Proletariato e partito di classe

(«il comunista»; N° 163 ; Marzo 2020)

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Il tema «proletariato e partito di classe» è stato trattato dal nostro partito migliaia di volte in tesi, testi fondamentali e articoli di critica e polemica con altri raggruppamenti politici, partendo da aspetti diversi e, talvolta, lontani dall’immediata focalizzazione sull’organo-partito, ma sempre con l’obiettivo di giungere alle stesse conclusioni, riaffermando in questo modo l’invarianza del marxismo come teoria e come programma storico della rivoluzione comunista.

Anche questa volta partiamo da una questione che non appare immediatamente inerente alla «questione» del partito, ma che si rivela indispensabile per non perdere il filo dialettico del determinismo marxista.

Riprendiamo alcuni brani che Marx scrisse nella Prefazione del 1859 alla sua opera Critica dell’economia politica.

«Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensdabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in una parola le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione» (1).

I punti centrali, splendidamente sintetizzati in questi brani, sono: Produzione sociale della vita. Rapporti di produzione (rapporti o forme di proprietà). Forze produttive. Modo di produzione.

Per comprendere questi capisaldi terminologici, ci rifacciamo al “filo del tempo” del 1949, La Batracomiomachia che, criticando le posizioni del gruppo «Socialisme ou barbarie», cioè degli «aggiornatori» del marxismo di allora, rimetteva a posto la concezione materialistica e dialettica del marxismo (2):

«Produzione sociale della vita. Rapporto che esce assolutamente dalla persona e dal suo bilancio di dare e avere, in cui i pretesi aggiornamenti sono disperatamente condannati ad aggirarsi. Produzione per le associazioni umane dei loro alimenti e riproduzione biologica della specie, dei produttori di domani. Tutto mai pianificato da testa, o teste, ma determinato dallo stato delle forze produttive materiali. Anche gli uomini sono una forza produttiva, che si evolve, ma non può rompere le condizioni determinate dalle tecniche possibilità: zappa o aratro, remo o vela, slitta o ruota, fauna, flora, geologia del terreno. Queste sono le condizioni materiali, non i soldi nel portafoglio».

«Rapporti di produzione sono la stessa cosa che rapporti o forme di proprietà, solo che prima si esprimono in termini economici, dopo in termini giuridici: inutile tentare di farne cose diverse, e allo scopo tacere i passi che stabiliscono come il diritto derivi dal rapporto economico. Nello schiavismo il rapporto di produzione è che il prodotto del lavoro dello schiavo è a disposizione del padrone, senza corrispettivo oltre i minimi generi di consumo, e che lo schiavo non può allontanarsi o produrre per altri o per se stesso. Rapporto di proprietà è quello sulla persona e la vita dello schiavo, ed esprime la stessa cosa, in diritto».

«Forze produttive sono gli utensili, le macchine, i veicoli di ogni genere, le materie prime e le derrate che la natura offre, e beninteso la classe lavoratrice in ogni tempo».

«Modo di produzione (Produktions-weise), o forma di produzione, è uno dei grandi tipi storici di relazioni produttive: risorse tecniche e forme di proprietà. Alla coltivazione della terra si adattano successivamente sia il primitivo comunismo che lo schiavismo, la servitù, il salariato. Alla produzione dei manufatti risultano mano mano inadeguati il comunismo primitivo, lo schiavismo, il libero artigianato, ed infine vi risulta ad un certo stadio il salariato stesso. Il capitalismo è uno dei grandi modi di produzione storici, ed una delle forme di proprietà più importanti».

All’interno di ogni modo di produzione le forze produttive, ad un certo grado del loro sviluppo, entrano in conflitto con i rapporti di produzione esistenti, e quindi con i rapporti di proprietà esistenti. Questi rapporti, sottolinea Marx, da forme di sviluppo si trasformano in catene, in limiti tali da far subentrare, ad un certo punto, un’epoca di rivoluzione sociale nella quale le forze produttive fanno saltare i rapporti di produzione e di proprietà esistenti, cioè tutte le forme di produzione che non riescono più a contenerle.

Dicevamo che le forze produttive sono da un lato i mezzi di produzione e, dall’altro, la classe lavoratrice; mentre le forme di produzione consistono nelle relazioni produttive date dalle risorse tecniche e dalle forme di proprietà. La società, sviluppando le forze produttive, sviluppa nello stesso tempo le forme di proprietà e i rapporti di produzione tra i proprietari dei mezzi di produzione e i proprietari della forza lavoro impiegata nella produzione; superato il modo di produzione del comunismo primitivo in cui le forme di proprietà non distinguevano gruppi umani da altri gruppi umani, subentrava la divisione della società in classi sociali distinte e contrapposte nella quale lo sviluppo delle forze produttive produceva nuove forme di produzione e di proprietà, fino a quando queste forme ostacolavano lo sviluppo ulteriore delle forze produttive. Col capitalismo, e con la rivoluzione borghese, si giunge non solo ad uno straordinario sviluppo, e a livello universale, delle forze produttive, ma anche ad un conflitto sempre più profondo, e universale, tra le forze produttive e le forme di produzione e di proprietà.

La formazione delle classi sociali raggiunge, così, uno stadio in cui l’unico progresso storico reale, l’unico sviluppo delle forze produttive senza più essere ostacolato dalle forme di produzione e di proprietà esistenti, consiste nella rivoluzione sociale generale nella quale la classe del proletariato, portatrice di quel progresso storico reale, in conflitto totale con i rapporti di produzione e di proprietà capitalistici, si pone storicamente come l’unica forza sociale in grado di risolvere la contraddizione dialettica più profonda: quella di battersi come classe rivoluzionaria contro non solo le classi dominanti borghesi, contro tutte le vecchie classi sopravvissute dalle epoche precedenti e contro tutte le forze di conservazione sociale (come le mezze classi), ma anche contro se stessa come classe per il capitale, con l’obiettivo finale dell’estinzione di tutte le classi, dando vita ad una società capace di riorganizzare in modo razionale – nel presente e per il futuro – la produzione sociale e la sua distribuzione secondo i bisogni della vita umana e del suo progresso e non del mercato.

