Fiat-Chrysler e sindacato UAW: storia di normale corruzione per schiacciare gli operai in condizioni di asservimento totale

(«il comunista»; N° 162 ; Dicembre 2019)

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I giornali italiani del 20 novembre scorso riportano la notizia che il colosso automobilistico americano General Motors ha intentato causa alla FCA (Fiat Chrysler Automobiles) per fatti di corruzione dei vertici del sindacato americano UAW (United Auto Workers) avvenuti tra il 2009 e il 2015 allo scopo di ottenere un più basso costo salariale degli operai rispetto agli altri gruppi automobilistici (GM e Ford).

Che i grandi sindacati americani siano corrotti da sempre e che siano al servizio dei capitalisti e non dei lavoratori da loro organizzati non è una novità, come non è una novità che i grandi gruppi industriali e finanziari cerchino appoggi attraverso le lobby – che negli USA sono del tutto legali – presso i partiti, sia il repubblicano che il democratico, fino al livello della Casa Bianca. Basti ricordare il salvataggio dalla bancarotta della GM e della Chrysler (l’avevano chiamata “bancarotta gestita”, nel senso che è stata gestita dall’accordo tra Stato, vertici delle aziende e UAW) fatto dalla presidenza Obama, con soldi pubblici ovviamente. Vi è stato poi il tentativo della Fiat, guidata da Marchionne, di mettere le mani sulla Opel (del gruppo GM), approfittando della crisi nera in cui era precipitata, tentativo andato a vuoto, ma che è stato sostituito dall’assalto della Fiat alla Chrysler – questa, sì, in crisi irreversibile – riuscendo nell’intento, con la benedizione di Obama, prima, e di Trump poi. Tutti questi maneggi governativi, aziendali e sindacali per “salvare” l’industria automobilistica americana (e, con lei, Detroit, città che era destinata a diventare lo spettro di sé stessa), per salvare le rispettive “quote di mercato” nel mondo – ma soprattutto negli Stati Uniti – che negli ultimi decenni i marchi auto americani erano riusciti a conservare nonostante l’aggressività eccezionale del gruppo Toyota e del gruppo Volkswagen, e, naturalmente, per salvare i loro profitti, avrebbero incontrato serie difficoltà se il sindacato UAW non avesse giocato un ruolo di primissimo piano a sostegno, di volta in volta, di ognuno dei colossi automobilistici di Detroit.

La vicenda giudiziaria contro la FCA ha preso di mira, come dicevamo, i vertici del sindacato UAW fin dal 2017 mettendo in evidenza come, dal 2009, un crescente numero di alti funzionari  del sindacato era direttamente coinvolto nel giro di mazzette milionarie. E’ emerso che il capo negoziatore della FCA, Alphons Iacobelli, e il vice presidente UAW, General Holiefield, responsabile delle trattative con la società automobilistica, sono stati tra i principali protagonisti di una lunga serie di patti «per ottenere benefici, concessioni e vantaggi per la FCA nella negoziazione, implementazione e amministrazione” dei contratti tra il 2009 e il 2015» (1). E ben altri caporioni del sindacato furono “beneficiati” dalla FCA per il loro sporco lavoro di collaborazionisti: nel 2018, si è trattato della moglie di Holiefield, Monica Morgan, di Jerome Durden (in precedenza membro del dipartimento di contabilità aziendale della FCA e controllore unico del UAW-Chrysler National Training Center), di Keith Mickens (il terzo più alto funzionario sindacale del dipartimento Chrysler della UAW), di Virdell King, vicedirettore della UAW-Dipartimento Chrysler, di Nancy Johnson, Norwood Jewell e numerosi altri funzionari del sindacato. Nel settembre 2019 è stato arrestato dall’FBI il direttore della Regione 5 della UAW (la più grande regione geografica in cui agisce la UAW, che comprende 17 stati occidentali e del sud-ovest, dal Missouri, dall’Arkansas e dalla Louisiana alla California, Washington, Alaska, e Hawaii) Vance Pearson, di St Charles, Missouri, membro del più alto consiglio direttivo del sindacato: è accusato di appropriazione indebita di fondi sindacali, riciclaggio di denaro, aiuto e favoreggiamento, cospirazione, frode postale e mantenimento di falsi rapporti sindacali col governo. Vista la brutta aria, il presidente della UAW, Gary Jones, si è rapidamente dimesso e in ogni caso tutti i vertici della UAW sono finiti nel mirino della magistratura (2). Che tutto questo metodo di corruzione e questo giro milionario di soldi fossero noti a Marchionne, al suo successore Michael Manley e al presidente John Elkann, è fuor di dubbio, ed è logico che la GM accusi Marchionne (morto nel luglio 2018) quale stratega di tutta questa operazione per essere favorito nella concorrenza col gigante General Motors.

