A cent’anni dalla prima guerra mondiale

Le posizioni fondamentali del comunismo rivoluzionario non sono cambiate, semmai sono ancor più intransigenti nella lotta contro la democrazia borghese, contro il nazionalismo e contro ogni forma di opportunismo, vera intossicazione letale del proletariato (9)

(«il comunista»; N° 163 ; Marzo 2020)

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Lo scorso 11-12 gennaio si è tenuta regolarmente la Riunione Generale di partito. L'apporto dei compagni delle diverse nazionalità hanno consentito di affrontare diversi temi: un Aggiornamento sul movimento degli scioperi in Francia, il Rapporto su Marxismo e "questione catalana", un breve Quadro della situazione imperialistica mondiale, la continuazione del tema "Acent'anni dalla prima guerra mondiale".

Nel dare i resoconti scritti dei temi trattati, iniziamo dall'ultimo visto che la sua stesura è già pronta; dovremo dividerlo in due parti, e con la seconda parte che pubblicheremo nel numero successivo del gionale, termineremo questa serie iniziata nel nr. 142 de "il comunista". Seguiranno poi gli altri rapporti.

Il rapporto, dopo aver ripreso sinteticamente il contenuto del lavoro già fatto su questo tema nelle RG precedenti, e pubblicato ne “il comunista” (nn. 142, 143, 145, 147, 148, 149, 150, 159), si è soffermato in particolare sulla necessità – sempre sottolineata da Lenin – di definire con precisione il periodo storico in cui le guerre vanno valutate: potevano essere progressive, rivoluzionarie, di rapina o imperialiste, e quindi reazionarie. L’atteggiamento dei comunisti rivoluzionari, perciò, discende da questo tipo di valutazione, ed è sempre un atteggiamento coerente con la prospettiva storica generale della rivoluzione proletaria, socialista e internazionale. Ogni guerra non è progressiva, rivoluzionaria o imperialista in sé, ma lo è dal punto di vista di classe.

 

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LIQUIDARE LA GUERRA IMPERIALISTA: OBIETTIVO IRRINUNCIABILE DELLA STRATEGIA RIVOLUZIONARIA MONDIALE

 

Questo è il punto cruciale in cui tutti i rivoluzionari si sono imbattuti, e si imbatteranno. E’ sempre il punto di vista di classe che deve guidare la valutazione delle guerre, come d’altra parte di ogni altro evento che scuote la società mettendo in movimento tutte le classi sociali. E’ così che, finché lo scopo della guerra era “la rivoluzione contro il medioevo e contro la servitù della gleba”, la guerra era progressista e la stessa “difesa della patria” era da considerare giusta, “indipendentemente da chi avesse attaccato per primo”! Il rapporto ricordava quanto Lenin avesse dovuto battersi anche all’interno del partito bolscevico per far passare questo concetto fondamentale, soprattutto nelle discussioni sull’autodeterminazione dei popoli oppressi, a proposito delle guerre “giuste” e quindi “da appoggiare”, salvando sempre l’indipendenza programmatica, politica e organizzativa del partito di classe; discussioni poi riprese, su un altro piano e con più veemenza e strategicamente decisive per il potere proletario appena conquistato e per la rivoluzione internazionale, quando si pose il problema di trattare e chiudere con la guerra, in un primo momento invitando gli “alleati” a negoziati mondiali, poi, visto che questi avevano interesse a proseguire la guerra anche senza la Russia, con negoziati separati coi tedeschi, a Brest-Litovsk.

 A questo proposito sono di una chiarezza notevole i capitoli dal 110 al 119 (pp. 233-248) della Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (1955-57);  riprendiamo i brani dal cap. 110:

«Il II Congresso panrusso dei Soviet che assunse il potere il 26 ottobre/8 novembre 1917, nella stessa seduta adottò il decreto sulla pace, preparato da Lenin, primo atto del nuovo potere. Con esso si propone a tutti i paesi in guerra l’immediato inizio di trattative “per una pace giusta e democratica”. Il testo dice subito che cosa per tale formula si intende: “Una pace immediata, alla quale aspira la schiacciante maggioranza degli operai e delle classi lavoratrici di tutti i paesi, sfinite, estenuate e martoriate dalla guerra, una pace senza annessioni (cioè senza conquista di terre straniere, senza incorporazione forzata di altri popoli) e senza indennità”. Una ulteriore delucidazione: “Per annessione o conquista di terre straniere il governo russo intende – conformemente alla coscienza giuridica della democrazia in generale e delle classi lavoratrici in particolare – qualsiasi annessione di un popolo piccolo e debole ad uno Stato grande o potente, senza che il popolo ne abbia espresso chiaramente, nettamente e volontariamente il consenso e il desiderio, indipendentemente dal momento in cui questa incorporazione forzata è stata compiuta, indipendentemente anche dal grado di sviluppo o di arretratezza della nazione forzatamente annessa o forzatamente tenuta nei confini di quello Stato, e indipendentemente, infine, dal fatto che questa nazione risieda in Europa o nei lontani paesi transoceanici”.

«Questa proposta concreta non costituisce una costruzione teorica. La posizione marxista è che un partito proletario non può in nessun caso appoggiare una annessione politica forzata; ma non consiste nel fare un capitolo del programma del partito della sistemazione ex novo di tutti i popoli omogenei in un nuovo ordinamento politico-geografico di Stati raggiunto e mantenuto dal consenso e senza violenza. Questa è ritenuta dai marxisti una utopia inconciliabile con la società di classe capitalistica, più ancora che con ogni altra, mentre in una società socialista il problema passa su altre basi, includenti la distensione e lo spegnimento di ogni violenza statale.

«E’ una proposta tale che i paesi borghesi potrebbero accettarla, o almeno non possono rifiutarla per ragioni di principio, e che quindi li smaschererebbe se la rifiutassero – come è sicuro – nel loro appetito di brigantaggio imperiale. Si sarà così provato che una coscienza giuridica internazionale degli Stati non esiste di fatto, né può esistere nel mondo attuale. Il decreto contiene altri due punti fondamentali: la rinunzia al segreto diplomatico e l’annullamento dei trattati, segreti o meno, stipulato dallo Stato russo fino allora – e la proposta di un armistizio di almeno di tre mesi per lo svolgimento dei negoziati.

«La conclusione della relazione illustrante il decreto è poderosa. Essa spiega che non si può non offrire di discutere con i governi, e va dato carattere non ultimativo alla proposta di pace “senza annessioni e indennità”, al fine di potere ingaggiare ogni discussione. Ma con ciò non si rinunzia a parlare anche ai popoli, agli operai di tutti i paesi perché rovescino i governi che si oppongono alla pace. “Noi lottiamo contro la mistificazione dei governi che, a parole, sono tutti per la pace e per la giustizia, ma che di fatto conducono guerre di conquista e di rapina”. Il decreto apertamente inneggia alla insurrezione operaia, agli ammutinamenti nella flotta tedesca. Esso tuttavia esclude la possibilità di finire unilateralmente la guerra. Questa non può essere fatta finire che con la pace: il decreto non contiene – ancora – la previsione di una pace separata».