Il fatto che la società capitalistica, come d’altra parte le società schiavista e feudale che l’hanno preceduta, sia caratterizzata da una classe dominante (la borghesia) e da classi dominate (il contadiname, la piccola borghesia urbana, il proletariato), e che tra queste classi esista una costante lotta per affermare interessi che risultano contrastanti, era chiaramente riconosciuto dagli stessi borghesi. La lotta fra le classi non è stata «scoperta» dal marxismo, perciò affermare che esista la lotta fra le classi non vuol dire essere marxisti. Il marxismo, grazie alla concezione materialistica e dialettica della storia, ha scoperto che la lotta fra le classi nella società capitalistica conduce il capitalismo ad un bivio storico nel quale la classe proletaria – per i tipi di rapporti di produzione e sociali che la definiscono all’interno della società borghese come classe che produce la ricchezza sociale ma non ne gode nemmeno una briciola, mentre la classe dominante borghese si appropria l’intera ricchezza sociale prodotta e, nel contempo, ostacola lo sviluppo delle forze produttive –, nella sua stessa lotta di resistenza al capitalismo, fa emergere la contraddizione più profonda di questa società che consiste, per l’appunto, nel fatto che le forme di produzione e di proprietà del capitalismo impediscono lo sviluppo delle forze produttive che il capitalismo stesso ha messo in moto. La classe produttrice, la classe del proletariato salariato, la classe dei senza riserve, è costretta a lottare, a difesa della sua stessa esistenza e sopravvivenza, contro la classe borghese ponendo i propri interessi di classe contro gli interessi di classe borghesi. Per sostenere questo non è necessario essere marxisti; ci arriva anche il borghese e il riformista. I marxisti vanno molto oltre: affermano che la lotta di classe del proletariato si pone l’obiettivo di abbattere il potere politico della borghesia, di spezzare lo Stato borghese, di instaurare la propria dittatura di classe utilizzando la violenza e il terrore rivoluzionari, sia per difendere la sua dittatura di classe dagli attacchi restauratori della classe borghese vinta, sia per imporre una serie di misure economiche nella direzione del trapasso dall’economia capitalistica all’economia socialista. La rivoluzione proletaria, attraverso la quale Marx ed Engels affermavano che la classe proletaria doveva diventare classe dominante, non può svolgersi compiutamente se non sotto la guida politica e militare di un organo specifico, il partito di classe, che ha il compito non solo di preparare il proletariato alla rivoluzione e ai compiti della dittatura proletaria, ma anche di esercitare il potere dittatoriale perché è l’unico organo politico di classe che, nell’oggi, rappresenta il futuro della lotta di classe del proletariato a livello mondiale e che ha perfetta conoscenza storica di tutto il trapasso dal capitalismo al comunismo, trapasso durante il quale il proletariato non solo da classe per il capitale diventa classe per sé, ma agisce sulla sovrastruttura politica e sociale e sulla struttura economica con l’obiettivo finale della formazione della società senza classi, della società di specie, quindi con l’obiettivo di estinguere anche se stesso come classe sociale.

L’antagonismo fra gli interessi proletari e gli interessi borghesi poggia direttamente sui rapporti di produzione e di proprietà del capitalismo, e pone perciò il problema storico di quale interesse di classe sia portatore di sviluppo sociale e quale sia invece di freno, di limite allo sviluppo sociale, di conservazione reazionaria. Alla domanda: sono più potenti le foze produttive, spinte storicamente a svilupparsi sempre più, o le forme di produzione e di proprietà che le contengono e che tendono a frenarne lo sviluppo?, la storia ci insegna che, nelle società divise in classi, per quanto le classi dominanti cerchino in tutti i modi di controllare che la lotta fra le classi – e il conseguente rivoluzionamento della società – non giunga alla sua maturazione storica, le forze produttive sono più potenti di tutti i freni messi in opera dai rapporti di produzione e di proprietà su cui poggiano il proprio potere le classi finora dominanti. Le contraddizioni sociali che permeano l’intera società borghese, nel loro sviluppo mondiale, raggiungono ad un certo punto una tale tensione che l’involucro sociale, costituito dai rapporti di produzione e di proprietà capitalistici, non riesce più a contenerle e a controllarle. Subentra allora, come afferma Marx, un’epoca di rivoluzione sociale che manda all’aria la sovrastruttura politica, giuridica e amministrativa esistente. E’ successo nel passaggio dallo schiavismo al feudalesimo, e dal feudalesimo al capitalismo; un «passaggio» per niente pacifico e graduale, ma tremendamente violento e sconvolgente. Avverrà anche nel passaggio dal capitalismo al socialismo, ossia all’epoca della dittatura del proletariato, nella transizione al comunismo.

Gli sconvolgimenti storici che hanno dato vita alle diverse società divise in classi, hanno sempre avuto una fase rivoluzionaria, una fase conservatrice e una fase reazionaria; la classe sociale che era portatrice dello sviluppo – illimitato per l’epoca – delle forze produttive, era la classe rivoluzionaria. Così le classi schiaviste rispetto al comunismo primitivo, le classi aristocratiche e feudali rispetto allo schiavismo, le classi borghesi rispetto al feudalesimo; classi rivoluzionarie perché rappresentavano un modo di produzione che si stava già sviluppando all’interno delle società esistenti e che premeva sulle loro sovrastutture per liberarsi dei vincoli che non permettevano loro di svilupparsi ulteriormente; classi rivoluzionarie che abbattevano i poteri politici esistenti adattando il nuovo potere alle esigenze di sviluppo del nuovo modo di produzione. Ma nella misura in cui i modi di produzione che si sono succeduti nella storia si sviluppavano all’interno di una società che rimaneva divisa in classi antagoniste, sostituendo una divisione in classi con una diversa divisione in classi, le classi al potere erano storicamente portate a mantenere il potere per difendere i propri privilegi sociali derivanti dal modo di produzione di cui erano i massimi rappresentanti e beneficiari. Le classi al potere erano quindi interessate certamente a sviluppare le forze produttive di cui erano espressione, ma, nello stesso tempo, erano interessate a contenere quello sviluppo all’interno dei rapporti di produzione e delle forme di proprietà che garantivano loro il potere e i conseguenti privilegi. Come affermava Marx, la società è pronta per la rivoluzione economica e sociale quando le condizioni economiche per il nuovo modo di produzione sono già presenti nella società; è solo una questione di tempo in cui le contraddizioni sociali devono maturare, ma non c’è dubbio alcuno che matureranno e che la rivoluzione sociale si presenterà come loro unica soluzione.

Ebbene, nelle società divise in classi è, quindi, storicamente inevitabile che la classe rivoluzionaria si trasformi, in epoca successiva, in classe conservatrice, riformista, proprio nel tentativo di mantenere inglobate, nella difesa del suo potere e dei suoi privilegi, tutte le classi dominate; come è inevitabile che, con l’avanzare e l’acutizzarsi delle contraddizioni sociali e degli antagonismi sociali, le classi dominanti, a difesa del loro potere economico e politico, contrastino la lotta delle classi dominate diventando totalmente reazionarie e controrivoluzionarie (3).