Ma l’attuale azione legale della GM è apparsa immediatamente strana, soprattutto perché coinvolge esclusivamente la FCA e non il sindacato UAW, col quale il 16 ottobre scorso la GM ha raggiunto un accordo preliminare sul rinnovo del contratto di lavoro dopo 20 giorni di sciopero (3). I vertici UAW, come abbiamo visto, sono stati indagati, e infine condannati, proprio per le tangenti, le regalie e i favori ricevuti in abbondanza, e per anni, dalla FCA. In effetti, con i rinnovi contrattuali del 2009, del 2011 e del 2015, la FCA è riuscita ad ottenere di poter «utilizzare un numero maggiore di lavoratori temporanei e assunti in “seconda fascia”, entrambi con salari nettamente inferiori a quelli dei dipendenti storici, così come di risparmiare sui costi delle assicurazioni sanitarie rispetto a GM. Il risultato fu che il costo medio della manodopera per FCA passò da 75,86 dollari l’ora nel 2006 ad appena 47 nel 2015, mentre quello di GM da 70,51 a 55» (4). D’altra parte, in periodi precedenti, la GM era stata favorita dalla UAW, con accordi simili, rispetto alle altre case automobilistiche ed è ovvio che non abbia alcun interesse a indurre i nuovi responsabili del sindacato a rimettere in piazza la corruzione targata General Motors.

Non può, d’altra parte, essere escluso che la GM, proprio in vista dell’accordo di fusione tra FCA e PSA (Peugeot e Citroën), abbia voluto tirar fuori ora questa azione legale per mettere la FCA in difficoltà nell’operazione cercando di impedire tale fusione. Se quella fusione andasse in porto, il gruppo FCA-PSA, con i suoi 9 milioni di veicoli prodotti all’anno, diventerebbe il il terzo, gruppo automobilistico al mondo. Nel 2018 la GM era terza, con 8,8 milioni di veicoli, superata dal gruppo giapponese Toyota (10,5 milioni di veicoli) e dal gruppo tedesco Volkswagen (10,8 milioni di veicoli). In vista, oltretutto, dell’apertura, prima o poi, del mercato cinese e degli investimenti per le auto elettriche, è chiaro che saranno i grandissimi gruppi a dominare l’intero mercato mondiale.

La FCA SpA nasce ufficialmente il 12 ottobre 2014, ma le aspirazioni del gruppo italo-americano guidato da Marchionne puntavano molto più in alto. Nel 2015, mentre si accorda con la UAW nel modo ora ricordato, la FCA propone una fusione con la GM, cosa che consentirebbe al nuovo gruppo di diventare se non il primo, sicuramente il secondo colosso automobilistico del mondo; ma la fusione viene respinta. Negli anni successivi, la Volkswagen, poi la Mercedes e la BMW, e la stessa FCA vengono indagate pesantemente per i software che falsavano i risultati sulle emissioni delle auto diesel consentendo ai veicoli di superare i test di inquinamento. Nella guerra di concorrenza tra giganti si usano tutti i mezzi consentiti dalla legge e, soprattutto, quelli non consentiti. Il capitale non ha problemi morali. E se giunge il momento di pagare lo scotto perché la magistratura non può starsene sempre a guardare, ma deve fare qualcosa per giustificare la propria esistenza e per continuare ad illudere di essere “al di sopra delle classi”, i grandi capitalisti abbozzano e si rassegnano a fare qualche mese di carcere e a pagare qualche multa... tanto i milioni che hanno intascato sono talmente tanti che, quando escono, la vita continueranno a godersela, questa volta molto meno pubblica di prima...

 

FIAT: ABITUALE RICORSO ALLA CORRUZIONE

 