Ebbene, i capitoli successivi entrano nel merito delle trattative a Brest-Litovsk, mettendo in evidenza la grave crisi che attraversò il partito bolscevico poiché emersero diverse posizioni contrastanti tra i cosiddetti “comunisti di sinistra” (Bucharin e altri), appoggiati dagli esserre di sinistra, la posizione di Trotsky (né guerra né pace, rifiuto di firma e smobilitazione dell’esercito) che per un certo periodo avrà la maggioranza nel Comitato Centrale del partito. I tedeschi approfitteranno di questa posizione su cui fu condotta la trattativa da parte dei bolscevichi, e ripresero l’avanzata in terra russa. Tra il 17 e il 18 febbraio, nel Comitato Centrale si doveva decidere come rispondere: per la guerra rivoluzionaria non ci furono i voti di maggioranza, mentre la proposta tedesca di riprendere i negoziati (mentre il suo esercito avanzava) fu rigettata. La firma dell’armistizio, voluta fermamente da Lenin, continuò ad essere minoranza, ma alla fine il Comitato Centrale votò la proposta di Lenin. Il 3 marzo fu firmata la pace separata con la Germania e l’accettazione della pace di Brest-Litovsk passò al settimo Congresso del Partito il 6-9 marzo successivi, con la netta opposizione della frazione Bucharin; è in questo stesso congresso che il partito prende il nome di Comunista (bolscevico) come aveva proposto Lenin un anno prima. Nello stesso marzo, il 15-17, si tiene il terzo Congresso dei Soviet dove la questione della pace ritorna, con gli esserre (i socialrivoluzionari di sinistra con cui i bolscevichi era coalizzati al governo) che rompono con la coalizione e passano all’opposizione più decisa contro il governo bolscevico.

In tutto questo periodo convulso Lenin si batte contro l’attitudine di quella “sinistra” che voleva il rifiuto di ogni pace e la guerra santa contro i tedeschi. Va chiarito che Lenin non era contrario per principio alla guerra rivoluzionaria; infatti nel suo scritto “La patria socialista è in pericolo” vengono date tutte le disposizioni per la disperata resistenza all’invasore, nel caso questo respinga la delegazione già partita per firmare la pace e continui deliberatamente ad entrare nel paese. Ma Lenin era convinto – ed ebbe ragione – che la soluzione migliore per la rivoluzione e per il potere appena instaurato era fare ogni sforzo, anche a costo di subire la pace a condizioni gravose (come in effetti furono), per liquidare la guerra (senza annessioni e senza indennità), dimostrando che il potere proletario era conseguente con tutta la propaganda fatta negli anni precedenti contro la guerra imperialista, ma che, nello stesso tempo, la liquidazione della guerra non significava aprire una tregua con la lotta di classe e rivoluzionaria, in Russia come in ogni altro paese, ma prendere tempo per organizzare la difesa più efficace e forte possibile del potere proletario conquistato, e per organizzare la lotta rivoluzionaria in tutti i paesi, e in particolare in Europa, attraverso la ricostituzione dell’Internazionale proletaria sulle ceneri della Seconda Internazionale.

In realtà, come scritto nel capitolo 113 della Struttura:

«La chiusura della guerra era un traguardo fondamentale, forse il più vitale, di una lunghissima lotta, che durava dal 1914 e in un certo senso dal 1900. Era indispensabile che questo caposaldo fosse a qualunque costo stabilito: la guerra imperialista e zarista è finita: il tradimento socialsciovinista è stato stritolato; ed era tanto un caposaldo della rivoluzione russa quanto, e sopra ogni altra cosa, della rivoluzione internazionale. Non sarebbero mancate lotte e guerre civili per la difesa della rivoluzione e delle vittorie di Ottobre: Lenin lo sapeva e chiaramente lo disse.

«Ma Brest fu una tappa del cammino che doveva condurre dalla guerra imperialista alla guerra civile in ogni paese, come dichiarato nel 1914, e anche prima, dal marxismo rivoluzionario. E il proletariato tedesco dette con Spartaco nel 1918, alla fine di quel tremendo anno, la prova che aver inteso l’impegno che gli derivava dallo strazio consumato con la “pace obbrobriosa”, cui il bolscevismo e Lenin ebbero il gigantesco coraggio di mettere deliberatamente la propria firma nello storico 3 marzo di Brest. Fu la controparte stipulante e trionfante, che presto la storia pose al tappeto. Alla tappa di Brest la Rivoluzione Europea era in marcia gloriosa. Sulla linea politica rivoluzionaria, il potere russo di Ottobre ne teneva in pugno da solo, e con tutti i crismi, la rossa bandiera».

In effetti, in Russia, dalla guerra imperialista si passò alla guerra civile nel giro di pochi mesi, ossia da quando gli esserre uscirono dal governo; da quel momento non solo questi ultimi si misero all’opposizione, ma organizzarono attentati e insurrezioni contro il governo bolscevico. E in agosto del 1918 si aprirono, uno dopo l’altro, i fronti dell’intervento esterno, della guerra civile, che durò tre lunghi anni, ma che alla fine fu vinta dai bolscevichi. E a questo proposito è utile riprendere un paio di capitoli dallo studio Le grandi questioni storiche della rivoluzione in Russia (1955), coi quali sinteticamente si dà un quadro reale di quanto stava accadendo in Russia in quegli anni e di quali compiti prioritari si doveva caricare il partito bolscevico alla guida della rivoluzione e del potere conquistato. I capitoli sono il n. 15: “Stritolamento delle controrivoluzioni”, e il 16: “Il tragico cammino della rivoluzione europea”. Va detto che la Sinistra marxista, all’epoca ancora all’interno del partito socialista italiano, e il cui giornale era “L’Avanguardia”, fu allineata perfettamente su tutte le posizioni di Ottobre: conquista del potere, dittatura, dispersione della Costituente, rottura con i Socialisti Rivoluzionari, strategia terrorista. Nella “Storia della Sinistra comunista”, vol. I, si possono leggere in particolare alcuni articoli che dimostrano come la Sinistra rivoluzionaria in Italia, fece sue tutte le posizioni marxiste bolsceviche, fin dalle prime notizie che arrivavano in Occidente dalla Russia. Gli articoli sono: In Russia rivolta proletaria e governo borghese (25-2-1917), Noi e gli altri. Divampa il conflitto europeo (8-4-1917), L’atteggiamento del Partito di fronte alla guerra e alla pace. Mozione della Sezione Socialista di Napoli del 18-5-1917, Ancora più avanti! (3-6-1917), La rivoluzione russa (21-10, 4-11, 11-11 e 2-12-1917), Mentre Lenin trionfa (2-12-1917), Luce dall’Oriente (9-12-1917), Le direttive della rivoluzione russa in una fase decisiva (25-5-1918), Le direttive marxiste della nuova Internazionale (26-5-1918).

Ma torniamo ai capitoli richiamati sopra, cominciando dal n. 15. Finite le lunghe trattative di Brest-Litovsk, e liquidata la guerra imperialista sul fronte russo-tedesco, bisognava difendere il potere appena conquistato:

«Segue un’altra tremenda fase di lotte, scontri, guerre guerreggiate per difendere il conquistato potere. Né le sole difficoltà sono quelle militari nel senso tecnico: l’economia, la produzione, vanno decadendo sempre più, si va più giù del disastroso livello del tempo zarista, di quello del tempo del governo provvisorio: carestia ed epidemia in grandi territori, fame nelle città, mancanza di armi, munizioni, divise e tutto il resto. Basti qui lo scarno elenco dei fronti di attacco contorivoluzionario e di contrattacco bolscevico.

 «Già il terzo Congresso in gennaio 1918 si dichiara in guerra con la Rada ucraina, legata ai tedeschi, e le forze dei generali: Alexeiev (Sudest), Kaledin (Don), Kornilov (Kuban). Ma altri fronti “scoppiano”. Aprile: giapponesi a Vladivostok. Maggio: avanzata di Mannerheim in Finlandia. Rivolta dei cecoslovacchi sul Volga. Giugno: i Bianchi (zaristi) minacciano Zarizin. Agosto: gli alleati sbarcano ad Arcangelo. Gli inglesi marciano traverso la Persia su Bakù. I Bianchi a Jassy in Romania proclamano il generale Denikin dittatore della Russia. Lociak prende il potere negli Urali, rovesciando il “governo della Costituente”, borghese-opportunista. Dicembre: i francesi a Odessa.

