalin e i suoi successori, continuava la politica di oppressione sia di popoli asiatici che di nazioni europee (i cosiddetti “paesi socialisti” dell’Europa dell’Est). Per noi, ogni “lotta contro l’imperialismo” condotta dalle classi borghesi con mezzi rivoluzionari coinvolgendo la gran parte della popolazione, quindi anche i contadini e i proletari – come è avvenuto per la Cina, l’Algeria, il Congo ecc. –, è stata valutata come un “un elemento di vittoria nella lotta internazionale comunista, pur quando ne sorgano in via immediata poteri nazionali e borghesi, sia per la formazione di nuove aree atte alla posizione delle rivendicazioni socialiste ulteriori, sia per i colpi portati da tali insurrezioni e rivolte all’imperialismo euroamericano” (come affermato nei punti sopra citati). Questo passo avanti della storia era costituito, per l’appunto, dallo sviluppo del capitalismo rispetto ai modi di produzione precedenti, e quindi alla formazione del proletariato che, in quanto unica classi veramente rivoluzionaria dell’epoca moderna, veniva a costituire anche in quelle aree arretrate e depresse una leva oggettivamente rivoluzionaria che veniva ad aggiungersi alle masse proletarie dei paesi capitalistici avanzati.

Il punto fondamentale per il partito comunista rivoluzionario, fin dalle “tesi nazionali e coloniali” dell’Internazionale Comunista, è dato dall’obiettivo storico per il quale il partito comunista lotta e per il quale la classe proletaria di qualsiasi paese è spinta a lottare dalle stesse contraddizioni sociali e, in particolare, dall’antagonismo di classe che la oppone alla borghesia e a qualsiasi classe sociale dei vecchi regimi precapitalistici: la rivoluzione proletaria, la conquista del potere politico che consiste nello spezzare lo Stato esistente sostituendolo con la dittatura del proletariato (quindi con lo Stato proletario), dittatura esercitata unicamente dal partito comunista rivoluzionario. Partito che si assume il compito di difenderla dagli attacchi interni ed esterni, di intervenire dispoticamente sul terreno politico, sociale ed economico, impedendo col terrore rosso alla borghesia e alle vecchie classi precapitalistiche di organizzarsi e di agire, avviando, con le misure più adeguate, la lotta contro i rapporti di produzione e di proprietà borghesi e, quindi, la trasformazione sociale verso il socialismo anche dal punto di vista economico – nella misura delle reali possibilità che lo sviluppo capitalistico del paese consenta, e nella misura in cui la rivoluzione proletaria si estende ad altri paesi e, in particolare, ai paesi capitalistici più avanzati –. Il tutto in stretta relazione alla rivoluzione internazionale poiché la conquista del potere in un paese non è che la prima fase della rivoluzione internazionale per la presa del potere in tutto il mondo.

La posizione dei comunisti rivoluzionari, dalla costituzione dell’Internazionale Comunista in poi, rispetto all’indipendenza politica e organizzativa del partito comunista non è cambiata, anzi, semmai si è resa ancor più intransigente dato che, con l’ultima micidiale ondata opportunista che la storia del movimento operaio ha conosciuto (lo stalinismo), i partiti comunisti hanno fatto proprie le istanze nazionali e democratiche della classe borghese contrabbandandole per “socialiste”, rinnegando nello stesso tempo sia l’internazionalismo proletario che i compiti esclusivamente rivoluzionari e comunisti del partito comunista e delle classi proletarie di tutto il mondo. Il 1927 cinese è stata la prima grande dimostrazione della politica staliniana che obbligò il partito comunista cinese a sciogliersi nel Kuo-min-tang, dando così mano libera a Ciang-kai-shek di massacrare i proletari rivoluzionari di Canton e Shangai. Mao tse-tung non fece, nel secondo dopoguerra, che ricollegarsi alla rivoluzione borghese iniziata nei primi del Novecento da Sun Yat Sen, e portarla a termine giungendo nel 1949 alla formazione della Cina come Stato borghese indipendente, chiamandolo Repubblica Popolare e contrabbandata anch’essa come “paese socialista”. E così è avvenuto per tutti i paesi dell’Est Europa, colonizzati dall’imperialismo russo grazie alla vittoria nella seconda guerra imperialista mondiale e alla divisione dei compiti di controllo delle masse proletarie tra i due grandi vincitori – Stati Uniti e Russia – e per tutti gli altri paesi nei quali i partiti comunisti stalinizzati erano alla testa dei movimenti di “liberazione nazionale” contro l’imperialismo come in Corea, in Viet Nam, in Cambogia, a Cuba, in Congo ecc.

Possiamo quindi concludere così: nella “guerra di liberazione nazionale” in un paese in cui si deve effettivamente liberare il modo di produzione capitalistico dai vincoli dei modi di produzione precedenti e liberarsi delle vecchie classi dominanti instaurando un nuovo Stato, se un partito comunista è effettivamente presente ed ha un’influenza reale sugli strati proletari esistenti e sul contadiname povero, esso partecipa a questa guerra, ma con propri obiettivi e propria organizzazione del tutto indipendenti da qualsiasi altra forza politica, combattendo contro la potenza coloniale straniera e, nello stesso tempo, anche contro la propria borghesia nazionale. Per la borghesia del paese colonizzato l’obiettivo della sua lotta di “liberazione nazionale” è di instaurare il proprio dominio di classe nel paese, sostituendo il dominio della borghesia straniera – e a questo scopo chiama a raccolta proletari, contadini, piccoloborghesi delle città e delle campagne –. L’obiettivo della classe proletaria è altrettanto di classe, ma del tutto opposto a quello borghese perché è volto alla conquista del potere politico per instaurare la dittatura proletaria e non la dittatura borghese. E’ inevitabile, e la storia lo ha dimostrato, che nella rivoluzione borghese antifeudale e contro le classi dominanti ancor più vecchie, la borghesia vince solo se riesce a trascinare dietro di sé le masse contadine e proletarie; ma, una volta conquistato il potere, la borghesia lo esercita per i suoi fini economici e politici ed usa tutti i mezzi a sua disposizione, e prima di tutto la forza armata dello Stato, per imporre alle masse contadine e proletarie le sue leggi, i suoi interessi di classe. Con la vittoria dello stalinismo nel partito bolscevico e nell’Internazionale Comunista, tutti i partiti comunisti del mondo, membri dell’I.C. o nati successivamente – e a parte la corrente di sinistra comunista “italiana” – furono stalinizzati, perdettero completamente le caratteristiche del partito di classe proletario per assumere le caratteristiche di un partito nazionalborghese “di sinistra” assimilando il proprio “antimperialismo” alla rivoluzione nazionale popolare, e perciò borghese. Dunque, né il partito di Mao tse-tung, né quello di Ho Chi Minh, né quello di Castro e di tutti gli altri “leader”, che si professavano “comunisti”, lo sono mai stati; furono in realtà il “braccio violento” della borghesia nazionale che lottava per conquistarsi un proprio mercato nazionale e la libertà di sfruttare il più possibile il proprio proletariato: dal punto di vista del progresso storico, la costituzione di uno Stato indipendente e lo sviluppo del capitalismo nei confini nazionali conquistati erano certamente dei passi avanti rispetto al feudalesimo, al dispotismo asiatico e all’economia naturale, ma furono contemporaneamente armi micidiali della controrivoluzione borghese e imperialista che contribuirono a schiacciare ancor di più il proletariato non solo dei paesi economicamente arretrati ma anche dei paesi avanzati. 

La storia delle lotte di classe, delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, ha insegnato alle borghesie di tutto il mondo che la democrazia è un’ottima arma politica per sottomettere le classi proletarie e contadine povere alle esigenze reali delle classi borghesi; la democrazia con il suo sistema politico parlamentare, i suoi metodi e i suoi mezzi amministrativi, in realtà costa molto di più di un sistema apertamente dittatoriale, ed è un costo che le potenze imperialiste possono permettersi, mentre è molto più difficile che questo costo lo possano sostenere i paesi più deboli e arretrati. Per questo nei paesi capitalistici più deboli e arretrati i sistemi democratici instaurati sono più che altro una copertura ideologica e demagogica di poteri economico-finanziari di ristretti clan legati, più o meno di nascosto, a qualche potenza imperialista (spesso la ex potenza coloniale), mentre in molti casi il potere borghese si presenta nella forma della dittatura militare, alcune volte aperta, altre più o meno velata da meccanismi pseudodemocratici.

La storia delle rivoluzioni multiple, o “doppie” come si definivano un tempo, ha dimostrato che la questione della “guerra di liberazione nazionale” ormai è diventata una questione soprattutto borghese, una questione di lotta tra borghesie nazionali e borghesie straniere (il Manifesto di Marx-Engels ricorda che “la borghesia è sempre in lotta; da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri”, e naturalmente contro il movimento di classe del proletariato), mentre la vera lotta che può aprire la strada ad uno sviluppo sociale e rivoluzionario è la lotta di classe del proletariato e la sua rivoluzione contro tutte le classi borghesi sia nazionali che straniere. La Comune di Parigi, per quanto riguarda i paesi capitalisti avanzati, e la Russia dell’ottobre 1917, per quanto riguarda i paesi arretrati economicamente, ma politicamente costretti nelle maglie delle vecchie classi precapitaliste, sono stati dei veri fari per i comunisti di ieri e lo sono ancora per i comunisti di oggi e di domani.

