In ogni paese capitalista, sviluppato o arretrato, la borghesia è il nemico di classe n° 1. Autoctoni o immigrati, i proletari sono sempre e dovunque schiavi salariati e il loro interesse di classe è unirsi nella lotta contro la borghesia

(«il comunista»; N° 160 ; Luglio 2019)

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1. La classe dominante borghese dei paesi capitalistici sviluppati – non importa se al governo ci sono i partiti di sinistra, di centro o di destra – nella sua politica è guidata sostanzialmente dalla legge del profitto capitalistico e dall’interesse nazionale rappresentato dallo Stato e dai gruppi industriali e finanziari più forti attraverso i quali condurre la lotta di concorrenza con le borghesie e gli Stati stranieri. La borghesia è sempre in lotta: contro le fazioni nazionali concorrenti e più deboli, contro le borghesie straniere e, sempre e comunque, contro il proletariato innanzitutto del proprio paese e, poi, degli altri paesi.

 

2. La classe borghese è una classe unitaria solo se guidata da partiti politici e da poteri economici e finanziari forti, capaci di catalizzare tutti gli strati sociali intorno alla difesa degli interessi della grande borghesia che è l’unica a poter tener testa alle borghesie straniere. In periodi di espansione economica, i diversi strati borghesi hanno interesse a non farsi la guerra e ad aprire il coinvolgimento politico nella guida dello Stato ai partiti riformisti, sia del riformismo borghese, sia del riformismo socialista. La democrazia borghese è il metodo che meglio di altri facilita questo coinvolgimento. Ma la lotta di concorrenza non scompare; con l’espansione economica si eleva a un livello superiore, alimentando le ambizioni di conquista di nuovi mercati, creando nello stesso tempo i fattori di una concorrenza più acuta e spietata che, in periodi di recessione economica, tendono a rafforzare gli strati borghesi che più di altri sono riusciti a conquistare posizioni economiche, finanziarie e politiche strategiche, mandando in rovina gli strati borghesi più deboli. Emergono con più forza le tendenze centralizzatrici e concentrazioniste, sia sul piano economico e finanziario che sul piano politico; il capitalismo liberale di un tempo lascia il posto al capitalismo imperialistico. Sul piano politico, il mantenimento degli istituti democratici e dei metodi democratici diventa sempre più una copertura ideologica della realtà dittatoriale del capitale. Il riformismo socialista, che ha sempre avuto il compito di facilitare il coinvolgimento del proletariato nella difesa degli interessi borghesi in cambio di qualche miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, perde le sue vecchie caratteristiche di distinzione dal liberalismo borghese, prendendone sempre più le sembianze in un ambiente sociale ed economico che però è cambiato completamente perché da “liberale” è diventato “imperialistico”, “antidemocratico”, “illiberale”. Il riformismo di sinistra assomiglia sempre più al vecchio riformismo liberale borghese, ma è fuori tempo ed è sempre più la sua copia sbiadita; però mantiene presso la borghesia dominante un certo interesse nella misura in cui riesce a influenzare importanti strati proletari deviando sistematicamente ogni spinta di lotta classista sul terreno della collaborazione di classe.

 

3. La classe borghese, nello sviluppo capitalistico della società, ha dovuto sempre contrastare non solo la concorrenza delle borghesie straniere, ma anche la lotta di classe del proprio proletariato. Nelle diverse fasi storiche dello sviluppo del capitalismo, la borghesia è passata dall’impedire con la forza e le leggi l’organizzazione indipendente del proletariato, nella forma di partito o di organizzazione economica, alla tolleranza e, infine, alla “libertà di organizzazione, di riunione, di opinione” all’interno degli istituti democratici e delle leggi appositamente varate. Nulla ha mai impedito alla classe dominante borghese di contrastare con le sue leggi, la sua forza e la sua violenza di Stato e di milizie illegali, la lotta di classe del proletariato quando questa lotta rispondeva, e risponde alla forza con la forza, alla violenza con la violenza, alle armi con le armi.