«Il 1919 sarà l’anno dei contrattacchi. Già dopo l’armistizio e la caduta della monarchia tedesca i bolscevichi annullano il trattato di Brest e abbattono in Ucraina l’atamano Skoropadsky, filo-germanico. In marzo 1919 Kolciak ancora avanza passando gli Urali. I francesi salgono da Odessa: ma in aprile la evacuano. Maggio: l’esercito rosso ributta Kolciak, ma intanto da occidente Judenic, creatura degli inglesi, minaccia Pietrogrado. Ne è ricacciato, ma Denikin prende Charkov in Ucraina e in settembre è a Kiev. In ottobre occupa Orel e punta verso Mosca. Ma il 21 ottobre i rossi battono Judenic a Pulkovo, e Denikin ad Orel. In novembre una grande offensiva travolge Kolciak oltre gli Urali; in dicembre le tre armate della controrivoluzione sono in dissoluzione, rastrellate con energia e senza quartiere. Nel febbriao 1920 Kolciak, consegnato dai francesi, viene giustiziato.

«Ma il 1920 è l’anno della guerra russo-polacca, che suscitò invano tante illusioni. Estonia, Lituania e Polonia, sostenute da inglesi e francesi, si muovono per invadere la Russia: solo la prima accetta la pace. In maggio, al sud, il barone Wrangel forma una nuova armata bianca, dopo il rovescio di Denikin, e avanza dalla Crimea. In giugno è ributtata l’offensiva polacca. Tukacevsky conduce i rossi a Vilno, a Brest e sotto Varsavia, ma la manovra difensiva guidata dal generale francese Weygand spezza il cerchio rosso, e nel settembre, fallito il piano di puntare al cuore d’Europa, si tratta la pace con la Polonia. In novembre anche Wrangel è schiacciato. La Georgia, l’Armenia sono ormai rosse. La guerra civile è finita: in marzo 1921 scoppia una rivolta della guarnigione di Kronstadt, soffocata rapidamente, e le cui origini non sono ancora oggi chiare (1). La Russia tutta, ma dopo altri quattro anni dalla vittoria di Ottobre, è finalmente controllata dal partito comunista.

«Fino ad allora la domanda: che deve fare il partito giunto al potere?, ha in fondo avuto una sola risposta: combattere per non perderlo!».

Questa sintetica descrizione della situazione in cui si trovò il potere bolscevico nei suoi primi 4 anni di dittatura sarebbe del tutto monca se non fosse legata al tema centrale della rivoluzione proletaria: la rivoluzione internazionale che, all’epoca, ci si attendeva in Europa con fulcro in Germania, dove il proletariato aveva dimostrato di essere sul terreno rivoluzionario fin dalle sue lotte nel 1915, già durante la guerra imperialista. Prima di tornare a trattare le vicende del partito tedesco e dell’influenza che le vicende politiche in Germania ebbero sul movimento comunista internazionale, va ripreso, come dicevamo, il cap. 16 dal testo Le grandi questioni storiche della rivoluzione russa, intitolato Il tragico cammino della rivoluzione europea:

«Benchè il tema, il cui svolgimento è qui riassunto, ci diriga verso le questioni di struttura economica, resta ancora un fondamentale aspetto politico della grande vicenda, e riguarda l’Internazionale proletaria.

«In sostanza non vi era “nulla da fare” nel trasformare socialmente la Russia, perché il guerrreggiare non ne dava il tempo, e perché si sapeva già quel che si dovesse fare, al di là dell’assistere al germinare di forme capitalistiche liberate – dal proletariato – da feudali pastoie: si doveva far leva sul moto proletario estero, per la liquidazione della guerra, per la rivoluzione socialista. Punto centrale questo della prospettiva di Lenin, identificato con quello dello scioglimento della Russia dall’ingranaggio imperialista.

«Moti contro la guerra a dispetto del tradimento di tanti capi socialisti non erano mancati in tutte le nazioni di Europa, e le vicende della fine della guerra li facevano a tutti presentire più vasti. Purtroppo la rivoluzione non può sorgere da solo stanchezza ed esasperazione, ma ha bisogno della difesa della linea continua di classe, che il tradimento del 1914 aveva su quasi tutto il fronte mondiale spezzata.

«Gli episodi più rilevanti del dopoguerra restarono quelli del moto spartachiano fra il 1918 e il 1919 in Germania schiacciato dal governo della neonata repubblica borghese-socialdemocratica, delle grandi azioni di massa in Italia nel 1919 e 1920, affogate nell’orgia demoparlamentare cui accedettero anche i socialisti che si vantavano di non aver accettata la guerra, dei caduchi tentativi in Ungheria e in Baviera, che dopo brevi successi cedettero alla repressione borghese.

«L’Internazionale Comunista invocata fin dal 1914 da Lenin fu fondata nel primo congresso di Mosca del 2-19 marzo 1919. Fu consolidata nel secondo del 21 luglio-6 agosto 1920, che ne definì la base teorica ed organizzativa, forse già in ritardo sull’onda rivoluzionaria. Da questo congresso in poi fu sempre più evidente che malgrado la grande vittoria di Russia l’opportunismo di occidente aveva ancora notevole presa sulla classe operaia e che la malattia del 1914 non poteva avere così rapida guarigione. Le questioni dell’attitudine da prendere davanti a questa situazione, e della divergenza che sorse con gruppi di sinistra, e specialmente col Partito d’Italia fondato nel gennaio 1921, sarà trattata in prossimo rapporto ad altra nostra riunione, sulla base della notevole documentazione di cui si dispone (2); e si porrà in evidenza come la nostra totale adesione alla prospettiva di Lenin e dei russi di allora sulle vie della rivoluzione in Russia divenne aperto dissenso circa la strategia della rivoluzione europea, che non doveva, per evidenti ragioni, ricalcare le stesse vie di incitamento a classi e partiti non proletari, altro essendo il grado di sviluppo delle forme sociali – e con la denunzia di pericoli di degenerazione rivoluzionaria che purtroppo il futuro doveva confermare.

«Oggi si vuole, prima di passare alla parte di natura economico-sociale, e nelle tre fasi in cui si suole considerarla, ricordare ancora quale valutazione seguì il comunismo mondiale, passato il primo dopoguerra, davanti ai quesiti: Quale il corso della rivoluzione internazionale? Ci attende una lunga stabilizzazione del sistema capitalistico? Quale il compito in tal caso del partito e del potere rosso?

«Sorse a tale svolto il problema che oggi si discute. Fino al 1924 sappiamo tutti, malgrado falsi sistematicamente organizzati, che si domandava solo come si potesse suscitare la rivoluzione tedesca e occidentale. Ma è dal 1926 che urge il problema della condotta da tenere nell’ipotesi che il sollevarsi in Europa della classe operaia, invano atteso per ben nove anni, dovesse mancare.

«Lo scontro delle opinioni su questo terreno riuscì particolarmente suggestivo nella riuinione dell’Esecutivo allargato dell’Internazionale che ebbe luogo nel novembre-dicembre del 1926, successiva a quella del febbraio-marzo; e nella relazione ci siamo soffermati su tal punto; prima di trattare della società russa sotto il profilo economico, dei decorsi che presentò e presenta; poiché il dibattito è lo stesso di oggi, i problemi furono chiaramente posti – ed è soltanto oggi [1955, NdR] molto più facile per tutti verificare la conferma dell’impostazione marxista integrale, ed ortodossa». Il testo prosegue trattando dell’alternativa storica del 1926, affrontando il tema più propriamente economico che non è l’oggetto del nostro rapporto attuale.

 

TRASFORMARE LA GUERRA IMPERIALISTA IN GUERRA CIVILE: NECESSITÀ STORICA DELLA RIVOLUZIONE PROLETARIA INTERNAZIONALE

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Torniamo perciò alla parola d’ordine di Lenin: trasformare la guerra imperialista in guerra civile che, come abbiamo visto, non riguarda soltanto l’opposizione alla guerra imperialista e l’insurrezione proletaria per la conquista del potere politico, ma riguarda tutto il periodo successivo in cui il primo compito del potere proletario, e quindi del partito che lo esercita, è di difendere il potere da ogni attacco, interno ed esterno, nell’ambito di una lotta per la rivoluzione proletaria mondiale.