 

Rimettiamo a posto il concetto di classe

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La classe sociale, per i borghesi, è un dato statistico. La Treccani la descrive così: Insieme omogeneo di individui che, in una società, si differenzia per diversa posizione occupata nell’attività produttiva, nella gerarchia del potere e/o della ricchezza.  Insomma, si tratta di una certa quantità di persone che hanno socialmente lo stesso tipo di rapporto con il lavoro e con la proprietà, all’interno di una «stratificazione sociale» in cui le diverse posizioni occupate nell’attività produttiva, nella gerarchia del potere e/o della ricchezza, danno origine alle disuguaglianze sociali, quindi tra classi superiori e inferiori, o strati sociali superiori ed inferiori. Secondo questi concetti, è, quindi, dalle diseguaglianze sociali che nasce la lotta fra le classi, fra quelle che tendono a migliorare la propria posizione «salendo» la scala sociale, e quelle che tendono a mantenere ed incrementare la propria posizione superiore a detrimento delle posizioni delle classi, o degli strati sociali, inferiori. E’ evidente che questa «classificazione» è tutta interna alla società borghese, ha un senso del tutto statico, mantenendo fissa la sua struttura economica fondamentale in cui l’economia mercantile detta le esigenze generali alle quali tutte le classi sociali devono sottostare.

Per il marxismo il concetto di classe è storico e dialettico. Partiamo dalla parola classe (è la stessa in tutte le lingue moderne, latine, tedesche, slave). In un altro «filo del tempo», del 1953 (4), trattando del termine classe, si può leggere:  

«Come entità sociale-storica è il marxismo che la ha originalmente introdotta, sebbene fosse adoperata anche prima. La parola è latina in origine, ma è da rilevare che classis era per i Romani la flotta, la squadra navale da guerra: il concetto è dunque di un insieme di unità che agiscono insieme, vanno nella stessa direzione, affrontano lo stesso nemico. Essenza del concetto è dunque il movimento e il combattimento, non (come in una assonanza del tutto... burocratica) la classificazione, che ha nel seguito assunto un senso statico. (...) Classe dunque indica non diversa pagina del registro di censimento, ma moto storico, lotta, programma storico». Classe che deve ancora trovare il suo programma, afferma il “filo” che stiamo citando, è frase vuota di senso. Il programma determina la classe. Ma di questo ne parleremo più avanti.

La borghesia, quindi, riconosce l’esistenza delle classi, il conflitto tra di loro all’interno della sua società, e il conflitto all’interno della sua stessa classe, cosa che il Manifesto di Marx-Engels sintetizza così: «La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri». E nei confronti del proletariato? Il proletariato è costituito dalle «masse di operai addensate nelle fabbriche» che «vengono organizzate militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell’industria, sotto la sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi della classe dei borghesi, dello Stato dei borghesi, ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal sorvegliante e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona» (5). La lotta della borghesia contro il proletariato è parte integrante della sua lotta come classe che rappresenta il modo di produzione moderno, capitalistico, contro le classi delle vecchie società alle quali, con la propria rivoluzione, strappa il potere politico e instaura il proprio potere di classe, adattando lo Stato alle proprie esigenze di nuova classe dominante. Il proletariato è la classe salariata della nuova società borghese e la sua lotta contro la borghesia comincia con la sua stessa esistenza. Lo sviluppo dell’industria, e della grande industria soprattutto, sviluppa lo stesso proletariato, non solo quantitativamente, ma anche dal punto di vista politico perché la borghesia, nella sua lotta contro le aristocrazie e nella sua lotta di concorrenza contro le borghesie straniere concorrenti, è costretta a coinvolgere le masse proletarie, politicamente e militarmente, costituendo il suo esercito: i soldati semplici organizzati militarmente nelle fabbriche, diventano i soldati semplici organizzati militarmente nell’esercito, ma sempre al servizio esclusivo degli interessi della classe dominante borghese, nelle fabbriche in tempo di pace, al fronte in tempo di guerra.

Il proletariato, con lo sviluppo dell’industria e il suo coinvolgimento sempre più massiccio nella difesa politica, economica e militare degli interessi borghesi, acquisisce esperienza organizzativa e politica, riconoscendo i limiti della sua lotta contro il singolo borghese e tendendo perciò ad unire le proprie forze, aldilà delle singole fabbriche, in associazioni di difesa economica immediata. La lotta del proletariato contro la borghesia diventa così, da lotta contro il singolo borghese a lotta a livello nazionale, contro cui i borghesi non si limitano a contrastare i proletari con ricatti a livello economico, con multe e licenziamenti, ma fanno intervenire le forze di polizia e militari dello Stato per difendere non solo la loro proprietà, ma i rapporti di produzione esistenti, ossia i rapporti di produzione che consentono loro di asservire totalmente i proletari agli interessi di ogni singolo borghese.

La storia della lotta proletaria sul terreno economico dimostra che «ogni tanto vincono gli operai, ma solo transitoriamente». Ma ogni lotta fra le classi è lotta politica, perché la borghesia è coinvolta come classe dominante e perché essa difende i suoi interessi con la forza militare del suo Stato. Perciò, la lotta proletaria dal terreno economico si sposta sul terreno politico, affronta lo scontro con lo Stato e rivendica leggi e riforme che favoriscano le condizioni di esistenza e di lavoro operaie, ottenendo talvolta dei risultati quando riesce ad approfittare «delle scissioni all’interno della borghesia». Anche questo tipo di lotta è riconosciuto e ammesso dalla classe borghese. Anzi, sulla scorta delle lotte proletarie che non si sono fermate al loro sviluppo sul terreno riformistico, ma sono andate oltre, sul terreno rivoluzionario – nel 1848, nel 1871, nel 1917, per citare i periodi storici più significativi – le borghesie di tutto il mondo hanno compreso che non potevano rispondere alle lotte proletarie soltanto con la repressione, ma dovevano combinare la repressione con il dialogo, la brutalità delle torture e degli eccidi con il coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori nelle loro istituzioni, costituendo anche istituzioni apposite nelle quali alimentare quella che sarà la formula politica e sociale che finora è riuscita ad allontanare nel tempo lo scontro rivoluzionario decisivo: la collaborazione di classe, attuata sia nei regimi apertamente dittatoriali, sia nei regimi democratici.

In tutto l’arco di tempo che va dalla formazione del proletariato nella moderna società borghese fino ad oggi, il proletariato, in quanto classe per il capitale, il massimo che è riuscito ad esprimere direttamente sul terreno politico è stato il partito proletario riformista, cioè il partito politico (o i partiti politici) costituitosi intorno ai valori morali, economici, politici della borghesia, ma declinati in funzione di una “parità di diritti” e di una “eguaglianza di tutti gli uomini” di fronte alla legge e allo Stato che fanno da base alle illusioni su una società potenzialmente “giusta” ed “equilibrata” che, in realtà – finchè esiste la divisione in classi contrapposte –, è una gigantesca menzogna. E’ logico, quindi, che un partito proletario del genere sia accettato – se non addirittura costituito appositamente – dalla classe dominante borghese come rappresentante della classe lavoratrice anche nelle situazioni estremamente critiche come, ad esempio, quelle in cui la borghesia è impegnata in una guerra contro altre borghesie. Il partito proletario riformista è quel partito che può anche lottare vigorosamente (nel parlamento o clandestinamente, a seconda del regime borghese esistente), proclamando obiettivi che la borghesia non acconsentirebbe mai di attuare, e può anche imbracciare le armi – come nella lotta partigiana – per ripristinare un regime politico democratico rispetto ad un regime politico apertamente dittatoriale, ma che non mette e non metterà mai in discussione la struttura economica della società capitalistica sulla quale esso poggia la sua stessa esistenza.