Con ciò non vogliamo dire che la questione “nazionale” non si pone più in nessuna parte del mondo, o che non possa ripresentarsi come questione di “liberazione” dalla soffocante oppressione del potere imperialista. La storia, alle volte, per una serie di fattori di carattere internazionale che causano delle modificazioni nei rapporti di forza tra le classi e tra le varie potenze, può far fare dei passi indietro allo sviluppo in un dato paese o in una data area. Ad esempio, la mancata vittoria della rivoluzione proletaria in Europa al principio degli anni Venti del secolo scorso (come in Germania o in Italia) ha contribuito notevolmente al rinvigorimento delle forze controrivoluzionarie e al loro contrattacco con cui assediarono e soffocarono il potere rivoluzionario in Russia, interrompendo e respingendo l’avanzata delle forze rivoluzionarie in Russia e nel mondo e, nello stesso tempo, distruggendo i parzialissimi passi economici fatti in Russia nella direzione del socialismo. Il capitalismo di Stato o, meglio, l’industrialismo di Stato che, sotto il controllo del potere comunista rivoluzionario poteva essere un passo avanti in Russia per la lotta del socialismo contro il capitalismo, con la vittoria della controrivoluzione svolse la funzione sua propria che è quella del trampolino di lancio del capitalismo privato. Non possiamo, perciò, affermare che la “questione nazionale” non esista più da nessuna parte o che, in determinati svolti storici dei contrasti interimperialistici la questione “nazionale” non si presenti più con le caratteristiche della lotta armata “rivoluzionaria”; queste possono essere situazioni molto particolari, ma non possiamo escluderle in assoluto. Resta però il fatto che, più l’imperialismo sviluppa il suo potere di controllo delle economie di tutti i paesi del mondo e più la questione nazionale di interi popoli (ad es. dei palestinesi, dei curdi, degli yemeniti, degli afghani ecc.) si avvita in un’oppressione che potrà essere risolta soltanto dalla rivoluzione proletaria, in un certo senso come all’epoca della Russia zarista che nei suoi sconfinati territori tra Europa ed Asia opprimeva più di cento popoli, molti dei quali poterono liberarsi dell’oppressione zarista non grazie alla rivoluzione borghese, ma grazie alla rivoluzione proletaria che vinse a Mosca e a Pietroburgo.

La Sinistra comunista d’Italia, grazie all’intransigenza non solo dottrinaria, ma anche politica e tattica, basata su una lunga storia di battaglie di classe contro la democrazia occidentale, è stata ed è l’unica corrente politica che ha saputo trarre tutte le lezioni non solo dalle rivoluzioni, ma soprattutto dalle controrivoluzioni. E, a proposito della questione “nazionale e coloniale”, se interessa approfondirla meglio, si possono trovare indicazioni nel nostro sito (www.pcint.org) nella sezione “Temi” (italiano) alla voce “2.13 La questione nazionale e coloniale”. Gli articoli pubblicati sul giornale di partito di ieri “il programma comunista” e su quello attuale “il comunista” sono tutti rintracciabili attraverso i pdf di ogni numero.

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POTERE POLITICO CONQUISTATO E QUESTIONE DELLO STATO

 

E' il partito comunista che deve assumere la direzione dello Stato o lo devono fare i soviet?

 

Il partito comunista, secondo il marxismo, è l’organo cosciente della rivoluzione proletaria, della conquista del potere politico (non conquista dello Stato), dell’esercizio della dittatura proletaria e dell’avviamento del corso rivoluzionario verso la trasformazione dall’economia capitalistica al socialismo e, infine, al comunismo pieno. Questa sua particolare qualità impone al partito comunista di non sciogliersi nei movimenti sociali, nei sindacati, nei soviet e neanche nello Stato della dittatura proletaria. Il suo compito è, dialetticamente, interno ed esterno a tutte le organizzazioni sociali formate dalla e nella lotta di classe; cioè, durante tutta la fase storica che va dal capitalismo al socialismo e, quindi, al comunismo pieno – ossia, alla società senza classi, alla società di specie –, il partito comunista svolge il suo compito principale come partito di classe, come guida politica della classe proletaria preparandola alla rivoluzione, come guida politica della classe proletaria preparandola alla gestione dello Stato e della dittatura proletaria, affinché la trasformazione politica e sociale che la rivoluzione proletaria imprime alla società prosegua nella completa trasformazione economica portando la società al socialismo integrale, quindi, al comunismo.

Per far sì che il partito comunista riesca a guidare il proletariato alla rivoluzione e nella rivoluzione e, successivamente, dopo la vittoria, nella dittatura di classe, esso deve conquistare un’influenza decisiva sul proletariato, influenza che può ottenere solo con l’opera incessante di intervento nelle organizzazioni proletarie (sindacati, soviet) –  combattendo l’influenza borghese e opportunista che inevitabilmente devia, confonde e paralizza la lotta di classe proletaria – nella consapevolezza che «in ogni prospettiva di ogni movimento rivoluzionario generale non possono non essere presenti questi fondamentali fattori: 1) un ampio e numeroso proletariato di puri salariati; 2) un grande movimento di associazioni a contenuto economico che comprenda una imponente parte del proletariato; 3) un forte partito di classe, rivoluzionario, nel quale militi una minoranza di lavoratori ma al quale lo svolgimento della lotta abbia consentito di contrapporre validamente ed estesamente la propria influenza nel movimento sindacale a quella della classe e del potere borghese» (come affermato nel nostro “Partito rivoluzionario e azione economica”, 1951).

Nelle Tesi sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria (Risoluzione del II congresso dell’I.C., 1920), che noi rivendichiamo, al punto 8. è scritto: «La vecchia “classica” suddivisione del movimento operaio in tre forme (partiti, sindacati, cooperative) ha fatto visibilmente il suo tempo. La rivoluzione proletaria in Russia ha suscitato la forma fondamentale della dittatura proletaria, i soviet. Nel prossimo avvenire, avremo dovunque questa suddivisione: 1. il partito, 2. il soviet, 3. il sindacato. Ma il partito del proletariato, cioè il Partito Comunista, deve dirigere incessantemente e sistematicamente il lavoro dei Soviet così come dei sindacati rivoluzionari. L’avanguardia organizzata della classe operaia, il Partito Comunista, rappresenta in pari grado gli interessi sia della lotta economica che di quella politica e culturale della classe operaia nel suo insieme. Il Partito Comunista deve essere l’anima sia dei sindacati che dei Soviet, come di tutte le altre forme di organizzazioni proletarie. (...) Nella storia della rivoluzione russa vi è stata tutta una fase in cui i Soviet marciavano contro il partito proletario e sostenevano la politica degli agenti della borghesia. La stessa cosa si è osservata in Germania, ed è possibile anche in altri paesi. Perché i Soviet possano compiere la loro missione storica, è necessaria l’esistenza di un forte Partito Comunista che non si “adatti” semplicemente ai Soviet, ma sappia esercitare sulla loro politica un’influenza decisiva, spingerli a ripudiare il loro “adattamento” alla borghesia e alla socialdemocrazia bianca, e fare del Partito Comunista, attraverso le frazioni comuniste, il partito dirigente dei soviet».

Qui si parla chiaramente di Soviet come nuove forme di organizzazione proletaria emerse dal movimento rivoluzionario in Russia fin dal 1905, forme che, con la vittoria bolscevica dell’Ottobre 1917, hanno assunto oggettivamente un valore universale. Ma, nello stesso tempo, si ribadiva che «la rivoluzione non è un problema di forme di organizzazione (...) è invece un problema di contenuto, ossia di movimento e di azione delle forze rivoluzionarie in un processo incessante, che non si può teorizzare cristallizzandolo nei vari tentativi di una immobile “dottrina costituzionale”» (da Il principio democratico, A. Bordiga, 1922). Ciò vuol dire che in una futura rivoluzione proletaria, l’andamento della lotta di classe fra borghesia e proletariato potrebbe far nascere anche forme organizzative proletarie diverse e solo quelle che avranno un contenuto effettivamente di classe e rivoluzionario potranno assumere un valore universale come lo è stato per i Soviet.