Come abbiamo visto, sebbene l’interesse di classe del proletariato di tutti i paesi era quello di impedire lo scoppio della guerra imperialista, scatenando la propria guerra di classe contro le classi borghesi dominanti (era l’obiettivo più volte proclamato dalla Seconda Internazionale che, poi, invece, cedette su tutta la linea, portando ciascuno dei partiti che ne facevano parte a sostenere le ragioni nazionali della guerra imperialista), il tradimento della Seconda Internazionale facilitò la mobilitazione di guerra sui due fronti avversi – ognuno dei quali utilizzò l’argomento della “difesa della patria” contro “l’aggressore straniero” – mettendo i proletari di tutti i paesi nelle condizioni di non avere più alla testa dei loro movimenti contro la guerra dei partiti di classe capaci di mobilitarli e guidarli sul terreno rivoluzionario. La guerra scoppiò, i partiti socialisti tradirono, i proletari di ogni paese partirono per il fronte a farsi massacrare per gli interessi imperialistici della propria borghesia dominante. La lotta contro la guerra imperialista, che il proletariato condusse in Russia, in Germania, in Italia, in Ungheria, in Austria durante la stessa guerra, potè contare soltanto sul partito bolscevico di Lenin e su poche correnti marxiste come quella di sinistra di Luxemburg-Liebknecht in Germania, della sinistra marxista in Italia e di pochissime altre correnti di sinistra, come quella del partito di Serbia. Se nel 1917, in Russia, in piena guerra, la situazione interna al paese maturò in direzione della rivoluzione borghese, prima, e della rivoluzione proletaria, poi, è certamente per la combinazione di una serie di fattori storici che erano presenti ben prima dello scoppio della guerra nel 1914 (vedi la guerra russo-giapponese del 1905, contro la quale si formarono i primi soviet operai e contadini). Lo sviluppo del capitalismo in Russia metteva a dura prova la tenuta del gigantesco apparato zarista; all’ordine del giorno si poneva oggettivamente – dal punto di vista economico-sociale e dal punto di vista politico – la necessità della rivoluzione borghese, e la guerra 1914-18 non fece che precipitare la situazione mobilitando le grandi masse contadine e ponendo un proletariato concentrato nelle grandi città e nei centri industriali, nelle condizioni di agire come classe distinta dalle altre e in grado di recepire l’orientamento e le indicazioni di lotta diffuse dalla corrente marxista, prima con Plekhanov e poi con Lenin. Il partito marxista più saldo e coerente, che ci si aspettava di veder nascere dalla socialdemocrazia tedesca, nacque in verità in Russia, nel 1903, col partito bolscevico; un partito formatosi in parte nell’emigrazione in Europa e che si distinse da subito come partito di sinistra estrema, in forza delle sue battaglie contro l’anarchismo, il populismo e l’opportunismo menscevico e plekhanoviano (che sosteneva che il proletariato non doveva porsi, anche se ne avrebbe avuto la possibilità reale, alla testa della necessaria rivoluzione borghese in Russia con l’ambizione di superarne i limiti e condurre la rivoluzione proletaria, perché la rivoluzione borghese doveve farla e guidarla la borghesia, sviluppando il capitalismo nazionale e perciò anche il proletariato russo, il quale si sarebbe posto il problema della sua rivoluzione contro la borghesia in una situazione di capitalismo sviluppato, come nei paesi europei avanzati).

E così, la Russia, economicamente e socialmente arretrata, è stata la terra che ha dato i natali al partito marxista per eccellenza, il più preparato organizzativamente e praticamente e solido teoricamente, dimostrando che il marxismo è la teoria della rivoluzione antiborghese e anticapitalistica non legata a questo o a quel paese, e non necessariamente frutto dello sviluppo capitalistico nel paese più avanzato, ma, come lo stesso Lenin sosteneva, «è il successore legittimo di tutto ciò che l’umanità ha creato di meglio durante il secolo XIX: la filosofia tedesca, l’economia politica inglese e il socialismo francese» (Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, 1913), a cui ci permettiamo di aggiungere «l’Ottobre russo», che è “russo” solo per indicare il paese in cui si è svolto, ma che è stato, a tutti gli effetti, il perno internazionalista, comunista rivoluzionario della Rivoluzione comunista in Europa, e perciò nel mondo.

Nella Struttura (cap. 105, La luce di Ottobre, pp. 225-226) si può leggere quanto segue:

«Ha una grande portata il martellare la data del 26 ottobre vecchio stile come uno svolto istantaneo, perché così si sottolinea una primaria lezione storica: quella contenuta nelle lettere di Lenin che invocavano di non più attendere un giorno, nemmeno poche ore, per rovesciare in Pietrogrado il governo Kerensky. In effetti questa grande verità, ossia che il partito deve saper scorgere il momento, determinato nella storia, tra i rarissimi in cui la prassi si capovolge e la volontà collettiva gettata nella bilancia la fa traboccare, non toglie che la lotta continui a lungo dopo quello svolto, eretto a simbolo: nel resto della Russia, nelle immense province, tra i reparti militari.

«E non toglie che, anche dopo la prima conquista ripercossa dalla capitale a tutto il paese ancora libero dalla tedesca invasione, la lotta continui nella liquidazione della guerra, nella eliminazione dell’ultimo partito alleato, il socialista rivoluzionario di sinistra, e della Assemblea Costituente, e nella resistenza di vari anni a ribellioni interne e a spedizioni di guerra civile scagliate sulla nascente repubblica proletaria».

Dunque, nella fase di attacco ai poteri borghesi, dopo l’abbattimento dello Stato borghese e l’instaurazione dello Stato proletario nell’unica forma storicamente necessaria della dittatura proletaria, le priorità erano la liquidazione della guerra, l’eliminazione di un alleato (gli esserre), necessario in una primissima fase, ma divenuto un intralcio e un nemico nella fase immediata delle prime misure politiche del governo rivoluzionario, e l’eliminazione dell’Assemblea Costituente in quanto parlamento in cui erano ancora accese le braci di una democrazia borghese inetta e veicolo di contori-voluzione; compiti, questi, senza la cui rapida soluzione non si sarebbe potuto dedicare il massimo delle energie e delle forze rivoluzionarie alla difesa intransigente del potere appena conquistato dagli attacchi concentrici delle forze militari imperialiste e delle guardie bianche zariste. Ed è stata questa, in Russia, la vera fase in cui la guerra imperialista è stata trasformata in guerra civile, una guerra civile durata tre lunghi anni in condizioni di difficoltà eccezionali sul piano economico e sociale, in cui le forze controrivoluzionarie le tentarono tutte per abbattere l’Ottobre rosso e tutto ciò che di antimperialista e di anticapitalista rappresentava per le masse proletarie del mondo intero, non solo con gli eserciti francesi e inglesi da ovest e americani e giapponesi da est, ma anche con le varie bande dei Kolciak, Wrangel, Denikin, Judenic, Kaledin, Kornilov all’interno della sterminata Russia.E lo fecero anche con le ribellioni come quella di Machno o come quella di Kronstadt, chiaramente organizzata e sostenuta dai controrivoluzionari russi esiliati in Europa, ribellione che se non fosse stata tragicamente soppressa avrebbe aperto le porte di Pietrogrado alla conquista controrivoluzionaria. La guerra civile fu vinta, la rivoluzione in Russia fu salva e, con essa, la prospettiva della rivoluzione in Europa. Negli stessi anni, in piena guerra civile, a Mosca, nel 1919 si tiene il primo congresso costitutivo dell’Internazionale Comunista, che nel 1920 e nel 1921 avrà il suo secondo e terzo congresso in cui si definiranno le sue basi programmatiche su cui i partiti proletari di tutti i paesi del mondo saranno chiamati a costituirsi come partiti comunisti allineandosi a quelle basi programmatiche. La difesa della rivoluzione e del potere dittatoriale bolscevico in Russia era la difesa, in realtà, della rivoluzione mondiale.