Quando la lotta di classe del proletariato, in determinati svolti della storia, si sviluppa nella lotta rivoluzionaria del proletariato, questa, guidata dal partito proletario di classe, punta alla conquista del potere, perché la lotta di classe stessa dimostra alla massa proletaria quel che è chiaro al suo partito di classe fin dall’inizio: il potere politico borghese difenderà sempre, fino alle estreme conseguenze, il modo di produzione capitalistico, il regime borghese che ne rappresenta gli interessi e lo Stato borghese che lo difende non solo con le leggi, ma soprattutto con la forza armata. La rivoluzione d’Ottobre 1917, con la vittoriosa conquista del potere da parte del proletariato russo guidato dal partito di Lenin, ha dimostrato alla borghesia russa, allo zar e alle borghesie imperialiste di tutto il mondo, che la classe proletaria è l’unica classe in grado non solo di contrastare efficacemente gli interessi e i disegni politici e militari dello zarismo e della borghesia dominante, ma di innestare sui disastri della guerra mondiale e sulla lotta rivoluzionaria vittoriosa del proletariato russo un processo rivoluzionario che come teatro aveva il mondo intero e come obiettivo aveva la distruzione del potere politico borghese e imperialistico per poter avviare la trasformazione economica dell’intera società, passando dal capitalismo al socialismo e, infine, al comunismo pieno, alla società senza classi, senza denaro, senza merci, senza concorrenza, senza guerre. E’ esattamente questo pericolo, il pericolo di perdere il potere politico per sempre e scomparire dalla società come classe sociale, che la classe borghese teme più di tutte le crisi economiche e finanziarie, le guerre locali o mondiali, le catastrofi naturali o indotte dal suo stesso modo di produzione. Dagli anni della rivoluzione russa e internazionale, la borghesia ha tratto delle lezioni che si tramanda di generazione in generazione, da un paese capitalistico sviluppato all’altro, e ai paesi capitalistici arretrati, perché lo sviluppo del capitalismo in tutto il mondo non può che creare masse proletarie sempre più numerose. Masse che, proprio per il numero e la diffusione in ogni paese del mondo, costituiscono la fonte imprescindibile del profitto capitalistico, ma, nello stesso tempo, un potenziale pericolo rivoluzionario. E per combattere contro il pericolo rivoluzionario, preventivamente, la borghesia escogita e utilizza qualsiasi mezzo, qualsiasi metodo, qualsiasi politica, qualsiasi ideologia: dal riformismo colorato di socialismo al falso comunismo (leggi stalinismo, maoismo ecc.), dalla democrazia declinata in mille modi diversi all’autoritarismo e alla dittatura militare, fino al fascismo, se il pericolo rivoluzionario, rappresentato dal proletariato organizzato e deciso nella lotta per la conquista del potere, è reale e vicino nel tempo e nello spazio.

 

4. La classe proletaria è la classe dei lavoratori salariati, dei senza riserve, dei non possidenti; è la classe che possiede soltanto la sua forza lavoro e che è costretta a venderla ai capitalisti, ai borghesi in genere, per avere in cambio un salario che è l’unico modo per poter sopravvivere nella società del capitale. La classe borghese, forte del suo potere economico, finanziario, politico, militare, non organizza soltanto la produzione e la distribuzione delle merci e del lavoro, organizza anche i proletari attraverso le più diverse istituzioni sociali, politiche, sindacali, culturali, religiose. La classe borghese ha imparato dalla sua stessa storia di classe dominante che una delle armi più efficaci per tenere sottomessa la classe proletaria è la democrazia. Il sistema democratico combina, infatti, elementi di ideologia, di politica e di organizzazione, grazie ai quali il proletariato viene coinvolto nella rete difensiva degli interessi borghesi che parte dalla piccola associazione, dall’organizzazione locale e giunge fino al parlamento, mentre ai vertici dello Stato questa larga partecipazione viene completamente fusa, perdendo ogni supposta distinzione di interessi dei diversi strati sociali, e traformata in lotta delle fazioni che costituiscono da sempre la classe borghese. Ma esiste un denominatore comune che unisce le fazioni borghesi che normalmente si fanno concorrenza e lottano per la supremazia degli interessi di cui sono portatrici: la politica della collaborazione di classe con la quale la borghesia piega il proletariato non solo a farsi sfruttare senza ribellarsi, ma a utilizzarne la forza sociale per difendere meglio e più a lungo gli interessi generali del capitalismo, e quindi il regime borghese che li amministra.