Per il proletariato, essere classe per il capitale significa accettare la propria condizione di schiavo salariato e impegnare le proprie energie e il proprio movimento sociale per mantenere questa condizione nel tempo, agendo, quindi, a difesa degli interessi borghesi. Ribellarsi e lottare contro la condizione di schiavo salariato, per il proletariato significa prima di tutto riconoscere la sua posizione di classe sfruttata in questa società e di non accettare questa posizione; significa porsi l’obiettivo di lottare contro la classe dominante riconoscendola come classe dominante – e non come “partner”, come parte di un tutto comune – costringendola a concessioni sul piano economico e politico. E fin qua, la spontanea lotta proletaria per uscire dalla condizione di brutale oppressione in cui sono tenuti i proletari, agisce all’interno dei rapporti sociali borghesi e, come affermato dal Manifesto di Marx-Engels, talvolta vincendo, talvolta perdendo. Ma fino a quando la lotta proletaria resta nei confini della sovrastruttura borghese, nei confini dei valori politici ed economici della società capitalistica, quindi all’interno dei rapporti di produzione e di proprietà borghesi,  non ha alcuna possibilità di cambiare in modo sostanziale la posizione sociale del proletariato. E’ proprio in forza della sovrastruttura politica e della struttura economica della società odierna che la classe borghese, pur essendo la netta minoranza della popolazione in ogni paese, continua ad essere classe dominante e continua ad asservire il proletariato ai propri interessi di classe e al proprio Stato.

Qual è la via d’uscita dei moderni schiavi salariati? In che modo la loro lotta, pur condotta con grande vigore, con grande tenacia e con straordinaria generosità, può sfociare nella rivoluzione della società come è sfociata la lotta della borghesia nei secoli scorsi contro le classi dominanti di allora, le aristocrazie, la nobiltà, il clero?

La sola spontaneità con cui il proletariato è spinto a lottare non basta; e non basta nemmeno, sulla scorta delle esperienze di questa lotta, la sua formazione politica sulle basi dell’ideologia borghese. E necessario che il proletariato, in quanto forza produttiva essenziale nella società capitalistica, si contrapponga frontalmente all’altra forza produttiva di questa società rappresentata dal capitale in quanto è proprio il capitale e il suo modo di produzione che impediscono lo sviluppo delle forze produttive della società e che mantengono la società divisa in classi anche nella fase storica – la fase capitalistico-imperialista – in cui il modo di produzione capitalistico da forma di produzione rivoluzionaria si è trasformata irreversibilmente in forma di produzione reazionaria. Ma, a differenza della classe borghese, che poggiava la sua forza sociale sul modo di produzione capitalistico sviluppatosi all’interno della stessa società feudale, la classe proletaria non può contare sul nuovo modo di produzione socialistico già operante all’interno della società borghese, se non per alcuni aspetti  (tipo l’intervento gratuito dei pompieri di fronte ad un incendio) che si rivelano del tutto marginali e sopportabili, economicamente, da parte del capitalismo, ma che svelano un comportamento sociale che potenzialmente può interessare l’intera società, quindi l’intera economia.

Perché la lotta del proletariato assumesse materialisticamente un peso storico di prima grandezza ci sono voluti due elementi di qualità fondamentali: 1) lo sviluppo del capitalismo in un numero importante di paesi, che dall’Inghilterra si è diffuso in tutta Europa e in America, per poi dominare il mondo, formando masse sempre più numerose di proletari, di lavoratori salariati, che costituiscono la maggioranza della popolazione in ogni paese capitalistico industrializzato, e 2) la teoria rivoluzionaria rappresentata dal marxismo, che rappresenta «tutto ciò che l’umanità ha creato di meglio durante il secolo XIX: la filosofia tedesca, l’economia politica inglese e il socialismo francese» (6). Filosofia tedesca, cioè il materialismo dialettico e storico come «potente strumento di conoscenza», la «conoscenza sociale dell’uomo» che «riflette il regime economico della società» nella quale le «istituzioni politiche sono una sovrastruttura che si erige sulla base economica». Economia politica classica che, gettando le basi della teoria secondo cui il valore deriva dal lavoro, è stata sviluppata dal marxismo che trasferisce il concetto di merce dal «rapporto tra cose» a «rapporti tra uomini», tra capitalisti e operai, tra capitale e lavoro salariato nel quale rapporto anche la forza lavoro dell’uomo diventa una merce e la sua particolarità consiste nel fatto che «una parte della giornata di lavoro serve a coprire le spese di mantenimento dell’operaio e della sua famiglia, e l’altra parte a lavorare gratuitamente per il capitalista», creando «il plusvalore, fonte di profitto, fonte della ricchezza della classe dei capitalisti»; ed è così che nasce la teoria del plusvalore, «la pietra angolare della teoria economica di Marx». Socialismo francese, nato «come riflesso del nuovo sistema di oppressione e di sfruttamento dei lavoratori» che è stato il capitalismo, fermatosi però alla critica e alla condanna della società capitalistica, ma da un punto di vista morale perché «cercava di persuadere i ricchi dell’immoralità dello sfruttamento», e perciò è stato definito socialismo primitivo, utopistico. Ma le rivoluzioni che hanno sconvolto l’Europa, e soprattutto la Francia, «dimostravano in modo sempre più evidente che la base e la forza motrice di ogni sviluppo era la lotta di classe», evidenziando che tutte le classi dominanti oppongono una resistenza disperata all’incedere dello sviluppo rivoluzionario della società e, in particolare, della classe rivoluzionaria dell’epoca storica. Marx ha tratto dalla storia universale la dottrina della lotta di classe, secondo la quale è la storia stessa a dimostrare che le vecchie classi dominanti difendono con ogni mezzo il loro potere e che per spezzare la loro resistenza è necessario che determinate forze sociali siano in grado di spazzar via il vecchio potere e il vecchio modo di produzione e crearne uno nuovo. Così è stato per la classe borghese nel confronti del feudalesimo; così sarà per la classe del lavoratori salariati, dei principali produttori della ricchezza sociale che Marx  ha individutao come l’unica classe rivoluzionaria della moderna società borghese.

Risulta perciò evidente, da quanto detto finora, che il proletariato per diventare effettivamente classe rivoluzionaria in grado di cambiare il mondo da cima a fondo, deve trasformarsi da classe per il capitale in classe per sé: mettere cioè davanti al suo sviluppo storico non le promesse morali, religiose, politiche, sociali e gli interessi della classe borghese, ma gli interessi di classe proletari che consistono non solo nel rivendicare e ottenere miglioramenti delle condizioni di esistenza e di lavoro in questa società, ma nel lottare per rivoluzionare completamente la società, cosa che è possibile fare perché le condizioni materiali, economiche di base – ossia lo sviluppo capitalistico della produzione e della distribuzione – sono più che mature.