«La lezione contenuta in questi dati della storia – continua il testo della Struttura – è tanto più grandiosa, in quanto il contenuto di queste imprese è totalmente di classe, e consacra il nome di socialista e comunista alla rivoluzione di Ottobre e allo Stato dei Soviet diretti dal partito bolscevico, in tutta la sua azione politica, in quanto ed in tanto questa ha un centro solo, non un sistema di misure per governare la Russia e amministrarla, ma nella inesausta lotta per la Rivoluzione comunista di Europa».

A dimostrazione che le posizioni della Sinistra marxista italiana coincidevano con quelle di Lenin ci rifacciamo, tra i vari articoli, ad uno scritto di Amadeo Bordiga, pubblicato nel 1918, che si intitola Le direttive della rivoluzione russa in una fase decisiva (3). Questo articolo è molto importante; dimostra, contemporaneamente alla conclusione della pace di Brest-Litovsk, e pur non avendo ancora elementi autentici provenienti dal governo bolscevico, che la Sinistra marxista italiana prese una posizione del tutto conforme a quella di Lenin sulla rinuncia a resistere all’invasione tedesca, e contraria a quella di Bucharin che era per la “guerra santa” di difesa della patria socialista. Questo articolo constata che la teoria della guerra santa rivoluzionaria è condivisa da tutti i sindacalisti anarchici e contrastata dai marxisti di sinistra. Mostra come sia importante capire se la guerra russo-tedesca si sarebbe chiusa per sempre, ovvero si sarebbe preparata, come molti allora credettero, una riscossa armata dopo un periodo di declino. Si dimostra, inoltre, come, per il programma dei comunisti rivoluzionari, liquidare la guerra imperialista sia stata sempre una direttiva centrale e che tale liquidazione avrebbe facilitato lo scatenamento in tutti i paesi europei della guerra civile di classe, unica via per salvare la rivoluzione in Russia.

Alcuni brani dell’articolo evidenziano il collimare delle posizioni della Sinistra marxista italiana con quelle di Lenin:

«Nelle trattative di Brest-Litowsk, tutta l’opera dei negoziatori russi tendeva appunto a porre in evidenza la dinamica delle energie proletarie di classe in tutti i paesi, per arrivare ad infrangere l’atroce giogo della guerra. Essi parlavano ai diplomatici tedeschi non già in nome della efficienza militare di un esercito, ma facendo leva sulle forze latenti nella situazione politica interna degli imperi. L’azione pratica svolta dai russi in quelle storiche discussioni non fa che adagiarsi perfettamente sui risultati dell’interpretazione prettamente socialistica della presente situazione mondiale. Secondo queste vedute, il cataclisma bellico non è determinato e spiegato dalla esistenza del “militarismo” presso uno Stato solo che aggredisca gli altri, ma dalla contemporanea esistenza di due analoghi sistemi militaristici in due avversi gruppi di Stati. In ciascun paese il governo ottiene il consentimento e l’adattamento delle masse, con un metodo sensibilmente uniforme: agitando lo spauracchio della minaccia dell’aggressione, dell’invasione nemica. Questo cerchio magico si era ben serrato attorno all’Europa nel fatale agosto 1914, grazie alla tolleranza socialista del sofisma che legittimava tra le masse operaie la guerra di “difesa nazionale”».

E ancora:

«Lo sforzo dei rivoluzionari russi tendeva ad aprire nel terribile cerchio una breccia, per giungere, dall’abbattimento del minaccioso militarismo czaresco, alla sconfitta dell’imperialismo degli imperi centrali, svelandone la politica nefasta agli occi della classe lavoratrice tedesca. Su questa traccia risolutamente adottata gli avvenimenti precipitano. Il governo dei Soviets, non accettate le sue proposte di pace, rompe le trattative coi governi della quadruplice, facendo un estremo appello alla rivoluzione socialista in Germania ed Austria, e con una decisione estrema, ma logica, smobilita il suo esercito. (...) Tutta la politica dei Soviets e in particolare la decisione di smobilitare non cessano dall’aver avuto influenza contraria alla cupidigia dell’imperialismo tedesco, anche se il risultato immediato sembra a questo favorevole per l’influenza di altri fattori che proviamo ad accennare in succinto:

«1) i moti di gennaio in Austria e Germania che erano parte integrale del gioco politico dei russi, malgrado la loro incontestabile importanza furono soffocati e repressi;

«2) gli altri Stati borghesi avversari della Germania seguirono verso la Russia una politica che favorì gli Imperi centrali – e noi non lo troviamo strano;

«3) la Germania e l’Austria facilmente riuscirono ad accaparrarsi l’alleanza delle classi borghesi e feudali della Finlandia e dell’Ucraina, in lotta col proletariato indigeno. La conclusione della cosiddetta pace coll’Ucraina fu un grave colpo per il successo degli sforzi dei negoziatori russi; sintomatico episodio da cui emerge a luce meridiana come ogni atteggiamento irredentista delle classi abbienti e intellettuali costituisca un tranello per il proletariato e si risolva in una risorsa controrivoluzionaria;

«4) il pseudo socialismo maggioritario tedesco ha fatto tali passi, o piuttosto voli, sulla via dell’ultrariformismo e del socialpatriottismo, da essere in antitesi perfetta col massimalismo russo – che non è che socialismo – e da vederne con poco dolore lo jugolamento. Pare che il “Vorwärts” sia giunto fino a deplorare, irridendoli, i proletari russi che non sapevano difendere la patria! E non resistiamo alla tentazione di trarre da ciò altra ragione di vanto alla magnificienza del dogma della “difesa della patria” in nome del quale si aderisce alla guerra contro gli Stati nemici dipinti come aggressori del proprio, ed anche della guerra contro il proletariato emancipato e inerme di un altro paese, perché questo proletariato si permette di rinnegare quello stesso intangibile dogma».

Quindi, il grave problema che si pose in merito alle condizioni di pace imposte dall’imperialismo tedesco al governo dei Soviet fu quello o di organizzare l’estrema resistenza armata all’esercito tedesco che aveva ripreso ad avanzare nelle province russe redente dalla rivoluzione, contando sulla remissività del proprio proletariato, o abbandonare all’imperialismo tedesco quelle province. E’ cosa nota che il governo bolscevico adottò la seconda soluzione. I fautori della “guerra santa” – chiarisce l’articolo – cadono di fronte alla constatazione che gli eserciti dell’imperialismo sono costituiti da proletari e che la guerra imperialista lancia i popoli, e quindi i proletariati, gli uni contro gli altri; la tattica della “guerra santa” «avrebbe scavato l’abisso tra i due popoli e legato il popolo tedesco al carro dei suoi dirigenti, frapponendo insormontabili ostacoli tra la rivoluzione russa e il suo sviluppo storico avvenire, condizione indispensabile della sua stessa esistenza; e avrebbe intorbidato l’intero processo sociale di eliminazione degli istituti capitalistici preparando la via ad un neo-nazionalismo russo che avrebbe asfissiato il socialismo».