   

5. La collaborazione di classe tra proletariato e borghesia è, nei fatti, il riformismo portato alla sua estrema conseguenza, è l’incontro tra il riformismo borghese e il riformismo socialista, la loro fusione e la loro trasformazione in totale asservimento del proletariato alla classe borghese dominante. La collaborazione di classe è stata sempre l’obiettivo perseguito dalla borghesia di ogni paese, ma col fascismo – nella lotta contro l’avanzata del proletariato sulla via della rivoluzione – la classe borghese dominante ha trovato il modo di farne la base essenziale della sua sopravvivenza al potere. Non va dimenticato che il proletariato è stato piegato al fascismo dopo che l’opera sistematica del riformismo socialista nel deviarlo e disorganizzarlo in quanto classe indipendente e lanciata verso la rivoluzione, lo aveva scoraggiato, diviso, confuso, deviandolo dalla lotta di classe e rivoluzionaria, in tempo di guerra, a sostegno della guerra “in difesa della patria” e, in tempo di pace, nella lotta per conquistare un miglioramento economico e sociale atteso dalla ricostruzione borghese postbellica. La violenza del fascismo contro le organizzazioni sindacali, sociali e politiche del proletariato, in un primo tempo certamente “illegale”, ma sostenuta, accettata e giustificata dalle stesse forze dello Stato borghese, completò in realtà l’opera di assoggettamento del proletariato agli interessi borghesi che il riformismo socialista e il socialsciovinismo avevano iniziato.

Ma la collaborazione di classe, pur basata su reali miglioramenti dei bisogni essenziali della vita proletaria (i famosi ammortizzatori sociali), non cancella l’antagonismo di classe tra proletariato e borghesia, poiché questo antagonismo si basa sui rapporti di produzione capitalistici che sono alla base dei rapporti sociali. Perciò, quando la pressione capitalistica assume un livello insopportabile per il proletariato, elementi o strati proletari sono spinti a reagire con la lotta – che è l’unico strumento a disposizione per difendersi da quella pressione –, ad organizzarsi per lottare e per ottenere un risultato. Per quanto le forze di conservazione e opportuniste si diano da fare per imprigionare il proletariato nella rete della collaborazione di classe, l’antagonismo di classe tra proletariato e borghesia riemerge e riemergerà, perché le contraddizioni economiche e sociali che caratterizzano il capitalismo sono più forti delle politiche che le classi dominanti borghesi adottano per difendere il proprio potere e per mantenere le masse proletarie ogni paese nella condizione di schiavitù salariale.

 

6. Uno degli effetti mondiali dello sviluppo del capitalismo e delle sue crisi è costituito senza dubbio dal fenomeno delle grandi migrazioni. Da sempre, ogni guerra ha provocato lo spostamento di popoli o di parte di essi, per sfuggire alle distruzioni e alle devastazioni di guerra, per sfuggire alla fame e alla miseria provocate dalla guerra, o a causa di una deportazione per mano dei vincitori. Le crisi economiche capitalistiche, anche se non sfociano nella guerra, provocano comunque una tale precarietà di vita e di lavoro per le grandi masse proletarie e contadine, da spingerne una parte consistente a migrare in altri paesi per la pura sopravvivenza. Anche certi fenomeni naturali, come i terremoti, i maremoti, le alluvioni, gli uragani, gli incendi, di fronte ai quali il capitalismo, non organizzando la vita umana e sociale ad affrontare questi fenomeni per limitare al minimo i danni e le morti, sono fonte sistematica di migliaia di morti e ingenti danni all’agricoltura, alle case, alle infrastrutture, all’attività umana in generale. Ma da questi danni, il capitalismo trae, invece, profitto, dimostrando in ogni occasione di essere un’economia della sciagura. Queste migrazioni forzate sono parte integrante dello sviluppo del capitalismo, come la disoccupazione giovanile o adulta, come l’emarginazione sociale degli strati più deboli della popolazione. E il capitalismo, da un lato, ha interesse ad approfittare delle precarissime condizioni economiche e di vita delle masse migranti, che offrono la propria forza lavoro a costi estremamente bassi, sfruttandole fino alla morte, dall’altro, quando non può sfruttarle nei cicli produttivi legali, le abbandona alla loro sorte che è fatta di inedia e di morte di stenti, o alla criminalità organizzata – il lato oscuro del capitalismo – che ne fa oggetto di prostituzione e di violenza.