Dunque, è il partito comunista che esercita la dittatura proletaria, attraverso la direzione dei soviet (organizzazioni proletarie territoriali, a differenza dei sindacati che sono organizzazioni proletarie di difesa economica settoriale, nell’industria e nell’agricoltura, nella distribuzione e nei trasporti), soviet che la rivoluzione russa ha suscitato come nuove forme di organizzazione proletaria. Lo Stato proletario, che nasce dopo aver abbattuto, spezzato lo Stato borghese, è il meccanismo politico-amministrativo in cui è centralizzato il potere rivoluzionario il cui compito, in quanto organizzazione di classe, è di lottare contro le altre classi che vengono spogliate dei loro privilegi economici e sociali. A differenza dello Stato borghese – che nella realtà è il comitato di difesa degli interessi di classe della borghesia dominante, cioè della minoranza della popolazione – «lo Stato proletario (...) è una forza storica reale che si adatta allo scopo che persegue, ossia alle necessità per cui è nata» (da Il principio democratico, cit.). Lo Stato proletario non si forma per diventare perennemente il potere centralizzato della classe dominante che basa il suo dominio sulla divisione della società in classi; lo Stato proletario è l’organizzazione centralizzata del potere politico che la classe proletaria erge a difesa della rivoluzione che ha il compito storico di spazzar via i rapporti di produzione e di proprietà borghesi, e superare definitivamente la società divisa in classi. Dal punto di vista del progresso storico delle società umane, la classe del proletariato combatte, attraverso la sua lotta di classe e la sua lotta rivoluzionaria per farla finita con il capitalismo in ogni angolo della terra, e, portando questa sua lotta rivoluzionaria fino alle estreme conseguenze, combatte per la totale scomparsa delle classi, quindi anche di se stessa. E’ da questo punto di vista che Marx ed Engels e, in perfetta continuità, Lenin e la Sinistra comunista d’Italia, hanno definito lo Stato proletario un non-Stato, un’organizzazione della forza armata del proletariato come classe dominante che, dal punto di vista storico, rivolta al passato e al presente, lotta contro tutti gli Stati borghesi e per la rivoluzione proletaria a livello internazionale e, rivolta al futuro, attraverso gli interventi dispotici sul piano politico, sociale ed economico (dunque, in sostanza, sul piano dei rapporti di produzione e di proprietà borghesi), lotta per la trasformazione integrale dell’economia dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione socialista che farà da base alla società senza classi, alla società pienamente comunista.

Può essere utile sottolineare che, parlare di democrazia e di “conquista della democrazia” nel 1848 (come fa il Manifesto), in pieno rivolgimento storico di segno borghese e, nello stesso tempo, proletario, atto ad abbattere per sempre il modo di produzione feudale e il suo potere politico, era cosa ben diversa che parlarne oggi, quando la democrazia si è dimostrata una putrefatta mistificazione della “sovranità popolare”. Allora la rivoluzione borghese non poteva che essere una rivoluzione per l’instaurazione della democrazia contro l’assolutismo monarchico e feudale, perché coinvolgeva necessariamente la maggioranza della popolazione, costituita da contadini e proletari, oltre che da borghesi e piccoloborghesi. Ma già allora, la democrazia borghese manifestava i suoi indiscutibili limiti storici poiché la libertà e l’uguaglianza rivendicate dai rivoluzionari borghesi non erano altro che libertà di sfruttamento del lavoro salariato, ossia la libera attuazione dei rapporti di produzione capitalistici e di proprietà borghesi in ogni attività economica, finanziaria, sociale, rapporti che stabilivano, attraverso le leggi, una formale uguaglianza di tutti i cittadini di fronte allo Stato. Lo stesso sviluppo del capitalismo, a partire dall’Europa, ha mostrato come le “libertà democratiche” non sono state altro che la libertà delle economie più forti di attrezzarsi politicamente e militarmente per conquistare i mercati dove vendere le proprie merci e dove investire i propri capitali, sottomettendo con la forza alle leggi del capitale tutti i popoli del mondo, distruggendo man mano i modi di produzione precapitalistici, con i quali questi popoli riuscivano a sopravvivere, per obbligarli a sopravvivere e a morire secondo gli interessi delle borghesie più forti, rapidamente diventate colonialiste e, successivamente, imperialiste. 

Tornando allo Stato proletario e al fatto che esso è un’espressione della dittatura di classe del proletariato, nel nostro scritto sopra citato, si precisa che questa forza storica reale «potrebbe in dati momenti prendere impulso dalle più vaste consultazioni di massa [ecco applicato il meccanismo “democratico” come la borghesia non ha mai fatto, NdR], come dalla funzione di ristrettissimi organismi esecutivi muniti di pieni poteri [ecco l’attuazione della massima centralizzazione dittatoriale, richiesta, ad es., da situazioni di grave pericolo per il potere proletario, per le quali non c’è il tempo di avviare le più vaste consultazioni di massa, NdR]; l’essenziale è che a questa organizzazione di potere proletario si diano i mezzi e le armi per abbattere il privilegio economico borghese e le resistenze politiche e militari borghesi, in modo da preparare poi la sparizione stessa delle classi, e le modificazioni sempre più profonde dello stesso suo compito e della sua struttura» (Il principio democratico, cit.). Lo Stato, non-Stato, proletario è quindi una particolare organizzazione di classe, assolutamente necessaria per abbattere il capitalismo e la sua società e avviare la trasformazione socialista integrale, che è storicamente avviata ad estinguersi. L’obiettivo finale della rivoluzione proletaria, e quindi della dittatura proletaria, è giungere alla scomparsa della società divisa in classi contrapposte, ad una società senza classi, ad una società di specie. E perché questo lungo, arduo e accidentato percorso storico sia perseguito in tutti gli alti e bassi, avanzate e rinculi, della guerra di classe del proletariato mondiale contro le borghesie di tutti i paesi, ci vuole un organo politico, come il partito comunista, che nel presente rappresenti le finalità ultime della rivoluzione proletaria. Solo il partito di classe, il partito comunista è questo particolare organo, perché possiede la teoria marxista, la teoria del comunismo rivoluzionario grazie alla quale esso non solo interpreta correttamente i fatti storici ma ne anticipa, in generale, l’attuazione leggendo non soltanto la storia delle lotte di classe, delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni passate, ma anche la storia futura.

A seconda degli avvenimenti provocati dalla lotta rivoluzionaria a livello mondiale e dal conquistato potere in un paese, o in più di un paese, e a seconda dell’andamento della guerra che le forze rivoluzionarie dovranno condurre per difendere il potere conquistato e per alimentare la lotta rivoluzionaria negli altri paesi, la durata della dittatura proletaria sarà più o meno lunga, ma certamente non sarà breve.

All’inizio avrà compiti enormemente gravosi e complessi, e questo periodo iniziale «si può suddividere in tre sfere d’azione: politica, militare, economica. Il problema militare della difesa interna ed esterna contro gli assalti della controrivoluzione, come quello della ricostruzione dell’economia su basi collettive, hanno come loro fondamento l’esistenza e l’applicazione di un piano sistematico e razionale di utilizzazione di tutti gli sforzi, in una attività che deve riuscire a essere fortemente unitaria pur utilizzando, anzi proprio per utilizzare con maggior rendimento, le energie di tutta la massa.. Per conseguenza l’organismo che, in primo luogo, conduce la lotta contro il nemico esterno e interno, ossia l’esercito (e la polizia) rivoluzionario deve essere fondato su una disciplina e una gerarchia centralizzata nelle mani del potere proletario: anche l’esercito rosso resta dunque una unità organizzata con gerarchia costituita dall’esterno, ossia dal governo politico dello Stato proletario, e altrettanto si dirà della polizia e della magistratura rivoluzionaria» (sempre da Il principio democratico).

Il piano sistematico e razionale di utilizzazione di tutti gli sforzi delle masse proletarie e la conseguente attività per applicarlo non possono che essere assicurati dal partito comunista che svolge il suo compito dall’esterno delle masse proletarie e dalle sue organizzazioni (sindacati, soviet, Stato) e, dialetticamente, dal loro interno, attraverso i propri militanti, influenzandoli e dirigendoli verso gli obiettivi di classe generali. Sono passati quattro anni e mezzo dalla vittoria dell’Ottobre 1917, quando è stato scritto questo articolo da Bordiga su “Rassegna comunista”: queste sono le lezioni generali tratte a proposito dell’organizzazione dello Stato proletario, perciò valide per tutti i paesi.

«Più complessi aspetti – continua il testo citato – ha il problema della machina economica che il proletariato vincitore edifica per dare la base al nuovo sistema di produzione e distribuzione. Non possiamo qui che ricordare come la caratteristica che differenzia questo razionale apparato di amministrazione dal caos dell’economia privata borghese sia la centralizzazione. La gestione di tutte le aziende si intende fatta nell’interesse della collettività tutta e coordinatamente alle esigenze di tutto il piano di produzione e di distribuzione. D’altra parte la macchina economica, e lo schieramento dei singoli che vi sono addetti, si modifica di continuo non solo per il procedere graduale della sua costruzione ma anche per le crisi inevitabili in un periodo di così vasta trasformazione accompagnato dalla lotta politica e militare». Che conclusione trarre da queste considerazioni sul periodo iniziale della dittatura proletaria? Continuiamo la citazione: «Se i consigli [i soviet, NdR] dei vari gradi devono dar luogo contemporaneamente a designazioni di ordine legislativo per i gradi superiori e a designazioni esecutive per le amministrazioni locali, bisogna lasciare al centro la gestione responsabile in senso assoluto della difesa militare, e in senso meno rigido della campagna economica, mentre gli organi locali valgono a inquadrare politicamente le masse per la loro partecipazione all’attuazione di quei piani e il loro consenso all’inquadramento militare ed economico, creando il terreno di una loro attività più larga e continua che sia possibile intorno ai problemi della vita collettiva, incanalandola nella formazione dell’organizzazione fortemente unitaria che è lo Stato proletario» (tondi nostri).