Un neo-nazionalismo russo che non potè rinascere in quegli anni data la grande forza teorica e lungimiranza di Lenin e del partito bolscevico, ma che, soprattutto per la mancata rivoluzione proletaria in Europa e per l’estrema debolezza teorica dei grandi partiti proletari europei, di Germania e di Francia soprattutto, che pur avevano aderito all’Internazionale Comunista, rinacque sotto le spoglie di quella che passerà alla storia come la teoria del socialismo in un solo paese. «Salvare la rivoluzione! – insiste l’articolo che stiamo citando – Questo lo scopo dei proletari russi. Ma la salute della rivoluzione non va misurata dall’estensione territoriale, bensì dall’integrità del suo programma storico e sociale». La liquidazione della guerra non  rispondeva al principio della non-violenza, caratteristico dei cristiani e dei disarmisti; la rivoluzione, di per sè, richiede necessariamente l’uso della violenza perché è una risposta radicale alla violenza della società capitalistica che la esercita in ogni campo, quotidianamente. La dittatura proletaria che viene instaurata con la presa del potere politico è anch’essa un atto della violenza rivoluzionaria, ma la dinamica della violenza proletaria e comunista sorge dall’urto delle classi e non da quello dei popoli. E la logica marxista della realtà, sottolinea l’articolo, ha evitato che le “guardie rosse” fossero lanciate contro i soldati tedeschi anziché contro le forze controrivoluzionarie di Korniloff che dopo la pace coi tedeschi furono rapidamente battute. Risottolineiamo: il proletariato al potere, con la sua armata rossa, difende non “la nazione”, ma la rivoluzione e si batte contro ogni forza controrivoluzionaria su qualsiasi territorio in cui la lotta rivoluzionaria del proletariato, indigeno o di altri paesi, richieda il suo intervento: sempre, costantemente in funzione della rivoluzione internazionale trasformando ogni scontro, ogni guerra da scontro e guerra tra Stati e tra popoli, a scontro e guerra tra classi.

Questo principio, va detto, è stato ostico per molti socialisti dell’epoca, per molti sinceri comunisti e lo è e lo sarà ancora oggi e domani. Perché la propaganda borghese del nazionalismo, della patria, della guerra tra gli Stati come atto d’aggressione da cui ogni Stato “ha il diritto” di difendersi, è penetrata in profondità nelle menti e negli stomaci dei proletari che nascono come classe per il capitalismo, e che non sono ancora diventati classe per sé. La patria, l’indipendenza della propria nazione, del proprio paese dall’assolutismo monarchico e feudale sono state motivi ideali di prima forza nelle rivoluzioni borghesi e nelle lotte di liberazione nazionale dal colonialismo; così come l’accesso di tutto il popolo alla vita politica attraverso la democrazia borghese. Ma nell’epoca dello sviluppo imperialistico del capitalismo, nell’epoca in cui la nazione, la patria, lo Stato non sono che sinonimi di capitalismo nazionale, di gruppi imperialistici di potere che dominano in “patria” e nel mondo ad esclusivo proprio vantaggio superando qualsiasi frontiera e qualsiasi legge, sfruttando senza scrupoli i proletari “nazionali” come i proletari di tutti gli altri paesi, la chiamata alla “difesa della patria” da parte di ogni borghesia nazionale si rivela sempre più una foglia di fico, un inganno riproposto continuamente sulla base delle leggi borghesi della concorrenza: Leggi, secondo le quali, le merci straniere concorrenti “rubano” fette di mercato alle merci nazionali, i proletari stranieri “rubano” il lavoro ai proletari indigeni fino a che queste “ruberie” vengono trasformate in “aggressioni” da cui difendersi, mentre il mercato nazionale su cui è stato eretto lo Stato nazionale borghese diventa un territorio con confini da difendere con le leggi e con le armi.

Le questioni della “guerra nazionale” e della “difesa della patria”, d’altra parte, erano già state motivo di polemica tra Lenin e Rosa Luxemburg nel 1915. Abbiamo già ricordato, nelle puntate precedenti, la critica che Lenin portò alla Junius-Brochure. Qui ci limitiamo a rimettere in evidenza come da una posizione del tutto sbagliata della guerra 1914-1918 da parte della Luxemburg (considerata sì guerra imperialista, ma alla quale si doveva applicare un programma “nazionale”) si giungeva, di fatto, a considerare l’atteggiamento del proletariato, e del partito di classe, non come chiarito inequivocabilmente da Lenin – contro la guerra sia del proprio Stato sia degli Stati nemici, trasformazione della guerra imperialista in guerra civile – ma per «un “vero programma nazionale” che rivendichi non solo l’armamento popolare, ma anche l’organizzazione democratica della difesa della patria».

Di fatto, la Luxemburg, pur avendo messo in evidenza, nel denunciare la crisi della socialdemocrazia tedesca di fronte all’agosto 1914, che la guerra era imperialista (“La guerra mondiale, iniziata ufficialmente il 4 agosto, fu la stessa per la quale aveva lavorato instancabilmente da decenni la politica imperialistica germanica e internazionale, la stessa il cui avvicinarsi la socialdemocrazia tedesca aveva con altrettanta instancabilità profetizzato quasi ogni anno da un decennio”) era caduta in un altro errore pericolosissimo, quello secondo cui «nell’era di questo imperialismo scatenato non possono esistere più guerre nazionali. Gli interessi nazionali servono soltanto ad ingannare le masse popolari per asservirle al loro nemico mortale, l’imperialismo».

E questo errore che non fu soltanto della Luxemburg, lo fu anche di Radek, di Pannekoek, di Bucharin e di Piatakov, e si ripresenterà continuamente nelle file dei rivoluzionari comunisti, anche nel nostro partito di ieri quando la tendenza che si sarebbe legata alle tesi indifferentiste sostenute da Damen escluse la possibilità di guerre nazionali nei paesi coloniali e semicoloniali nel periodo successivo alla seconda guerra imperialista.

Lenin, nella sua critica alla Junius-Brochure, attacca frontalmente queste tesi, giungendo alla conclusione che «questa indifferenza per la questione coloniale porta inevitabilmente a conclusioni paradossali: alla guerra imperialista i rivoluzionari tedeschi devono, secondo Junius, contrapporre un “vero programma nazionale” che rivendichi non solo l’armamento popolare, ma anche l’organizzazione democratica della difesa della patria. Il programma nazionale, negato per i paesi coloniali dove ha un effettivo valore rivoluzionario, viene al contrario rivendicato per la vecchia Europa capitalista, dove non può avere che un significato controrivoluzionario».

Parole profetiche, visto che esattamente queste “rivendicazioni”, dell’armamento popolare e dell’organizzazione democratica della difesa della patria, costituirono il perno ideologico e politico della guerra partigiana, della “Resistenza” al fascismo il cui significato controrivoluzionario fu costantemente denunciato dalla nostra corrente di Sinistra comunista prima, durante e dopo la seconda guerra imperialista.

 

COME LA SINISTRA MARXISTA POSE LA QUESTIONE IN ITALIA

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Riaprendo lo scenario italiano, riassumiamo gli aspetti più importanti che riguardano il PSI e la corrente di sinistra che fonderà nel 1921 il Partito Comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale Comunista. Il PSI era chiaramente contro la guerra, ma fu facilitato in un certo senso a non precipitare nella crisi che colpì gli altri partiti socialisti per il fatto che l’Italia non intervenne subito nella guerra. Abbiamo già richiamato nelle puntate precedenti gli articoli e le mozioni che dimostrano il perfetto allineamento delle posizioni della sinistra marxista italiana.

Qui ci limitiamo a riprendere i punti riassuntivi (vedi Storia della Sinistra comunista, vol. I) per chiarire l’origine delle sue posizioni corrette:

1. Non si trattò di felice impostazione di uomini e di capi, ma di fedeltà di una corrente al marxismo classico. Basti ricordare che il capo della sinistra, Mussolini, uomo ricco di ogni qualità personale, passato fra i traditori, non trovò una sola sezione del partito non solidale col buttarlo fuori.

2. La posizione felice nella questione coloniale si dovette alla gloriosa lotta contro le imprese d’Africa e la guerra del 1912 con la Turchia, in cui fu chiara la rottura tra il proletariato e la borghesia imperialista.