 

7. La politica borghese, pur puntando alla collaborazione di classe da parte del proletariato – e a questo scopo foraggia il dispendioso sistema democratico nel quale operano, partiti, sindacati, organizzazioni varie – non può obbligare il sistema economico capitalistico a dare un salario a tutti i proletari esistenti e futuri in cambio del loro pieno impiego; la legge del profitto capitalistico non lo permette. Perciò, nei paesi capitalistici avanzati, se da un lato promuove e sostiene l’attività umanitaria di organizzazioni sociali costituite ad hoc e sostenute da donazioni private, dall’altro lato attua una discriminazione sociale che permette di aggiungere, alla concorrenza tradizionale tra proletari autoctoni, la concorrenza tra proletari autoctoni e proletari stranieri. Gli effetti delle crisi economiche, combinati con l’aumentata concorrenza a livello internazionale dei capitalismi nazionali, colpiscono non solo le masse proletarie ma anche le masse piccoloborghesi – la cosiddetta classe media – che, cadendo in rovina, non sono più automaticamente dalla parte della grande borghesia dominante ma tendono a contrapporvisi, indebolendo in questo modo la loro funzione corruttrice nei confronti del proletariato che in periodi di espansione garantivano i loro privilegi e benessere sociale. Per i borghesi di un paese, il nemico da combattere non è più soltanto la borghesia degli altri paesi ogni volta che impedisce l’espansione economica e finanziaria delle aziende nazionali, ma anche i proletari stranieri, e in particolare le masse di migranti che scappano dai loro paesi per approdare nei paesi più ricchi. La repressione che la borghesia esercitava nelle colonie, al tempo del colonialismo tradizionale, si sposta inevitabilmente all’interno del paese colonizzatore nella misura in cui vi giungono gli immigrati, clandestinamente o meno.

 

8. La borghesia dei paesi ricchi può impedire che le masse migranti emigrino dai loro paesi devastati dalle guerre e dalle crisi economiche per giungere, con qualsiasi mezzo e a costo della vita, nei paesi ricchi? In buona parte sì, visto che le migrazioni che avvengono in Africa e in Asia si muovono soprattutto all’interno degli stessi continenti. Ma i migranti che toccano il suolo europeo, o americano, soprattutto clandestinamente vista la politica di respingimento adottata da tutti questi paesi nei loro confronti, costituiscono un facile pretesto che la borghesia usa per scatenare una campagna di odio sociale e razziale allo scopo di indurre il proletariato autoctono a stringere ancor più il legame con la propria borghesia nazionale, anche se le sue condizioni di vita e di lavoro peggiorano sempre più. Si costruiscono campagne propagandistiche intorno alla paura dell’invasione straniera, del crimine importato dall’esterno, della vita malavitosa in cui si rifugiano i clandestini; si alzano muri, reticolati e si rafforzano i militari ai confini dando loro la facoltà di sparare; si riempiono di migranti i  centri di raccolta appositamente costruiti come prigioni, si dà una sproporzionata notorietà agli atti di violenza effettuati da un migrante come se tutti gli atti di violenza fossero causati dai migranti. E mentre la borghesia dominante inneggia alla legalità e ai valori di civiltà dei paesi industrializzati, l’attività illegale, la corruzione, la malversazione, la frode, le ruberie si diffondono, e non ad opera dei diseredati migranti, ma ad opera degli stessi borghesi ricchi, ma mai sazi della propria ricchezza.

     

9. I proletari autoctoni dei paesi ricchi, da decenni preda di un truce conservatorismo e della più devastante collaborazione di classe, si sono indeboliti a tal punto da non riuscire a difendersi autonomamente nemmeno sul terreno elementare della difesa economica quotidiana. Hanno consegnato la propria indipendenza di classe a partiti e sindacati venduti al capitalismo, che l’hanno sepolta sotto una spessa coltre di aziendismo, di sciovinismo, di sovranismo. Le crisi capitalistiche che si sono susseguite dalla fine della seconda guerra imperialistica mondiale hanno provocato, nel lungo periodo, un impoverimento generalizzato delle masse proletarie, nonostante il periodo di espansione capitalistica degli anni Cinquanta e Sessanta nel quale ai proletari sembrò di aver ottenuto un tenore di vita da cui non sarebbero mai tornati indietro. Ma al periodo di espansione mondiale del capitalismo è seguito il periodo di recessione, di stagnazione, di crisi e la politica di ogni governo borghese ha iniziato ad attaccare le migliorate condizioni dei proletari, rimangiandosi un po' per volta quanto ottenuto in precedenza. La politica opportunista e collaborazionista delle organizzazioni che si presentavano come “operaie”, da quell’epoca ad oggi sostanzialmente non è cambiata, è diventata semmai più collaborazionista che opportunista: sempre al servizio del capitale e sempre più rappresentante degli strati superiori del proletariato, quella che Engels e Marx chiamarono aristocrazia operaia. Ciò che è cambiato è l’atteggiamento della classe dominante borghese dopo che decenni di collaborazionismo operaio hanno stroncato la forza sociale che il proletariato, soprattutto dell’industria, esprimeva un tempo; la borghesia oggi può addirittura fare a meno di coinvolgere nei suoi piani di controllo sociale le organizzazioni sindacali e partitiche che un tempo si vantavano di essere “operaie”. E i proletari, in assenza di proprie organizzazioni classiste, spinti al più meschino individualismo e ad accodarsi agli strati proletari meglio pagati inseguendo il mito del loro stile di vita piccoloborghese, vengono facilmente spinti a seguire le forze politiche e sociali che di volta in volta appaiono più forti e dalle quali si illudono di ottenere qualche miglioramento che da quelle tradizionalmente “operaie” non hanno ottenuto. E’ così che i partiti di destra, e di estrema destra, hanno l’occasione di allargare la loro influenza anche negli strati proletari, magari in quelli più emarginati e in quelli più delusi.