Nella dittatura proletaria, quindi, esiste una gerarchia statale, con un centro e con organi intermedi e locali che vanno a formare una piramide costituita dall’organizzazione fortemente unitaria che è lo Stato proletario, al cui vertice dirigente sta il partito comunista. E’ in questo senso che va interpretata la famosa frase che afferma che la dittatura proletaria è esercitata dal partito: il partito non si sostituisce all’organizzazione “Stato proletario”, lo dirige in tutte le sue ramificazioni adottando una gestione centralizzata non formale né democratica, né tantomeno autonomistica. L’unitarietà dell’organizzazione Stato-proletario è assicurata dalla sua centralizzazione ed è impostata fin dall’inizio: non è il risultato di un processo democratico di consultazione delle masse, è il risultato della rivoluzione proletaria che, come sostenne Engels contro gli anarchici, è la cosa più autoritaria che ci sia. Il partito comunista ha il compito di perseguirla e di difenderla in ogni situazione. Questa centralizzazione non impedirà che gli organi intermedi abbiano possibilità di movimento e di iniziativa, movimento e iniziativa che non risponderanno a criteri di compartimentazione secondo i vecchi schemi borghesi aziendali e professionali, ma risponderanno a «criteri empirici, tra i quali può essere la confluenza nel luogo di lavoro come nella abitazione o nella guarnigione, o al fronte, o in altri momenti dell’esistenza quotidiana, senza che a priori nessuno se ne possa escludere o elevare a modello». Le rappresentanze di Stato della rivoluzione proletaria – continua lo scritto citato –, perciò, si fonderanno su una «suddivisione territoriale di circoscrizioni nel seno delle quali avvengono le elezioni». Ma ciò che distingue il sistema di rappresentanza delle masse proletarie nei Soviet, o nei Consigli che dir si voglia, è che esso non  risponde a nessuno schema “costituzionale” fisso, né che la “democrazia maggioritaria”, nel senso formale ed aritmetico, con cui possono essere deliberate le decisioni, sia intesa come unico metodo per coordinare i rapporti nel seno degli organismi collettivi come fosse esente di per sé da difetti ed errori. D’altra parte, togliendo la classificazione anagrafica e professionale di ogni membro della nuova società socialista, con questa nuova organizzazione dello Stato e degli organi intermedi e locali in cui partecipano le masse proletarie, si avvia un processo razionale di coinvolgimento diretto delle masse proletarie nelle più diverse funzioni sociali nella produzione e nella distribuzione, nello sviluppo del quale processo i membri della società si abitueranno a dare il proprio apporto nei più ampi e diversi ambiti lavorativi e sociali, di produzione, di distribuzione, di gestione, di amministrazione, di istruzione ecc., liberando energie per dedicarsi all’arte, al gioco, allo svago, all’ozio, alla scienza, alla conoscenza. In questa prospettiva, mentre lo Stato va via via estinguendosi, il partito perderà la sua caratteristica di organo della lotta di classe per trasformarsi in un organo di pianificazione e di gestione dell’economia generale.  

In “Terrorismo e comunismo”, Trotsky, sulla corretta linea marxista restaurata da Lenin, a proposito del partito e dello Stato proletario, afferma:

«Il ruolo straordinario del partito comunista nella rivoluzione proletaria vittoriosa è ben comprensibile. Si tratta della dittatura della classe. Nella classe come tale vi sono strati, atteggiamenti, fasi di sviluppo differenti. La dittatura presuppone unità di volere, orientamento, azione. Il dominio rivoluzionario del proletariato presuppone il dominio politico, in seno allo stesso proletariato, di un partito con un chiaro programma di azione ed un’inviolabile disciplina interna. C’è stato spesso rimproverato di aver soltanto fatto balenare la dittatura dei soviet, e di aver esercitato, in effetti, la dittatura del nostro partito. Ma si può affermare a ragion veduta che la dittatura dei soviet è possibile solo mediante la dittatura di partito: grazie alla chiarezza della propria visione teorica ed alla propria salda organizzazione, il partito dà ai soviet la possibilità di convertirsi, da informi parlamenti del lavoro, in apparato di dominio del lavoro».

Come la Comune di Parigi, anche lo Stato proletario oganizzato dalla vittoria dell’Ottobre 1917 fu un organismo legislativo ed esecutivo insieme, quindi un organo di lavoro; e questo dovrà essere anche per la futura rivoluzione proletaria perché l’obiettivo storico generale è la società senza classi, perciò senza Stato di classe e senza partito di classe: nel processo storico che si avvierà con la vittoria della rivoluzione proletaria «si delinea una evoluzione di organismi che non possiamo prevedere in tutto ma solo intravedere nella direzione di una fusione di tutti i vari organi: politici, amministrativi, economici, con la progressiva eliminazione di ogni elemento coercitivo e della stessa entità Stato come strumento di potere di classe e di lotta contro le altre classi sopravviventi» (dal nostro “Il principio democratico”, Rassegna comunista, 1922).

Il partito perciò è l’organo che dirige la rivoluzione proletaria, dirige la conquista del potere e l’instaurazione della dittatura proletaria; dirigendo i soviet, che sono gli organi proletari che costituiscono il potere di classe proletario, dirige certamente lo Stato proletario ma non si fonde in esso e il motivo è squisitamente politico (dunque, fondamentalmente teorico) perché il partito comunista, durante la dittatura di classe, lotta, nello stesso tempo, sia per l’abbattimento dei privilegi economici e sociali della borghesia e le resistenze politiche e militari borghesi, sia contro l’influenza borghese e controrivoluzionaria che – soprattutto nelle difficoltà economiche e militari della guerra rivoluzionaria portata avanti contro tutte le forze borghesi interne ed esterne – la vecchia classe dominante, facendo perno su tutti gli aspetti economici, sociali, politici, culturali della vecchia società che non possono scomparire in una notte, continuerà ad avere sugli strati piccoloborghesi e proletari arretrati. Non dimentichiamo, infatti, che l’ideologia borghese, e in particolare la democrazia borghese (con le sue pratiche, le sue abitudini, i suoi miti, la sua aderenza alla quotidianità e all’individualismo), continueranno ad avere un peso nella generazione proletaria che farà la rivoluzione e, visto che la rivoluzione proletaria e comunista non vincerà simultaneamente nella gran parte dei paesi capitalisti avanzati, lo avrà anche nelle generazioni successive, oltre che nei proletariati dei paesi in cui la rivoluzione non ha ancora vinto o, pur tentata, è stata sconfitta. L’isolamento in cui è piombata la rivoluzione bolscevica in Russia negli anni successivi alla vittoria dell’Ottobre e, quindi, la mancata rivoluzione proletaria in Europa – cioè nei paesi a capitalismo avanzato – hanno di fatto contribuito in modo sostanziale alla sconfitta del movimento comunista internazionale, quanto hanno contribuito sia l’opera controrivoluzionaria dei partiti della Seconda Internazionale che aderirono, ognuno nel proprio paese, alla guerra imperialista mondiale, sia l’opera opportunista, nell’immediato dopoguerra, delle varie forme di massimalismo socialista che debilitarono completamente il movimento proletario europeo facilitando la ripresa dell’influenza borghese su di esso soprattutto attraverso i miti della democrazia e del riformismo.

Per concludere, i soviet sono organismi proletari territoriali di carattere “immediato” ai quali partecipano i proletari di qualsiasi settore lavorativo, di qualsiasi fede politica o religiosa, di qualsiasi nazionalità, età o genere (per dirla con Trotsky, sono gli informi parlamenti del lavoro). Per questo motivo sono facilmente influenzabili dalla borghesia, e in particolare dalla piccola borghesia urbana e contadina e dall’aristocrazia operaia. In Europa occidentale la loro forma organizzativa era stata tradotta come Consigli operai, ma il senso dato a loro negli anni gloriosi della rivoluzione russa è stato, con la vittoria controrivoluzionaria dello stalinismo e la falsificazione sistematica del socialismo marxista, del tutto mistificato. Oggi non avrebbe senso rivendicare la ricostituzione dei soviet come se si trattasse di una forma organizzativa rivoluzionaria di per sé, una forma assoluta al di là del tempo e dello spazio. I soviet russi divennero rivoluzionari solo quando il partito bolscevico riuscì ad influenzarli e a dirigerli; allora, la parola d’ordine “tutto il potere ai soviet”, nella rivoluzione russa che aveva appena abbattuto il potere zarista, poté diventare una parola d’ordine della rivoluzione proletaria e comunista soltanto perché il partito bolscevico aveva conquistato la loro direzione. Con la vittoria della controrivoluzione staliniana, i soviet sono tornati ad essere organismi influenzati e diretti dalle forze della controrivoluzione.