3. La posizione sul disfattismo e contro ogni difesa nazionale non fu chiarita tanto in articoli e tesi, quanto nell’episodio di Caporetto dopo l’insurrezione di Torino e nella lotta contro le mozioni patriottiche alla Camera della destra turatiana.

4. La denuncia del gruppo parlamentare e della bonzeria sindacale si ebbe da prima della guerra e dalla vigilia di questa, quando fu silurato lo sciopero generale contro la mobilitazione.

5. La posizione contro il centrismo kautskista si ribadì a Livorno quando furono buttati fuori dalla Terza Internazionale gli stessi massimalisti che mentivano sulla accettazione delle tesi comuniste mentre non volevano staccarsi dalla destra sotto il pretesto che non era stata fautrice della guerra; consacrando così la condanna di ogni tolleranza del difesismo ed ogni esitazione sulla dittatura del proletariato, che è la sola antitesi della guerra borghese, del capitalismo e dell’ignobile pacifismo di classe. Negare la difesa della patria e rivendicare il disfattismo rivoluzionario, erano le premesse della rivendicazione gigante del marxismo che dovemmo ai bolscevichi russi: dittatura, ripudio della democrazia e della socialdemocrazia, terrorismo rivoluzionario.

 

CAMBIA LA SITUAZIONE STORICA, E QUINDI LA SUA VALUTAZIONE, QUANDO IN CASO DI GUERRA TRA STATI, OLTRE AGLI STATI CAPITALISTI C'È ANCHE LO STATO PROLETARIO

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A proposito del disfattismo rivoluzionario e della negazione del principio della difesa nazionale, è stato commentato in riunione un interessantissimo articolo di Amadeo Bordiga intitolato “Comunismo e guerra”, scritto dopo il IV congresso dell’IC e in merito alla polemica con gli elementi della destra del Partito Comunista di Francia (chiamati i “resistenti”) che aprirono una campagna contro l’Internazionale, prendendo spunto dal discorso di Bucharin che presentò il “Programma dell’Internazionale” (la cui accettazione era stata rinviata al V congresso) che, in una sua una parte, si occupava dell’attitudine dei partiti comunisti in caso di guerra dopo che in un paese, come la Russia, si era instaurata la dittatura proletaria. Questo articolo verrà pubblicato nella puntata successiva del resoconto esteso del Rapporto alla riunione, e si cercherà di accompagnarlo con il discorso di Bucharin che abbiamo rintracciato, in lingua francese, nel “Bulletin Communiste” n. 1, del 4 gennaio 1923, e che contiene, per l’appunto, una parte dedicata specificamente alla “difesa nazionale” nel caso di una guerra tra Stati, in cui oltre agli Stati imperialisti c’è anche lo Stato proletario.

Nell’articolo di Amadeo, viene sottolineato che:

«Il principio della difesa nazionale e il principio della guerra tra i proletariati, e la sua applicazione, uccide ogni possibilità di arrestare con un’azione della classe lavoratrice le minacce di guerra, di provocare la guerra rivoluzionaria contro il capitalismo. La posizione teoretica del socialismo marxista dinanzi a questo problema è dunque la negazione del principio della difesa nazionale, ossia la negazione del dovere e della necessità pregiudiziali in cui i lavoratori e i partiti della loro classe si troverebbero di aiutare la causa militare del loro paese. La Internazionale comunista è stata ed è sul terreno della negazione teorica e pratica di un tale principio e di tutto il ciarpame di retorica patriottica col quale lo si circonda dai rinnegati della lotta di classe. Questa posizione non è stata e non potrà essere mai abbandonata da Bucharin o da alcuno di noi, e non potrà che essere riconfermata in tutti i testi della Internazionale».

Il caso, esaminato da Bucharin nel suo discorso al IV congresso dell’IC, presenta una situazione storica particolare, e certamente molto più complicata, cioè la situazione in cui gli Stati capitalisti muovono guerra contro lo Stato proletario. Il compito dei partiti comunisti, quindi, cambia, ma in che modo?

Per definire questi compiti, scrive Amadeo, «non basta capovolgere formalmente i termini della negazione stabilita» – passando dalla negazione del principio della difesa nazionale, e della sua applicazione, all’affermazione del principio della difesa nazionale e alla sua applicazione –, ma bisogna ricorrere «ad elementi più completi», tenendo conto «dei rapporti delle forze storiche rappresentati nella situazione data dagli Stati in conflitto e dai partiti rivoluzionari proletari».

Negando il principio della “difesa nazionale” non vi si contrappone il principio del disfattismo, «ma quello dell’impiego delle forze reali politiche a determinare la guerra di classe e la rivoluzione proletaria. Il disfattismo dunque non è un principio, ma un mezzo, uno dei mezzi, coi quali si può far svolgere rivoluzionariamente la situazione creata dalla guerra. Mezzo che può non essere sempre utilmente applicabile, poniamo per la poca forza del partito proletario del dato paese, o perché ve ne sia uno migliore». Sicuramente non adottiamo il criterio della concordia nazionale e della difesa della patria. Guardiamo invece “lo scenario del conflitto”, valutiamo di che guerra si tratta: constatiamo che, a differenza dal 1914, la situazione generale è mutata: «Nella situazione storica di oggi vi è uno Stato proletario, un esercito proletario», ed è per questo che «tra i mezzi che non respingiamo per principio, come vi è il disfattismo e il sabotaggio della guerra, vi sono anche dei mezzi politici e storici atti sommamente al nostro fine e che si chiamano armi, eserciti e Stati». L’esistenza, quindi, di uno Stato proletario, di un esercito proletario, costituisce l’elemento fondamentale della nostra valutazione.

Se fossimo in presenza di un conflitto militare tra gli Stati, come si deve schierare lo Stato proletario?

La base incancellabile è che continueremo a negare il principio della difesa della patria – continua l’articolo di Amadeo – chiamando i partiti comunisti che ne hanno effettiva possibilità pratica ad impiegare il mezzo del disfattismo senza esclusione di colpi, ma potremmo «indicare un’altra via ad altri partiti se lo Stato del loro paese si trovasse, poniamo, a fianco dello Stato proletario. Si può escludere una tale possibilità storica? No, certamente». Qual è l’obiettivo fondamentale della lotta rivoluzionaria? «La politica dello Stato Proletario e dell’Internazionale rivoluzionaria si fonda sul principio di svolgere dalla situazione di crisi del mondo capitalistico la guerra e la vittoria rivoluzionaria di classe. Il fatto stesso che oggi sono in presenza Stati borghesi e Stati proletari dà la possibilità che date fasi della lotta si presentino come una guerra degli Stati [corsivo nostro]. In questo caso tutte le forze rivoluzionarie saranno dalla parte dello Stato proletario. E potrà darsi che un Partito Comunista, e il suo Stato borghese, che esso tende programmaticamente a rovesciare, si trovino sulla stessa linea d’azione in una guerra a fianco dello Stato proletario: oggi la Russia».

Data questa ipotesi, l’obiezione potrebbe essere che i comunisti rivoluzionari si troverebbero su un piano d’azione comune con lo Stato borghese; ma questa obiezione, afferma Amadeo, non significa nulla. «Il fatto (...) che uno Stato borghese sostenga la Russia in una guerra, e che il Partito Comunista sostenga la stessa causa bellica e militare – fatto non impossibile, ma che sarebbe accompagnato da molte complicazioni e darebbe luogo in ogni caso al più instabile equlibrio nella politica interna – non cancellerebbe l’antitesi tra quello Stato ed il Partito rivoluzionario». Come esempio, per chiarire meglio la posizione ora descritta, Amadeo cita il caso della Turchia di Kemal Pascià: «Il borghese, e peggio Kemal Pascià, ha potuto con l’appoggio della Russia proletaria, ed il plauso di noi comunisti internazionali, fregare l’imperialismo inglese in Oriente. Ciò non toglie che i comunisti turchi siano tanto in rapporto di... collaborazione di classe con Kemal, che questi li fa imprigionare e giustiziare. E verrà giorno in cui la nostra soddisfazione si completerà con l’apprendere che i comunisti turchi avranno fregato Kemal».