 

10. Le masse diseredate e proletarie migranti nei paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo e che si trovano nella rotta balcanica percorsa dai migranti provenienti dall’Asia e dal Medio Oriente, e l’insistenza dei loro arrivi nelle forme più diverse e al 99% clandestine, se da un lato costituiscono materia per la propaganda dell’odio sociale e razziale borghese e una forte leva per aumentare la concorrenza tra proletari, dal punto di vista della classe proletaria – ossia dei suoi interessi di classe antagonistici a quelli borghesi – rappresentano la dimostrazione concreta degli effetti devastanti dello sviluppo capitalistico e della politica imperialistica. Lo sviluppo del capitalismo nei paesi industrializzati si è realizzato e si mantiene alla condizione di limitare ed impedire lo sviluppo sociale nella gran parte dei paesi del mondo.

Lo sfruttamento delle masse coloniali poggiava proprio su questo ineguale sviluppo del capitalismo, e la cosiddetta “decolonizzazione”, dovuta soprattutto alle rivoluzioni anticoloniali realizzatesi nel trentennio che seguì la fine della seconda guerra imperialistica mondiale, non ha cambiato sostanzialmente il rapporto tra i paesi capitalistici avanzati che amministrano il capitale finanziario internazionale e i paesi capitalistici arretrati: l’ineguale sviluppo del capitalismo non è scomparso, né si è attenuato, semmai si è acutizzato e le crisi sociali e di guerra che si stanno susseguendo da più di settant’anni lo dimostrano ampiamente, come lo dimostrano gli spostamenti e le migrazioni di milioni di esseri umani da un paese all’altro, da un continente all’altro.

 

11. Il capitalismo produce merci per il mercato dei prodotti, ma produce anche proletari, ossia forza lavoro “liberata” da rapporti sociali e di produzione precapitalistici o particolarmente arretrati; produce quella speciale merce che, in quanto forza lavoro sfruttata nel lavoro salariato, valorizza il capitale investito, ne aumenta il valore e la quantità. Il capitalismo però, se da un lato trasforma la maggior parte della popolazione mondiale in proletariato, ossia in forza lavoro salariata disponibile, non può dare lavoro a tutti i proletari. Il salario, che è il prezzo dell’unica attività umana dalla quale il capitale estorce plusvalore (e, quindi, il suo profitto), si basa sul tempo di lavoro giornaliero che il lavoratore è obbligato a dare al capitalista. Più è lunga la giornata di lavoro, più il capitalista accumula valore per il suo capitale, poiché il salario non corrisponde mai all’intero tempo di lavoro giornaliero del salariato, ma solo ad una sua parte, mentre la parte restante è tempo di lavoro non pagato al lavoratore, tempo di lavoro che il capitalista estorce al salariato e dal quale ricava il suo guadagno. Ecco perché i capitalisti hanno interesse ad allungare il più possibile la giornata di lavoro, magari con gli starordinari, e a non distribuire il lavoro ad un numero più alto di salariati che lavorerebbero meno ore giornaliere ciascuno. Ci pensa poi l’innovazione tecnica e tecnologica a semplificare le operazioni lavorative nei processi di produzione, e quindi a ridurre ancor di più il tempo di lavoro giornaliero necessario al salariato per vivere e ad aumentare il tempo di lavoro giornaliero non pagato che il capitalista si intasca automaticamente. Se agli albori del capitalismo industriale si poteva presumere (come nel Capitale di Marx) che il 50% del tempo giornaliero di lavoro serviva al salariato per sostenersi in vita e il 50% se lo intascava il capitalista, le innovazioni tecniche e scientifiche applicate ai processi produttivi hanno certamente modificato il rapporto tra tempo di lavoro necessario al sostentamento del salariato e il tempo di lavoro non pagato, portando quest’ultimo molto più vicino al 90% dell’intera giornata lavorativa. E’ una ragione di più per cui il proletariato rivendichi la drastica diminuzione della giornata lavorativa; questa rivendicazione è decisamente unificante per tutti i proletari, al di là della loro qualifica, età, nazionalità o sesso.