Bisogna riconoscere, però, che negli Stati Uniti qualche pezzo grosso, quando esagera per anni nel malaffare, finisce davvero condannato e in carcere, cosa che non cambia, in realtà, il corso naturale delle leggi fondamentali del capitalismo. In Italia, però, non va proprio nello stesso modo. L’esempio della Fiat è lì a dimostrarlo. Nemmeno la stagione giudiziaria corrispondente a Tangentopoli è riuscita colpire davvero gli Agnelli, i Romiti, i Monti e compagnia cantante anche se, nei processi, era stato ampiamente provato il loro coinvolgimento nel giro di tangenti per assicurarsi appalti nei lavori pubblici e nella creazione di fondi neri miliardari utili a facilitare tutta una serie di operazioni a vantaggio delle aziende del gruppo Fiat e a detrimento delle aziende concorrenti. Per non parlare dei regali che lo stesso Stato italiano (rappresentato all’epoca da Craxi, Andreotti, Amato ecc.), attraverso l’IRI (al tempo diretta da Prodi), fece, all’epoca, alla famiglia Agnelli. Nel dicembre 2011, uno scritto dello Slai Cobas, oltre a mettere in evidenza il ruolo di Mario Monti come “uomo Fiat” sia nella commissione Trilaterale che nel governo italiano, riassumeva le tangenti miliardarie che la Fiat elargiva ai politici, mentre si faceva regalare dallo Stato l’Alfa Romeo. Si denunciava inoltre il fatto che la Fiat, avuta in regalo l’Alfa Romeo dall’IRI e dallo Stato, si era impegnata «per iscritto con il CIPI a mantenere i 40.000 lavoratori di Arese e Pomigliano e a pagare quattro soldi allo Stato con 5 comode rate annuali a partire dal 1993. Ma nel novembre 1993 riduce a 4.000 ( e poi a zero) i lavoratori di Arese e così poi con Pomigliano. E mentre la Fiat ridimensiona e poi chiude l’Alfa, riceve 1.000 miliardi dallo Stato solo per costruire gratis lo stabilimento di Melfi. E in questi anni la Fiat, mentre si sbarazzava di 40.000 operai Alfa Romeo, ha ricevuto “aiuti” di Stato di 2mila miliardi di lire per Arese e attrettanti per Pomigliano» (5). Questo è uno dei tanti esempi di quanto valgano gli “impegni scritti” da parte dei colossi industrial-finanziari in merito alla conservazione dei posti di lavoro delle aziende che si accaparrano: la legge del profitto non si piega mai, tanto meno con contratti firmati e controfirmati... L’ultimo esempio, solo in ordine di tempo, della ex Ilva, ora Arcelor Mittal, lo dimostra per la millesima volta.   

La “giustizia italiana”, dicevamo, arrivava perfino alla condanna dei tangentisti, ma poi, ci pensavano le Corti d’Appello a rimediare, graziando ora l’uno ora l’altro, applicando qualche cavillo esistente o qualche legge varata appositamente, come quella di Berlusconi che aveva depenalizzato il falso in bilancio.

Ma la Fiat, come d’altra parte qualsiasi grande gruppo industriale, ha una lunga storia di mazzette, di tangenti e di intrallazzi politici alle spalle. Uno studio sulla Fiat, che si occupa dei primi 90 anni del Novecento, riporta una serie di fatti: «Nel 1908, nove anni dopo la nascita dell’azienda, in un primo processo il fondatore Giovanni Agnelli, insieme agli altri soci, vennero accusati di falso in bilancio, aggiotaggio e truffa; il processo si trascinò per 4 anni e, alla fine, appello compreso, vide l’assoluzione di tutti gli imputati». Nel 1945, finita la guerra, il CNL, da bravo democratico antifascista, «accusò Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta di aver collaborato col regime fascista... ma l’intervento degli anglo-americani garantì l’assoluzione di entrambi». Nel 1971, il pretore di Torino, Guariniello, «scoprì trecentocinquantamila dossier e schedature illegali di altrettanti lavoratori, sindacalisti, giornalisti, insegnanti, comuni cittadini e, in una cassaforte, un gran numero di mazzette che l’azienda aveva già predisposto per quei poliziotti e carabinieri che si fossero adoperati per fornire all’azienda le informazioni riservate. L’inchiesta venne trasferita a Napoli, per “legittima suspicione” a causa di motivi di ordine pubblico e, dopo cinque anni, la sentenza di primo grado portò a qualche lieve condanna, cancellata dall’assoluzione per prescrizione del secondo grado». Nel 1983, «il responsabile Fiat per gli enti locali, Umberto Pecchini, venne condannato a due anni di reclusione per aver promesso una tangente al faccendiere Adriano Zampini. La sentenza fu, però ribaltata in appello e il processo si concluse con un nulla di fatto». Avvenne la stessa cosa l’anno successivo, 1984, «alla sentenza che condannava Gianni e Umberto Agnelli, insieme ad altri manager del gruppo, a sei milioni di multa per la vendita irregolare in Italia di auto prodotte».