Questa posizione è del tutto coerente con la tattica adottata sulla questione nazionale e coloniale: siamo contro la borghesia nazionale come contro la borghesia del paese colonialista (e imperialista), ma nella fase storica della rivoluzione borghese nel paese colonizzato appoggiamo la lotta nazionale rivoluzionaria contro l’oppressione straniera; nello stesso tempo, il partito comunista, assolutamente indipendente programmaticamente, politicamente e organizzativamente, continua la sua lotta contro la borghesia nazionale non nascondendo il suo obiettivo di rovesciarla attraverso la rivoluzione proletaria. Il partito comunista, in questa fase della lotta rivoluzionaria del proletariato, non può non lottare contro l’oppressione straniera, contro l’oppressione colonialista e imperialista, ma guai se lo facesse abdicando al suo compito fondamentale di trasformare, in presenza dei fattori sociali, politici e militari favorevoli, la guerra “nazionale” in guerra di classe, in guerra civile, appunto in rivoluzione proletaria. Il partito comunista, infatti, si rivolge prioritariamente alla classe proletaria, sia del paese colonizzato che del paese colonialista perché i due proletariati lottino ciascuno nel proprio paese su di una linea d’azione comune anche se, storicamente, si svolge con fasi diverse: nel paese oppresso dal colonialismo, mantenendo sempre la completa indipendenza politica e organizzativa, nella duplice lotta contro l’oppressione colonialista e imperialista di lotta di “liberazione nazionale” e nella lotta contro la borghesia nazionale del proprio paese; nel paese colonialista e imperialista, nella lotta contro la propria borghesia colonialista e imperialista, a favore della “liberazione nazionale” del paese oppresso, e contemporaneamente contro la propria borghesia con l’obiettivo di rovesciarla rivoluzionariamente. Mentre nel paese coloniale, e arretrato economicamente, il proletariato non può non lottare contro la doppia oppressione (colonialista e borghese nazionale), lotta che, storicamente si svolge necessariamente in due fasi, nel paese colonialista, e imperialista, per il proletariato la lotta contro la propria borghesia colonialista, e imperialista, si svolge in un’unica stessa fase, contro l’oppressione coloniale e contro l’oppressione salariale. Nell’uno come nell’altro teatro della lotta proletaria l’obiettivo finale è esattamente lo stesso: abbattere il potere borghese, ma in condizioni storiche sfasate.

Tornando al discorso di Bucharin e del principio della difesa nazionale, è chiaro che siamo sempre contro il principio della difesa nazionale (il proletariato non ha patria, è classe genuinamente internazionale), ma, sottolinea Amadeo, «affermiamo che lo stabilire la tattica dei partiti comunisti in caso di guerra è una quistione di “opportunità”. (...) Questo problema si risolve con gli elementi della situazione, fuori del principio della difesa come fuori di un principio inesistente e inimmaginabile di antidifesa». Per l’ennesima volta, noi siamo per la guerra rivoluzionaria, e se mai succedesse che uno Stato borghese facesse la guerra contro gli Stati che avessero assalito lo Stato proletario... «non faremo nulla per impedirgli il successo».

Bucharin, nel suo discorso, trattando della questione della “difesa nazionale” ricorda che la borghesia quando parla di paese, di difesa del paese, intende l’apparato amministrativo borghese, lo Stato borghese, e quando noi comunisti parliamo di difendere il “paese” intendiamo difendere lo Stato proletario.

Ciò rende necessario chiarire bene nel programma dell’Internazionale che lo Stato proletario può e deve essere difeso non solo dal proletariato del paese in questione, ma dal proletariato di tutti gli altri paesi. Ecco l’elemento nuovo introdotto nella storia dalla situazione dopo il 1914, dato dall’esistenza di uno Stato proletario attrezzato anche militarmente sia per difendersi, sia per offendere. Bucharin si spinge oltre e pone il problema di sapere se gli Stati proletari, conformandosi alla strategia dell’insieme del proletariato mondiale, in caso di guerra mossa contro di loro, devono o no fare blocco militare con degli Stati borghesi che per loro convenienza favorirebbero un accordo militare con gli Stati proletari. «In linea di principio – sostiene Bucharin – non c’è differenza tra un accordo e un’alleanza militare. Affermo che noi siamo già abbastanza grandi [siamo nel 1922, NdR] per poter concludere un’alleanza militare con questo o quel governo borghese, al fine di poter, con l’aiuto di alcuni Stati borghesi, rovesciare un’altra borghesia. (...) E’ una questione di pura opportunità strategica e tattica». Era un’ipotesi assurda? No, come ricorda anche Amadeo, era un’ipotesi che non si poteva escludere a priori.

Lo svolgimento della situazione internazionale vedeva, da un lato, la vittoria riportata dall’Armata rossa nella guerra civile contro le bande bianche e gli attacchi militari imperialistici, e dall’altro lato il ritardo della rivoluzione proletaria in Europa, cosa che metteva in grande difficoltà lo Stato proletario russo a causa di un’economia disastrata, conseguenza delle distruzioni della guerra imperialista e della guerra civile, e a causa di un proletariato le cui forze erano allo stremo e che non poteva contare su nuove forze proletarie forgiate in lunghi anni di lotta rivoluzionaria sotto lo zarismo come i proletari del 1917.

Gli avvenimenti successivi mostrarono che le borghesie di tutti i paesi, e in particolare dell’Europa, grazie all’opera inesausta dell’opportunismo socialdemocratico e del centrismo, si rafforzarono notevolmente riuscendo ad isolare sempre più la Russia proletaria, rimandando negli anni, di fatto, l’appuntamento storico con la rivoluzione proletaria.

L’ipotesi che nel 1922 appariva ancora vicina e possibile, di stabilire addirittura delle alleanze da parte dello Stato proletario con degli Stati borghesi contro altri Stati borghesi, si allontanava sempre più; avanzava invece una sempre più pericolosa degenerazione politica e teorica nel partito bolscevico e nell’Internazionale che dal 1926, con la teoria del socialismo in un solo paese, diventò irreversibilmente controrivoluzione. Ciò non toglie che i principi del marxismo rivoluzionario siano rimasti validi allora come, per noi, lo sono oggi e anche domani, quando la crisi inevitabile del capitalismo a livello mondiale riproporrà all’ordine del giorno: guerra o rivoluzione, dittatura dell’imperialismo o dittatura del proletariato, dimostrando, inoltre, che di fronte al corso storico delle lotte fra le classi non c’è rivoluzione senza teoria rivoluzionaria e la valutazione delle situazioni storiche è fatto teorico, non tattico.

 

(Continua)

 


 

(1) A proposito della rivolta di Kronstadt del 1921, vedi l’articolo “Kronstadt: una tragica necessità”, pubblicato ne “il comunista”, prima serie, n. 6, marzo 1984, disponibile nel sito www.pcint.org  

(2) Cfr. il resoconto della riunione di Milano, 17-18 dic. 1955, su L’opposizione di sinistra nella III Internazionale comunista, ne “Il programma comunista” nr. 1 del 1956. Per le origini, vedi la nostra Storia della Sinistra Comunista, 1919-1920, Milano, 1973.

(3) Cfr. Le direttive della rivoluzione russa in una fase decisiva, di A. Bordiga, pubblicato nell’«Avanti!» del 25 maggio 1918, riportante una serie di mutilazioni dovute alla censura, ma che, nonostante queste mutilazioni, riesce comunque ad evidenziarne il contenuto perfettamente marxista e, in questo caso, “leninista”. Vedi anche Storia della Sinistra comunista, vol. I, pp. 342-349.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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