Nella futura ripresa della lotta di classe, non è escluso che nascano altre nuove forme organizzative, sempre a carattere territoriale e immediato, nelle quali comunque i militanti del partito comunista rivoluzionario avranno il compito di intervenire propagandando non solo le rivendicazioni classiste della lotta proletaria ma anche gli obiettivi rivoluzionari. D’altra parte, oggi e domani, come ieri, il partito comunista ha il compito di intervenire apertamente con le sue frazioni organizzate anche nei sindacati operai, sebbene diretti dagli opportunisti e dai collaborazionisti, e se ne hanno effettivamente la possibilità pratica. I sindacati, infatti, sono organizzazioni economiche operaie di difesa immediata normalmente influenzati e diretti da opportunisti e collaborazionisti; ma, nella misura in cui organizzano masse di proletari, i militanti comunisti, se ne hanno la possibilità pratica, hanno il compito di intervenirvi e di portare la voce del partito, sia sul piano delle rivendicazioni immediate sia sul piano politico più generale. Nel paesi capitalistici avanzati, dopo la seconda guerra imperialista mondiale, il processo di integrazione dei sindacati operai nelle istituzioni statali si è sviluppato enormemente a tal punto da impedire ai proletari iscritti di avere al loro interno una vita sindacale degna di questo nome, sia nei posti di lavoro che all’esterno. A dimostrazione che l’antagonismo di classe fra proletariato e borghesia non si cancella con le pratiche conservatrici e collaborazioniste, di fronte ad impellenti necessità di difesa immediata, sul piano economico come su quello delle condizioni di lavoro, nascono e rinascono continuamente organismi di lotta che cercano di sfuggire alla presa del collaborazionismo tanto più sabotatore quanto più negoziatore, per organizzarsi in modo più efficace se non dentro i sindacati tradizionali, fuori di essi. E così siamo giunti al tema del ruolo che devono avere i comunisti nei sindacati.

Sul tema della dittatura proletaria, del partito e dello Stato, sono molti i riferimenti che si possono fare, a partire dagli scritti di Marx sulla “Comune di Parigi”, a “Stato e Rivoluzione” di Lenin, dal “Terrorismo e comunismo” di Trotsky alla “Rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky” di Lenin. E non mancano gli scritti della nostra corrente tra i quali “Partito di classe e dittatura proletaria” del 1951 che, insieme ad altri fondamentali scritti, fanno da base imprescindibile della nostra costituzione in partito tra il 1951 e il 1952.

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PARTITO COMUNISTA E SINDACATI OPERAI

 

Che ruolo devono avere i comunisti nei sindacati?

 

La “questione sindacale” è una delle questioni più complicate alle quali il movimento proletario e comunista ha da sempre dedicato moltissime energie e molte ne dovrà dedicare ancora poiché la questione non si risolve con la vittoria rivoluzionaria e con l’instaurazione della dittatura proletaria; infatti, come ci insegna anche la rivoluzione d’Ottobre e i suoi primi anni di potere proletario, i sindacati operai continueranno ad esistere e ad avere una funzione di difesa degli interessi immediati dei proletari, sebbene con un rapporto ben diverso da quello esistente nella società borghese. L’economia capitalistica non potrà essere trasformata di colpo o in un brevissimo tempo in economia socialista nemmeno nel paese capitalistico più avanzato, sia per ragioni interne al paese in cui la rivoluzione ha vinto, sia per ragioni di difesa dagli attacchi esterni. 

Come ricordavamo sopra, nelle prospettive di ogni movimento rivoluzionario generale non possono non essere presenti questi fondamentali fattori: 1) un ampio e numeroso proletariato di puri salariati; 2) un grande movimento di associazioni a contenuto economico che comprenda un’imponente parte del proletariato; 3) un forte partito di classe, rivoluzionario, nel quale militi una minoranza di lavoratori ma al quale lo svolgimento della lotta abbia consentito di contrapporre validamente ed estesamente la propria influenza nel movimento sindacale a quella della classe e del potere borghese.

Partiamo dalla differenza sostanziale tra sindacato e partito. Rispetto al partito, il sindacato ha il carattere «di una più completa identità di interessi materiali e immediati: entro i rispettivi limiti della categoria esso raggiunge una grande omogeneità di composizione e può da organismo ad adesione volontaria tendere a divenire un organismo a cui per definizione, o nello Stato proletario a una certa fase di sviluppo, aderiscono obbligatoriamente tutti i lavoratori di una data categoria o industria» (dal citato “Il principio democratico”, 1922). Naturalmente basiamo le nostre posizioni sul concetto di classe, concetto che vale per ogni classe in cui è divisa storicamente la società, e sull’affermazione che la storia procede attraverso la lotta fra le classi. «Quando scorgiamo una tendenza sociale, un movimento per date finalità, allora possiamo riconoscere la esistenza di una classe nel senso vero della parola. Ma allora esiste, in modo sostanziale se non ancora in modo formale, il partito di classe. Un partito vive quando vivono una dottrina ed un metodo di azione. Un partito è una scuola di pensiero politico e quindi un’organizzazione di lotta. Il primo è un fatto di coscienza, il secondo è un fatto di volontà, più precisamente di tendenza ad una finalità. Senza questi due caratteri noi non possediamo ancora la definizione di una classe (...) E quei due caratteri non possono aversi che condensati, concretati nel partito di classe» (dal nostro Partito e classe, 1921).

Lo sviluppo del capitalismo si attua attraverso lo sviluppo delle forze produttive che, in sintesi, sono i capitali e i lavoratori salariati; in questo stesso sviluppo, capitale e lavoro salariato entrano in antagonismo, in lotta per interessi completamente opposti. In questa lotta si formano la coscienza e la volontà di agire in difesa degli interessi di classe, sia da parte del capitale che da parte del lavoro salariato, coscienza e volontà che si condensano nei rispettivi partiti di classe. Ma la varietà di interessi contrapposti che nascono all’interno dello sviluppo capitalistico in tutte le classi sociali – proprietari terrieri, capitalisti dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, dei servizi, piccoloborghesi urbani e rurali, proletari nelle diverse stratificazioni – viene rappresentata, a seconda dello sviluppo economico e sociale del paese capitalistico, da un numero più o meno ampio di partiti politici che ne difendono gli interessi di parte. Nella borghesia, proprio perché basa il suo privilegio sociale e la sua forza dominante sull’economia capitalistica (dunque sui rapporti di produzione e di proprietà borghesi, perciò produzione di merci, mercato e lotta di concorrenza), nascono inevitabilmente contrasti tra le diverse frazioni che, pur avendo storicamente lo stesso interesse generale e internazionale “di classe” (mantenere e sviluppare al massimo lo sfruttamento della forza lavoro salariata in ogni ambito e in ogni paese), sono obbligate dalle stesse leggi capitalistiche a lottare tra di loro per l’egemonia industriale, commerciale, finanziaria, politica e militare. Come ricorda il Manifesto di Marx ed Engels, la borghesia è sempre in lotta, contro le vecchie classi dominanti sopravvissute, contro le frazioni borghesi per l’affermazione e la conservazione dei propri e privati privilegi sociali, contro le borghesie straniere e contro il proletariato. I rapporti di produzione capitalistici, mentre assegnano ai capitalisti una diversa potenza economica a seconda del valore della proprietà privata da cui provengono (proprietà privata ereditata o strappata con la forza) e della grandezza del capitale destinato al processo di valorizzazione (cioè, massimo sfruttamento della forza lavoro salariata), ai lavoratori salariati assegnano sempre e comunque la condizione di senza riserve, di produttori di ricchezza sociale di cui si appropria interamente la minoranza della popolazione costituita dai capitalisti, aumentando tendenzialmente la miseria delle classi sfruttate. In tutto il mondo la condizione proletaria è la condizione di senza riserve, anche quando – come succede nei paesi imperialisti più forti – lo strato di aristocrazia operaia, è pagato meglio e indotto a condividere non solo l’ideologia borghese ma anche lo stile di vita borghese come proprietario e, perciò, spinto a difendere il regime borghese che gli consente di essere privilegiato rispetto alla grande maggioranza dei proletari del mondo.