Il partito politico riformista è il partito che, al suo apice, può anche rappresentare gli interessi del proletariato, ma facendoli dipendere sempre e comunque dalle esigenze economiche, sociali e politiche del capitalismo, quindi, nei fatti, rappresenta l’interesse di conservazione della classe borghese. E’ inevitabile, perciò, che il rifomismo dei primi periodi dello sviluppo grandeggiante delle organizzazioni proletarie si sia via via trasformato in conservatorismo e in reazione borghese. Il kautskismo al tempo che precedette la prima guerra imperialistica mondiale, il fallimento della Seconda Internazionale i cui partiti – salvo i bolscevichi, la sinistra marxista italiana, il partito proletario serbo e poche altre correnti come gli spartachisti tedeschi – aderirono alla guerra delle rispettive borghesie nazionali, l’assassinio di Luxemburg e Liebknecht da parte dei socialdemocratici al potere per conto del capitalismo tedesco, sono esempi tra i più lampanti di quale sia stata la parabola del riformismo che dall’opportunismo iniziale è passato al collaborazionismo più marcio e quale potrà essere ancora visto che l’appuntamento della storia con la rivoluzione proletaria e comunista è stato rimandato.

Non a caso il Manifesto del partito comunista, scritto da Marx ed Engels, è stato la più alta espressione programmatica e politica della teoria del comunismo, ossia della teoria dell’emancipazione della classe proletaria, che la Prima Internazionale fece propria. Il partito comunista, senza declinazioni nazionali, era concepito fin dall’inzio come partito di classe internazionale, come unica espressione programmatica e politica del proletariato in quanto classe rivoluzionaria, con il compito di dirigere il movimento di classe proletario verso la rivoluzione per diventare esso stesso classe dominante, spezzando la resistenza delle classi dominanti esistenti, la borghese prima di tutto, e insieme a lei tutte le classi antiche sopravvissute alla rivoluzione borghese. Senza voler descrivere la nuova società che sostituirà la società capitalistica (Chiamiamo comunismo non uno stato di cose che debba essere instaurato, non un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi, ma il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, Marx-Engels, L’ideologia tedesca, 1846), il partito comunista rivoluzionario, cioè l’unico partito di classe che basa la propria costituzione sulla teoria marxista, agisce secondo la prospettiva storica definita nel programma comunista, organizzandosi secondo i criteri di centralizzazione e di tattica tratti dagli insegnamenti accumulati nel tempo dall’esperienza storica delle rivoluzioni e, soprattuto, delle controrivoluzioni, e seguendo i dettami del marxismo con la necessaria e vitale intransigenza teorica. Se la famosa frase: senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario, ha un senso, ce l’ha soltanto perché la teoria rivoluzionaria marxista è la teoria della rivoluzione comunista, dell’abbattimento del potere politico borghese, dell’instaurazione della dittatura di classe proletaria contro la dittatura di classe borghese, dittatura proletaria che sola è in grado di dare l’avvio alla trasformazione economica della società dal capitalismo al socialismo, eliminando via via i rapporti di proprietà e di produzione borghesi e, infine, alla società senza classi, alla società comunista, alla società di specie.

La classe del proletariato è classe rivoluzionaria solo se il suo movimento di classe imbocca la strada della trasformazione del proletariato da classe per il capitale a classe per sé, cioè a classe che alza il livello della sua lotta portando il conflitto sociale che la oppone alla borghesia ad essere «il conflitto di tutta la classe proletaria contro tutta la classe borghese» (7), conflitto nel quale si scontrano, per la vita o per la morte, le due classi principali della società. Come in ogni conflitto sociale e politico, le classi sono guidate da organismi politici specifici, che sono appunto i partiti politici, cha hanno il compito di rappresentare non soltanto gli interessi immediati e futuri della classe di cui sono espressione, ma anche il compito di organizzare la loro difesa e la loro offensiva con l’obiettivo di sbaragliare la classe antagonista. Vale per la classe borghese, come vale per la classe proletaria. La grande forza della classe borghese risiede nel fatto che è la classe dominante, che è proprietaria di tutti i mezzi di produzione e, soprattutto, che basa il suo dominio sull’appropriazione totale, e privata, della produzione sociale, dominio difeso strenuamente dallo Stato che è sostanzialmente la forza armata dell’oppressione borghese che si esplica, come detto, attraverso i rapporti di proprietà e di produzione capitalistici.

Il movimento del proletariato, nel corso del suo sviluppo storico, per attenuare lo sfruttamento della sua forza lavoro e migliorare le sue condizioni di esistenza, ha tentato tutte le strade proposte dalla borghesia, sia sul piano politico – attraverso il gradualismo riformista, la partecipazione alle elezioni e al parlamento, la conduzione governativa del paese –, sia sul piano economico – attraverso la partecipazione all’organizzazione del lavoro nelle fabbriche, la conduzione diretta delle fabbriche sostituendosi al padrone, la cogestione dell’economia delle fabbriche e del paese come rappresentante del lavoro insieme ai rappresentanti del capitale –, sia sul piano morale/religioso adottando il pacifismo nei contrasti sociali tra le classi all’interno dello stesso paese, come nei contrasti tra Stati, con l’idea di poter superare ogni contrasto di classe eleggendo lo Stato come entità aldisopra delle classi, come sommo mediatore degli interessi delle diverse classi, come ambito nel quale con “la buona volontà di tutti” sarà possibile che i ricchi cedano parte delle loro ricchezze ai poveri, e che i poveri ottengano condizioni di vita migliori superando, nel corso del tempo, le più forti  “diseguaglianze”. Dall’instaurazione del potere borghese nella società, cioè da più di due secoli, le diseguaglianze non sono diminuite, ma aumentate a dismisura; al polo borghese la ricchezza è aumentata in modo gigantesco, mentre al polo opposto, quello proletario, è aumentato l’asservimento agli interessi borghesi, è aumentata la fatica di vivere in rapporti sociali sempre più opprimenti, è aumentata l’incertezza del salario e, quindi, della vita. Le “promesse” della civiltà borghese sono state tutte disattese, sul piano economico come sul piano politico, mentre sul piano morale/religioso perdurano i pregiudizi e la loro nefasta influenza sulle masse, nonostante il loro sempre più evidente servizio di supporto al capitalismo, alla società più oppressiva esistente nella storia dell’umanità.