 

12. Il rapporto che lega il proletario al capitale è un rapporto di produzione e sociale che costringe il proletario, per vivere, a vendere la sua forza lavoro al capitalista, non importa se la sua forza lavoro è rivestita da pelle bianca, nera, gialla od olivastra. La differenza tra proletari bianchi, neri, gialli od olivastri la fa la potenza del capitale e della classe borghese dominante che lo possiede. I capitalisti bianchi sono stati i primi a rappresentare la rivoluzione industriale e, quindi, la rivoluzione politica che ha aperto la società precapitalistica al progresso capitalistico. Perciò il capitalismo bianco, nel suo sviluppo internazionale, ha dominato il mondo, assoggettandolo alle proprie leggi e diffondendo in tutti i paesi del mondo il modo di produzione capitalistico e i rapporti sociali derivanti. Lo sviluppo del capitalismo ha prodotto l’imperialismo, ossia il dominio del capitale finanziario sul capitale industriale e commerciale; ha prodotto, quindi, una internazionalizzazione della potenza del capitale in parte slegata dalle sue origini nazionali, e in parte ancora legata a quel sistema di difesa degli interessi borghesi che si chiama Stato nazionale e che è l’espressione di una borghesia che poggia la sua forza economica sulle aziende nazionali. In questa contraddizione sta uno dei fattori che rendono il capitalismo impossibile da gestire pacificamente, perché ogni azienda si scontra continuamente con gli interessi delle aziende concorrenti, sia all’interno che all’esterno del paese in cui si è formata e sviluppata. L’internazionalizzazione del capitale ha internazionalizzato anche il proletariato. Mentre il capitale, pur nella sua tendenza a superare i confini del paese in cui si è formato, resta vincolato alla sua nazionalità per il fatto che il suo massimo difensore, in patria e all’estero, è lo Stato borghese nazionale, il proletariato è classe senza riserve e senza potere; non possiede nulla di stabile da difendere e da trasmettere in eredità, perciò la sua “nazionalità” è soltanto la prima forma che prende la sua schiavitù salariale, forma che si perde, nei fatti, tutte le volte che il capitale aziendale che lo sfrutta cambia, oggi italiano, domani tedesco, poi magari americano, russo, giapponese, inglese, francese, spagnolo, cinese, saudita, sudafricano o australiano. Il proletariato è il moderno schiavo salariato in ogni paese del mondo, non ha patria e, a differenza della borghesia, i suoi interessi di classe non sono mai nazionali, ma sono, fin dalla sua comparsa nella società borghese, internazionali.

 