Il proletariato, in ogni paese, ha lo stesso interesse economico di base: farsi sfruttare di meno e farsi pagare un salario più alto. In ogni paese i capitalisti, per mantenere la forza lavoro salariata sottomessa e pagarla il meno possibile, hanno applicato nei rapporti con i proletari i meccanismi derivati dai rapporti di concorrenza che hanno tra di loro; ed hanno imparato che la loro lotta contro il proletariato ha più possibilità di vittoria se punta sulla concorrenza tra proletari. Dividere i proletari per categoria, settore, zona, nazionalità, professione, specializzazione, età, sesso ecc. è, da un lato, una necessità della struttura economica per aziende che caratterizza il capitalismo nei diversi ambiti di attività e, dall’altro lato, una convenienza sociale perché facilita notevolmente il controllo sociale generale. Ma le condizioni di vita e di lavoro proletarie spingono le masse ad organizzarsi per difendersi meglio e con più efficacia, ed è in difesa di questi interessi immediati che sono nati i sindacati, di mestiere un tempo, poi d’industria. La forza contrattuale dei proletari aumenta nella misura in cui i sindacati operai utilizzano metodi e mezzi di lotta classisti, ossia in difesa esclusiva degli interessi proletari. Una volta che le lotte di classe proletarie, nel tempo, battendosi strenuamente contro il potere borghese, hanno conquistato il diritto alla lotta e il riconoscimento delle loro organizzazioni economiche, i sindacati operai, a partire dall’industria, sono diventati un elemento irrinunciabile per la difesa dei loro interessi immediati. Ma proprio per la loro aderenza all’interesse immediato sono sempre stati inevitabilmente esposti all’influenza dell’ideologia borghese. Storicamente si sono registrate tre grandi fasi di sviluppo dei rapporti tra i sindacati operai e il potere borghese: si è passati dal divieto alla loro esistenza e quindi dalla loro repressione, alla loro tolleranza fino alla loro integrazione nei meccanismi di conservazione del regime borghese.

La borghesia ha tirato anch’essa una lezione dalla lotta di classe del proletariato: come sul piano politico ha compreso che la democrazia, l’elettoralismo, il parlamentarismo, sono armi di “deviazione di massa” in grado di spostare i proletari dal terreno della lotta di classe al terreno della collaborazione fra le classi, ha così compreso che i sindacati, organizzando le masse proletarie sul terreno immediato, potevano, attraverso l’influenzamento borghese ideologico e pratico, servire addirittura a controllare meglio e più capillarmente il proletariato per conto del potere borghese.

I sindacati operai, perciò, possono essere o diventare di classe, ossia organismi della lotta proletaria anticapitalistica e antiborghese, solo se agiscono sul terreno della lotta di classe, cosa che apre la possibilità all’influenzamento politico da parte del partito comunista rivoluzionario, il quale ha il compito – come ricordato prima, citando un nostro testo del 1951 – di contrapporre validamente ed estesamente la propria influenza nel movimento sindacale a quella della classe e del potere borghese. Ciò vuol dire che, per la maggior parte del tempo, fino a quando non maturano le condizioni sociali generali per la ripresa della lotta di classe proletaria, e quindi per la possibilità da parte del partito comunista di intervenirvi e influenzare le organizzazioni economiche del proletariato, i sindacati operai e qualsiasi altra organizzazione proletaria a carattere immediato – cooperative, comitati di quartiere, comitati di inquilini, comitati contro la repressione ecc. – sono inesorabilmente influenzati dalla classe e dal potere borghese.

Nella citazione da Il principio democratico, cinque capoversi sopra, c’è un inciso molto interessante, quando si dice che il sindacato è un organismo che, da organismo ad adesione volontaria, può tendere a divenire un organismo a cui per definizione, o nello Stato proletario a una certa fase di sviluppo, aderiscono obbligatoriamente tutti i lavoratori di una data categoria o industria. Si deduce che, a rivoluzione vittoriosa e ad instaurazione dello Stato proletario avvenuta, dunque durante il periodo della dittatura proletaria e ad una sua certa fase di sviluppo, tutti i lavoratori aderiranno obbligatoriamente al sindacato di riferimento. I comunisti, da rivoluzionari marxisti e non da utopisti o da volontaristi, sanno che la trasformazione economica e sociale dalla società capitalistica alla società socialista non avverrà in brevissimo tempo, né attraverso effetti automatici dalle misure prese dallo Stato proletario, e che i compiti e le urgenze dettati dalla stessa lotta rivoluzionaria contro tutte le borghesie del mondo subiscono il condizionamento dei rapporti di forza tra la rivoluzione proletaria e lo Stato (o gli Stati) proletario e i poteri borghesi non ancora abbattuti. Una volta conquistato il potere in un paese (o in più paesi), a seconda dell’economia (sviluppata o arretrata), e a seconda dello sviluppo della lotta rivoluzionaria negli altri paesi capitalisti avanzati e nel mondo, il potere proletario avrà maggiore o minore forza nel contrastare gli attacchi della controrivoluzione borghese alla quale parteciperanno attivamente tutte le borghesie del mondo. Perciò, uno dei compiti prioritari del potere proletario conquistato sarà di difendersi con tutti i mezzi – militari, politici, economici, ideologici – dagli attacchi della controrivoluzione. Tra le armi indispensabili per questa difesa dello Stato proletario vi sono lo stimolo e il sostegno alla lotta rivoluzionaria del proletariato nei paesi capitalisti, poiché questa lotta indebolirà certamente gli Stati borghesi che la subiranno; lotta che in determinate circostanze (ad esempio in caso di insurrezione proletaria in un paese capitalista o a difesa di un altro Stato proletario) può avere il sostegno materiale dell’armata rossa (come tentò di fare l’Armata Rossa in Polonia, tra il 1918 e il 1921).

In questo enorme sforzo della dittatura proletaria nel concentrare al massimo le forze proletarie sia per contrastare gli attacchi controrivoluzionari all’interno e all’esterno del paese in cui ha vinto, sia per riorganizzare l’economia dalle rovine della guerra imperialista e della guerra tra le forze rivoluzionarie e le forze controrivoluzionarie, sia per sostenere la lotta di classe e rivoluzionaria a livello internazionale, è doveroso per la dittatura proletaria affrontare il problema delle condizioni di vita e di lavoro proletarie, prima di tutto dal punto di vista degli interessi generali del proletariato e della rivoluzione, ma senza tralasciare la necessità da parte del proletariato – che è ancora nella condizione del lavoro salariato – di continuare a difendere i propri interessi parziali, ma di classe, contro un’oppressione economica (data appunto dal lavoro salariato) ancora esistente. Perché questi interessi parziali, ma di classe, non siano un vettore di tendenze immediatiste, della disgregazione del movimento proletario rivoluzionario e non riaprano la porta alla concorrenza tra proletari (il che faciliterebbe l’azione della controrivoluzione borghese), devono essere incanalati in modo tale da non compromettere l’interesse proletario generale. Perciò i sindacati operai di classe – che, con l’approssimarsi dello scontro rivoluzionario con lo Stato borghese, si sono trasformati in sindacati rivoluzionari, e verso i quali il partito comunista rivoluzionario ha avuto la possibilità di influenzarli e dirigerli – diventeranno, sotto la dittatura proletaria, organi ai quali i lavoratori saranno obbligati ad iscriversi. Questo obbligo è, nello stesso tempo, un atto di difesa degli interessi generali del proletariato – per la difesa dei quali la principale struttura è lo Stato proletario – e un impedimento alla formazione di organizzazioni immediate di tipo borghese e, quindi, controrivoluzionarie. Non dimentichiamo, infatti, che lo Stato proletario varerà, tra le prime misure che prenderà, quella del divieto assoluto alla costituzione di partiti e organizzazioni, apertamente o meno, borghesi. Il periodo di dittatura proletaria non è un periodo di pace, nel quale la forza della rivoluzione vittoriosa è sufficiente per tollerare che i borghesi sconfitti si rioganizzino, sebbene in determinati limiti; è, al contrario, un periodo in cui la guerra tra le classi assume il livello massimo di tensione e nel quale – visto che la rivoluzione può vincere, all’inizio, solo in un paese o poco più – tutti gli Stati borghesi, in particolare gli Stati imperialisti, organizzeranno ogni tipo di attacco allo Stato proletario e sosterranno con le loro risorse economiche e finanziarie ogni tipo di iniziativa e di organizzazione atta ad indebolire il potere dittatoriale dello Stato proletario, e ad aprire delle falle nel suo controllo e nelle sue difese. L’obbligo dei lavoratori salariati ad aderire ai sindacati accettati dalla dittatura proletaria è, in realtà, un atto di difesa degli interessi proletari, generali e parziali, che richiede una forte limitazione alla loro stessa “libertà di organizzazione”.