Il movimento proletario, però, può contare sulla teoria marxista – nella misura in cui non viene sfigurata, stracciata, falsificata, aggiornata continuamente a seconda dei pregiudizi borghesi più di moda – che, proprio per come è nata e per la sua scientificità è, insieme, guida storica dell’emancipazione del proletariato e guida storica dell’emancipazione dell’intera umanità. «Il programma del proletariato – affermano le Tesi della sinistra marxista del PCd’Italia del 1926 – è, insieme alla sua emancipazione dalla attuale classe dominante e privilegiata, la emancipazione della collettività umana rispetto alla schiavitù delle leggi economiche che esso comprende, per poi dominarle in un’economia finalmente razionale e scientifica che subirà il diretto intervento dell’opera dell’uomo. Per questo e in questo senso Engels scrisse che la rivoluzione proletaria segna il passaggio dal mondo della necessità in quella della libertà» (8). Ma, per giungere a questo obiettivo storico, come il marxismo ha dimostrato ampiamente, non è soltanto necessario che la lotta di classe del proletariato faccia da base all’«organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico», come afferma il Manifesto di Marx-Engels, ma che la lotta di classe sfoci nella rivoluzione antiborghese e anticapitalistica, facendo della classe del proletariato la classe dominante, passaggio storico indispensabile, come sottolineato mille volte anche da Lenin, e dalla nostra corrente, perchè le leggi economiche dell’economia capitalistica vengano distrutte e sostituite da un’economia sociale razionale e scientifica che risponda alle esigenze di vita della società di specie e non del mercato capitalistico.

Il partito politico di classe del proletariato è, quindi, l’organo indispensabile della lotta del proletariato sia nella prospettiva della rivoluzione antiborghese, sia nella lunga fase successiva alla vittoria rivoluzionaria in cui è necessaria l’instaurazione della sua dittatura di classe. Il compito del partito comunista rivoluzionario non si ferma perciò alla preparazione rivoluzionaria del proletariato, né si limita a guidare l’insurrezione per la presa del potere politico per lasciare poi che il proletariato, nelle sue diverse espressioni  economico-politiche formatesi all’interno della società borghese e da essa influenzate, si destreggi nel governare la società. Lenin dirà, giustamente, che la rivoluzione istruisce sia il proletariato che il partito, ma che anche il partito ha il compito di istruire la rivoluzione combattendo ogni spontaneismo, ogni opportunismo, ogni deviazione individualista e borghese che inevitabilmente si frappongono e si frapporranno sul cammino dell’emancipazione storica dal capitalismo. Il compito del partito comunista rivoluzionario permane per tutto il periodo della dittatura proletaria esercitandola in tutti i suoi aspetti – politici, economici, sociali, militari e terroristici – nella prospettiva non soltanto di difendere il potere conquistato in quel determinato paese (come fu il caso della Russia bolscevica), ma anche di sostenere la lotta rivoluzionaria del proletariato in tutti i paesi, soprattutto nei paesi capitalistici più avanzati, perché il quadro nel quale agisce il partito comunista rivoluzionario è internazionale e non nazionale e perché senza l’allargamento e la vittoria della rivoluzione proletaria nei paesi capitalisti avanzati non sarà possibile avviare concretamente la trasformazione economica dal capitalismo al socialismo.

Anche soltanto da questo punto di vista si capisce come il partito di classe è assolutamente indispensabile, poiché esso, in qualità di organismo della collettività militante dei comunisti rivoluzionari e  possedendo la teoria marxista, è l’unico strumento che la classe proletaria ha storicamente a disposizione per il rovesciamento della prassi, ossia per agire come coscienza storica di classe prevedendo i passi successivi della lotta fra le classi e del suo sbocco finale senza dover attendere che la lotta fra le classi svolga effettivamente tutte le sue fasi. Il rovesciamento della prassi nella teoria marxista è sintetizzato così: «Nel singolo si va dal bisogno fisico all’interesse economico, all’azione quasi automatica per soddisfarla; soltanto dopo, ad atti di volontà ed all’estremo alla coscienza e conoscenza teorica. Nella classe sociale il processo è lo stesso: solo che si esaltano enormemente tutte le forze di direzione concomitante. Nel partito, mentre dal basso vi confluiscono tutte le influenze individuali e di classe, si forma dal loro apporto una possibilità e facoltà di visione critica e teorica e di volontà d’azione, che permette di trasfondere ai singoli militanti e proletari la spiegazione di situazioni e processi storici e anche le decisioni di azione e di combattimento» (9). Ne deriva, perciò, che «nel singolo individuo (e quindi anche nel singolo proletario) non è la coscienza teorica a determinare la volontà di agire sull’ambiente esterno, ma avviene l’opposto: la spinta del bisogno fisico determina, attraverso l’interesse economico, un’azione non cosciente, e solo molto dopo l’azione ne avviene la critica e la teoria per intervento di altri fattori. L’insieme dei singoli, posti nelle stesse condizioni economiche, si comporta analogamente, ma la concomitanza di stimoli e di reazioni crea la premessa per una più chiara volontà e poi coscienza. Queste si precisano soltanto nel partito di classe, che raccoglie una parte dei componenti di questa, ma elabora, analizza e potenzia l’esperienza vastissima di tutte le spinte, stimoli e reazioni. E’ solo il partito che riesce a capovolgere il senso della prassi. Esso possiede una teoria ed ha quindi conoscenza dello sviluppo degli eventi: entro dati limiti, secondo le situazioni e i rapporti di forza, il partito può esercitare decisioni ed iniziative e influire sull’andamento della lotta».

Nella società divisa in classi si sviluppa una contraddizione storica tra le influenze delle forme di produzione (i modi di produzione tradizionali) e le influenze antagonistiche rivoluzionarie delle forze produttive. Conclusione: «Il rapporto dialettico sta nel fatto che in tanto il partito rivoluzionario è un fattore cosciente e volontario degli eventi, in quanto è anche un risultato di essi e del conflitto che essi contengono fra antiche forme di produzione e nuove forze produttive. Tale funzione teorica ed attiva del partito cadrebbe però se si troncassero i suoi legami materiali con l’apporto dell’ambiente sociale, della primordiale, materiale e fisica lotta di classe» (10). Il partito rivoluzionario è dialetticamente, quindi, fattore e prodotto della storia.

Ciò non significa squalificare il proletariato e la sua lotta, né tantomeno indicare che il partito politico di classe deve sostituirsi al proletariato in tutti i compiti e le funzioni che la lotta di classe impone. Nelle Tesi di Lione della sinistra, sopra citate, è detto: «Se solo l’umanità proletaria, da cui siamo ancora lontani, sarà libera e capace di una volontà che non sia illusione sentimentale, ma capacità di organizzare e tenere in pugno l’economia nel più largo senso della parola; se oggi la classe proletaria è pur sempre, sebbene meno delle altre classi, determinata nei limiti della propria azione da influenze ad essa esterne, l’organo invece in cui proprio si riassume il massimo di possibilità volitiva e di iniziativa in tutto il campo della sua azione è il partito politico: non certo un qualunque partito, ma il partito della classe proletaria, il partito comunista, legato, per così dire, da un filo ininterrotto alle ultime mete del processo avvenire» (11).