13. Nella storia delle lotte di classe, che la borghesia stessa ha riconosciuto essere l’essenza dei rapporti di produzione e sociali tra le due classi principali della società (proletariato e borghesia), il proletariato ha espresso una forza sociale incomparabile, raggiungendo un’altezza teorica e politica che nessun’altra classe sociale aveva raggiunto in precedenza, nemmeno la borghesia che pure ha superato di gran lunga qualsiasi livello culturale, di civiltà e di scienza delle classi dominanti precedenti. La posizione di essere la classe dei senza riserve e di non avere, in nessun paese, nulla da difendere nell’attuale società dello sfruttamento capitalistico, unita al risultato storico, dovuto alle sue lotte di classe, di aver espresso la teoria della società senza classi, la teoria del comunismo, pone oggettivamente la classe proletaria nella condizione di essere la protagonista di una rivoluzione che cambierà da cima a fondo l’intera società mondiale, una rivoluzione che supererà nei suoi obiettivi storici qualsiasi grande rivoluzione borghese. La proprietà privata e lo Stato sono caratteristiche che le società di classe si sono trasmesse una con l’altra, continuando ad esercitare il ruolo di loro pilastri, da quella schiavista, a quella feudale, a quella capitalista. Le grandi contraddizioni delle società precapitalistiche, nei rapporti di produzione come nei rapporti sociali, si sono in un certo senso affasciate nella società capitalistica, semplificandosi nella grande contraddizione tra capitale e lavoro, tra borghesia e proletariato. I destini della società sono in mano a queste due classi, ma la storia ha già tracciato lo sbocco che avrà lo sviluppo del capitalismo; ci vorrà il tempo che ci vorrà, ma l’antagonismo esistente tra gli interessi della borghesia e gli interessi del proletariato continua a lavorare nel sottostrato economico portando a maturazione i fattori oggettivi della loro esplosione. Già con la prima guerra imperialistica mondiale e le sue micidiali contraddizioni, il proletariato europeo stava incamminandosi verso la propria rivoluzione di classe e il proletariato russo riuscì a cogliere – grazie alla guida del suo partito di classe, il partito di Lenin – il momento storico favorevole per la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura proletaria, una volta atterrato il potere zarista, contro la dittatura borghese. L’Ottobre 1917, insieme alla Comune di Parigi del 1871, sono esempi storici delle potenzialità rivoluzionarie della classe proletaria. Il marxismo - come teoria della rivoluzione comunista - e la costituzione dell’Internazionale Comunista nel 1919 sulle sue basi teoriche e programmatiche e sull’esperienza concreta delle due grandi rivoluzioni citate, sono un’ulteriore dimostrazione del cammino storico che il proletariato deve seguire per raggiungere il grande obiettivo della società senza classi, della società basata sulla soddisfazione dei bisogni della specie umana e non delle esigenze dei mercati.

 

14. La lotta di classe del proletariato europeo, sviluppatasi nelle diverse fasi storiche in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Russia, in Italia, ha insegnato che la lotta proletaria è congenitamente internazionale e internazionalista, e che, per la vittoria politica e militare contro la classe dominante borghese e il suo Stato, è indispensabile la guida di un partito di classe ferreamente coerente con la teoria marxista e intransigentemente opposto a qualsiasi deviazione opportunista. La lotta di classe, raggiunto un certo livello di tensione sociale, si trasforma in guerra di classe nella quale il proletariato, se adeguatamente preparato e organizzato e guidato da un forte e ben allenato partito di classe, può contrastare gli attacchi della borghesia, difendersi senza disorganizzarsi e passare all’offensiva per la conquista del potere politico. Oggi siamo ancora molto lontani da questa situazione, perché il proletariato, in Europa  e nel mondo, ha subito una profonda sconfitta dovuta soprattutto all’opera dell’ondata opportunista più micidiale che poteva prodursi, lo stalinismo che riuscì a falsificare il marxismo a tal punto da far passare le categorie del capitalismo, sia in economia (denaro, merci, lavoro salariato, azienda, concorrenza, mercato), sia in politica (democrazia), come categorie socialiste, e irreggimentare il proletariato a difesa degli interessi nazionali nella lotta di concorrenza fra Stati e nella guerra mondiale. Da questo abisso il proletariato di tutti i paesi deve risalire, a cominciare dalla lotta in difesa esclusiva dei propri interessi di classe, e  riorganizzarsi in modo indipendente da ogni altra forza sociale.

Per risalire dall’abisso in cui è precipitato, il proletariato dovrà lottare contro la concorrenza tra proletari che la borghesia alimenta continuamente, e non solo tra proletari più specializzati e meno specializzati, ma anche tra proletari giovani e anziani, tra maschi e femmine, tra proletari autoctoni e proletari stranieri. La collaborazione di classe praticata e propagandata da tutte le organizzazioni opportuniste, sia economiche che politiche, culturali e religiose, è la sconfitta preventiva del proletariato, perché in essa muore l’autonomia di classe e vince la rinuncia da parte dei proletari a battersi per i propri interessi; con la collaborazione di classe i proletari si consegnano ai propri nemici, ai capitalisti e a tutta la genia dei loro servi, convinti di ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro, convinti di poter vivere in pace, senza più soprusi e violenze. La vita di tutti i giorni dimostra che sono solo illusioni e che in mano, dopo aver ceduto la vita allo sfruttamento capitalistico, non rimane che un pugno di mosche. Da forza lavoro che viene sfruttata sempre più intensamente, il proletariato viene preparato così a trasformarsi in carne da macello nelle guerre di rapina borghesi; le guerre, infatti, non sono mai scomparse dall’orizzonte della società capitalistica, ma ne cadenzano il tempo di vita, che solo la rivoluzione proletaria internazionale può fermare, abbattendo il capitalismo nei principali paesi imperialisti.