Non va, d’altra parte, dimenticato, che gli organi della dittatura proletaria – si chiamino soviet o meno, comunque saranno organi che coinvolgono politicamente le masse proletarie, e alla cui direzione il partito comunista rivoluzionario che dirige la dittatura, parteciperà – coinvolgeranno le stesse masse proletarie chiamate ad aderire ai sindacati di categoria o di settore. Il quadro d’insieme, quindi, vede, da un lato, le masse proletarie che, con la lotta rivoluzionaria e la conquista del potere politico, assumono le capacità e l’esperienza della partecipazione diretta alla trasformazione della società su tutti i piani (politico, economico, sociale) e, dall’altro lato, il partito comunista rivoluzionario che dirige l’intero processo rivoluzionario, dal suo inizio alla sua attuazione finale; direzione che richiede non solo una forte centralizzazione del potere, ma anche la capacità di essere contro corrente, non solo prima della rivoluzione (contro i partiti operai borghesi e contro ogni manifestazione dell’opportunismo e del collaborazionismo interclassista), ma anche durante la dittatura del proletariato poiché sarebbe da ingenui idealisti credere che, una volta conquistato il potere politico e costituito lo Stato proletario, non ci saranno più influenze borghesi all’interno degli strati proletari. Fino a quando la trasformazione non solo politica, ma soprattutto economica, non sarà attuata, almeno nella gran parte dei paesi capitalisticamente avanzati, esisterà sempre la possibilità che le classi borghesi, facendo leva sulle basi materiali capitalistiche (che non spariscono dalla sera alla mattina), si riorganizzino nel tentativo di riconquistare il potere ed abbattere il potere dittatoriale proletario.

Bene, tornando all’oggi, o perlomeno al periodo apertosi col secondo dopoguerra, è per noi un dato assodato che i sindacati dell’epoca imperialista sono organismi certamente operai ma inseriti sempre più nei meccanismi statali. Ci sono, ad esempio, i “fiorentini” (il gruppo che si è scisso dal nostro partito nel 1973-74, che pubblica il giornale “il Partito comunista” e si definisce anch’esso “partito comunista internazionale”), che definiscano questi sindacati come “sindacati di regime”. Noi preferiamo definirli “sindacati tricolore” perché, sebbene non differiscono nella sostanza della loro politica collaborazionista con il potere borghese dai sindacati fascisti, oggi non siamo in regime di sindacato unico e obbligatorio come durante il ventennio fascista. Ogni dittatura aperta e dichiarata (quella fascista come quella proletaria comunista), sottopone l’intera società alla massima centralizzazione non solo del proprio potere, ma di tutti gli organismi sociali ed economici. Sotto il fascismo o sotto la democrazia, è sempre la classe borghese che domina e lo Stato non è che lo Stato borghese; sotto il fascismo la politica sociale nei confronti del proletariato – dopo aver distrutto le sue organizzazioni classiste e i suoi partiti politici – è la politica della collaborazione tra le classi, basata sul tacitamento delle esigenze primarie del proletariato attuando le rivendicazioni che furono del riformismo socialista (pensioni, previdenza sociale ecc.). La borghesia ha sempre cercato di portare dalla propria parte la maggioranza del proletariato, o con la violenza o con il riformismo, o con entrambi.

Il fascismo è stata la soluzione che la classe dominante borghese, di fronte al serio pericolo della rivoluzione proletaria e comunista in Italia (e in Germania), dopo aver utilizzato i partiti operai borghesi (tutti i partiti opportunisti) affinché deviassero i proletari dalla lotta di classe e rivoluzionaria, indebolendoli e sfiancandoli in lotte parziali e locali e senza risultati, e dopo essersi riorganizzata dal caos determinato dalla guerra, ha infine scovato, ottenendo un doppio risultato. Da un lato, reprimere con la violenza squadristica le manifestazioni proletarie, distruggere le loro sedi e i loro giornali, attaccandoli localmente e sotto la protezione delle forze dello Stato; dall’altro lato, far fuori le forze del riformismo socialista, i partiti e i sindacati operai, le loro cooperative e le loro associazioni, allo scopo di impedire al proletariato la sua riorganizzazione classista e rivoluzionaria, agendo quindi come controrivoluzione preventiva. Il fascismo ha utilizzato la democrazia, e la protezione dello Stato borghese, per svolgere la sua funzione di braccio armato “illegale” contro le organizzazioni proletarie e per salire al parlamento come forza “legale”, per poi farsi delegare tutto il potere e far tabula rasa della democrazia e dei suoi meccanismi parlamentari. Ma doveva nello stesso tempo garantire alla classe borghese dominante una “pacificazione” sociale, che le permettesse di dedicarsi totalmente agli affari e alla conquista di mercati e colonie. A questo scopo, il fascismo applica l’aperta e conclamata collaborazione di classe come perno della sua politica sociale (una collaborazione di classe che era stata in precedenza avviata in modo parziale e spesso nascosto dai riformisti socialisti) e attua una serie di riforme con l’obiettivo di influenzare e coinvolgere il proletariato nella difesa degli interessi borghesi, in pace come in guerra (dalla guerra coloniale alla guerra mondiale).

La democrazia post-fascista, sostenuta politicamente dalle forze della controrivoluzione staliniana alleate, in pace e in guerra, con le forze borghesi dei paesi imperialisti “democratici”, non è un “passo avanti” per l’emancipazione del proletariato, come il fascismo non è stato un “passo indietro” nella storia. In entrambe le situazioni il proletariato è la classe che ha pagato il prezzo più alto in assoluto dello sviluppo del capitalismo nella fase imperialista. I milioni di morti nella prima guerra imperialista mondiale poterono essere riscattati dal movimento rivoluzionario e comunista che vinse nell’Ottobre ’17 in Russia e che tentò la conquista del potere in Ungheria, in Germania, in Polonia. Movimento rivoluzionario e comunista che fu sconfitto, prima ancora che dalle forze militari borghesi, dal cancro socialdemocratico che portò alla degenerazione di tutto il movimento internazionale. I milioni di morti nella seconda guerra imperialista mondiale non furono riscattati da alcun movimento rivoluzionario e comunista, poiché la degenerazione dell’Internazionale Comunista a metà degli anni Venti e il dilagare della controrivoluzione staliniana in tutto il mondo, con la conseguente distruzione dei partiti comunisti internazionalisti e l’eliminazione fisica dell’intera vecchia guardia bolscevica, impedirono al proletariato russo – glorioso protagonista della rivoluzione d’Ottobre e dei primi anni della dittatura proletaria nell’immenso paese – e al proletariato dei paesi capitalisti occidentali di avere un sicuro riferimento politico e teorico per opporsi con tutte le loro forze alla guerra mondiale che, dopo la sconfitta del proletariato cinese nel 1927 e del proletariato spagnolo nel 1934-37, si stava avvicinando a passi da gigante.

Uno dei peggiori risultati del fascismo per le sorti del proletariato, sostenemmo all’epoca, è stato l’antifascismo: la democrazia antifascista è stata il veleno più potente che i poteri borghesi potessero scoprire. In questo modo, la borghesia non solo ringiovanì una democrazia che aveva mostrato tutte le sue illusioni e tutta la sua falsa disponibilità a facilitare l’emancipazione proletaria, ma poté anche riutilizzare tutti i suoi meccanismi e tutte le sue illusioni come formidabili armi per incatenare il proletariato, questa volta a lungo, al carro borghese in ogni parte del mondo. In questo complesso disegno, il sindacalismo del secondo dopoguerra svolse un ruolo molto importante e del tutto parallelo a quello svolto dai partiti comunisti stalinizzati, fra i quali il Partito comunista italiano di Gramsci e di Togliatti ebbe una specie di primato in Europa: fu il più grosso partito “comunista” dell’Occidente.

Sapevamo molto bene come era stata costituita la CGIL nel 1943, sotto la direzione politica degli staliniani e degli alleati che sollecitavano e sostenevano l’organizzazione del movimento partigiano, che si rendeva necessaria per controllare il più strettamente possibile i movimenti di sciopero che nascevano spontanei nelle fabbriche del Nord Italia. La CGIL costituita nel 1943 non aveva nulla da spartire con la CGL dell’anteguerra e che era stata distrutta dal fascismo: qui abbiamo un sindacato collaborazionista, tricolore (non a caso è stata inserita la “I” di italiana), contro una CGL che era un sindacato di classe, sebbene diretta da opportunisti (come d’altra parte erano tutti i sindacati).