Il movimento proletario, nella sua storia, ha potuto contare soltanto sulla teoria marxista,  e sul partito di classe che riassume l’intero arco storico  della sua completa emancipazione dal capitalismo e, attraverso di questa, dell’emancipazione dell’intera umanità dalla schiavitù di leggi economiche che limitano ed ostacolano lo sviluppo razionale e scientifico delle forze produttive e che rendono sempre più difficile e pericoloso il rapporto con l’ambiente e la natura. Ma partito di classe vuol dire, nello stesso tempo, teoria marxista applicata alla lotta di classe nella sua invarianza storica. E’ evidente, per noi, che parliamo di invarianza non dal punto di vista formale, tanto meno come un dato dello spirito sempiterno o della astratta ragione, ma dal punto di vista di uno strumento di lavoro (metodo per la valutazione delle situazioni e dei rapporti di forza fra le classi) e, nello stesso tempo, di un’arma di combattimento (guida della lotta proletaria di classe e rivoluzionaria), da non abbandonare mai. Il marxismo, afferma un altro nostro testo fondamentale «non può essere una dottrina che si va ogni giorno plasmando e riplasmando di nuovi apporti e con sostituzione di “pezzi” – meglio di rattoppi e “pezze”! – perché è ancora, pure essendo l’ultima, una delle dottrine che sono arma di una classe dominata e sfruttata che deve capovolgere i rapporti sociali, e nel farlo è oggetto in mille guise delle influenze conservatrici delle forme ed ideologie tradizionali proprie delle classi nemiche» (12). E’ sulla base del marxismo che si può intravedere la storia della società futura; intravedere, non definire in tutte le sue parti la società futura, come affermato da Marx ed Engels in tutti gli scritti polemici contro gli utopisti, gli idealisti, i costruttori di nuove società, a partire dall’Ideologia tedesca che abbiamo citato sopra.

E, sulla stessa linea, il nostro testo afferma: «Anche potendo da oggi, anzi da quando il proletariato è apparso sulla grande scena storica, intravedere la storia della società futura senza più classi e quindi senza più rivoluzioni, deve affermarsi che per il lunghissimo periodo che a tanto condurrà, la classe rivoluzionaria in tanto assolverà il suo compito in quanto si muoverà usando una dottrina e un metodo che restano stabili e siano stabilizzati in un programma monolitico, in tutto il volgere della tremenda lotta – variabilissimo restando il numero di seguaci, il successo delle fasi e degli scontri sociali. Per quanto dunque la dotazione ideologica della classe operaia rivoluzionaria non sia più rivelazione, mito, idealismo, come per le classi precedenti, ma positiva “scienza”, essa tuttavia ha bisogno di una formulazione stabile dei suoi principi e anche delle sue regole di azione, che assolva il compito e abbia la decisiva efficacia che nel passato hanno avuto i dogmi, catechismi, tavole, costituzioni, libri-guida come i Veda, il Talmud, la Bibbia, il Corano, o le Dichiarazioni dei diritti. I profondi errori sostanziali e formali contenuti in quelle raccolte non hanno tolto, anzi in molti casi hanno contribuito, proprio per tali “scarti”, alla enorme loro forza organizzativa e sociale, prima rivoluzionaria, poi controrivoluzionaria, in dialettica successione» (13).

Il partito di classe del proletariato potrà essere fattore, oltre che prodotto, di storia, alla condizione di basarsi sull’invariante teoria marxista, stabilendo «legami materiali con l’apporto dell’ambiente sociale, della primordiale, materiale e fisica lotta di classe» e tirando le lezioni dalla storia, soprattutto delle controrivoluzioni, oltre che delle rivoluzioni. Il marxismo ci ha insegnato che non solo l’uomo non si giudica dalla coscienza che ha di se stesso, ma nemmeno le epoche di sovversione sociale secondo la coscienza che hanno di se stesse. Nella rivoluzione antischiavista, i suoi capi non avevano coscienza del profondo trapasso storico che si stava svolgendo mentre seguivano una dottrina in cui appariva la liberazione dello spirito dalla carne e l’obiettivo di una vita ultraterrena come movente di tutta l’azione, inneggiando ad un dio che avrebbe creato gli uomini tutti uguali. Allo stesso modo, la rivoluzione borghese che apriva la società al libero sviluppo del modo di produzione capitalistico basato sul lavoro salariato, pur contando su grandi scuole filosofiche e politiche, inneggiava alla “libertà dell’uomo”, al “cittadino” e al “trionfo della ragione”. Vale la pena di riprendere altri brani da un altro testo di partito, un “filo del tempo” del 1953, in cui, di seguito ai concetti appena espressi, e in una forma scolpita molto più nettamente di quanto facciamo noi in questo articolo, si può leggere quanto segue: «In questi trapassi e in molti altri una nuova classe dominante sorgeva dopo la caduta dell’antica. Ma nella rivoluzione socialista, che abolirà le classi si ha preventivamente una conoscenza abbastanza definita e chiara dei suoi obiettivi. Dove e da parte di chi? (...) Per noi marxisti basta che la conoscenza ci sia prima del processo; ma non nella universalità, non nella massa, non in una maggioranza (termine privo di senso deterministico) della classe, ma in una sua minoranza anche piccola, in un dato tempo in un gruppo anche esiguo, ed anche – scandalizzatevi dunque o attivisti! – in uno scritto momentaneamente dimenticato. Ma gruppi, scuole, movimenti, testi, tesi, in un lungo procedere di tempo, formano un continuo che altro non è che il partito, impersonale, organico, unico proprio di questa preesistente conoscenza dello sviluppo rivoluzionario. Il capitalismo non ha presentato un simile fenomeno processo e sviluppo» (14).