Nel 1989, lo stesso pretore di Torino «scoprì violazioni dello Statuto dei Lavoratori e presunti abusi nelle sale mediche aziendali e aprì un procedimento nei confronti di Gianni Agnelli, di Cesare Romiti e di tre dirigenti di Fiat Auto. Il procuratore generale Silvio Pieri cercò nuovamente di trasferire il processo in altra sede sollevando l’eccezione di “legittima sospicione”, ma questa volta la Cassazione negò l’autorizzazione. Il processo, però, si chiuse prematuramente per l’intervento di un provvedimento di amnistia». Ce n’è abbastanza per capire che lo Stato è, normalmente, al servizio del grande Capitale, in Italia come in America, anche se laggiù il potere politico borghese  è sufficientemente forte per decidere, ogni tanto, che qualche pezzo grosso che sgarra di fronte alle leggi che la stessa classe dominante si è data finisca effettivamente in carcere dopo la condanna.

 

INTERVIENE LA MAGISTRATURA, MA LE COSE SOSTANZIALMENTE NON CAMBIANO

 

Ma, dopo che la magistratura americana ha fatto la faccia feroce, cambiano davvero i rapporti tra capitalisti, sindacalisti collaborazionisti, politici e Stato centrale?

La magistratura si muove solo sulla base di denunce e, pur scoprendo misfatti di ogni tipo e ramificazioni varie che le indagini portano alla luce, gli obiettivi centrali sono sempre e soltanto la salvaguardia degli interessi generali del capitalismo, la difesa da ogni possibile sovvertimento sociale e, naturalmente, la difesa soprattutto del capitalismo nazionale.

Non è di secondaria importanza l’interesse del capitale a difendere gli equilibri politici e sociali che gli permettono di girare alla più alta velocità e senza intoppi e, quando c’è di mezzo la concorrenza cosiddetta sleale che va a colpire gli interessi dei grandi gruppi, è logico che la magistratura si muova, ovviamente su pressione delle aziende capitalistiche che ritengono di essere state sfavorite troppo nella lotta di concorrenza, per riportare la situazione nell’alveo di quella che viene considerata una concorrenza “leale”. D’altra parte, è la stessa legge del mercato – come i borghesi amano chiamare la concorrenza – che spinge ogni azienda, ogni gruppo, ogni trust, in un mercato sempre più intasato di merci e sempre più “piccolo”, ad usare qualsiasi mezzo, lecito e illecito, per battere la concorrenza. Ed è inevitabile che ogni azienda, ogni gruppo, ogni trust, cerchi di difendere e aumentare i propri profitti, ma lo può fare, ad esempio, abbattendo il più possibile i costi di produzione, cioè i costi delle materiale prime, dei trasporti e, soprattutto, il costo della manodopera, colpendo così i profitti delle aziende concorrenti.

Sul costo generale della manodopera, sui salari operai, e quindi sul tasso di sfruttamento della forza lavoro, ogni azienda capitalistica si gioca la possibilità di essere più competitiva, di andare sul mercato con più chances di piazzare le proprie merci e di ricavare i profitti preventivati. Se i rapporti tra capitalisti e salariati sono tali per cui la massa di lavoratori si accontenta del salario che il capitalista è disposto a concedere, l’economia aziendale ne trae il massimo vantaggio. Se la massa dei lavoratori salariati non si accontenta del salario che riceve, scende in lotta, interrompe la produzione, sciopera, organizza picchetti, si dispone a scontrarsi con l’azienda e con le sue guardie, e con la polizia che interviene sempre in difesa delle aziende. I capitalisti contano sulla polizia perché sanno che lo Stato ne difende la proprietà privata, gli interessi e l’economia, e contano sul fatto che gli operai vivono esclusivamente del salario che percepiscono e che perciò dipendono dal capitalista che dà o toglie il lavoro; senza salario il singolo operaio non conta niente, non mangia, non vive, precipita nell’emarginazione, nella fame, se non nella delinquenza.

Le esigenze dell’azienda vengono perciò passate come esigenze di vita della stessa massa di operai che vi lavora: il posto di lavoro diventa così l’obiettivo principale per ogni operaio. E quando la crisi economica colpisce un particolare settore di produzione o l’economia in generale, le aziende passano alle vie di fatto: si fanno comprare da aziende più grosse che tagliano ovviamente gli organici, o eliminano una parte dei loro dipendenti, o abbattono i salari, o chiudono. Il posto di lavoro in quanto tale non è il vero nodo della questione sociale; lo è invece il salario, che è il vero obiettivo di ogni lavoratore perché nella società capitalistica devi avere i soldi per comprare quel che serve per vivere e, per avere i soldi, il lavoratore non ha altra via d’uscita che vendere la sua forza-lavoro a chi la può utilizzare dando, in cambio, un salario, cioè deve venderla ai capitalisti che posseggono tutto, che hanno in mano l’intera società.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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