In un “filo del tempo” del 1949, in occasione della scissione nella CGIL da cui uscirono la CISL e la UIL, intitolato “Le scissione sindacali in Italia” (1), dopo aver ribadito che queste scissioni «non interromperanno il procedere sociale dell’asservimento del sindacato allo Stato borghese, e non sono che una fase della lotta capitalista per togliere ai movimenti rivoluzionari di classe futuri la solida base di un inquadramento sindacale operaio veramente autonomo», si afferma che «anche la Confederazione che rimane coi socialcomunisti di Nenni e Togliatti non si basa su di una autonomia di classe. Non è un’organizzazione rossa, è anche essa un’organizzazione tricolore cucita sul modello Mussolini». Per noi era importante definire con certezza la direzione che i partiti e le organizzazioni immediate operaie avevano preso rispetto alla guerra imperialista e al suo dopoguerra. L’asservimento allo Stato borghese riguardava, in effetti, sia la CGIL che il PCI, con ruoli diversi ovviamente. Ma rispetto alla CGIL il nostro partito, pur considerandola un’organizzazione tricolore “cucita sul modello Mussolini” (quindi non un sindacato in tutto e per tutto fascista, bensì un sindacato formatosi su quel modello ma in una situazione in cui è ammessa la libertà di organizzazione sindacale), non poteva non tener conto che una gran parte delle masse operaie organizzate sindacalmente era iscritta alla CGIL; perciò il partito di classe, che ha il compito di svolgere il suo lavoro e il suo intervento “a contatto con la classe operaia” (come dichiara il nostro “Ci distingue”), non può esimersi dall’intervenire nel sindacato operaio, anche se “tricolore” (d’altra parte, Lenin, a proposito dell’interesse del partito ad agire là dove gli operai si organizzano o vengono organizzati per la difesa immediata, sosteneva che era utile che il partito intervenisse anche nel sindacato organizzato dalla polizia, con le dovute accortezze ovviamente). Il compito del partito è principalmente quello di denunciare la politica e la pratica opportuniste e collaborazioniste del sindacato tricolore, di tentare di influenzare gruppi di operai che sono spinti alla lotta affinché si indirizzino su obiettivi di classe e non collaborazionisti, e che utilizzino i metodi e i mezzi della lotta di classe e non quelli del collaborazionismo interclassista. Questo lavoro all’interno dei sindacati è vitale per il partito perché i proletari hanno modo di conoscere direttamente, nella pratica, nella lotta, sul terreno immediato, i comunisti rivoluzionari per quel che dicono, per quel che sostengono, per quel che fanno, per come agiscono: è la base dell’opera di influenza dei comunisti rivoluzionari all’interno della classe proletaria, in vista di una futura ripresa della lotta di classe.

I “fiorentini” dimenticarono quanto sosteneva il partito fin dalle sue origini a proprosito della CGIL e dei sindacati del secondo dopoguerra; si fecero abbagliare dalle lotte operaie della seconda metà degli anni Sessanta, e in particolare dall’autunno caldo del 1969, considerando il proletariato pronto a deleggittimare i vertici della CGIL a causa della loro opera continuamente sabotatrice delle lotte (sempre più “articolate”, peraltro), e considerando il sindacato CGIL come un sindacato “rosso”, “di classe” per la difesa del quale bisognava lottare contro i vertici, la loro politica e il loro progetto di unificazione con CISL e UIL, come se questa unificazione significasse la fine del sindacalismo “rosso” e l’inizio di un sindacalismo “fascista”. Ci si dimenticava che CISL e UIL, all’inizio erano delle correnti dell’unico sindacato CGIL e che, 6 anni dopo la sua costituzione, si scissero dal troncone originario dentro al quale stavano tutti, gialli, rossi, bianchi, neri, allo scopo di dividere ulteriormente il proletariato e perché le forze sociali che esprimevano i diversi partiti avevano bisogno di poggiare su basi sociali, ed elettorali, più direttamente controllate. Ma la tendenza all’asservimento allo Stato borghese restava fondamentalmente intatta, solo che si esprimeva su organizzazioni diverse, tutte egualmente tricolori.

Nel “filo del tempo” sopra ricordato, a proposito dei sindacati fascisti, si legge infatti:

«I sindacati fascisti comparvero come una delle tante etichette sindacali, tricolore contro quelle rosse gialle e bianche, ma il mondo capitalistico era ormai il mondo del monopolio, e si svolsero nel sindacato di Stato, nel sindacato forzato, che inquadra i lavoratori nell’impalcatura del regime dominante e distrugge in fatto e in diritto ogni altra organizzazione. Questo gran fatto nuovo dell’epoca contemporanea non era reversibile, esso è la chiave dello svolgimento sindacale in tutti i grandi paesi capitalistici». Dunque, siamo di fronte ad una tendenza mondiale che non è reversibile; ossia, per dirla in sintesi, le organizzazioni sindacali in tutti i grandi paesi capitalistici, per come sono costituite e strutturate, da tricolori non possono, in un processo di sviluppo dei meccanismi democratici interni ai sindacati, ridiventare rosse. I sindacati sono sempre e comunque delle organizzazioni operaie che organizzano gli operai sul terreno delle lotte immedite ed è su questo terreno che i comunisti possono, e debbono, intervenire per indirizzare gli operai sulla via della lotta di classe; il partito opera in questi organismi fino a quando non sia «esclusa l’ultima possibilità virtuale e statutaria di attività autonoma classista» (Tesi del 1951, capitolo IV. Azione di partito in Italia e altri paesi al 1952), penetrandoli e tentando, quando «il concreto rapporto numerico tra i suoi membri, i simpatizzanti e gli organizzati in un dato corpo sindacale risulti apprezzabile», negli inevitabili scontri con le forze conservatrici, anche la direzione di esso. Non si dà, perciò, per esclusa anche la remota possibilità di poter sviluppare all’interno dei sindacati tricolore un’attività di classe, e comunista; attività autonoma classista che, se portasse ad una influenza determinante sui proletari spinti alla lotta classista e iscritti in quel determinato corpo sindacale, potrebbe consentire anche la conquista della sua direzione (si dirà: magari a legnate). Ma se quell’attività autonoma classista fosse impedita dagli statuti e dai meccanismi interni del sindacato, i comunisti sarebbero obbligati a limitarsi alla propaganda degli obiettivi, dei metodi e dei mezzi della lotta di classe, finché possibile all’interno dei sindacati e sempre e comunque al loro esterno, incitando i proletari ad assumere direttamente nelle loro mani l’organizzazione della propria lotta. Sappiamo, d’altra parte, che nei decenni dalla fine della seconda guerra imperialista in poi, il processo di integrazione dei sindacati tricolore nello Stato è avanzato continuamente, a poco a poco eliminando la vita sindacale che coinvolgeva la gran parte degli operai, eliminando le assemblee dove si mettevano ai voti le decisioni da prendere sulle lotte, sugli obiettivi, sui mezzi di lotta da utilizzare ecc., e trasformando i delegati sindacali in semplici funzionari di una burocrazia volta al mantenimento di rapporti stabili di collaborazione con i padroni, le loro associazioni e lo Stato borghese allo scopo di affrontare tutti i problemi che nascono nei rapporti di produzione e di distribuzione capitalistici dal punto di vista della produttività, della competitività, della crescita economica e del buon andamento economico delle aziende e dell’economia nazionale.

Niente di diverso, sostanzialmente, da quanto il fascismo voleva ottenere dai sindacati, solo che oggi, la democrazia permette a gruppi operai che non concordano con la linea del sindacato a cui erano iscritti, di riunirsi e organizzarsi diversamente, ma sempre attenendosi a regole e leggi che imbrigliano l’attività sindacale in modo da essere controllata fin dall’inizio sul piano dello statuto, delle iscrizioni, delle quote di tesseramento ecc. Perché possano tornare ad organizzarsi davvero in modo autonomo e classista, i proletari non potranno che passare attraverso una profonda rottura con la collaborazione di classe e con la ripresa non episodica, non limitata nel tempo e nello spazio, della lotta di classe. Nel periodo che ci distanzia dalla ripresa della lotta di classe, i comunisti non si ritirano in una torre d’avorio, non si limitano volontariamente allo studio e alla custodia della teoria marxista: cercano di legare la forzata limitatezza delle loro possibilità di intervento nelle lotte e nelle organizzazioni immediate operaie esistenti, ad una attività di propaganda, di intervento e di organizzazione in tutti gli spiragli che la situazione reale apre, attendendo – certo, mai forzando con «manovre ed espedienti che facciano leva su  quei gruppi, quadri, gerarchie che usurpando il nome di proletari, socialisti, comunisti, dominano le masse» (Tesi del 1951, Ibidem) – che nella determinazione delle crisi del capitalismo si sviluppino i fattori economici, politici e sociali che spingono oggettivamente le masse proletarie a riprendere la lotta di classe, rompendo la pace sociale e le catene della collaborazione tra le classi.                           

Ci siamo dilungati parecchio, ma crediamo di aver dato degli elementi validi per comprendere le nostre posizioni su temi così complessi e ardui. D’altronde il nostro lavoro di oggi si collega al lavoro del partito di ieri e, in prospettiva, al lavoro di partito di domani, ma seguendo il criterio secondo il quale la restaurazione della dottrina marxista, a cui il nostro partito ha dedicato le migliori energie in un trentennio dalla fine della seconda guerra mondiale, è stata messa a punto, e secondo il quale sono state definite le Tesi che ci distinguono da qualsiasi altro raggruppamento politico che si definisce proletario, comunista, rivoluzionario; lavoro che costituisce la base teorica e politica irrinunciabile del partito comunista internazionalista e internazionale.

 


 

(1) Questo articolo fa parte della serie intitolata “Sul filo del tempo” ad opera di Amadeo Bordiga ed è stato pubblicato nel n. 21, 25 maggio-1 giugno 1949, dell’allora giornale di partito “battaglia comunista”. E’ inserito, insieme agli altri “fili del tempo” che trattano la “questione sindacale”, nel nostro Reprint “il comunista”, n. 9, maggio 2015, intitolato Partito di classe e “questione sindacale”.    

 

 

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