Senza teoria rivoluzionaria non ci poteva essere e non ci sarà rivoluzione proletaria e comunista; senza partito comunista rivoluzionario, l’unico che può fregiarsi del titolo di partito di classe, non ci poteva e non ci potrà essere guida rivoluzionaria e, quindi, l’unico organo politico che ha il compito di esercitare la dittatura di classe, la dittatura proletaria per tutto il periodo necessario ad avviare la trasformazione politica ed economica dalla società borghese e dal capitalismo nel socialismo, ampia fase storica che precede la nascita del comunismo integrale, della società senza classi, della società di specie. L’invariante teoria marxista per la nostra corrente ha lo stesso valore di partito storico, che il complesso e contraddittorio sviluppo della lotta fra le classi si trasfonde nel partito formale, ossia nell’organizzazione rivoluzionaria di militanti politici che basa la sua esistenza, il suo programma, la sua attività e la sua azione esclusivamente sui dettami della teoria marxista e sulle lezioni che in base a questa teoria tira dalle rivoluzioni e, soprattutto, dalle controrivoluzioni. Gli esempi della Prima Internazionale guidata da Marx ed Engels, del partito borscevico di Lenin, della Terza Internazionale dei primi due congressi, del Partito comunista d’Italia fondato nel 1921 e diretto dalla sinistra marxista, dimostrano nello stesso tempo che la storia delle lotte fra le classi conduce inevitabilmente alla rivoluzione proletaria antiborghese e anticapitalistica e che questa rivoluzione non ha la possibilità di svolgere fino in fondo il suo compito storico se non procede abbattendo, via via che si sviluppa internazionalmente, ogni ostacolo di tipo politico, militare, economico, sociale e culturale che la vecchia società erige per non morire. Il partito storico, il marxismo, resiste nel tempo perché è la teoria dell’avvenire, non del presente o del passato; il partito formale, il partito marxista, subisce inevitabilmente gli attacchi delle forze di conservazione borghesi e, pur sviluppandosi a livello internazionale, può essere travolto – come è successo finora – da deviazioni e cedimenti provocati dall’azione e dall’influenza delle forze di conservazione sociale. Ma è lo stesso sviluppo delle forze produttive, su cui si è sviluppato e vegeta il capitalismo, a riproporre ad ogni sua ciclica crisi economica e sociale lo scontro tra queste stesse forze produttive e le forme di produzione capitalistiche che ne ostacolano lo sviluppo. Queste crisi hanno un duplice effetto sulla classe proletaria: per lungo tempo essa appare completamente plagiata dalla borghesia e incapace di lottare per i suoi soli interessi di classe, anche a livello elementare, sottomessa completamente alle esigenze di vita del capitale; ma, in determinati periodi, in cui le contraddizioni economiche e sociali hanno accumulato i più diversi fattori esplosivi, la classe proletaria si ridesta, riprende vigore, torna prepotentemente sulla scena sociale come classe protagonista della lotta di classe ponendosi come oggettiva alternativa storica alla classe dominante. E’ in questi periodi che la classe proletaria dimostra nei fatti di aver bisogno di una guida certa, affidabile, in grado di unire le forze produttive nella lotta contro le forme di produzione esistenti e, quindi, di unire e compattare le forze proletarie contro le forze di conservazione sociali guidate a loro volta dalla borghesia dominante. E’ in questi periodi che la classe proletaria prende coscienza di aver bisogno del suo partito di classe perché non ha nessun’altra base su cui poggiare la forza del suo numero: dipende economicamente in tutto e per tutto dalla borghesia capitalista e non può quindi opporre capitale a capitale, proprietà a proprietà, Stato a Stato; deve inevitabilmente scardinare l’ordine esistente, fare della sua forza numerica una forza politica e militare, spezzare il potere politico e dittatoriale della borghesia, a cominciare dallo Stato, per imporre i suoi interessi di classe, la sua politica, la sua dittatura di classe. La rivoluzione si impone oggettivamente, ma la sua conduzione e i suoi compiti devono essere preventivamente conosciuti se non si vuole che l’esplosione sociale, l’insurrezione rivoluzionaria finiscano per disperdere le grandi energie che le hanno prodotte. Il partito di classe è l’unico strumento che la rivoluzione proletaria ha storicamente a disposizione  per non esaurire la sua oggettiva spinta propulsiva: il partito di classe è l’unico organo politico che conosce preventivamente la direzione storica della rivoluzione e i suoi compiti nelle sue diverse fasi di sviluppo, perciò è indispensabile per il proletariato e perciò deve non solo preparare se stesso e il proletariato alla rivoluzione, ma deve diventare il suo stato maggiore guidandolo alla presa del potere politico ed esercitare la dittatura di classe coinvolgendo il proletariato nelle nuove forme politiche rivoluzionarie.   

Lavorare per la ricostituzione del partito comunista rivoluzionario, dopo la devastante controrivoluzione staliniana, è stato il compito che la nostra corrente si è assunta fin dal 1926, ossia da quando la controrivoluzione si è imposta vittoriosamente attraverso la teoria del socialismo in un solo paese. Questa è un’ulteriore dimostrazione che la rivoluzione vince davvero se segue i dettami imposti dalla teoria marxista in ogni sua fase, se quindi il partito di classe che ne è a capo non cede sui principi, sulla dottrina e sulle tesi definite sulla base dell’esperienza storica delle lotte di classe, applicando una tattica che non vada mai a cozzare contro di loro. In questa prospettiva, noi, piccolo gruppo compatto, continuiamo il lavoro che la nostra corrente ha ripreso dalla seconda guerra imperialistica mondiale in poi, attraversando inevitabili periodi di crisi, ma tenendo fede al primario lavoro di restaurazione e di assimiliazione della teoria marxista in quel continuum che le vicende storiche della lotta fra le classi hanno concesso, e senza mai desistere dai tentativi di entrare in contatto con la classe proletaria nonostante il suo persistente ripiegamento.

 


 

(1)   Cfr. K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica, in Marx-Engels, Opere complete, Ed. Riuniti, vol. XXX, pp. 298-299.

(2)   Cfr. La batracomiomachia, serie “sul filo del tempo”, in “il programma comunista” n. 10 del 1953; scaricabile da www.pcint.org, Fili del tempo (1949-1955).

(3)   Cfr. il nostro Tracciato d’impostazione, in “Prometeo”, n. 1, luglio 1946; scaricabile da www.pcint.org, in Selezione dei testi e tesi fondamentali del Partito comunista internazionale (periodo 1945-1957).

(4)   Cfr. Danza di Fantocci: dalla Coscienza alla Cultura, “sul filo del tempo”, in “il programma comunista” n. 12, del 1953; scaricabile da www.pcint.org, Fili del tempo (1949-1955).

(5)   Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, 1848, Einaudi, 1962, pp.109-110.

(6)   Cfr. Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, 1913, in “Karl Marx”, Ed. Riuniti, 1978, pp. 59-67.

(7)   Cfr. Tesi della frazione comunista astensionista del Psi, maggio 1920, cap. I, punto 6, pubblicate nel volume In difesa della continuità del programma comunista, Milano 1970.

(8)   Cfr. Progetto di tesi per il III congresso del partito comunista presentato dalla sinistra, note come Tesi della sinistra, Lione 1926, pubblicate nel volume n. 2, cit., cap. 3 Azione e tattica del partito, p. 95.

(9)   Cfr. Il rovesciamento della prassi nella teoria marxista (1951), punto 10, p. 121, pubblicato nel volume Partito e classe, Milano 1972.

(10) Cfr. Ibidem, in Appendice, Commento alla Tavola VIII, p. 137.

(11) Cfr. Tesi della sinistra, Lione 1926, cit., cap. 3 Azione e tattica del partito, p. 95.

(12) Cfr. La “invarianza” storica del marxismo (1952), punto 10, nel volume Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, Ivrea 1973.

(13) Cfr. Ibidem, punti 11 e 12.

(14) Vedi nota n. 4.

 

 

 

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