 

15. Le masse diseredate e proletarie che migrano da un paese all’altro dell’Africa, dell’Asia e delle Americhe e che, in parte, vanno ad investire i grandi paesi imperialisti in Europa e in America, denunciano nei fatti l’incapacità del capitalismo di risolvere le proprie contraddizioni. Nessuna riforma, nessuna politica che miri all’ “ecosostenibilità”, che miri all’attenuazione delle “diseguaglianze sociali”, nessun appello ai principi di “umanità” e di “pietà”, nessun appello al “disarmo” e alla “pacificazione” tra i popoli, nessuna pressione democratica sui governi dei grandi paesi imperialisti affinché fermino la spietata corsa al profitto dei propri capitalismi nazionali, possono invertire la rotta storica del capitalismo che, nel suo sviluppo, ad ogni piccolo passo progressivo nelle tecniche produttive e nelle scoperte scientifiche contrappone enormi ostacoli allo sviluppo delle forze produttive e alla vita sociale.

«Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso; è il fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e come punto d’arrivo, come movente e come fine della produzione; il fatto che la produzione è soltanto produzione per il capitale e non, inversamente, i mezzi di produzione sono puri e semplici mezzi per una espansione sempre più diversificata e completa del processo di vita per la società dei produttori» (Marx, Il Capitale, Libro III). Perché la produzione sociale non sia esclusivamente produzione per il capitale, ma produzione per la società dei produttori, è necessaria una rivoluzione generale che soltanto la classe proletaria può attuare; una rivoluzione che abbia come obiettivo l’abbattimento del capitalismo in tutto il mondo, pur potendo iniziare in un paese o in pochissimi paesi, e che sia diretta dall’organo indispensabile per la sua preparazione e conduzione vittoriosa, il partito di classe proletario che possiede la coscienza di classe e il programma rivoluzionario che traccia il cammino rivoluzionario fino alla vittoria completa sulla classe borghese. Le masse proletarie dei paesi capitalisticamente arretrati sono parte integrante del proletariato internazionale e la loro partecipazione al movimento rivoluzionario è indispensabile quanto la partecipazione del proletariato dei paesi imperialisti perché la loro unificazione impedirà alle borghesie di organizzare e lanciare i proletari dei paesi arretrati contro i proletari dei paesi industrializzati, e viceversa.

 

16. I veri limiti della riorganizzazione classista del proletariato sono costituiti dalla collaborazione di classe, da un lato, e dalla concorrenza fra proletari, dall’altro. Lottare per superare questi limiti significa lottare non soltanto, ed esclusivamente, per gli interessi unitari di classe proletari, ma anche contro tutte le forze di conservazione sociale tra cui primeggiano le forze opportuniste e collaborazioniste. Il partito comunista rivoluzionario, che vide al suo apice il partito bolscevico di Lenin, portò il proletariato russo alla vittoria nel 1917 e all’organizzazione del partito proletario mondiale che chiamò Internazionale Comunista nel 1919; la loro degenerazione, dovuta ad una lunga serie di cedimenti sul piano teorico, programmatico e politico, portò non solo il proletariato russo, ma il proletariato internazionale alla sconfitta. Ma la teoria marxista - il partito storico - per quanto sfigurata e falsificata, rimane l’unica teoria che spiega la nascita, lo sviluppo e la morte del capitalismo, indicando nel movimento storico del proletariato in lotta contro le sue condizioni di esistenza come schiavo salariato e contro la borghesia come la classe dominante che lo schiavizza e lo sfrutta, l’unica via per lo sviluppo delle forze produttive e il progresso sociale per la specie umana. La tremenda degenerazione dei partiti comunisti degli anni Venti del secolo scorso, che condusse il proletariato mondiale a partecipare attivamente alla seconda guerra imperialista nei due fronti avversi, richiese una dura opera di restaurazione della teoria e dell’organo rivoluzionario per eccellenza, il partito di classe. A quest’opera si sono dedicate le poche forze della Sinistra comunista d’Italia che resistettero alla devastazione stalinista, e sul solco che loro tracciarono dal secondo dopoguerra in poi, noi oggi proseguiamo la loro lotta, in continuità teorica, programmatica, politica, tattica e organizzativa, nella certezza che il proletariato saprà ritrovare la via della lotta di classe della sua riorganizzazione classista indipendente.

 

 

Partito comunista internazionale

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